a cura di Cornelio Galas
Riavvolgiamo, virtualmente la pellicola della tragedia di Cefalonia. E torniamo quindi al primo volume di Carlo Palumbo: Si tratta essenzialmente – e l’autore, lo storico, lo fa con efficacia e massima aderenza ai (pochi) documenti dell’epoca – di capire come si arriva al dramma della divisione Acqui. Ma anche ad altre vicende terribili (Corfù, ad esempio) di quel 1943, in quelle isole greche.
di Carlo Palumbo (prefazione)
Il presente studio costituisce il coerente sviluppo di un recedente lavoro dal titolo Ritorno a Cefalonia e Corfù – La scelta della divisione Acqui dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, pubblicato nel 2003 grazie al patrocinio del Consiglio Regionale del Piemonte, in occasione del Sessantesimo anniversario delle tragiche vicende che avevano coinvolto, dopo l’armistizio, i soldati della divisione Acqui e degli altri reparti di stanza nelle Isole Ionie.
Erano poi venute altre ristampe, prima a cura della Provincia di Bergamo e del Comune di Lovere, poi col contributo della Provincia di Trento. Ad apprezzare il progetto erano state soprattutto le varie sezioni locali dell’Associazione Nazionale Divisione Acqui, che avevano in molteplici occasioni richiesto anche la mostra fotografica e documentaria di cui il volume era il naturale complemento.
Il mio interesse per quei fatti era nato in occasione di un viaggio di studio a Corfù e a Cefalonia organizzato dalla Regione Piemonte nel maggio 2002 e rivolto a un gruppo di studenti e insegnanti delle scuole medie superiori. In quell’occasione avevo conosciuto diversi reduci che avevano combattuto in Grecia, in Albania e in Iugoslavia a partire dal 1940.
In particolare vi era stato l’incontro con Donatello Viglongo e con Mario Gelera, dell’Associazione Nazionale Divisione Acqui, sezione Piemonte, ed era nata la proposta di lavorare insieme per le celebrazioni che sarebbero state organizzate l’anno successivo. Ci animava l’idea che una collaborazione tra l’Associazione e la scuola avrebbe potuto portare positivi risultati per le due realtà.
Le associazioni combattentistiche hanno avuto, dopo la conclusione della guerra, il fondamentale compito di mantenere vivi i legami tra i reduci sopravvissuti e i familiari di quelli scomparsi e di trasmettere la memoria di quei fatti soprattutto in occasione delle celebrazioni periodiche su scala locale e nazionale.
Tuttavia, il passare degli anni con la progressiva scomparsa dei testimoni diretti e la difficoltà sempre maggiore di coinvolgere nella riflessione su questi temi i soggetti non direttamente interessati, rischia oggi di spezzare il filo di quella memoria che ogni generazione deve trasmettere a quella successiva.
Ma questo è uno dei compiti più importanti che la scuola come istituzione deve contribuire a realizzare. Le attività alle quali demmo vita assieme, in particolare una mostra fotografica sulla divisione Acqui e una serie di incontri e convegni, furono dedicate principalmente al mondo della scuola piemontese, agli adolescenti e ai giovani che non avevano conosciuto la tragedia della Seconda guerra mondiale di cui erano stati protagonisti o vittime gli uomini e le donne che avrebbero potuto essere i loro nonni o bisnonni.
Era soprattutto un invito agli studenti a imparare da quegli eventi e a non dimenticare, perché la memoria del passato è importante per progettare il futuro e, anche se ormai può sembrare retorico, per avere meno scuse nel caso qualcuno volesse ripetere gli stessi errori.
A distanza di dieci anni ho voluto riprendere in mano il risultato di quel progetto. Molto è stato scritto nel frattempo. Sono usciti importanti contributi di storici accademici, di ricercatori, di giornalisti. L’interesse di tanti studiosi per quanto avvenuto settant’anni fa soprattutto nell’isola di Cefalonia è dovuto sicuramente alla rilevanza di quella tragedia, che supera per numero di vittime altre ugualmente significative, dal rastrellamento del ghetto di Roma alla strage di Marzabotto.
Inoltre, gli ultimi presidenti della Repubblica, prima Carlo Azeglio Ciampi nel 2001, poi Giorgio Napolitano nel 2007, nei loro viaggi sull’isola hanno richiamato i nessi tra le scelte fatte dai soldati italiani dopo l’8 settembre, in particolare quelle della divisione Acqui, e la nascita della Resistenza italiana.
L’episodio della Acqui ha finito così per costituirsi come evento paradigmatico: questi soldati, decidendo consapevolmente il loro destino combattendo, avrebbero riaffermato l’esistenza della Patria, compiendo il primo atto della Resistenza al nazifascismo.
Per alcuni storici non ci sarebbe più molto da aggiungere su quanto avvenuto a Cefalonia nel settembre 1943, in realtà i sempre nuovi contributi dimostrano che non è ancora disponibile una verità condivisa su quegli eventi. Troppi sono i nodi da sciogliere sul piano storiografico e, considerato il vuoto incolmabile della documentazione disponibile, soprattutto da parte italiana, molti interrogativi rimarranno senza risposta.
A cominciare dal numero delle vittime della carneficina di Cefalonia che è ormai impossibile definire con precisione, perché non esiste più il Diario di guerra della Divisione, andato distrutto nel corso della battaglia.
