a cura di Cornelio Galas
Ancora un’analisi – quella di Carlo Palumbo, nel primo volume del suo libro “Arrendersi o combattere” – sugli antefatti, nella seconda guerra mondiale, dell’eccidio di Cefalonia.
di Carlo Palumbo
La costituzione del nuovo governo
Se il problema dell’ordine pubblico assume la priorità che abbiamo visto, risulta ugualmente decisivo per la corona e per Badoglio affrettare i tempi per la costituzione del nuovo governo. Già il giorno 26 Badoglio può costituire un ministero non politico, nonostante nei colloqui col re dei giorni precedenti avesse dichiarato di essere disposto a presiedere solo un governo politico, mentre è lo stesso Vittorio Emanuele III che opera la scelta dei ministri tra generali, magistrati e alti funzionari.
Sottosegretario alla presidenza del Consiglio è nominato il consigliere di Stato Pietro Baratono; per gli Affari Interni è nominato l’ex prefetto Bruno Fornaciari, poi sostituito da Umberto Ricci; agli Esteri va l’ex ambasciatore ad Ankara Raffaele Guariglia; alle Finanze e al Tesoro va il provveditore generale dello Stato Domenico Bartolini; agli Scambi e Valute va Giovanni Acanfora, direttore generale della Banca d’Italia; alle Corporazioni va il consigliere di Stato Leopoldo Piccardi; alla Giustizia va Gaetano Azzariti; all’Educazione Nazionale va Leonardo Severi; ai Lavori Pubblici Domenico Romano; all’Agricoltura Alessandro Brizi; questi ultimi sono o sono stati direttori generali.
Vengono poi i ministeri militari: alla Guerra Antonio Sorice; per l’Africa italiana Melchiade Gabba; per l’Aeronautica Renato Sandalli; per la Produzione bellica Carlo Favagrossa; per le Comunicazioni Federico Amoroso; tutti questi sono generali; per la Marina l’ammiraglio Raffaele De Courten. Il 27 al Viminale si ha la prima riunione del Consiglio dei ministri, sotto la presidenza del maresciallo Badoglio.
Nei giorni successivi prosegue intensa l’attività del governo. Tra le misure prese, le prime tendono a colpire il passato regime fascista: viene sciolto il partito fascista; sono introdotte norme per il funzionamento degli enti assistenziali, educativi, sportivi già dipendenti dal partito; sono soppressi il Gran Consiglio del fascismo e il Tribunale speciale; è sciolta la Camera dei Fasci e delle Corporazioni; a capo della disciolta federazione dell’industria è nominato Bruno Buozzi, ex segretario della federazione degli operai metallurgici; sono abrogate le leggi che limitano i diritti dei celibi; è decisa la liberazione dei condannati per reati politici.
Il 29 luglio il regime fascista legalmente non esiste più. Non vengono però toccate le gerarchie amministrative e lo stesso corpo della Milizia fascista, invece di essere disciolto, viene semplicemente inquadrato nel Regio esercito. Contemporaneamente sono confermate le misure già prese per il mantenimento dell’ordine pubblico e, soprattutto, è fatto divieto di costituire partiti politici per tutta la durata della guerra e viene vietato l’uso di emblemi, simboli, distintivi riconducibili a partiti politici.
Non sono inoltre previste elezioni politiche immediate; solo a quattro mesi dalla fine della guerra si sarebbe proceduto all’elezione di una nuova Camera dei Deputati, riportando così la situazione istituzionale allo stato prefascista. Appare chiaro da queste misure che la preoccupazione del governo, come del re, è di procedere allo smantellamento delle istituzioni più marcatamente riconducibili al fascismo, senza affrontare né il problema di una riforma dello Stato né la discussione sulle scelte passate, compreso l’ingresso nel conflitto.
Vi è la preoccupazione di non dare spazio a processi al sovrano, che pure è stato corresponsabile delle maggiori scelte del regime fascista, oltre che della nomina a primo ministro dello stesso Mussolini. Almeno all’inizio si spera di mantenere la situazione sociale e politica sotto controllo, evitando di procedere a una defascistizzazione troppo accentuata.
Qualche settimana dopo, il 16 agosto, in un memorandum inviato a Badoglio, il sovrano afferma:
«L’eliminazione presa come massima di tutti gli ex appartenenti al Partito fascista da ogni attività pubblica deve recisamente cessare. […] A nessun partito deve essere consentito né tollerato l’organizzarsi palesemente e il manifestarsi con pubblicazioni. […] Ove il sistema iniziato perdurasse, si arriverebbe all’assurdo di implicitamente giudicare e condannare l’opera del re».
I partiti antifascisti si riorganizzano
Negli stessi giorni, a Milano e a Roma, si hanno le prime riunioni dei partiti democratici, che rivelano subito le differenze di orientamento del movimento antifascista delle due città. Il giorno 26 si riuniscono a Milano i rappresentanti del fronte delle opposizioni: sono presenti il Gruppo di ricostruzione liberale, il Partito democratico cristiano, il Partito d’azione, il Partito socialista, il Movimento di unità proletaria per la repubblica socialista, il Partito comunista.
La riunione si conclude con le seguenti richieste:
«Liquidazione totale del fascismo e di tutti i suoi strumenti di oppressione; il ripristino di tutte le libertà civili e politiche, prima tra tutte la libertà di stampa; la libertà immediata di tutti i detenuti politici; ristabilimento di una giustizia esemplare, senza procedimenti sommari, ma inesorabile nei confronti di tutti i responsabili e l’abolizione delle leggi razziali».
Ma le richieste che più caratterizzano il documento milanese sono «l’armistizio per la conclusione di una pace onorevole» e «la costituzione di un governo formato dai rappresentanti di tutti i partiti che esprimono la volontà nazionale». Sono proprio queste due richieste a essere accantonate dall’ordine del giorno della riunione del comitato dei cinque partiti antifascisti che si tiene a Roma il giorno 27.
