CEFALONIA 1943, TANTE “VERITÀ” – 12

a cura di Cornelio Galas

Riavvolgiamo, virtualmente la pellicola della tragedia di Cefalonia. E torniamo quindi al primo volume di Carlo Palumbo: Si tratta essenzialmente – e l’autore, lo storico, lo fa con efficacia e massima aderenza ai (pochi) documenti dell’epoca – di capire come si arriva al dramma della divisione Acqui. Ma anche ad altre vicende terribili (Corfù, ad esempio) di quel 1943, in quelle isole greche.

di Carlo Palumbo (prefazione)

Il presente studio costituisce il coerente sviluppo di un recedente lavoro dal titolo Ritorno a Cefalonia e Corfù – La scelta  della divisione Acqui  dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, pubblicato  nel 2003 grazie al patrocinio del Consiglio Regionale del Piemonte,  in occasione del Sessantesimo anniversario delle tragiche  vicende che avevano coinvolto, dopo l’armistizio, i soldati  della divisione Acqui e degli altri reparti di stanza nelle Isole  Ionie.

Erano poi venute altre ristampe, prima a cura della  Provincia di Bergamo e del Comune di Lovere, poi col contributo  della Provincia di Trento.  Ad apprezzare il progetto erano state soprattutto le varie  sezioni locali dell’Associazione Nazionale Divisione Acqui, che  avevano in molteplici occasioni richiesto anche la mostra fotografica e documentaria di cui il volume era il naturale complemento.

Il mio interesse per quei fatti era nato in occasione di un  viaggio di studio a Corfù e a Cefalonia organizzato dalla Regione  Piemonte nel maggio 2002 e rivolto a un gruppo di studenti  e insegnanti delle scuole medie superiori. In quell’occasione  avevo conosciuto diversi reduci che avevano combattuto  in Grecia, in Albania e in Iugoslavia a partire dal 1940.

In  particolare vi era stato l’incontro con Donatello Viglongo e  con Mario Gelera, dell’Associazione Nazionale Divisione  Acqui, sezione Piemonte, ed era nata la proposta di lavorare  insieme per le celebrazioni che sarebbero state organizzate  l’anno successivo. Ci animava l’idea che una collaborazione  tra l’Associazione e la scuola avrebbe potuto portare positivi  risultati per le due realtà.

Le associazioni combattentistiche hanno avuto, dopo la conclusione  della guerra, il fondamentale compito di mantenere  vivi i legami tra i reduci sopravvissuti e i familiari di quelli  scomparsi e di trasmettere la memoria di quei fatti soprattutto  in occasione delle celebrazioni periodiche su scala locale e  nazionale.

Tuttavia, il passare degli anni con la progressiva scomparsa  dei testimoni diretti e la difficoltà sempre maggiore di coinvolgere  nella riflessione su questi temi i soggetti non direttamente  interessati, rischia oggi di spezzare il filo di quella memoria  che ogni generazione deve trasmettere a quella  successiva.

Ma questo è uno dei compiti più importanti che la scuola  come istituzione deve contribuire a realizzare.  Le attività alle quali demmo vita assieme, in particolare una  mostra fotografica sulla divisione Acqui e una serie di incontri  e convegni, furono dedicate principalmente al mondo della  scuola piemontese, agli adolescenti e ai giovani che non avevano  conosciuto la tragedia della Seconda guerra mondiale  di cui erano stati protagonisti o vittime gli uomini e le donne  che avrebbero potuto essere i loro nonni o bisnonni.

Era soprattutto un invito agli studenti a imparare da quegli  eventi e a non dimenticare, perché la memoria del passato è  importante per progettare il futuro e, anche se ormai può  sembrare retorico, per avere meno scuse nel caso qualcuno volesse ripetere gli stessi errori.

A distanza di dieci anni ho voluto riprendere in mano il risultato  di quel progetto. Molto è stato scritto nel frattempo. Sono usciti importanti contributi di storici accademici, di ricercatori,  di giornalisti.  L’interesse di tanti studiosi per quanto avvenuto settant’anni fa soprattutto nell’isola di Cefalonia è dovuto sicuramente alla  rilevanza di quella tragedia, che supera per numero di vittime  altre ugualmente significative, dal rastrellamento del ghetto  di Roma alla strage di Marzabotto.

Inoltre, gli ultimi presidenti  della Repubblica, prima Carlo Azeglio Ciampi nel 2001, poi  Giorgio Napolitano nel 2007, nei loro viaggi sull’isola hanno  richiamato i nessi tra le scelte fatte dai soldati italiani dopo l’8  settembre, in particolare quelle della divisione Acqui, e la  nascita della Resistenza italiana.

L’episodio della Acqui ha finito così per costituirsi come  evento paradigmatico: questi soldati, decidendo consapevolmente  il loro destino combattendo, avrebbero riaffermato  l’esistenza della Patria, compiendo il primo atto della Resistenza  al nazifascismo.

Per alcuni storici non ci sarebbe più molto da aggiungere su  quanto avvenuto a Cefalonia nel settembre 1943, in realtà i  sempre nuovi contributi dimostrano che non è ancora disponibile  una verità condivisa su quegli eventi.  Troppi sono i nodi da sciogliere sul piano storiografico e,  considerato il vuoto incolmabile della documentazione disponibile,  soprattutto da parte italiana, molti interrogativi rimarranno  senza risposta.

A cominciare dal numero delle vittime  della carneficina di Cefalonia che è ormai impossibile definire  con precisione, perché non esiste più il Diario di guerra della  Divisione, andato distrutto nel corso della battaglia.

Ma altri nodi interpretativi rimangono insoluti. Quali erano le motivazioni e gli obiettivi del comandante della divisione,  il generale Gandin? Quale fu il ruolo dei giovani capitani  che portarono la divisione a rifiutare l’ordine di disarmo tedesco?  Per quali ragioni i tedeschi non fecero prigionieri a  Cefalonia, non solo tra gli ufficiali, ma anche tra i sottufficiali  e soprattutto tra i soldati combattenti, trasformando la resa  della divisione nella più terribile strage di militari italiani  dopo l’armistizio?