Ma altri nodi interpretativi rimangono insoluti. Quali erano le motivazioni e gli obiettivi del comandante della divisione, il generale Gandin? Quale fu il ruolo dei giovani capitani che portarono la divisione a rifiutare l’ordine di disarmo tedesco? Per quali ragioni i tedeschi non fecero prigionieri a Cefalonia, non solo tra gli ufficiali, ma anche tra i sottufficiali e soprattutto tra i soldati combattenti, trasformando la resa della divisione nella più terribile strage di militari italiani dopo l’armistizio?
Le testimonianze italiane contrastano spesso con quelle tedesche su tutti questi aspetti appena ricordati, ma vi sono contraddizioni e giudizi differenti anche tra quelle italiane, rilasciate in epoche diverse e da reduci che avevano avuto ruoli differenti nel settembre 1943 e nei due anni successivi, alcuni collaborando con la resistenza greca o lavorando più o meno liberamente per la Repubblica sociale di Mussolini, altri sottoposti al dominio tedesco in varie forme.
Anche i familiari dei caduti hanno assunto spesso posizioni contrastanti nel tentativo di difendere la memoria dei loro congiunti o di cercare le responsabilità della loro morte, attivando iniziative giudiziarie contro alcuni dei protagonisti sopravvissuti.
Per tutte queste ragioni la riflessione sul piano storico è tutt’altro che conclusa. Questo lavoro non presenta certamente contributi originali o soluzioni inattese, ma cerca di rendere conto delle ricerche svolte fino a questo momento, evidenziando le differenti interpretazioni di storici e ricercatori e i contraddittori punti di vista dei protagonisti e dei testimoni di allora, italiani, tedeschi e greci.
Ho cercato di distinguere fatti e giudizi condivisi da quelli su cui ancora oggi si sviluppa il confronto, presentando le diverse valutazioni con la massima precisione e correttezza che mi è stata possibile raggiungere.
Ciò non significa che io sia equidistante tra le differenti posizioni. Il decennio trascorso dai primi studi mi ha spinto a sviluppare alcune intuizioni che allora erano solo accennate, o a cambiare, in qualche caso, opinione. L’obiettivo che mi sono proposto è di presentare a un pubblico non specialistico l’intera questione, a settant’anni di distanza da quei drammatici eventi.
La ricostruzione dei fatti di Cefalonia e di Corfù è solo una parte dello studio; mi è sembrato altrettanto importante ricollocare gli avvenimenti nel contesto più ampio, geografico e storico delle vicende belliche che hanno visto protagonisti, assieme ai nostri militari, gli alleati, i tedeschi, i greci; sono anche trattate le scelte del fascismo italiano che portarono all’invasione della Grecia e le ragioni del collasso italiano seguìto all’armistizio dell’8 settembre 1943.
Credo che questo sia il solo modo per dare un senso ai racconti e alle memorie individuali sulle vicende della divisione Acqui. Sul piano editoriale ho deciso, proprio per la natura non specialistica di questo contributo, di non appesantire la trattazione con il ricorso a note e a indicazioni bibliografiche puntuali.
Le diverse interpretazioni sono in ogni caso sempre rintracciabili attraverso l’indicazione dell’autore e del titolo dell’opera eventualmente citata. Per lo stesso motivo sono stati eliminati acronimi e abbreviazioni, non sempre immediatamente comprensibili per chi non è addentro alle trattazioni storiche e militari.
Il contesto storico degli eventi presentati è stato richiamato ogni volta che lo si è ritenuto necessario, anche correndo il rischio di incorrere in qualche ripetizione.
LA STRAGE DI CEFALONIA E CORFÙ
L’eccezionalità di un evento
Dopo 39 mesi di guerra a fianco della Germania nazista, il governo italiano del maresciallo Badoglio, che ha sostituito da poche settimane Benito Mussolini, destituito dal re Vittorio Emanuele III il 25 luglio, sottoscrive l’armistizio con i Paesi delle Nazioni unite, in primo luogo con gli Stati Uniti e con la Gran Bretagna, armistizio che viene reso noto nel pomeriggio dell’8 settembre 1943.
Immediatamente i nostri ex alleati, i tedeschi, assumono tutte le decisioni militari per evitare che l’abbandono della guerra da parte italiana possa costituire un indebolimento delle proprie posizioni, in particolare nei territori occupati comunemente dalle due potenze, come nell’area balcanica e in Grecia.
In tutti questi territori le divisioni italiane vengono disarmate rapidamente, con pochi tentativi di resistenza. Fra tutte fa eccezione il comportamento di una divisione di fanteria da montagna, la divisione Acqui comandata dal generale Gandin, che occupava le isole greche di Corfù e di Cefalonia.
Nel quadro degli eventi militari collegati alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre, la vicenda della divisione Acqui a Cefalonia e Corfù resta senz’altro la più significativa, non solo perché si tratta dell’azione più consistente di resistenza armata ai tedeschi tra quelle attuate nei giorni immediatamente successivi – e, almeno idealmente, può essere considerato, anche se questa interpretazione non è da tutti accettata, uno degli atti che apre la Resistenza al nazi-fascismo – ma perché rappresenta, per numero di vittime, la maggiore strage perpetrata dai tedeschi nel corso della Seconda guerra mondiale a danno di cittadini italiani e l’unico episodio in cui vengono uccisi in massa, dopo la resa, anche i soldati.
Che cos’è avvenuto nelle Isole Ionie nel settembre 1943?
A Cefalonia vi sono tra 9.000 e 11.000 soldati e sottufficiali italiani, gli ufficiali sarebbero secondo le valutazioni tedesche meno di 400, gli italiani indicano tradizionalmente la cifra di 525. Un presidio tedesco di 1.800 uomini è presente sull’isola, in una situazione di momentanea inferiorità.