All’incontro, presieduto da Ivanoe Bonomi, oltre ai liberali, ai democratici cristiani, agli azionisti, ai socialisti e ai comunisti, partecipa anche il Gruppo della democrazia del lavoro di Meuccio Ruini. Se a Milano i partiti antifascisti sono spinti dalla realtà sociale più articolata e caratterizzata da una forte presenza operaia che si è fatta sentire con gli scioperi di marzo, a Roma sono i partiti moderati ad avere il controllo del comitato.
Bonomi, in particolare, teme di rompere i rapporti col nuovo governo e, pur non accettando incarichi ministeriali, è favorevole a lasciar lavorare Badoglio concedendogli una tregua politica, facendo piuttosto pressione per quelle misure considerate più urgenti: scioglimento del partito fascista e delle sue istituzioni, liberazione dei detenuti politici e libertà di stampa.
Negli incontri tra Bonomi, rappresentante romano del comitato, e il primo ministro, sembra esserci un accordo, anche se la discussione continuerà sul tema della libertà di stampa, date le decisioni prese dal governo nella seduta del 27. Importanti sono le misure concordate per la riorganizzazione sindacale della classe operaia. Su designazione del comitato delle opposizioni sono nominati i commissari delle varie confederazioni dei lavoratori, che accettano la carica precisando che tenderanno alla «liquidazione del passato e a una sollecita ricostruzione dei sindacati italiani».
Nel frattempo Bruno Buozzi, in qualità di commissario della Confederazione dei
lavoratori dell’industria, stipula un accordo con Giuseppe Mazzini, commissario della Confederazione degli industriali, per il ripristino delle commissioni interne.
La discussione sull’armistizio
Solo nei giorni successivi il tema dell’armistizio comincia a imporsi anche nel comitato romano. Finalmente, il 2 agosto, viene approvato un nuovo ordine del giorno in cui si chiede «la cessazione di una guerra contraria alle tradizioni e agli interessi nazionali e ai sentimenti popolari, la responsabilità della quale grava e deve gravare sul regime fascista».
Il giorno successivo una delegazione del comitato viene ricevuta da Badoglio, che rifiuta però di discutere la questione della guerra: il governo «avrebbe deciso sotto la sua piena responsabilità e con la piena conoscenza di tutti gli elementi del problema».
I rapporti con i tedeschi e la minaccia di un loro intervento dominano le preoccupazioni di Badoglio e del re: il 6 agosto a Tarvisio vi è un incontro ad alto livello tra delegazioni italiane e tedesche che non appare risolutivo, ma che autorizza l’ingresso in Italia di nuove divisioni germaniche. Nelle due settimane seguenti la situazione politica subisce un’accelerazione: il 19 gli alleati bombardano pesantemente Bologna, Milano e Torino; il giorno dopo inizia un vasto sciopero generale nelle città del nord, a Torino e a Milano in particolare, questa volta con rivendicazioni chiaramente politiche: per la pace immediata e per la rottura dell’alleanza con la Germania.
A Torino la repressione provoca un morto e sette feriti. Numerosi sono i manifestanti arrestati. Anche la discussione tra i partiti antifascisti si fa più chiara. L’11 agosto si riuniscono a Roma i rappresentanti dei comitati milanese e romano. I rappresentanti milanesi chiedono la rottura col governo Badoglio e l’appello alla mobilitazione di piazza per ottenere la pace. Il 13 vi è un incontro di una delegazione con Badoglio per chiedere il rispetto degli accordi precedenti sulla liberazione dei prigionieri politici, sul ritorno alla democrazia sindacale e sull’elezione delle commissioni interne.
Dopo gli scioperi del 20 le posizioni si radicalizzano ulteriormente. Il 23 agosto si riunisce nuovamente il comitato di Milano, il 25 quello romano. Si richiede la firma immediata dell’armistizio e la costituzione di un nuovo governo antifascista «schiettamente democratico interprete della volontà del paese». Negli stessi giorni circolano voci di un colpo di mano a Roma dei fascisti appoggiati dai tedeschi; vi sono numerosi arresti, nel corso dei quali viene ucciso l’ex segretario del Partito nazionale fascista Ettore Muti, considerato, probabilmente a torto, tra i partecipanti al complotto che si ritiene faccia capo al generale Ugo Cavallero, avversario di Badoglio.
Il generale morirà tempo dopo a Frascati, nella sede del Comando di Kesserling, in circostanze misteriose. Quando il 2 settembre si riunisce nuovamente il comitato romano, Bonomi viene a conoscenza, «in via segretissima», che le trattative con gli alleati per l’armistizio stanno per concludersi.
L’ARMISTIZIO DI CASSIBILE E L’8 SETTEMBRE
L’incontro di Tarvisio
La destituzione di Mussolini, il 25 luglio del 1943, e la sua sostituzione con un governo tecnico-militare presieduto dal maresciallo Badoglio sono solo atti preliminari al tentativo di portare l’Italia fuori dalla guerra. Vi è nel re e in Badoglio la speranza o l’illusione di avere ancora la possibilità di trattare con gli anglo-americani le condizioni del distacco dalla Germania e il passaggio al fronte opposto.
Si ritiene, infatti, che solo un impegno massiccio delle forze alleate sul suolo italiano possa permettere di far fronte alla reazione armata dei tedeschi. Ma, mentre si cerca di stabilire un contatto a partire dal 31 luglio con i rappresentanti delle Nazioni unite (così si definisce l’alleanza delle nazioni che combattono contro i paesi dell’Asse, cioè Germania, Italia e Giappone), il governo italiano mantiene i rapporti con la Germania e accetta di partecipare su richiesta del ministro degli Esteri del Reich Ribbentrop a un incontro tra i due ministri degli Esteri, per l’Italia Guariglia, e i due capi di Stato maggiore, Keitel e Ambrosio, che si tiene il 6 agosto a Tarvisio.