Le testimonianze italiane contrastano spesso con quelle tedesche  su tutti questi aspetti appena ricordati, ma vi sono  contraddizioni e giudizi differenti anche tra quelle italiane, rilasciate  in epoche diverse e da reduci che avevano avuto ruoli  differenti nel settembre 1943 e nei due anni successivi, alcuni  collaborando con la resistenza greca o lavorando più o meno  liberamente per la Repubblica sociale di Mussolini, altri sottoposti  al dominio tedesco in varie forme.

Anche i familiari dei caduti hanno assunto spesso posizioni  contrastanti nel tentativo di difendere la memoria dei loro  congiunti o di cercare le responsabilità della loro morte, attivando  iniziative giudiziarie contro alcuni dei protagonisti sopravvissuti.

Per tutte queste ragioni la riflessione sul piano storico  è tutt’altro che conclusa.  Questo lavoro non presenta certamente contributi originali  o soluzioni inattese, ma cerca di rendere conto delle ricerche  svolte fino a questo momento, evidenziando le differenti interpretazioni  di storici e ricercatori e i contraddittori punti di  vista dei protagonisti e dei testimoni di allora, italiani, tedeschi  e greci.

Ho cercato di distinguere fatti e giudizi condivisi da quelli  su cui ancora oggi si sviluppa il confronto, presentando le diverse valutazioni con la massima precisione e correttezza che  mi è stata possibile raggiungere.

Italia, 2004, dal libro Ci resta il nome. Amos Pampaloni, ufficiale superstite della Divisione Acqui, sterminata dai tedeschi a Cefalonia e Corf nel settembre 1943. Secondo le più recenti ricerche storiche (G. Schreiber) i morti militari sull’isola furono 6500, quelli in mare, trasportati dai tedeschi come prigionieri e vittime degli affondamenti alleati, 1350.

Ciò non significa che io sia equidistante tra le differenti posizioni.  Il decennio trascorso dai primi studi mi ha spinto a  sviluppare alcune intuizioni che allora erano solo accennate,  o a cambiare, in qualche caso, opinione. L’obiettivo che mi  sono proposto è di presentare a un pubblico non specialistico  l’intera questione, a settant’anni di distanza da quei drammatici  eventi.

La ricostruzione dei fatti di Cefalonia e di Corfù è solo una parte dello studio; mi è sembrato altrettanto importante ricollocare  gli avvenimenti nel contesto più ampio, geografico  e storico delle vicende belliche che hanno visto protagonisti,  assieme ai nostri militari, gli alleati, i tedeschi, i greci; sono  anche trattate le scelte del fascismo italiano che portarono all’invasione  della Grecia e le ragioni del collasso italiano seguìto  all’armistizio dell’8 settembre 1943.

Credo che questo sia il solo modo per dare un senso ai racconti  e alle memorie individuali sulle vicende della divisione  Acqui.  Sul piano editoriale ho deciso, proprio per la natura non  specialistica di questo contributo, di non appesantire la trattazione  con il ricorso a note e a indicazioni bibliografiche  puntuali.

Le diverse interpretazioni sono in ogni caso sempre rintracciabili  attraverso l’indicazione dell’autore e del titolo dell’opera  eventualmente citata. Per lo stesso motivo sono stati eliminati  acronimi e abbreviazioni, non sempre immediatamente comprensibili  per chi non è addentro alle trattazioni storiche e  militari.

Il contesto storico degli eventi presentati è stato richiamato  ogni volta che lo si è ritenuto necessario, anche correndo il rischio  di incorrere in qualche ripetizione.

LA STRAGE DI CEFALONIA E CORFÙ
L’eccezionalità di un evento

Dopo 39 mesi di guerra a fianco della Germania nazista, il  governo italiano del maresciallo Badoglio, che ha sostituito  da poche settimane Benito Mussolini, destituito dal re Vittorio  Emanuele III il 25 luglio, sottoscrive l’armistizio con i Paesi  delle Nazioni unite, in primo luogo con gli Stati Uniti e con la  Gran Bretagna, armistizio che viene reso noto nel pomeriggio  dell’8 settembre 1943.

Immediatamente i nostri ex alleati, i  tedeschi, assumono tutte le decisioni militari per evitare che  l’abbandono della guerra da parte italiana possa costituire un  indebolimento delle proprie posizioni, in particolare nei territori  occupati comunemente dalle due potenze, come nell’area  balcanica e in Grecia.

In tutti questi territori le divisioni italiane  vengono disarmate rapidamente, con pochi tentativi di resistenza.  Fra tutte fa eccezione il comportamento di una divisione  di fanteria da montagna, la divisione Acqui comandata  dal generale Gandin, che occupava le isole greche di Corfù e  di Cefalonia.

Nel quadro degli eventi militari collegati alla proclamazione  dell’armistizio dell’8 settembre, la vicenda della divisione Acqui  a Cefalonia e Corfù resta senz’altro la più significativa, non  solo perché si tratta dell’azione più consistente di resistenza  armata ai tedeschi tra quelle attuate nei giorni immediatamente  successivi – e, almeno idealmente, può essere considerato, anche se questa interpretazione non è da tutti accettata,  uno degli atti che apre la Resistenza al nazi-fascismo – ma  perché rappresenta, per numero di vittime, la maggiore strage  perpetrata dai tedeschi nel corso della Seconda guerra mondiale  a danno di cittadini italiani e l’unico episodio in cui vengono  uccisi in massa, dopo la resa, anche i soldati.

Che cos’è avvenuto nelle Isole Ionie nel settembre  1943?