Tra il 9 e l’11 settembre, su richiesta del comandante tedesco, tenente colonnello Barge, il generale Gandin accetta di consegnare l’importante posizione di Kardakata e il controllo del porto di Argostoli; il giorno 11 Barge chiede di cedere le armi sulla base dell’ordine giunto a Cefalonia dal Comando di Atene.
Gandin rifiuta e avvia una trattativa per essere rimpatriato in Italia con le armi. Non tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che contemporaneamente giunga a Cefalonia l’ordine del Comando Supremo di considerare nemici i tedeschi. Da subito sono comunque contrari alla cessione delle armi la Marina, l’Artiglieria, i Carabinieri e la Guardia di Finanza; dopo avere rifiutato l’aiuto offerto dalla missione militare alleata a Cefalonia.
Gandin il 12 ordina a cinque battaglioni di Fanteria di depositare le armi nei magazzini, ma rinuncia per la reazione che si diffonde nei reparti e per l’opposizione di alcuni ufficiali; il 24 13 la divisione dovrebbe raccogliersi in due zone, secondo quanto concordato con Barge, ma dopo avere diramato l’ordine, fa rientrare i battaglioni in seguito alle richieste pressanti del tenente colonnello Deodato, dei comandanti dei Carabinieri e della Marina e di alcuni giovani ufficiali dell’Artiglieria.
Il generale, che aveva già richiesto e ottenuto un parere favorevole sulla cessione delle armi agli ufficiali del Consiglio di guerra e ai cappellani militari, consultati per conoscere il parere della truppa, dopo che il giorno 13 le artiglierie italiane presenti nella baia di Argostoli, sede del Comando italiano, colpiscono due grosse zattere che cercano di sbarcare truppe tedesche e divenuta evidente la diffusa avversione alla cessione delle armi, decide di consultare anche i reparti sulle tre alternative possibili: «contro i tedeschi, insieme ai tedeschi, cessione delle armi».
Prevale tra i soldati la prima scelta, anche se vi è la consapevolezza che i tedeschi sul continente interverranno rapidamente in appoggio al distaccamento presente sull’isola maggiore. Il giorno 14 Gandin invia al Comando tedesco una «notifica » in cui comunica che la divisione si rifiuta di accettare l’ordine di resa e che è disposta a combattere pur di mantenere le armi.
Il giorno successivo, mentre sono ancora in corso trattative tra le due delegazioni, l’aviazione nemica inizia a bombardare la città di Argostoli e le postazioni italiane, poco dopo inizia l’attacco da terra. I combattimenti vedono una iniziale prevalenza italiana, con la resa dei tedeschi attestati nel capoluogo; si cerca di riconquistare le posizioni cedute ai tedeschi nei giorni precedenti, ma con scarsi risultati e con molte perdite, perché gli attacchi avvengono sotto i pesanti bombardamenti degli Stukas.
Mentre dall’Italia risulta impossibile inviare aiuti, nei giorni successivi, a ovest e a nord dell’isola, riescono a sbarcare reparti tedeschi con armamento pesante. Dopo una settimana di combattimenti, il giorno 22, la divisione Acqui si arrende.
Nei combattimenti muoiono centinaia di soldati italiani e decine di ufficiali; i sopravvissuti ai combattimenti «sono trattati secondo gli ordini del Führer» e, man mano che si arrendono nel corso della battaglia, contrariamente a tutti i regolamenti internazionali che definiscono i comportamenti degli eserciti belligeranti, sono immediatamente passati per le armi.
Secondo le valutazioni dei comandanti tedeschi e di una parte delle fonti italiane, i caduti sono complessivamente circa 4.000, compresi circa 200 ufficiali. Dopo la resa della divisione, avvenuta il 22 settembre, la vendetta tedesca si concentra sugli ufficiali, che vengono separati dai soldati e dai sottufficiali e sistematicamente eliminati: tra il 24 e il 25 settembre, alla casetta rossa di capo San Teodoro, nei pressi di Argostoli, capoluogo di Cefalonia, vengono fucilati quasi tutti gli ufficiali prigionieri, forse 129 secondo i dati più accreditati, altri sette il 25, ma probabilmente i numeri reali sono più alti.
Si salvano dalle fucilazioni una quarantina di ufficiali, costretti ad aderire alla Repubblica sociale italiana e quasi tutti trasferiti in Germania in campi di addestramento. Una parte dei corpi dei soldati uccisi, oltre agli ufficiali caduti a capo San Teodoro, è gettata in mare all’entrata della baia di Argostoli, mentre altre centinaia di corpi sono bruciati in grandi falò che illuminano la notte dell’isola.
Tutti gli altri resti sono abbandonati senza alcuna sepoltura. Anche a Corfù il comandante, colonnello Lusignani, con circa 4.000 uomini, decide di respingere l’ultimatum tedesco e di combattere. Nei giorni successivi giungono due caccia- torpediniere italiani, che vengono però colpiti, gli inglesi promettono aiuti, ma non arriveranno in tempo.
Il 24 settembre i tedeschi riescono a sbarcare in forze e il giorno successivo gli italiani sono costretti alla resa. Nei combattimenti o in seguito alle fucilazioni avvenute immediatamente dopo la fine degli scontri muoiono 640 tra soldati, sottufficiali e ufficiali, tra questi i colonnelli Lusignani e Bettini, che sono fucilati assieme ad altri 19 ufficiali dopo la resa, mentre i feriti sono 1.200, ma non vi sono i massacri di massa di Cefalonia.