Il convegno si svolge in un clima di sfiducia reciproca: Ribbentrop mantiene una freddezza offensiva che esprime il disprezzo tedesco per il nuovo governo italiano, Guariglia risponde che il cambio politico italiano è «d’ordine puramente interno». I rappresentanti italiani riconfermano il loro impegno a fianco della Germania, del resto affermato col comunicato del 25: «la guerra continua» e «l’Italia mantiene fede alla parola data», addirittura chiedendo rinforzi e armi per far fronte all’invasione della penisola da parte degli anglo-americani, ritenuta ormai prossima.
Si giunge così a una sorta di tregua con la Germania che sembra tranquillizzata dall’atteggiamento dei rappresentanti italiani e promette l’invio di nuove truppe nella Penisola: ben sedici divisioni germaniche saranno dislocate in Italia. I tedeschi chiedono rassicurazioni sulla sorte di Mussolini e chiarimenti sui movimenti di truppe italiane intorno a Roma e al Comando germanico di Frascati.
I generali italiani sono a loro volta preoccupati per le manovre tedesche nella zona di Roma e nell’Italia settentrionale. Le reciproche rassicurazioni non servono a nascondere i timori, anche se i tedeschi non sanno ancora delle trattative di Badoglio con gli alleati. Il convegno serve alle due parti per guadagnare tempo.
Tedeschi e alleati di fronte al problema «Italia»
L’ambiguità del governo italiano è tale che né i tedeschi né gli anglo-americani si fidano del loro instabile interlocutore. I tedeschi hanno già provveduto, a partire dalla caduta di Mussolini se non ancora prima, a preparare i piani per un’invasione strisciante della penisola, e incominciano ad attuarla agli inizi di agosto; gli alleati anglo-americani, intanto, si mostrano meravigliati all’annuncio di Badoglio del 25 luglio che «la guerra continua».
Le successive indecisioni del governo italiano portano gli alleati a intensificare i bombardamenti sulle città, in particolare il 19 agosto. Nel frattempo i tedeschi cercano di forzare la situazione italiana, con un colpo di stato preparato dall’ambasciata tedesca a Roma, per arrestare il governo Badoglio e la famiglia reale e imporre un nuovo regime fascista.
I preparativi saranno poi inutili perché da Hitler non arriverà il via libera all’operazione. Le Nazioni unite, da parte loro, non hanno un orientamento univoco circa l’importanza dell’Italia nel quadro generale del conflitto. Per Churchill, primo ministro inglese, l’Italia può costituire un trampolino per raggiungere più velocemente la penisola balcanica, con l’intento di anticipare i sovietici che stanno avanzando verso il centro dell’Europa da oriente.
Stalin, invece, chiede da tempo l’apertura di un secondo fronte che impegni i tedeschi a occidente (e la scelta è da tempo caduta sulla Francia settentrionale), mentre considera un’eventuale campagna d’Italia un diversivo. Gli americani sono d’accordo con lui e considerano secondario il teatro del Mediterraneo, a cui appartiene l’Italia, diversamente dall’Inghilterra che preme per un impegno maggiore contro il nostro paese.
Essendo già in corso i preparativi per l’invasione della Francia, le risorse già complessivamente limitate da impegnare a occidente permettono di riservare all’invasione dell’Italia solo forze ridotte. A guidare poi i comandi militari alleati nella conduzione della campagna d’Italia sarà una costante sopravvalutazione delle forze tedesche, soprattutto dell’aviazione, e una conduzione della guerra estremamente prudente.
Per questi motivi nelle trattative di armistizio i rappresentanti alleati eviteranno di dare una risposta positiva alle richieste italiane di intervento militare a nord di Roma per contrastare la presenza tedesca, decidendo invece di compiere sbarchi molto più a sud.
Le trattative per l’armistizio
Il 31 luglio, il ministro Guariglia contatta i rappresentanti del governo inglese e di quello americano presso la Santa sede. Nei giorni successivi vengono inviate due missioni diplomatiche, una a Lisbona, presso l’ambasciatore inglese Campbell e l’altra a Tangeri, presso il ministro di Gran Bretagna, Gascoigne. Questi primi tentativi non portano ad alcun risultato: gli italiani chiedono di intavolare trattative; gli alleati, in particolare gli inglesi, vogliono solo ricevere l’offerta di una resa incondizionata, secondo la decisione presa già nel gennaio del 1943 alla Conferenza di Casablanca, tra Roosevelt e Churchill.
I due diversi atteggiamenti porteranno a equivoci e ambiguità anche negli incontri successivi e il governo italiano manterrà fino all’ultimo momento la convinzione di poter rifiutare le condizioni dell’armistizio. Finalmente, il 12 agosto, parte da Roma per Lisbona, via Madrid, il generale Giuseppe Castellano, con l’incarico di concordare con gli alleati le iniziative militari utili a contrastare la presenza tedesca al momento dell’uscita dell’Italia dall’alleanza, ma senza l’autorizzazione ad accettare eventuali richieste di resa.
Il 16 Castellano arriva a Lisbona, il 19 è raggiunto dai rappresentanti del generale Eisenhower, il generale americano Bedell Smith, capo di Stato maggiore del Comando in capo del Mediterraneo, e dal generale inglese Strong, capo dell’intelligence dello stesso Comando, che gli presentano le condizioni di armistizio da tempo definite dagli alleati: fine immediata delle ostilità e di ogni aiuto ai tedeschi; restituzione dei prigionieri; disponibilità a concedere il territorio nazionale come base per le future operazioni militari; trasferimento ai vincitori della flotta e dell’aviazione; richiamo in patria delle truppe dislocate all’estero.
Queste condizioni non sono trattabili, ma possono solo essere accettate o rifiutate in blocco. Le condizioni economiche e politiche dell’accordo saranno discusse successivamente all’accettazione della resa.
Viene inoltre consegnato un telegramma giunto da Quebec, noto come «documento di Quebec», in cui Roosevelt e Churchill, sentito Stalin, modificano parzialmente l’atteggiamento tenuto in precedenza nei confronti dell’Italia: se ancora nei primi contatti in Vaticano del 31 luglio ai rappresentanti del governo Badoglio è stata negata ogni disponibilità a discutere un eventuale cambiamento di stato del nostro paese, ora gli alleati sono disposti a trattare la collaborazione offerta dall’Italia nella guerra contro la Germania e si impegnano ad attenuare le condizioni di armistizio «a seconda dell’apporto che noi avremmo dato alla lotta», come riferisce lo stesso generale Castellano.