A Cefalonia vi sono tra 9.000 e 11.000 soldati e sottufficiali  italiani, gli ufficiali sarebbero secondo le valutazioni tedesche  meno di 400, gli italiani indicano tradizionalmente la cifra di  525. Un presidio tedesco di 1.800 uomini è presente sull’isola,  in una situazione di momentanea inferiorità.

Tra il 9 e l’11  settembre, su richiesta del comandante tedesco, tenente colonnello  Barge, il generale Gandin accetta di consegnare l’importante  posizione di Kardakata e il controllo del porto di  Argostoli; il giorno 11 Barge chiede di cedere le armi sulla  base dell’ordine giunto a Cefalonia dal Comando di Atene.

Gandin rifiuta e avvia una trattativa per essere rimpatriato in  Italia con le armi.  Non tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che contemporaneamente  giunga a Cefalonia l’ordine del Comando  Supremo di considerare nemici i tedeschi. Da subito sono comunque  contrari alla cessione delle armi la Marina, l’Artiglieria,  i Carabinieri e la Guardia di Finanza; dopo avere rifiutato  l’aiuto offerto dalla missione militare alleata a Cefalonia.

Gandin il 12 ordina a cinque battaglioni di Fanteria di depositare  le armi nei magazzini, ma rinuncia per la reazione che  si diffonde nei reparti e per l’opposizione di alcuni ufficiali; il 24  13 la divisione dovrebbe raccogliersi in due zone, secondo  quanto concordato con Barge, ma dopo avere diramato l’ordine,  fa rientrare i battaglioni in seguito alle richieste pressanti  del tenente colonnello Deodato, dei comandanti dei Carabinieri  e della Marina e di alcuni giovani ufficiali dell’Artiglieria.

Il generale, che aveva già richiesto e ottenuto un parere favorevole  sulla cessione delle armi agli ufficiali del Consiglio di  guerra e ai cappellani militari, consultati per conoscere il  parere della truppa, dopo che il giorno 13 le artiglierie italiane  presenti nella baia di Argostoli, sede del Comando italiano,  colpiscono due grosse zattere che cercano di sbarcare truppe  tedesche e divenuta evidente la diffusa avversione alla cessione  delle armi, decide di consultare anche i reparti sulle tre alternative  possibili: «contro i tedeschi, insieme ai tedeschi, cessione  delle armi».

Prevale tra i soldati la prima scelta, anche se vi è  la consapevolezza che i tedeschi sul continente interverranno  rapidamente in appoggio al distaccamento presente sull’isola  maggiore.  Il giorno 14 Gandin invia al Comando tedesco una «notifica  » in cui comunica che la divisione si rifiuta di accettare  l’ordine di resa e che è disposta a combattere pur di mantenere  le armi.

Il giorno successivo, mentre sono ancora in corso  trattative tra le due delegazioni, l’aviazione nemica inizia a  bombardare la città di Argostoli e le postazioni italiane, poco  dopo inizia l’attacco da terra. I combattimenti vedono una  iniziale prevalenza italiana, con la resa dei tedeschi attestati  nel capoluogo; si cerca di riconquistare le posizioni cedute ai  tedeschi nei giorni precedenti, ma con scarsi risultati e con  molte perdite, perché gli attacchi avvengono sotto i pesanti  bombardamenti degli Stukas.

Mentre dall’Italia risulta impossibile inviare aiuti, nei giorni  successivi, a ovest e a nord dell’isola, riescono a sbarcare  reparti tedeschi con armamento pesante. Dopo una settimana  di combattimenti, il giorno 22, la divisione Acqui si arrende.

Nei combattimenti muoiono centinaia di soldati italiani e decine  di ufficiali; i sopravvissuti ai combattimenti «sono trattati  secondo gli ordini del Führer» e, man mano che si arrendono  nel corso della battaglia, contrariamente a tutti i regolamenti  internazionali che definiscono i comportamenti degli eserciti  belligeranti, sono immediatamente passati per le armi.

Secondo  le valutazioni dei comandanti tedeschi e di una parte  delle fonti italiane, i caduti sono complessivamente circa 4.000,  compresi circa 200 ufficiali. Dopo la resa della divisione, avvenuta il 22 settembre, la  vendetta tedesca si concentra sugli ufficiali, che vengono separati  dai soldati e dai sottufficiali e sistematicamente eliminati:  tra il 24 e il 25 settembre, alla casetta rossa di capo San Teodoro,  nei pressi di Argostoli, capoluogo di Cefalonia, vengono fucilati  quasi tutti gli ufficiali prigionieri, forse 129 secondo i dati più  accreditati, altri sette il 25, ma probabilmente i numeri reali  sono più alti.

Si salvano dalle fucilazioni una quarantina di ufficiali, costretti  ad aderire alla Repubblica sociale italiana e quasi tutti  trasferiti in Germania in campi di addestramento. Una parte  dei corpi dei soldati uccisi, oltre agli ufficiali caduti a capo  San Teodoro, è gettata in mare all’entrata della baia di Argostoli,  mentre altre centinaia di corpi sono bruciati in grandi  falò che illuminano la notte dell’isola.

Tutti gli altri resti sono  abbandonati senza alcuna sepoltura.  Anche a Corfù il comandante, colonnello Lusignani, con  circa 4.000 uomini, decide di respingere l’ultimatum tedesco  e di combattere. Nei giorni successivi giungono due caccia- torpediniere italiani, che vengono però colpiti, gli inglesi promettono  aiuti, ma non arriveranno in tempo.

Il 24 settembre i tedeschi riescono a sbarcare in forze e il  giorno successivo gli italiani sono costretti alla resa. Nei combattimenti o in seguito alle fucilazioni avvenute immediatamente dopo la fine degli scontri muoiono 640 tra soldati, sottufficiali  e ufficiali, tra questi i colonnelli Lusignani e Bettini,  che sono fucilati assieme ad altri 19 ufficiali dopo la resa,  mentre i feriti sono 1.200, ma non vi sono i massacri di massa  di Cefalonia.