Molti uomini cercano di fuggire via mare, la maggior parte viene catturata e trasferita in Germania. Altri soldati saranno uccisi sulle imbarcazioni utilizzate per il trasferimento in Grecia. Particolarmente significativo è il percorso attivato all’interno della divisione, dopo le prime trattative formali tra i due comandanti, per decidere di respingere l’ultimatum tedesco.
Inizialmente lo Stato maggiore della divisione sarebbe disposto ad accettare l’imposizione di cedere le armi, ma alcuni reparti, soprattutto gli artiglieri e i marinai, sono contrari, dopo che erano giunte notizie sulle reali intenzioni dei tedeschi, che promettevano il rimpatrio in Italia delle truppe che avessero ceduto le armi, mentre in realtà si preparavano a deportarli in Germania e avevano operato rappresaglie su coloro che già si erano arresi su altre isole o sul continente.
Il generale Gandin sceglie di consultare i reparti sulla decisione da prendere. Le truppe esprimeranno in varie forme un orientamento chiaro: a grandissima maggioranza decideranno di non cedere le armi e di resistere all’imposizione tedesca.
La sorte dei sopravvissuti
Finita la strage, nelle Isole Ionie rimangono tra 9.000 e 10.000 prigionieri italiani, 5.000 dei quali sono i sopravvissuti di Cefalonia. Altri soldati moriranno, per la fame e gli stenti, nei centri di raccolta dell’isola, dove rimarranno circa un migliaio di prigionieri fino alla partenza dei tedeschi, nel settembre del 1944, o nei diversi campi di deportazione allestiti nell’area balcanica e nell’Europa dell’Est, circa 2.500 in totale, che seguiranno le vicissitudini degli altri 6-700.000 soldati italiani internati dal governo tedesco.
Dei 6.400 prigionieri imbarcati a Cefalonia per essere trasferiti sul continente, in Grecia, di cui 2.550 provenienti da Zacinto, circa 1.350, quasi tutti soldati sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia, moriranno nell’affondamento di tre navi; da Corfù partiranno circa 9.100 soldati, molti però già provenienti da reparti catturati sul continente, l’affondamento di una nave trasporto provoca molte centinaia di morti, ma è impossibile attribuire le vittime ai reparti di origine.
Nel novembre 1944, i militari italiani rimasti a Cefalonia, a cui si erano aggiunti uomini provenienti dal continente, in totale circa 1.300 soldati, inquadrati nel Raggruppamento banditi Acqui agli ordini del capitano Apollonio, rientrano in Italia, ad eccezione di un centinaio di volontari che continueranno la lotta assieme ai partigiani comunisti.
Alla fine della guerra, dei circa 5.000 sopravvissuti della divisione Acqui a Cefalonia solo 3.500 saranno riusciti a tornare in Patria.
MUSSOLINI E LA GUERRA PARALLELA:
L’ATTACCO ALLA GRECIA E L’OCCUPAZIONE
DI CEFALONIA E CORFÙ
Le ragioni dell’ingresso in guerra dell’Italia
La Seconda guerra mondiale era iniziata il 1° settembre 1939 con l’attacco tedesco alla Polonia, dopo che Hitler si era garantito a est i buoni rapporti dell’Unione Sovietica di Stalin attraverso l’accordo segreto firmato dai rispettivi ministri degli Esteri, Ribbentrop e Molotov, nel mese di agosto.
Nei mesi successivi, mentre preparava lo scontro decisivo a ovest con la Francia, che era appoggiata dalla Gran Bretagna, la Germania, in aprile, portava a termine il piano che le garantiva il controllo dei rifornimenti da nord, con la rapida occupazione della Danimarca e della Norvegia. Il 10 maggio 1940 iniziava l’attacco sul fronte occidentale, assieme al diversivo dell’occupazione del Belgio e dell’Olanda.
L’esercito francese fu rapidamente travolto, nel giro di quattro settimane di combattimenti la Francia era in ginocchio e si preparava a chiedere l’armistizio. È solo a questo punto che l’Italia di Mussolini si convinceva a entrare in guerra: il 10 giugno, il giorno in cui il governo francese abbandonava Parigi, veniva presentata la dichiarazione di guerra ai rappresentanti diplomatici di Francia e Gran Bretagna.
Mussolini non voleva lasciare solo l’amico e alleato tedesco nell’ora del trionfo; senza l’entrata nella guerra che appariva vicina alla conclusione, c’era il rischio ormai palese di restare fuori dalla spartizione del bottino. Anche se il Paese era impreparato ad affrontare una guerra vera contro le maggiori potenze industriali occidentali, si decideva di scommettere su una rapida vittoria tedesca nel momento in cui la situazione appariva la più propizia, senza tuttavia considerare i rapporti di forza sul lungo periodo, quelli che alla fine decideranno il conflitto.
L’Italia di Mussolini, se non fosse intervenuta, avrebbe visto ridimensionato il ruolo di potenza europea e mediterranea che si illudeva di essersi garantito con la politica estera condotta dal 1935 e che aveva portato il Paese all’isolamento internazionale, con la rottura dei rapporti con la Società delle Nazioni e con le potenze occidentali, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, mentre diventava sempre più stretta l’amicizia con la Germania di Hitler, non solo per le evidenti simpatie ideologiche tra i due regimi, Hitler considerava Mussolini suo maestro, ma soprattutto per la volontà dei due governi di modificare a proprio favore l’ordine continentale uscito dalla precedente guerra mondiale.