Sono così poste le condizioni per quella che sarà chiamata cobelligeranza. Lo stesso Churchill afferma, il 16 agosto, che i governi della Gran Bretagna e degli Stati Uniti non avrebbero negato all’Italia «un posto onorato in Europa». Ma nel «documento di Quebec» è contenuta un’altra norma, considerata dagli alleati vincolante: «Il governo italiano deve impegnarsi a proclamare l’armistizio non appena esso sarà annunciato dal generale Eisenhower».
Badoglio e il generale Ambrosio, esaminate le condizioni d’armistizio, decidono di inviare Castellano in Sicilia per riprendere le trattative. L’Italia accetterà le richieste alleate, a patto di poter contare su uno sbarco a nord di Roma, tra Civitavecchia e La Spezia, ritenendo necessarie almeno 15 divisioni per contrastare la reazione tedesca, ma sovravvalutando così la disponibilità di truppe degli stessi anglo-americani.
Questa diversa impostazione costringe Castellano, giunto a Cassibile, a quindici chilometri a sud di Siracusa per incontrare Bedell Smith il 31 agosto, a ritornare subito a Roma. Nei piani alleati non è previsto alcuno sbarco a nord della capitale; è invece prevista un’azione attraverso lo stretto di Messina (piano Baytown) e un’operazione più vasta nella baia di Salerno (piano Avalanche), da effettuare in contemporanea con la proclamazione dell’armistizio.
Ma Bedell Smith promette uno sbarco aviotrasportato nella zona di Roma, all’altezza del Tevere, ingannando forse consapevolmente l’emissario italiano e ovviamente non rivela gli obiettivi alleati, lasciando così all’oscuro dei loro progetti il governo italiano.
Il 2 settembre, il generale Castellano ritorna a Cassibile, senza né credenziali né delega, provocando così l’irritazione dei rappresentanti alleati. È finalmente autorizzato a firmare, dopo altre trattative con Roma, durate più di un giorno, come plenipotenziario per il governo italiano. Il 3 settembre alle ore 17,15 viene firmato l’«armistizio corto» (Short Military Armistice), mentre solo il 29 settembre Badoglio firmerà a Malta quello denominato «lungo».
A sottoscrivere il documento sono il generale Bedell Smith, delegato del comandante supremo Eisenhower, che tuttavia è presente, e il generale Castellano, delegato dal generale Ambrosio, capo di Stato maggiore. A voce, Bedell Smith informa Castellano che le operazioni di sbarco sarebbero cominciate entro due settimane, anche se sono già fissate tra il 3 e il 9 settembre. L’annuncio dell’armistizio sarà dato via radio contemporaneamente da Eisenhower e da Badoglio il giorno previsto per lo sbarco. Il momento verrà comunicato al governo italiano con poche ore di preavviso.
L’annuncio dell’armistizio
Il giorno 7 settembre, l’ufficiale inviato a Roma per preparare l’eventuale sbarco di una divisione aerotrasportata, il generale Taylor, prende atto che i campi di aviazione attorno alla città sono già in mano ai tedeschi e che il corpo motorizzato italiano, che dovrebbe collaborare all’operazione, è quasi privo di carburante e di munizioni, per cui viene dato il contrordine al lancio dei paracadutisti e allo sbarco di truppe.
Badoglio a questo punto fa nuovamente pressione su Eisenhower, inviando un telegramma al Quartier generale alleato ad Algeri, la mattina dell’8, perché l’annuncio dell’armistizio sia rinviato, convinto comunque che non sarebbe stato dato prima del 12 settembre. Invece alle ore 16,30 Radio New York anticipa la notizia della firma dell’armistizio con l’Italia.
Mentre i reparti tedeschi, agli ordini del generale Rommel, iniziano subito i rastrellamenti di soldati italiani e l’occupazione dei punti strategici, in una situazione estremamente confusa si riunisce al Quirinale una sorta di Consiglio della Corona per valutare la situazione dopo l’ultimatum ricevuto da Eisenhower, per rispondere al telegramma del mattino e dare comunicazione della firma dell’armistizio entro le ore 20,00 del giorno 8. È significativo dell’atteggiamento italiano che ancora in questo momento si discuta dell’opportunità o meno di rispettare l’armistizio.
Mentre la riunione è in corso, giunge la notizia che Eisenhower ne ha già resa pubblica la firma. Alle ore 19.45 Badoglio legge il seguente comunicato alla radio:
«Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Il giorno dopo, con telegrammi inviati ai capi di governo delle potenze aderenti al patto tripartito, in particolare Germania e Giappone, viene data la comunicazione ufficiale dell’armistizio, motivato dallo stato di vulnerabiltà del territorio nazionale, dalle distruzioni, dalla paralisi della produzione e dall’esaurimento delle risorse. Contemporaneamente, come previsto da tempo, gli alleati effettuano lo sbarco in forze nella baia di Salerno, dando inizio all’operazione Avalanche.
Gli alleati e la campagna d’Italia
La decisione di occupare la Sicilia presa dagli alleati nella Conferenza di Washington nel maggio del 1943, durante le ultime fasi della campagna in Nordafrica, non è accompagnata da un preciso progetto sulle scelte successive; in quel momento interessano soprattutto gli aeroporti della Sicilia e le sue basi navali per poter mantenere il controllo del Mediterraneo centrale, in modo da permettere ai convogli rotte più sicure senza dover circumnavigare l’Africa.