Molti uomini cercano di fuggire via mare, la maggior parte viene catturata e trasferita in Germania. Altri  soldati saranno uccisi sulle imbarcazioni utilizzate per il trasferimento  in Grecia.  Particolarmente significativo è il percorso attivato all’interno  della divisione, dopo le prime trattative formali tra i due comandanti,  per decidere di respingere l’ultimatum tedesco.

Prevesa, 23 settembre 1943. Reparti in attesa dell’imbarco per Corfù. Bundesarchiv
Koblenz.

Inizialmente  lo Stato maggiore della divisione sarebbe disposto  ad accettare l’imposizione di cedere le armi, ma alcuni reparti,  soprattutto gli artiglieri e i marinai, sono contrari, dopo che  erano giunte notizie sulle reali intenzioni dei tedeschi, che  promettevano il rimpatrio in Italia delle truppe che avessero  ceduto le armi, mentre in realtà si preparavano a deportarli  in Germania e avevano operato rappresaglie su coloro che  già si erano arresi su altre isole o sul continente.

Il generale  Gandin sceglie di consultare i reparti sulla decisione da prendere.  Le truppe esprimeranno in varie forme un orientamento  chiaro: a grandissima maggioranza decideranno di non cedere  le armi e di resistere all’imposizione tedesca.

La sorte dei sopravvissuti

Finita la strage, nelle Isole Ionie rimangono tra 9.000 e 10.000 prigionieri italiani, 5.000 dei quali sono i sopravvissuti  di Cefalonia. Altri soldati moriranno, per la fame e gli stenti,  nei centri di raccolta dell’isola, dove rimarranno circa un migliaio  di prigionieri fino alla partenza dei tedeschi, nel settembre  del 1944, o nei diversi campi di deportazione allestiti  nell’area balcanica e nell’Europa dell’Est, circa 2.500 in totale,  che seguiranno le vicissitudini degli altri 6-700.000 soldati italiani  internati dal governo tedesco.

Reimbarco dei feriti da Corfù. Bundesarchiv Koblenz.

Dei 6.400 prigionieri imbarcati  a Cefalonia per essere trasferiti sul continente, in Grecia,  di cui 2.550 provenienti da Zacinto, circa 1.350, quasi  tutti soldati sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia, moriranno  nell’affondamento di tre navi; da Corfù partiranno circa 9.100  soldati, molti però già provenienti da reparti catturati sul continente,  l’affondamento di una nave trasporto provoca molte  centinaia di morti, ma è impossibile attribuire le vittime ai reparti di origine.

Nel novembre 1944, i militari italiani rimasti  a Cefalonia, a cui si erano aggiunti uomini provenienti dal  continente, in totale circa 1.300 soldati, inquadrati nel Raggruppamento  banditi Acqui agli ordini del capitano Apollonio,  rientrano in Italia, ad eccezione di un centinaio di volontari  che continueranno la lotta assieme ai partigiani comunisti.

Alla fine della guerra, dei circa 5.000 sopravvissuti della divisione  Acqui a Cefalonia solo 3.500 saranno riusciti a tornare  in Patria.

MUSSOLINI E LA GUERRA PARALLELA:
L’ATTACCO ALLA GRECIA E L’OCCUPAZIONE
DI CEFALONIA E CORFÙ

Le ragioni dell’ingresso in guerra dell’Italia

La Seconda guerra mondiale era iniziata il 1° settembre  1939 con l’attacco tedesco alla Polonia, dopo che Hitler si era  garantito a est i buoni rapporti dell’Unione Sovietica di Stalin  attraverso l’accordo segreto firmato dai rispettivi ministri degli  Esteri, Ribbentrop e Molotov, nel mese di agosto.

Mussolini e Hitler

Nei mesi  successivi, mentre preparava lo scontro decisivo a ovest con la  Francia, che era appoggiata dalla Gran Bretagna, la Germania,  in aprile, portava a termine il piano che le garantiva il controllo  dei rifornimenti da nord, con la rapida occupazione della Danimarca  e della Norvegia. Il 10 maggio 1940 iniziava l’attacco  sul fronte occidentale, assieme al diversivo dell’occupazione  del Belgio e dell’Olanda.

L’esercito francese fu rapidamente  travolto, nel giro di quattro settimane di combattimenti la  Francia era in ginocchio e si preparava a chiedere l’armistizio.  È solo a questo punto che l’Italia di Mussolini si convinceva a  entrare in guerra: il 10 giugno, il giorno in cui il governo francese  abbandonava Parigi, veniva presentata la dichiarazione  di guerra ai rappresentanti diplomatici di Francia e Gran Bretagna.

Settembre 1937. Hitler e Mussolini a colloquio nella Cancelleria di Berlino

Mussolini non voleva lasciare solo l’amico e alleato tedesco  nell’ora del trionfo; senza l’entrata nella guerra che appariva  vicina alla conclusione, c’era il rischio ormai palese di  restare fuori dalla spartizione del bottino. Anche se il Paese  era impreparato ad affrontare una guerra vera contro le maggiori  potenze industriali occidentali, si decideva di scommettere su una rapida vittoria tedesca nel momento in cui la situazione  appariva la più propizia, senza tuttavia considerare i rapporti  di forza sul lungo periodo, quelli che alla fine decideranno il  conflitto.

L’Italia di Mussolini, se non fosse intervenuta,  avrebbe visto ridimensionato il ruolo di potenza europea e  mediterranea che si illudeva di essersi garantito con la politica  estera condotta dal 1935 e che aveva portato il Paese all’isolamento  internazionale, con la rottura dei rapporti con la Società  delle Nazioni e con le potenze occidentali, Francia, Gran Bretagna,  Stati Uniti, mentre diventava sempre più stretta l’amicizia  con la Germania di Hitler, non solo per le evidenti simpatie  ideologiche tra i due regimi, Hitler considerava Mussolini  suo maestro, ma soprattutto per la volontà dei due governi di  modificare a proprio favore l’ordine continentale uscito dalla  precedente guerra mondiale.