Se l’attacco italiano all’Impero etiopico del 1935, concluso vittoriosamente l’anno successivo con la nascita della colonia dell’Africa orientale italiana e la proclamazione del re Vittorio Emanuele III imperatore d’Etiopia, continuava tardivamente la politica imperialistica tradizionale dei governi dell’Italia unita, da De Pretis, a Crispi, a Giolitti, in un’epoca in cui iniziavano ad apparire le prime crepe nei sistemi coloniali delle potenze europee, l’appoggio militare oltre che politico del regime fascista alla ribellione di Francisco Franco contro il governo repubblicano spagnolo si incontrava con le motivazioni ideologiche dei fascismi europei, di cui il nazismo hitleriano costituiva ormai la forma più estrema ed efficace.
Questi governi facevano della lotta alla liberaldemocrazia, al socialismo e al comunismo internazionale la ragione della loro missione. Sarà proprio l’impegno nella guerra civile spagnola ad avviare, nel 1936, i rapporti di collaborazione tra l’Italia fascista e la Germania nazista, per giungere alla definizione di un’alleanza politico-militare sancita con la firma del Patto d’acciaio il 22 maggio 1939, che vincolava l’Italia alla guerra comune con l’alleato.
Iniziava da questo momento il conto alla rovescia che porterà all’entrata in guerra dell’Italia. Se fu decisiva la volontà interventista del dittatore fascista, essa ottenne tuttavia l’appoggio di Vittorio Emanuele III, della casta militare rappresentata dal maresciallo Badoglio, degli ambienti industriali e finanziari, mentre la gran parte della popolazione appariva assai più tiepida se non ostile a un impegno militare e manifestò questo sentimento pacifista in varie occasioni tra il 1938 e il 1939, in particolare dopo l’apparente successo della Conferenza di Monaco, in cui Mussolini aveva svolto la parte del mediatore.
Una guerra italiana che finisce male
Nell’intenzione del regime mussoliniano, «Si entrerà in guerra non con la Germania, non per la Germania, ma per l’Italia a fianco della Germania»; è l’illusione della guerra parallela, di una politica di espansione autonoma come potenza mediterranea che possa affiancarsi alle vittorie tedesche, che a mano a mano diventano sempre più imbarazzanti e pericolose per i governanti e i capi militari italiani.
La guerra parallela dell’Italia mussoliniana si realizza allargando l’impegno militare a sempre nuovi fronti: dopo l’anteprima dell’occupazione dell’Albania, nell’aprile del 1939, viene l’attacco alla Francia del 1940, quindi le offensive improvvide e improvvisate contro la presenza inglese in Africa orientale – in Sudan, in Kenia, nella Somalia britannica nei mesi di luglio e agosto, e in Egitto, a settembre, territori che si vorrebbe annettere in caso di sconfitta della Gran Bretagna – fino all’aggressione alla Grecia, nell’ottobre del 1940, primo obiettivo dell’espansione nei Balcani.
Diverso è il contesto dell’intervento in Russia a fianco della Germania. Hitler aveva rinunciato all’invasione dell’Inghilterra: dopo il fallimento dell’attacco aereo condotto nell’estate del 1940, la guerra era ferma in Occidente. È in questa situazione di stallo che decide l’attacco a est, all’Unione Sovietica di Stalin, nel giugno 1941.
Mussolini decide così l’invio di un Corpo di spedizione italiano in Russia di 60.000 uomini nell’estate del 1941, trasformato poi in Armata italiana in Russia (ARM.I.R.), forte di 227.000 tra ufficiali e soldati, nel corso del 1942. L’Italia si ritrova a seguire l’alleato in condizioni di totale subordinazione, senza avere più proprî obiettivi autonomi.
La scelta di allargare il conflitto a sempre nuove aree di intervento e di disperdere le poche, male armate e impreparate forze militari italiane si rivela una decisione strategica disastrosa, che terminerà con un fallimento totale del regime e con la tragedia di un esercito e di un Paese.
L’attacco a tradimento alla Francia, per alcuni: «la pugnalata alla schiena», mentre Salvemini dirà: «Non tradimento, ma colpo inferto a uno che si trova sul letto di morte», quando ormai i cugini d’oltralpe erano sul punto di arrendersi, si rivela per l’Italia una quasi débâcle: l’offensiva lanciata sulle Alpi non riesce ad avanzare che per poche centinaia di metri e trova la salda resistenza delle truppe francesi, nonostante nel resto del paese i tedeschi stiano già travolgendo le loro armate migliori.
Una brutta figura militare che non aggiunge molto al giudizio morale che si può dare della dichiarazione di guerra alla nazione che aveva garantito la nostra unione nazionale e in cui lavoravano 800.000 nostri cittadini.
In Africa orientale ogni presenza militare italiana è eliminata entro il maggio 1941, con l’eccezione di un’isolata resistenza a Gondar che continuerà fino a novembre. In Nordafrica le scarse truppe inglesi riescono in poco tempo a ricacciare indietro quelle italiane, conquistando la Cirenaica libica e facendo 130.000 prigionieri; il successivo intervento di un corpo d’armata tedesco guidato dal maresciallo Rommel permette di conseguire alcuni successi anche significativi, ma l’offensiva italo-tedesca si infrange definitivamente a El Alamein, nell’ottobre del 1942.
Pochi mesi dopo, nel maggio 1943, le truppe dell’Asse sono cacciate dall’Africa settentrionale, dopo un’ultima resistenza in Tunisia, dove si arrendono 160.000 soldati italiani. La presenza italiana sul fronte del Don, nella Russia meridionale, sarà travolta, assieme alle armate tedesche, nel corso dell’offensiva condotta dai sovietici nell’inverno del 1942.