Solo il 18 giugno Eisenhower decide di proseguire l’avanzata lungo lo stivale, con uno sbarco in Calabria. Fino a quella data l’alternativa sembrava essere la conquista delle isole maggiori, Sardegna e Corsica, da utilizzare per uno sbarco nel sud della Francia come preferirebbero gli americani. Nel progetto approvato, invece, la conquista degli aeroporti pugliesi e del porto di Napoli sembrano gli obiettivi più lontani. Non si tratta ancora di costringere l’Italia alla resa, anche se questa soluzione non viene esclusa, quanto di poter disporre di una base più vicina ai Balcani per aiutare la resistenza antitedesca.
È soprattutto Churchill a essere interessato a questo progetto, mentre Roosevelt e con lui Eisenhower vorrebbero sferrare l’attacco decisivo direttamente nel cuore dell’Europa, contro la Germania. L’Italia, in questa ipotesi, è un obiettivo secondario, perché la sua caduta sarebbe comunque una conseguenza del crollo tedesco. Un impegno massiccio in questo paese risucchierebbe soltanto forze cospicue, sottraendole al progettato attacco alla Francia.
Alcuni fatti nuovi, come la scarsa resistenza offerta dalle truppe italiane nella campagna di Sicilia, la caduta di Mussolini e le successive offerte di trattativa provenienti dal nuovo governo italiano, costringono gli alleati a rivedere i loro piani. Con la nuova situazione politica italiana, infatti, viene a essere rafforzata la proposta di Churchill di procedere a un’invasione della penisola con l’obiettivo di raggiungere Napoli e forse Roma.
Inoltre, a metà del 1943, appare ormai tramontata la possibilità di organizzare lo sbarco decisivo contro la Germania, che verrà rinviato al maggio del 1944, rendendo quindi disponibili i mezzi da sbarco e le navi da trasporto, altrimenti insufficienti. Tuttavia la campagna d’Italia sarà condotta dal comando alleato con eccessiva prudenza, utilizzando forze nel complesso limitate, non valutando correttamente le caratteristiche del territorio che mal si presta a una rapida avanzata e che facilita il compito dello schieramento difensivo.
Gli stessi americani, sottovalutando l’impegno che la campagna avrebbe richiesto, inizialmente ritengono che sarebbe sufficiente un massiccio impiego dell’aviazione per risolvere il confronto. Anche i tedeschi, all’inizio, non considerano importante il fronte italiano. Essi giudicano pericoloso attestarsi sulla parte meridionale della penisola, con il rischio di essere tagliati fuori da eventuali sbarchi compiuti più a nord.
Il loro progetto iniziale prevede di fortificare la zona appenninica tra Pisa e Ancona, lungo quella che verrà definita «linea gotica», in difesa della valle del Po, che più li interessa ai fini della continuazione dello sforzo bellico. In realtà Kesserling saprà approfittare delle incertezze e della lentezza dell’azione degli alleati per rallentarne l’avanzata e impegnare sul teatro italiano rilevanti forze nemiche.
Gli accordi tra il comando alleato di Eisenhower e il governo italiano sulle misure militari da prendere in coincidenza con la dichiarazione di resa prevedono uno sbarco in forze su una costa del Tirreno. Gli italiani vorrebbero che lo sbarco fosse effettuato nella zona di Roma o addirittura più a nord.
Nel piano alleato, invece, viene approvata l’operazione Avalanche, cioè lo sbarco nel golfo di Salerno, nella parte meridionale della Campania, utilizzando il 10° corpo d’armata britannico e il 6° corpo d’armata americano appartenenti alla 5a armata americana. I comandanti alleati non sono concordi nella scelta: l’ipotesi di Salerno è appoggiata da Alexander, che non vuole allontanarsi troppo dalle basi aeree siciliane per non perdere la supremazia dell’aria; inoltre, egli ritiene che le coste basse e sabbiose presenti a nord di Napoli, la zona proposta da Clark, avrebbero ostacolato le manovre dei mezzi da sbarco.
La scelta di Salerno si rivelerà alla fine infelice: la costa paludosa non permette l’impiego veloce delle forze corazzate, mentre a poca distanza dalla linea di costa vi sono colline scoscese che facilitano l’opera di difesa delle truppe tedesche. Il ritardo con cui sarà presa Napoli permetterà ai tedeschi di danneggiarne gravemente le strutture portuali.
Essi, poi, avranno tutto il tempo di spostare dalla Calabria truppe per rafforzare le difese contro la testa di sbarco, mentre quelle di Montgomery, sbarcate con l’8a armata britannica subito a sud di Reggio Calabria il 3 settembre (operazione Baytown), in risalita verso nord, procedono con estrema lentezza, giungendo nella zona di Salerno solo a operazioni ormai avviate verso la conclusione.
Ai primi di settembre, comunque, il piano alleato può contare sulla resa prossima dell’Italia e sulla disponibilità del governo Badoglio a fornire una certa collaborazione ai piani alleati, nei limiti concessi dalla sempre più forte presenza tedesca, in particolare nella conquista del porto e della città di Taranto (operazione Slapstick, effettuata all’alba del 9 settembre).
Nel mese di agosto, infatti, Hitler ha fatto affluire alcune divisioni nell’Italia settentrionale, agli ordini di Rommel, utilizzate come riserva strategica per la Francia meridionale, l’Italia e i Balcani. Intanto dalla Sicilia stanno giungendo le truppe tedesche in ritirata, agli ordini di Kesserling, con il compito di concentrarsi nell’Italia centrale, in particolare nella zona di Roma.
Viene poi costituito il Comando della 10a armata agli ordini del generale von Vietinghoff che si occuperà delle esigenze tattiche nel sud della Penisola, in particolare di affrontare gli eventuali sbarchi anglo-americani. Ai primi di settembre gli aerei tedeschi sono già stati ritirati da tutti gli aeroporti dell’Italia meridionale, con l’eccezione di quello di Foggia, presso cui sono dislocati 17.000 uomini della 1a divisione paracadutisti.
Nella punta dello stivale sono dislocati invece circa 30.000 uomini appartenenti alla 26a Panzerdivision e alla 29a divisione Panzergrenadier. Altri 45.000 uomini delle divisioni Göring e 15a Panzergrenadier e della 16a Panzerdivision sono dislocate tra Gaeta e Salerno, lungo la costa tirrenica.