Se l’attacco italiano all’Impero etiopico del 1935, concluso  vittoriosamente l’anno successivo con la nascita della colonia  dell’Africa orientale italiana e la proclamazione del re Vittorio  Emanuele III imperatore d’Etiopia, continuava tardivamente  la politica imperialistica tradizionale dei governi dell’Italia  unita, da De Pretis, a Crispi, a Giolitti, in un’epoca in cui iniziavano  ad apparire le prime crepe nei sistemi coloniali delle  potenze europee, l’appoggio militare oltre che politico del regime  fascista alla ribellione di Francisco Franco contro il governo  repubblicano spagnolo si incontrava con le motivazioni  ideologiche dei fascismi europei, di cui il nazismo hitleriano  costituiva ormai la forma più estrema ed efficace.

Questi governi  facevano della lotta alla liberaldemocrazia, al socialismo  e al comunismo internazionale la ragione della loro missione.  Sarà proprio l’impegno nella guerra civile spagnola ad avviare,  nel 1936, i rapporti di collaborazione tra l’Italia fascista e la Germania nazista, per giungere alla definizione di un’alleanza  politico-militare sancita con la firma del Patto d’acciaio il 22  maggio 1939, che vincolava l’Italia alla guerra comune con  l’alleato.

Visita ufficiale di Hitler a Roma nel 1938; sul palco in prima fila da sinistra: Benito Mussolini, Adolf Hitler, Vittorio Emanuele III, Elena del Montenegro; in seconda fila, da sinistra: Joachim von Ribbentrop, Joseph Goebbels, Rudolf Hess, Heinrich Himmler

Iniziava da questo momento il conto alla rovescia che porterà all’entrata in guerra dell’Italia. Se fu decisiva la  volontà interventista del dittatore fascista, essa ottenne tuttavia  l’appoggio di Vittorio Emanuele III, della casta militare rappresentata  dal maresciallo Badoglio, degli ambienti industriali  e finanziari, mentre la gran parte della popolazione appariva  assai più tiepida se non ostile a un impegno militare e manifestò  questo sentimento pacifista in varie occasioni tra il 1938 e il  1939, in particolare dopo l’apparente successo della Conferenza  di Monaco, in cui Mussolini aveva svolto la parte del  mediatore.

Una guerra italiana che finisce male

Nell’intenzione del regime mussoliniano, «Si entrerà in  guerra non con la Germania, non per la Germania, ma per  l’Italia a fianco della Germania»; è l’illusione della guerra parallela,  di una politica di espansione autonoma come potenza  mediterranea che possa affiancarsi alle vittorie tedesche, che  a mano a mano diventano sempre più imbarazzanti e pericolose  per i governanti e i capi militari italiani.

La guerra parallela  dell’Italia mussoliniana si realizza allargando l’impegno militare  a sempre nuovi fronti: dopo l’anteprima dell’occupazione  dell’Albania, nell’aprile del 1939, viene l’attacco alla Francia  del 1940, quindi le offensive improvvide e improvvisate contro la presenza inglese in Africa orientale – in Sudan, in Kenia, nella Somalia britannica nei mesi di luglio e agosto, e in Egitto,  a settembre, territori che si vorrebbe annettere in caso di sconfitta della Gran Bretagna – fino all’aggressione alla Grecia,  nell’ottobre del 1940, primo obiettivo dell’espansione nei Balcani.

Diverso è il contesto dell’intervento in Russia a fianco della  Germania. Hitler aveva rinunciato all’invasione dell’Inghilterra:  dopo il fallimento dell’attacco aereo condotto nell’estate  del 1940, la guerra era ferma in Occidente. È in questa situazione di stallo che decide l’attacco a est, all’Unione Sovietica  di Stalin, nel giugno 1941.

Hitler e Mussolini a Villa Gaggia di Feltre

Mussolini decide così l’invio di un  Corpo di spedizione italiano in Russia di 60.000 uomini nell’estate  del 1941, trasformato poi in Armata italiana in Russia  (ARM.I.R.), forte di 227.000 tra ufficiali e soldati, nel corso  del 1942. L’Italia si ritrova a seguire l’alleato in condizioni di  totale subordinazione, senza avere più proprî obiettivi autonomi.

La scelta di allargare il conflitto a sempre nuove aree di intervento  e di disperdere le poche, male armate e impreparate  forze militari italiane si rivela una decisione strategica disastrosa,  che terminerà con un fallimento totale del regime e  con la tragedia di un esercito e di un Paese.

L’attacco a tradimento alla Francia, per alcuni: «la pugnalata alla schiena», mentre Salvemini dirà: «Non tradimento, ma  colpo inferto a uno che si trova sul letto di morte», quando  ormai i cugini d’oltralpe erano sul punto di arrendersi, si  rivela per l’Italia una quasi débâcle: l’offensiva lanciata sulle  Alpi non riesce ad avanzare che per poche centinaia di metri  e trova la salda resistenza delle truppe francesi, nonostante  nel resto del paese i tedeschi stiano già travolgendo le loro armate  migliori.

Una brutta figura militare che non aggiunge molto al giudizio morale che si può dare della dichiarazione di guerra alla nazione che aveva garantito la nostra unione nazionale e in cui lavoravano 800.000 nostri cittadini.

Adolf Hitler, con Hermann Göring (a sinistra) e Albert Speer (a destra), durante l’estate 1943, dopo la caduta di Mussolini.

In Africa orientale ogni presenza militare italiana è eliminata entro il maggio 1941, con l’eccezione di un’isolata resistenza a Gondar che continuerà fino a novembre. In Nordafrica le scarse truppe inglesi riescono in poco tempo a ricacciare indietro  quelle italiane, conquistando la Cirenaica libica e facendo  130.000 prigionieri; il successivo intervento di un corpo  d’armata tedesco guidato dal maresciallo Rommel permette  di conseguire alcuni successi anche significativi, ma l’offensiva  italo-tedesca si infrange definitivamente a El Alamein, nell’ottobre  del 1942.