Durante la cosiddetta «ritirata del Don», nel gennaio-febbraio 1943, l’ARMIR andrà quasi completamente distrutta, i caduti e i dispersi sono 85.000, i feriti e i congelati 30.000, i prigionieri dei russi 60.000, dei quali solo 10.000 sopravvivono ai trasferimenti forzati e alla prigionia.
Con la conclusione dell’avventura russa e poi con la sconfitta delle truppe in Africa settentrionale, l’Italia si ritrova in prima linea e si avvicina la fine del regime di Mussolini. Il 10 luglio 1943, le truppe alleate sbarcano nel sud-est della Sicilia; l’occupazione dell’isola è completata solo il 17 agosto, dopo una scarsa resistenza dei soldati italiani; nel corso della campagna di Sicilia gli alleati fanno 125.000 prigionieri.
Intanto il 25 luglio Mussolini è prima accusato dei cattivi risultati militari e messo in minoranza in una riunione del Gran Consiglio del Fascismo, quindi destituito dal re, che nomina in sua vece il vecchio maresciallo Badoglio, emarginato dai tempi della campagna di Grecia. L’8 settembre, data dello sbarco alleato a Salerno, viene comunicata l’avvenuta firma dell’armistizio.
L’attacco alla Grecia: una scelta avventata
Nei colloqui con Mussolini, Hitler si era dichiarato contrario a un’offensiva italiana nei Balcani perché avrebbe messo in difficoltà i suoi piani di attacco alla Russia con l’apertura di un fronte non essenziale per i proprî progetti e in un settore dove la Germania preferiva evitare l’intervento militare diretto a favore di un controllo indiretto, attraverso governi amici, di quello che considerava il retroterra naturale del futuro fronte orientale.
L’Italia invece considerava la Iugoslavia e la Grecia tra i principali obiettivi della sua politica di aggressione; l’espansione a est costituiva in effetti un argomento tradizionale della politica e dell’ideologia nazionalista, che mirava soprattutto a destabilizzare la Iugoslavia, principale ostacolo alla penetrazione nei Balcani.
Intanto, però, si era assistito, fin dal 1933, a una crescente presenza economica e politica dell’alleato tedesco nell’area balcanica, in particolare in Romania e in Bulgaria, mentre l’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1938, comportava una crisi di tutta la politica condotta dal fascismo in quell’area fino ad allora e rivelava come fosse la Germania il vero avversario, oltre ovviamente alla Gran Bretagna, che vantava un’influenza tradizionale nel Mediterraneo centrale, proprio in concorrenza con l’Italia.
Le delusioni subìte nella prima fase della guerra, con le rapide vittorie tedesche e la magra figura fatta fino ad allora dalle forze italiane, avevano acuito il senso di frustrazione e di inferiorità del dittatore italiano nei confronti del collega tedesco.
Mentre l’esercito, dopo la resa della Francia, smobilitava metà delle divisioni concentrate nella pianura padana, il gruppo dirigente italiano – dal re Vittorio Emanuele III, al Duce, al ministro degli Esteri Ciano, al capo di Stato maggiore Badoglio – si convinceva della necessità di trovare uno spazio alla nostra politica di potenza, una rivincita sul piano internazionale, grazie a un’impresa militare che appariva, almeno sulla carta, facile: la conquista della Grecia.
All’Italia mancava, tuttavia, proprio quella efficiente forza militare che le avrebbe permesso di sostenere le ambizioni internazionali, senza questa forza si trattava piuttosto di una strategia velleitaria e rischiosa. Infatti l’inizio della crisi del regime può farsi risalire proprio
all’attacco alla Grecia. Il 28 ottobre del 1940 il Governo italiano presenta alla Grecia un ultimatum impossibile da soddisfare. Non vi sono vere motivazioni strategiche: il governo del dittatore Metaxas si barcamenava tra l’influenza anche ideologica dei paesi dell’Asse e la presenza della Gran Bretagna nel Mediterraneo, senza costituire un vero problema per i progetti continentali italiani e tedeschi.
Non vi è una preparazione militare adeguata, ma una decisa sottovalutazione delle forze del nemico, sia militari sia politiche, con piani di invasione improvvisati, ritenendo che il governo nemico fosse incapace di reagire e che la popolazione greca non si sarebbe opposta all’occupazione.
Metaxas si rende conto che la guerra è inevitabile. Egli si aspetta l’attacco dall’Albania e un’invasione dal mare, per questo chiede l’intervento della flotta inglese, ma sa che lo scontro è deciso, si combatterà solo per l’onore.
La resistenza greca e lo sbandamento italiano
Invece la sorte della Grecia non è ancora decisa: l’offensiva italiana sarà condotta solo dall’Albania, senza l’intervento della Marina e dell’Aeronautica, con forze male organizzate e numericamente non superiori a quelle dei difensori greci, con la differenza che i soldati greci sono motivati perché combattono per la difesa della Patria, mentre i nostri soldati non sono preparati a una lotta dura e sanguinosa, non hanno l’addestramento e l’armamento necessario, ma soprattutto manca una direzione politica e militare all’altezza del compito.