Lo sbarco alleato nell’Italia continentale
Alle 4,30 del 3 settembre le truppe dell’8a armata di Montgomery iniziano a sbarcare sulla costa calabrese, senza incontrare nessuna reazione. Un attacco anfibio viene attuato verso Pizzo, a circa cento chilometri a nord di Reggio. I tedeschi non oppongono resistenza e avviano il ritiro verso nord. L’avanzata alleata sarà però molto lenta, a causa delle caratteristiche del terreno e della distruzione delle infrastrutture.
Nel frattempo, tra il 3 e il 6 settembre, salpano da Tripoli e da Biserta le navi con le truppe del 10° corpo d’armata britannico, mentre quelle che trasportano il 6° corpo d’armata americano salpano da Orano, dirigendosi verso il golfo di Salerno. A proteggere i convogli vi sono sette portaerei, oltre a quattro navi da battaglia e a una divisione di incrociatori. La responsabilità dello sbarco è affidata al generale Mark Clark, comandante della 5a armata americana.
Alle sue dipendenze vi sono il generale sir Richard McCreery, comandante del 10° corpo d’armata britannico, e il generale Ernest Dawley, comandante del 6° corpo d’armata statunitense. In totale vi sono 450 navi che trasportano 169.000 soldati e 20.000 veicoli. Mentre gli inglesi sarebbero sbarcati a nord del fiume Sele per impadronirsi del porto di Salerno e dell’aeroporto di Montecorvino, gli americani hanno il compito di occupare le alture a sud e a est e di collegarsi a Ponte Sele con le truppe inglesi provenienti da sud.
Contemporaneamente, nel pomeriggio dell’8, i comandi dei feldmarescialli Kesserling e Richthofen, situati a Frascati, nei dintorni di Roma, sono attaccati da formazioni di bombardieri alleati che cercano di interrompere il sistema di comunicazione con i reparti. Alle 18,30 dell’8 settembre il generale Eisenhower annuncia alle truppe imbarcate per l’operazione la notizia che l’Italia ha firmato l’armistizio.
Alla mezzanotte le navi alleate giungono in posizione sulla costa di Salerno. Nel frattempo Kesserling e von Vietinghoff, venuti a conoscenza dell’armistizio italiano, provvedono a far occupare dalle truppe le postazioni lungo la costa tra Gaeta e Salerno. Alle 2,00 del 9 settembre le unità di difesa costiera aprono il fuoco contro gli attaccanti.
La battaglia ha inizio
Contemporaneamente è avviata l’operazione Slapstick: 3.600 soldati delle truppe aviotrasportate raggiungono Taranto, dove non ci sono tedeschi, e vengono accolti dalle truppe italiane. Il porto è in piena efficienza. Entro due giorni anche Brindisi sarà occupata senza incontrare resistenza, mentre i paracadutisti tedeschi della 12a divisione, dispersi su un’ampia zona della Puglia, si raggruppano nei pressi di Foggia.
Von Vietinghoff, impossibilitato a contattare Kesserling, sceglie autonomamente di contrastare lo sbarco anglo-americano piuttosto che spostare le sue truppe verso Roma, e ordina a tutti i reparti di convergere su Salerno. Nell’immediato, però, ha a disposizione solo 17.000 uomini della 16a Panzerdivision e poco più di 100 carri armati, dei quali due terzi vanno persi nel primo giorno di battaglia.
Risulta però determinante, per la riuscita del piano di resistenza tedesca nel settore meridionale della penisola, l’azione condotta dalle divisioni disposte attorno a Roma al comando di Kesserling che, in attuazione del piano di emergenza denominato Achse (Asse), riescono a mantenere il controllo della città, vitale per le comunicazioni stradali e ferroviarie tra il nord e il sud, e a mettere fuori gioco le cinque efficienti divisioni italiane dislocate intorno alla capitale.
Già l’11 settembre i soldati tedeschi hanno il controllo della zona. Inglesi e americani di fronte al crollo italiano Quando l’Italia entrò in guerra, nel giugno 1940, la potenza inglese costituiva il principale nemico della politica imperialista di Mussolini: nei Balcani, nel Mediterraneo e nell’Africa settentrionale.
La dichiarazione di guerra avveniva in un momento drammatico per gli inglesi, sconfitti in Francia dalla Germania e poi sottoposti a un attacco aereo, noto come Battaglia d’Inghilterra che costituiva solo la premessa della prevista invasione dell’Isola. Tre anni di guerra non fecero che acuire questa contrapposizione. Si può immaginare quindi il sollievo e la soddisfazione del governo e del popolo inglese alla notizia della resa del principale nemico nel Mediterraneo.
Non solo era possibile vendicare l’aggressione del 1940, ma si poteva pensare di eliminare dal gioco un temibile concorrente della potenza inglese che si preparava a sostituire l’Italia nelle sue tradizionali zone di influenza. Per questo, nel novembre 1942, il ministro degli Esteri inglese, Eden, capo della corrente più intransigente, si dichiarava favorevole a puntare al collasso dell’Italia seguito dall’occupazione tedesca, piuttosto che a una pace separata.
In questo modo non solo i tedeschi avrebbero dovuto impegnare forze considerevoli, Eden parlava di 30-40 divisioni nell’occupazione della penisola e per sostituire le truppe italiane nei Balcani, ma al momento della vittoria finale la nuova autorità italiana sarebbe stata impossibilitata a rivendicare le colonie e a minacciare, nel futuro, la potenza inglese nel Mediterraneo.
Gli Stati Uniti, al contrario, erano interessati a una politica che favorisse l’uscita dell’Italia dalla guerra anche attraverso una pace separata, ma alla conferenza di Casablanca, nel gennaio 1943, venne deciso il principio della resa incondizionata
per gli alleati della Germania, accentuando l’impostazione punitiva della politica alleata verso il nostro Paese come richiesto dagli inglesi.