Pochi mesi dopo, nel maggio 1943, le  truppe dell’Asse sono cacciate dall’Africa settentrionale, dopo  un’ultima resistenza in Tunisia, dove si arrendono 160.000  soldati italiani.  La presenza italiana sul fronte del Don, nella Russia meridionale,  sarà travolta, assieme alle armate tedesche, nel corso  dell’offensiva condotta dai sovietici nell’inverno del 1942.

Durante  la cosiddetta «ritirata del Don», nel gennaio-febbraio  1943, l’ARMIR andrà quasi completamente distrutta, i caduti  e i dispersi sono 85.000, i feriti e i congelati 30.000, i prigionieri  dei russi 60.000, dei quali solo 10.000 sopravvivono ai trasferimenti  forzati e alla prigionia.

Hitler

Con la conclusione dell’avventura russa e poi con la sconfitta  delle truppe in Africa settentrionale, l’Italia si ritrova in prima  linea e si avvicina la fine del regime di Mussolini. Il 10 luglio  1943, le truppe alleate sbarcano nel sud-est della Sicilia; l’occupazione  dell’isola è completata solo il 17 agosto, dopo una  scarsa resistenza dei soldati italiani; nel corso della campagna  di Sicilia gli alleati fanno 125.000 prigionieri.

Intanto il 25 luglio  Mussolini è prima accusato dei cattivi risultati militari e messo in minoranza in una riunione del Gran Consiglio del  Fascismo, quindi destituito dal re, che nomina in sua vece il vecchio maresciallo Badoglio, emarginato dai tempi della campagna  di Grecia. L’8 settembre, data dello sbarco alleato a  Salerno, viene comunicata l’avvenuta firma dell’armistizio.

L’attacco alla Grecia: una scelta avventata

Nei colloqui con Mussolini, Hitler si era dichiarato contrario  a un’offensiva italiana nei Balcani perché avrebbe messo in  difficoltà i suoi piani di attacco alla Russia con l’apertura di  un fronte non essenziale per i proprî progetti e in un settore  dove la Germania preferiva evitare l’intervento militare diretto  a favore di un controllo indiretto, attraverso governi amici, di  quello che considerava il retroterra naturale del futuro fronte  orientale.

L’Italia invece considerava la Iugoslavia e la Grecia  tra i principali obiettivi della sua politica di aggressione;  l’espansione a est costituiva in effetti un argomento tradizionale della politica e dell’ideologia nazionalista, che mirava soprattutto  a destabilizzare la Iugoslavia, principale ostacolo alla  penetrazione nei Balcani.

Intanto, però, si era assistito, fin dal 1933, a una crescente presenza economica e politica dell’alleato tedesco nell’area balcanica, in particolare in Romania e in Bulgaria, mentre  l’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1938, comportava  una crisi di tutta la politica condotta dal fascismo in quell’area  fino ad allora e rivelava come fosse la Germania il vero avversario,  oltre ovviamente alla Gran Bretagna, che vantava un’influenza  tradizionale nel Mediterraneo centrale, proprio in  concorrenza con l’Italia.

Le delusioni subìte nella prima fase della guerra, con le rapide  vittorie tedesche e la magra figura fatta fino ad allora  dalle forze italiane, avevano acuito il senso di frustrazione e di  inferiorità del dittatore italiano nei confronti del collega tedesco.

Mentre l’esercito, dopo la resa della Francia, smobilitava  metà delle divisioni concentrate nella pianura padana, il  gruppo dirigente italiano – dal re Vittorio Emanuele III, al  Duce, al ministro degli Esteri Ciano, al capo di Stato maggiore  Badoglio – si convinceva della necessità di trovare uno spazio  alla nostra politica di potenza, una rivincita sul piano internazionale,  grazie a un’impresa militare che appariva, almeno  sulla carta, facile: la conquista della Grecia.

Partigiani impiccati dai fascisti nell’ex Jugoslavia

All’Italia mancava,  tuttavia, proprio quella efficiente forza militare che le avrebbe  permesso di sostenere le ambizioni internazionali, senza questa  forza si trattava piuttosto di una strategia velleitaria e rischiosa. Infatti l’inizio della crisi del regime può farsi risalire proprio
all’attacco alla Grecia.  Il 28 ottobre del 1940 il Governo italiano presenta alla Grecia  un ultimatum impossibile da soddisfare. Non vi sono vere  motivazioni strategiche: il governo del dittatore Metaxas si barcamenava tra l’influenza anche ideologica dei paesi dell’Asse  e la presenza della Gran Bretagna nel Mediterraneo,  senza costituire un vero problema per i progetti continentali  italiani e tedeschi.

Volantino a colori diffuso dai fascisti in Valsugana

Non vi è una preparazione militare adeguata, ma una decisa sottovalutazione delle forze del nemico,  sia militari sia politiche, con piani di invasione improvvisati,  ritenendo che il governo nemico fosse incapace di reagire e  che la popolazione greca non si sarebbe opposta all’occupazione.

Metaxas si rende conto che la guerra è inevitabile. Egli  si aspetta l’attacco dall’Albania e un’invasione dal mare, per questo chiede l’intervento della flotta inglese, ma sa che lo scontro è deciso, si combatterà solo per l’onore.

La resistenza greca e lo sbandamento italiano

Invece la sorte della Grecia non è ancora decisa: l’offensiva  italiana sarà condotta solo dall’Albania, senza l’intervento  della Marina e dell’Aeronautica, con forze male organizzate  e numericamente non superiori a quelle dei difensori greci,  con la differenza che i soldati greci sono motivati perché combattono  per la difesa della Patria, mentre i nostri soldati non  sono preparati a una lotta dura e sanguinosa, non hanno l’addestramento  e l’armamento necessario, ma soprattutto manca  una direzione politica e militare all’altezza del compito.