La popolazione greca reagisce all’invasione aiutando con tutte le forze il proprio esercito, un’ondata di patriottismo sostiene il governo Metaxas nell’azione di difesa, in certi casi la popolazione civile partecipa direttamente alla lotta. Lo stesso Mussolini, dopo le previsioni ottimistiche ma illusorie sul presunto rapido cedimento del fronte interno nemico, afferma: «I greci odiano l’Italia come nessun altro popolo. È un odio che appare a prima vista inspiegabile, ma è generale, profondo, inguaribile, in tutte le classi, nelle città, nei villaggi, in alto, in basso, dovunque. Il perché è un mistero».
Dopo il fallimento della prima offensiva italiana, ai primi di novembre i greci passano alla controffensiva, respingendo oltre i vecchi confini il nemico, e penetrano rapidamente in Albania. Le divisioni italiane sono allo sbando; mentre la ritirata continua e rischia da un momento all’altro di trasformarsi in una vera e propria rotta, Mussolini decide di sostituire il comandante delle truppe in Albania.
Anche il capo di Stato maggiore Badoglio paga per la sconfitta sul fronte greco, ai primi di dicembre lascia il comando al generale Ugo Cavallero, che riesce, complice l’arrivo dell’inverno e la stanchezza dei greci, a stabilizzare il fronte, evitando la catastrofe che ai primi di dicembre sembrava ormai imminente.
Le perdite italiane ammontano, finora, a quasi 6.000 caduti, tra ufficiali e soldati. L’illusione della guerra parallela è, alla fine del 1940, ormai scomparsa. Gli italiani, da soli, non sono in grado di raggiungere
né in Grecia né in Nordafrica gli obiettivi, chiaramente fuori della loro portata, che si sono posti.
La Germania evita il disastro
Il 18 gennaio Mussolini si incontra con Hitler a Berghoff. Hitler presenta il progetto di attacco alla Grecia dalla Romania per il mese di aprile, ma Mussolini chiede, per ragioni di immagine, che sia l’Italia per prima ad assicurarsi una vittoria sul campo. Intanto la presenza italiana, nei mesi invernali, si rafforza, fino a raggiungere la superiorità numerica sulle truppe greche, che dal canto loro cominciano a ricevere aiuti dalla Gran Bretagna.
Il 2 marzo, in attesa della ripresa dell’offensiva, Mussolini vola in Albania per passare in rassegna le truppe. Il 9 marzo inizia l’attacco; dopo un iniziale successo, però, la spinta offensiva si esaurisce con pochi risultati; c’è un nuovo tentativo di sfondare il 13, ma appare chiaro che le truppe italiane non sono in grado di spezzare la resistenza greca. Rimangono sul campo altri 12.000 soldati tra morti e feriti.
Nel volgere di poche settimane l’intera situazione politico-militare dei Balcani muta a favore della Germania. L’Ungheria è favorevole al passaggio delle truppe tedesche. La Bulgaria e la Romania collaboreranno con i tedeschi all’invasione della Grecia. Il governo iugoslavo cerca di trattare con l’Italia, poi deve riconoscere il predominio germanico autorizzandone il passaggio dell’esercito verso sud.
Il popolo iugoslavo, però, alla notizia dell’accordo insorge; nasce un nuovo governo che cerca di tranquillizzare Hitler sul mantenimento degli accordi, mentre tratta segretamente con la Russia e con la Gran Bretagna; i due dittatori decidono l’invasione della Iugoslavia. Belgrado è bombardata, truppe tedesche entrano dall’Austria, dalla Romania, dalla Bulgaria.
Quando l’esercito iugoslavo sta ormai cedendo, anche l’armata italiana pronta al confine orientale attacca, in direzione di Lubiana. Gli italiani entrano in Montenegro e occupano da nord e dall’Albania il litorale della Dalmazia.
Il 17 aprile la Iugoslavia firma l’armistizio. Intanto anche la Grecia è invasa, i tedeschi entrano dalla Bulgaria e dalla Iugoslavia, gli italiani dall’Albania. A partire dal 12 aprile il fronte greco cede davanti a Salonicco, in Macedonia, in Tessaglia, nell’Epiro.
Una vittoria umiliante per l’Italia
Il 20 aprile, il governo greco offre la resa ai tedeschi, che si accordano all’insaputa degli italiani sul ritorno ai vecchi confini. I greci non vogliono firmare un armistizio con gli italiani dai quali non si sentono sconfitti; intanto, le truppe tedesche cominciano a interporsi tra quelle greche e le nostre, che in più punti vengono fermate a rischio di gravi incidenti. La Grecia è stata vinta dalle divisioni tedesche, ma l’Italia non vuole rimanere fuori dalla spartizione, il colpo alla propria credibilità sarebbe irrecuperabile.
Mussolini protesta violentemente col collega tedesco, rivendicando i meriti del nostro esercito nel logorare i greci e negando che questi abbiano in alcun modo vinto la guerra contro di noi. Il successo tedesco sarebbe giunto solo perché preparato dalle nostre offensive precedenti.
È una versione che fa a pugni con la verità. Solo l’intervento tedesco ha tolto Mussolini e l’Esercito da una situazione gravissima e quasi irrimediabile. Il 23 l’armistizio è firmato, per volontà diretta di Hitler è presente anche un rappresentante dell’Italia.
Churchill, il primo ministro inglese, intervenendo alla Camera dei Comuni commenta:
«Con uno speciale proclama il dittatore italiano si è congratulato con l’esercito italiano in Albania per gli allori gloriosi che ha conquistato con la sua vittoria sui greci. Questo è senz’altro il record mondiale nel campo del ridicolo e dello spregevole. Questo sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvare la sua pelle ha reso l’Italia uno Stato vassallo dell’impero di Hitler viene a far capriole al fianco della tigre tedesca con latrati non solo di appetito, il che si potrebbe comprendere, ma anche di trionfo».