Il crollo dell’Italia era quindi uno degli obiettivi degli alleati; quando tuttavia questo avvenne, essi si trovarono impreparati. Il collasso fu rapido: in maggio la resa delle truppe in Tunisia, in luglio l’invasione della Sicilia e la destituzione di Mussolini, seguite nel giro di cinque settimane dalla firma della resa, il 3 settembre, che apriva le porte all’invasione della penisola con lo sbarco di Salerno dell’8-9 settembre.
Gli alleati avevano dato l’impressione, con lo sbarco in Sicilia effettuato con mezzi straordinari, di possedere risorse illimitate. In realtà l’idea di una campagna militare di lungo periodo in Italia non rientrava nei loro piani strategici; i sovietici reclamavano da tempo l’apertura di un secondo fronte in Occidente contro la Germania e gli americani ritenevano che la caduta dell’Italia sarebbe stata comunque conseguente alla sconfitta tedesca; utilizzare una parte delle forze presenti nel settore europeo in Italia avrebbe costituito una diversione dall’obiettivo principale, il solo Churchill premeva per un impegno in tal senso, per approfittare della nuova situazione strategica nel Mediterraneo.
Le forze disponibili furono comunque in gran parte impiegate nello sbarco di Salerno, senza però che vi fosse una superiorità schiacciante nei confronti del nemico, ma non ve ne erano per altre operazioni in appoggio alle truppe italiane nei Balcani o nell’Italia centro-settentrionale. Il Comando italiano e il governo Badoglio sopravvalutarono le forze che gli alleati erano disposti a impegnare in Italia, ma questi puntavano a una collaborazione attiva delle forze armate italiane, in particolare attorno a Roma e nei Balcani.
Negli accordi militari che accompagnarono la firma dell’armistizio vi era l’impegno esplicito che il governo italiano avrebbe mobilitato le truppe disponibili contro i tedeschi. Questo impegno era considerato scontato dal Comando del generale Alexander che aveva definito con i colleghi italiani i piani particolareggiati delle operazioni militari.
Quanto avverrà subito dopo l’8 settembre coglierà di sorpresa non solo il Comando alleato, ma anche il maresciallo Kesserling, che dovrà in fretta e furia convincere Hitler a non abbandonare la penisola italiana.
I tedeschi e l’operazione Alarico
Fin dal maggio 1943 Hitler si era preparato a fronteggiare una crisi in Italia costituendo il Gruppo armate B, dislocato in Carinzia e in Tirolo, agli ordini di Rommel. Il 17 luglio, nel quartier generale di Rastenburg, viene di nuovo esaminata la situazione italiana.
Per questo, quando il 25 luglio giunge la notizia della destituzione di Mussolini, i tedeschi sono pronti ad attuare il piano d’invasione dell’Italia denominato operazione Alarico, nonostante il proclama di Badoglio che «la guerra continua». All’alba del 26 luglio incomincia l’affluenza dal Brennero (l’Alto Adige viene occupato), dalla Francia e dalla Carinzia di nove divisioni e una brigata, che si aggiungono alle otto già disponibili nella penisola e nelle isole.
Contemporaneamente le forze dislocate in Sicilia, che hanno subìto gravi perdite,
sono riorganizzate entro la fine di agosto, dopo essere affluite verso la Calabria, mentre quelle dislocate in Campania estendono la loro area di azione. Le truppe di stanza in Corsica e in Sardegna vengono attivate per la difesa costiera. Intorno a Roma si costituisce un concentramento di forze di circa 29.000 uomini, oltre 6.000 elementi del servizio informazioni e degli organi politici tedeschi.
Il Comando delle truppe poste a sud dell’Appennino, Oberbefehl Sud, è collocato a Frascati, sotto il comando del generale Kesserling, mentre il maresciallo Rommel è nominato comandante per l’Alta Italia. Queste operazioni avvengono mentre Italia e Germania sono ancora ufficialmente alleate e le delegazioni militari dei due paesi si incontrano nei convegni di Tarvisio (6 agosto) e di Bologna (15 agosto).
Alla data dell’8 settembre, le forze germaniche dislocate in Italia sono costituite da diciassette divisioni e due brigate con circa 150.000 uomini distribuiti su tutto il territorio. Altre quattro divisioni sono segnalate in arrivo. Esse sono disposte sul terreno in modo da incapsulare i reparti italiani. Dopo l’annuncio dell’armistizio firmato dall’Italia, di fronte alla sorpresa che colpisce le truppe italiane, prive di ordini precisi e disorientate dagli avvenimenti, i tedeschi possono attuare con decisione e violenza un piano minuziosamente preparato.
Intimano la resa e disarmano molti reparti, a volte anche ricorrendo a stratagemmi e alla propaganda, trovando spesso la collaborazione dei comandi italiani. Più raramente i reparti italiani cercano di resistere, manifestando una maggiore compattezza.
Decisa è l’azione tedesca per il controllo di Roma, nonostante un’iniziale resistenza di reparti italiani della divisione Piave, dell’Ariete e dei granatieri. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre la posizione di Kesserling nella zona di Roma sembra compromessa, data la sproporzione di forze a favore dell’esercito italiano. Solo al mattino si rende conto che il Comando italiano non ha fornito disposizioni precise ai reparti che stanno arrendendosi o disperdendosi.
Entro il 14 settembre le truppe di Rommel e di Kesserling riescono a impadronirsi di gran parte della penisola, dopo aver disarmato e reso inattivo l’Esercito italiano. Anche l’evacuazione delle truppe tedesche dalla Sardegna e dalla Corsica avviene mantenendo l’efficienza militare.
La riuscita dell’operazione va al di là delle aspettative, anche perché gli alleati non approfittano della situazione verificatasi con l’armistizio firmato dall’Italia; lo sbarco avvenuto a Salerno è troppo a sud per impensierire i tedeschi attestati attorno a Roma, mentre non viene sfruttato il concorso delle forze armate italiane. Questa situazione spinge la Germania a modificare il primitivo piano che puntava alla difesa dell’Appennino settentrionale sotto il comando di Rommel.