La popolazione greca reagisce all’invasione aiutando con  tutte le forze il proprio esercito, un’ondata di patriottismo sostiene  il governo Metaxas nell’azione di difesa, in certi casi la  popolazione civile partecipa direttamente alla lotta. Lo stesso  Mussolini, dopo le previsioni ottimistiche ma illusorie sul presunto  rapido cedimento del fronte interno nemico, afferma:  «I greci odiano l’Italia come nessun altro popolo. È un odio che  appare a prima vista inspiegabile, ma è generale, profondo,  inguaribile, in tutte le classi, nelle città, nei villaggi, in alto, in basso,  dovunque. Il perché è un mistero».

Dopo il fallimento della prima offensiva italiana, ai primi di  novembre i greci passano alla controffensiva, respingendo  oltre i vecchi confini il nemico, e penetrano rapidamente in  Albania. Le divisioni italiane sono allo sbando; mentre la ritirata  continua e rischia da un momento all’altro di trasformarsi  in una vera e propria rotta, Mussolini decide di sostituire il comandante delle truppe in Albania.

Anche il capo di Stato maggiore Badoglio paga per la sconfitta sul fronte greco, ai  primi di dicembre lascia il comando al generale Ugo Cavallero,  che riesce, complice l’arrivo dell’inverno e la stanchezza dei  greci, a stabilizzare il fronte, evitando la catastrofe che ai primi  di dicembre sembrava ormai imminente.

Le perdite italiane  ammontano, finora, a quasi 6.000 caduti, tra ufficiali e soldati.  L’illusione della guerra parallela è, alla fine del 1940, ormai  scomparsa. Gli italiani, da soli, non sono in grado di raggiungere
né in Grecia né in Nordafrica gli obiettivi, chiaramente  fuori della loro portata, che si sono posti.

La Germania evita il disastro

Il 18 gennaio Mussolini si incontra con Hitler a Berghoff.  Hitler presenta il progetto di attacco alla Grecia dalla Romania  per il mese di aprile, ma Mussolini chiede, per ragioni di immagine,  che sia l’Italia per prima ad assicurarsi una vittoria  sul campo. Intanto la presenza italiana, nei mesi invernali, si  rafforza, fino a raggiungere la superiorità numerica sulle truppe  greche, che dal canto loro cominciano a ricevere aiuti dalla  Gran Bretagna.

Il 2 marzo, in attesa della ripresa dell’offensiva,  Mussolini vola in Albania per passare in rassegna le truppe. Il  9 marzo inizia l’attacco; dopo un iniziale successo, però, la  spinta offensiva si esaurisce con pochi risultati; c’è un nuovo  tentativo di sfondare il 13, ma appare chiaro che le truppe  italiane non sono in grado di spezzare la resistenza greca. Rimangono  sul campo altri 12.000 soldati tra morti e feriti.

Nazismo e fascismo, insieme nello stesso simbolo

Nel volgere di poche settimane l’intera situazione politico-militare  dei Balcani muta a favore della Germania. L’Ungheria  è favorevole al passaggio delle truppe tedesche. La Bulgaria e la Romania collaboreranno con i tedeschi all’invasione della  Grecia. Il governo iugoslavo cerca di trattare con l’Italia, poi  deve riconoscere il predominio germanico autorizzandone il  passaggio dell’esercito verso sud.

Il popolo iugoslavo, però,  alla notizia dell’accordo insorge; nasce un nuovo governo che  cerca di tranquillizzare Hitler sul mantenimento degli accordi,  mentre tratta segretamente con la Russia e con la Gran Bretagna;  i due dittatori decidono l’invasione della Iugoslavia. Belgrado è bombardata, truppe tedesche entrano dall’Austria,  dalla Romania, dalla Bulgaria.

Quando l’esercito iugoslavo sta ormai cedendo, anche l’armata  italiana pronta al confine orientale attacca, in direzione  di Lubiana. Gli italiani entrano in Montenegro e occupano  da nord e dall’Albania il litorale della Dalmazia.

Il 17 aprile  la Iugoslavia firma l’armistizio. Intanto anche la Grecia è invasa, i tedeschi entrano dalla Bulgaria e dalla Iugoslavia, gli  italiani dall’Albania. A partire dal 12 aprile il fronte greco  cede davanti a Salonicco, in Macedonia, in Tessaglia, nell’Epiro.

Una vittoria umiliante per l’Italia

Il 20 aprile, il governo greco offre la resa ai tedeschi, che si  accordano all’insaputa degli italiani sul ritorno ai vecchi confini.  I greci non vogliono firmare un armistizio con gli italiani  dai quali non si sentono sconfitti; intanto, le truppe tedesche  cominciano a interporsi tra quelle greche e le nostre, che in  più punti vengono fermate a rischio di gravi incidenti. La  Grecia è stata vinta dalle divisioni tedesche, ma l’Italia non  vuole rimanere fuori dalla spartizione, il colpo alla propria  credibilità sarebbe irrecuperabile.

Mussolini protesta violentemente col collega tedesco, rivendicando i meriti del nostro  esercito nel logorare i greci e negando che questi abbiano in  alcun modo vinto la guerra contro di noi. Il successo tedesco  sarebbe giunto solo perché preparato dalle nostre offensive  precedenti.

È una versione che fa a pugni con la verità. Solo l’intervento  tedesco ha tolto Mussolini e l’Esercito da una situazione gravissima  e quasi irrimediabile. Il 23 l’armistizio è firmato, per  volontà diretta di Hitler è presente anche un rappresentante  dell’Italia.

Churchill, il primo ministro inglese, intervenendo alla Camera  dei Comuni commenta:
«Con uno speciale proclama il dittatore italiano si è congratulato  con l’esercito italiano in Albania per gli allori gloriosi che ha  conquistato con la sua vittoria sui greci. Questo è senz’altro il  record mondiale nel campo del ridicolo e dello spregevole. Questo  sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvare la sua pelle ha reso  l’Italia uno Stato vassallo dell’impero di Hitler viene a far capriole  al fianco della tigre tedesca con latrati non solo di appetito, il che si  potrebbe comprendere, ma anche di trionfo».