L’offensiva di aprile nei Balcani permette all’Italia di occupare direttamente alcuni territori e di esercitare una certa influenza politica su altri, anche se si tratta di dividere coi tedeschi l’effettivo dominio e lo sfruttamento delle risorse economiche, che quasi sempre vengono accaparrate dall’alleato, lasciando le briciole all’Italia, mentre il costo dell’occupazione grava pesantemente sulle truppe.
Sono 650.000 i soldati italiani impegnati nell’occupazione delle terre balcaniche, cioè la metà circa delle grandi unità dell’Esercito. Per l’Italia sono assai scarsi i vantaggi effettivi di questa occupazione, non ve ne sono quanto a maggiori risorse, non ve ne sono di strategici.
L’Italia annette la provincia di Lubiana, cioè la parte meridionale della Slovenia, e formalmente esercita il protettorato sulla Croazia, anche se le principali risorse, soprattutto minerarie, sono privilegio dei tedeschi; gran parte della costa della Dalmazia viene annessa all’Italia, come anche il territorio di Fiume. Le province annesse subiscono una brutale opera di italianizzazione forzata, non disgiunta da una propaganda che si confonde col razzismo antislavo.
Nascono bande armate fasciste che usano lo squadrismo per intimorire la popolazione e favorire l’esodo degli indesiderati. Iniziano le prime azioni di resistenza, mentre il governatore italiano minaccia deportazioni di massa e i tribunali speciali e militari decidono le prime condanne a morte di patrioti.
Anche il Montenegro viene rapidamente occupato; c’è un tentativo di costituire un governo collaborazionista, ma intanto in luglio le formazioni partigiane, sia i nazionalisti cetnici sia le formazioni comuniste di Tito, attaccano i presidî italiani. In tutti i territori già iugoslavi la presenza militare italiana sarà per i successivi due anni quella di truppe di occupazione, con una repressione sempre più dura e feroce, rappresaglie sulla popolazione civile, deportazioni, fucilazioni.
Non sempre si distingue la ferocia degli italiani da quella dei tedeschi. Anche l’Albania diventa terra di occupazione e di repressione per le nostre truppe, dopo che in settembre era scoppiata la rivolta guidata dal Fronte di liberazione diretto dai comunisti. Inglesi, americani e russi appoggiano la resistenza albanese.
L’occupazione italo-tedesca
Nei colloqui avvenuti in aprile e nel novembre 1941 tra Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri italiano, e Ribbentrop, il collega tedesco, la Grecia è considerata, almeno sulla carta, area d’influenza italiana, ma la realtà è diversa, in quanto i tedeschi dànno per scontata la loro prevalenza sul piano economico, provocando continue recriminazioni da parte italiana.
Il Paese subisce l’occupazione dell’Italia, della Germania e della Bulgaria. L’Italia, in particolare, annette formalmente le Isole Ionie, tra queste Corfù e Cefalonia, imponendo la propria amministrazione, compresa una nuova moneta, la dracma ionica, mentre ad Atene nasce un governo collaborazionista guidato da Tsolakoglu, a cui è demandato il mantenimento dell’ordine pubblico e la gestione amministrativa.
Ma il rapporto tra il governo collaborazionista e i due paesi occupanti è ambiguo; i greci preferiscono mantenere, finché è possibile, un rapporto privilegiato con i tedeschi, che appaiono, almeno in una prima fase, meno invisi alla popolazione rispetto agli italiani, gli aggressori del 1940 che si erano annessi le Isole Ionie.
Anche se all’inizio i tedeschi tendono a interporsi tra gli italiani e i greci, la realtà dell’occupazione e l’appoggio dato ai bulgari nell’annessione della Tracia orientale renderà presto anch’essi poco popolari.
L’occupazione è attuata in collaborazione da italiani e tedeschi, ma sono questi ultimi che avviano una politica di rapina nei confronti dell’economia e delle risorse del Paese, tale da portare alla miseria e alla fame la popolazione, mentre crollano le strutture economiche, a partire dalla moneta e dalla Banca nazionale greca.
Particolarmente drammatico risulta il fenomeno dell’inflazione, innescato dalla crisi finanziaria provocata dalle ingenti risorse assorbite dalle opere militari richieste dai tedeschi a carico del governo collaborazionista. Gli italiani vorrebbero limitare il dramma della popolazione ma mancano delle risorse necessarie per alleviare la carestia, né riescono a frenare l’esosità delle richieste alleate.
La mortalità per inedia dilaga nel paese. In queste condizioni, nell’aprile del 1942 iniziano le azioni armate del Fronte di liberazione, prima nell’Argolide, poi nella zona del Pindo; tra l’autunno del 1942 e i primi mesi dell’anno successivo la pressione partigiana si fa più consistente, tanto da indurre gli italiani a richiedere un maggiore impegno repressivo da parte del governo collaborazionista.
Nella scelta del capo del nuovo governo si impone il candidato proposto dai tedeschi, Rhallis; gli stessi responsabili tedeschi cominciano a pensare all’estromissione dell’autorità italiana, da sostituire con la gestione diretta del territorio da parte del generale Löhr, comandante supremo del settore sud-est, quello balcanico.
Questa soluzione, per il momento, appare politicamente improponibile, perché metterebbe fuori gioco il principale alleato, che considera l’influenza nei Balcani il principale risultato dell’intera guerra di aggressione condotta dal 1940, ma sembra già prefigurare la situazione di fatto che si verrà a creare con l’armistizio dell’8 settembre.