È invece accettata la proposta di Kesserling di attestare la resistenza nell’Italia meridionale, riorganizzando varie linee di difesa contrassegnate da lettere dell’alfabeto; quella più importante, su cui arrestare il nemico, è la linea G o Gustav lungo il corso del Garigliano- Rapido-Sangro. Il generale Kesserling ottiene il comando delle truppe dislocate sul fronte sud, mentre il Comando Gruppo armate B viene disciolto.
Lo stato d’animo tedesco è ben rappresentato da queste parole pronunciate dal feldmaresciallo Kesserling subito dopo l’8 settembre:
«Il governo italiano si è reso responsabile del più vile tradimento, concludendo alle nostre spalle l’armistizio col nemico. Noi tedeschi continueremo a combattere fino all’ultimo contro il nemico esterno per la salvezza dell’Europa e dell’Italia. Sono convinto che adempiremo a tutti i compiti affidati a noi dal Führer, come abbiamo fatto finora, se conserveremo il nostro antico spirito di combattimento e di ferrea calma. Le truppe italiane devono essere persuase facendo appello al loro onore a continuare la lotta al nostro fianco, in caso di rifiuto devono essere disarmate senza riguardo. Del resto non c’è clemenza per i traditori. Viva il Führer».
Non c’è dubbio che il sentimento diffuso tra gli ufficiali e i reparti tedeschi fosse di odio verso gli italiani, per essere stati abbandonati e traditi dal principale alleato, come già era avvenuto ai tempi della Grande guerra, quando l’Italia si era schierata con i nemici della Germania, nonostante le alleanze. La reazione tedesca sarebbe pertanto stata ispirata allo spirito di vendetta: gli italiani, soprattutto i militari, andavano puniti per quella scelta.
In realtà il rapporto di fiducia tra i due alleati era venuto meno già dopo le sconfitte italiane in Grecia e in Nordafrica ed era stato sostituito da un’effettiva subordinazione di Mussolini alle scelte strategiche del nazionalsocialismo. I tedeschi, più o meno velatamente, rinfacciavano agli italiani di essere ormai un peso dal punto di vista militare, di non essere sufficientemente spietati nella repressione delle bande ribelli in Croazia, in Albania e in Grecia, di ostacolare la politica antisemita, offrendo riparo e protezione agli ebrei presenti nelle zone occupate dagli italiani.
Sia ai vertici del potere tedesco che tra le truppe erano riapparse le considerazioni razziste sulla decadenza dei popoli latini e sulla superiorità razziale dei tedeschi, per cui la crisi dell’esercito italiano veniva rinviata non tanto alle scelte dei gruppi dirigenti, quanto a una pretesa inferiorità naturale del soldato italiano, incapace di svolgere il ruolo di dominatore con la necessaria spietatezza.
Anche gli italiani appartenevano a quei popoli schiavi che sarebbero stati subordinati al Reich tedesco. Con l’armistizio italiano le remore formali che avevano impedito a queste posizioni di emergere apertamente venivano rimosse; esse costituiscono lo sfondo ormai esplicito su cui si muovono i soldati e gli ufficiali tedeschi nelle settimane successive all’8 settembre nei loro rapporti con la popolazione e con i soldati italiani.
Per molti militari tedeschi sarebbe stato considerato legittimo e non riprovevole uccidere non solo soldati italiani, ma donne, vecchi e bambini, anche piccolissimi, come avverrà nelle rappresaglie compiute nelle zone di passaggio delle truppe tedesche in ritirata già dal settembre 1943.
A giustificare, però, l’urgenza del disarmo italiano e la durezza dei comportamenti tedeschi, vi è anche una motivazione strategica fondamentale. Benché il Comando tedesco abbia cominciato a pensare all’eventualità dell’uscita dell’Italia dal conflitto già dal novembre 1942 e che i preparativi militari siano stati completati tra maggio e luglio 1943, i rischi per lo schieramento tedesco, con l’uscita dell’Italia dalla guerra, sono gravissimi. In Italia Kesserling, all’indomani dell’armistizio, considera perduta l’Italia insulare e si prepara a ritirarsi nella pianura Padana, con l’obiettivo di salvare per quanto possibile le truppe dislocate a sud di Roma.
Nei Balcani vi sono 300.000 soldati tedeschi e quasi 600.000 italiani. Per la Germania, dopo l’avanzata sovietica sul fronte orientale e il fallimento della controffensiva di Kursk nel mese di luglio, dov’è stata combattuta la più grande battaglia di carri armati della storia, quello balcanico è ormai diventato l’immediato retrovia del fronte.
Il Comando Supremo tedesco si aspetta, dopo quello di Salerno, un massiccio sbarco proprio in Grecia. L’esercito italiano, per quanto provato e dotato di scarsa volontà di combattere, è tuttavia forte di oltre 2.500.000 di uomini; la Marina italiana mantiene una potenza considerevole. Solo col senno di poi si può considerare scontata la dissoluzione della forza militare italiana, come invece avverrà.
Inoltre, l’uscita dell’Italia dalla guerra potrebbe spingere gli altri alleati della Germania, soprattutto nei Balcani, a fare la stessa scelta. Una reazione rapida e spietata potrebbe allontanare questo pericolo. La crisi è massima tra il 9 e il 12 settembre: dopo quattro giorni i tedeschi hanno contenuto lo sbarco alleato a Salerno, assunto il controllo di Roma e del resto della penisola e di gran parte dei territori balcanici già occupati dagli italiani, disattivato i comandi italiani di Tirana e Atene.
Restano fuori dal loro controllo la Corsica e la Sardegna che non riusciranno più a riprendere, Cefalonia e Corfù a ovest della Grecia, alcune isole dell’Egeo a est, oltre a diverse sacche di resistenza nella Grecia continentale, sulla costa Dalmata e nel Montenegro. La difesa della Grecia consiste nel riprendere possesso di queste isole, dove la resistenza continuerà ancora per qualche settimana, ma solo a Lero e a Coo gli inglesi riusciranno a sbarcare dei rinforzi.