L’offensiva di aprile nei Balcani permette all’Italia di occupare  direttamente alcuni territori e di esercitare una certa influenza  politica su altri, anche se si tratta di dividere coi tedeschi  l’effettivo dominio e lo sfruttamento delle risorse  economiche, che quasi sempre vengono accaparrate dall’alleato,  lasciando le briciole all’Italia, mentre il costo dell’occupazione  grava pesantemente sulle truppe.

Sono 650.000 i soldati  italiani impegnati nell’occupazione delle terre balcaniche,  cioè la metà circa delle grandi unità dell’Esercito. Per l’Italia  sono assai scarsi i vantaggi effettivi di questa occupazione, non ve ne sono quanto a maggiori risorse, non ve ne sono di  strategici.

L’Italia annette la provincia di Lubiana, cioè la parte meridionale della Slovenia, e formalmente esercita il protettorato  sulla Croazia, anche se le principali risorse, soprattutto minerarie,  sono privilegio dei tedeschi; gran parte della costa della  Dalmazia viene annessa all’Italia, come anche il territorio di  Fiume. Le province annesse subiscono una brutale opera di  italianizzazione forzata, non disgiunta da una propaganda  che si confonde col razzismo antislavo.

Nascono bande armate  fasciste che usano lo squadrismo per intimorire la popolazione  e favorire l’esodo degli indesiderati. Iniziano le prime azioni di resistenza, mentre il governatore italiano minaccia deportazioni  di massa e i tribunali speciali e militari decidono le  prime condanne a morte di patrioti.

Anche il Montenegro  viene rapidamente occupato; c’è un tentativo di costituire un  governo collaborazionista, ma intanto in luglio le formazioni  partigiane, sia i nazionalisti cetnici sia le formazioni comuniste  di Tito, attaccano i presidî italiani. In tutti i territori già iugoslavi  la presenza militare italiana sarà per i successivi due anni  quella di truppe di occupazione, con una repressione sempre  più dura e feroce, rappresaglie sulla popolazione civile, deportazioni,  fucilazioni.

Non sempre si distingue la ferocia degli  italiani da quella dei tedeschi. Anche l’Albania diventa terra  di occupazione e di repressione per le nostre truppe, dopo  che in settembre era scoppiata la rivolta guidata dal Fronte di  liberazione diretto dai comunisti. Inglesi, americani e russi  appoggiano la resistenza albanese.

L’occupazione italo-tedesca

Nei colloqui avvenuti in aprile e nel novembre 1941 tra Galeazzo  Ciano, ministro degli Esteri italiano, e Ribbentrop, il  collega tedesco, la Grecia è considerata, almeno sulla carta,  area d’influenza italiana, ma la realtà è diversa, in quanto i  tedeschi dànno per scontata la loro prevalenza sul piano economico,  provocando continue recriminazioni da parte italiana.

Il Paese subisce l’occupazione dell’Italia, della Germania e della Bulgaria. L’Italia, in particolare, annette formalmente  le Isole Ionie, tra queste Corfù e Cefalonia, imponendo la  propria amministrazione, compresa una nuova moneta, la  dracma ionica, mentre ad Atene nasce un governo collaborazionista  guidato da Tsolakoglu, a cui è demandato il mantenimento  dell’ordine pubblico e la gestione amministrativa.

Ma  il rapporto tra il governo collaborazionista e i due paesi occupanti  è ambiguo; i greci preferiscono mantenere, finché è possibile, un rapporto privilegiato con i tedeschi, che appaiono, almeno in una prima fase, meno invisi alla popolazione rispetto  agli italiani, gli aggressori del 1940 che si erano annessi le  Isole Ionie.

Anche se all’inizio i tedeschi tendono a interporsi  tra gli italiani e i greci, la realtà dell’occupazione e l’appoggio  dato ai bulgari nell’annessione della Tracia orientale renderà  presto anch’essi poco popolari.

L’occupazione è attuata in collaborazione da italiani e tedeschi,  ma sono questi ultimi che avviano una politica di  rapina nei confronti dell’economia e delle risorse del Paese,  tale da portare alla miseria e alla fame la popolazione, mentre  crollano le strutture economiche, a partire dalla moneta e  dalla Banca nazionale greca.

Particolarmente drammatico risulta  il fenomeno dell’inflazione, innescato dalla crisi finanziaria  provocata dalle ingenti risorse assorbite dalle opere militari richieste dai tedeschi a carico del governo collaborazionista.  Gli italiani vorrebbero limitare il dramma della popolazione  ma mancano delle risorse necessarie per alleviare la carestia,  né riescono a frenare l’esosità delle richieste alleate.

La  mortalità per inedia dilaga nel paese. In queste condizioni, nell’aprile del 1942 iniziano le azioni armate del Fronte di liberazione,  prima nell’Argolide, poi nella zona del Pindo; tra  l’autunno del 1942 e i primi mesi dell’anno successivo la pressione  partigiana si fa più consistente, tanto da indurre gli italiani  a richiedere un maggiore impegno repressivo da parte  del governo collaborazionista.

Nella scelta del capo del nuovo  governo si impone il candidato proposto dai tedeschi, Rhallis; gli stessi responsabili tedeschi cominciano a pensare all’estromissione  dell’autorità italiana, da sostituire con la gestione diretta  del territorio da parte del generale Löhr, comandante  supremo del settore sud-est, quello balcanico.

Questa soluzione, per il momento, appare politicamente improponibile, perché metterebbe fuori gioco il principale alleato, che considera  l’influenza nei Balcani il principale risultato dell’intera  guerra di aggressione condotta dal 1940, ma sembra già prefigurare  la situazione di fatto che si verrà a creare con l’armistizio  dell’8 settembre.

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