ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 53

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Tenente Nerio Bianchi
45ª Compagnia Battaglione Morbegno, 5^ Reggimento Alpini

Passando per il bosco di KuwschinSsaprinaSsergejewka si giunse verso le ore 10 del 18 gennaio a Mars. Dopo una sosta di poche ore il Battaglione Morbegno proseguì alla volta di Podgornoje. Di qui il 19 si portò a Ssamojlenkoff e al 20 mattina pervenne ad un bosco situato sotto Postojalyi. Ivi il battaglione ricevette l’ordine di attaccare ed occupare detto paese. L’attacco venne condotto dalla mia compagnia, la 45ª, che investiva l’obiettivo frontalmente; un’altra colonna cercò di penetrare in paese da tergo.

Dopo un’accanita resistenza i russi, vista la minaccia di aggiramento, abbandonarono il posto. Immediatamente dopo giunse sul luogo del combattimento il generale Reverberi. Alle prime ore del 21 lasciavamo Postojalyi e poco dopo la colonna veniva centrata da alcuni colpi di mortaio, uno dei quali feriva al ventre il tenente Leoni, aiutante maggiore di battaglione e il tenente Bosio. Il 21 mattina il battaglione fu a Nowo Karkowka, mentre nel pomeriggio si proseguì per Scheljakino.

All’entrata di quest’ultimo paese il Battaglione Morbegno fu attaccato da due autoblindo. Immediatamente la 45ª e la C. C.M. presero posizione reagendo con le armi al fuoco avversario. Uno dei mezzi avversari venne centrato dalla 31ª Batteria e l’altro volto in fuga in sèguito a violenti lanci di bombe a mano effettuati dagli alpini della 45ª. A questo momento dato che il Battaglione Edolo e il Tiràno ci avevano distanziato di qualche ora di marcia, il maggiore Sarti decise di proseguire con l’intento di raggiungere il grosso del reggimento.

Nella notte fra il 22 e il 23 il battaglione cercò di penetrare in Ossatdski. Ivi fu attaccato in un primo tempo da un nucleo di ribelli, in un secondo tempo da due carri armati uno dei quali si manteneva costantemente sulla nostra direzione di movimento. Alla 45ª fu assegnato il compito di tentare il passaggio. Durante tale azione caddero, oltre a numerosa truppa, il sottotenente Dho e il sottotenente Ferrara. Visto vano il tentativo di forzare la rotabile, il maggiore Sarti diede ordine di ripiegare.

Condotta a termine l’operazione di protezione del ripiegamento il sottoscritto, che nel precedente tentativo di forzare il passaggio aveva riportato un colpo di striscio al gomito che gli immobilizzava il braccio, fu caricato sulla slitta ambulanza. Da questo momento persi collegamento con la compagnia. Poche ore dopo, infatti, i muli stremati non poterono continuare la marcia.

Sottotenente Vittorio Zanotti
Battaglione Morbegno, 5^ Reggimento Alpini

Era il 23 gennaio 1943: quel mattino, il fuoco nemico aveva già investito prestissimo il villaggio di Warwarowka e si capiva che bisognava districarsi; lo scontro che si sviluppò, per la maggiore forza nemica con la presenza di due carri armati, mi costrinse a cercare riparo, facendo ogni sforzo per tenere l’unità del reparto. Nel saltare dentro ad una buca mi trovai subito addosso quattro dei nostri, tanto rapidamente, sotto il fuoco nemico, che rimasi schiacciato sul fondo e bocconi nella neve.

Il nemico sparava, buttava bombe a mano e gridava nella sua lingua: “Alzate le mani”, “Arrendetevi”; non vedevo nulla, soffocavo quasi, dovevo sostenere il peso degli altri, mi arrivava alle narici l’odore della polvere bruciata delle bombe a mano. Era necessario vedere fuori e decidere. Il nemico, baldanzoso, aveva certamente sentore della vittoria; io, là sotto, non volevo accettare la morte del topo in trappola.

Ottenni l’attenzione dell’alpino che mi stava sopra, poi convinsi tutti ad una finta resa per uscire dalla situazione; cosicché, prendendo di contropiede il nemico, riuscii a condurre gli alpini, velocemente, verso un gruppo di sbandati alla mia sinistra; ci fu un momento in cui ci trovammo tra due fuochi.

S’ingaggiò il combattimento che i nostri sostenevano coraggiosamente; tra il frastuono dei colpi passavo da ognuno e davo una manata sulla spalla con una parola di coraggio; si combatteva in piedi come nei quadrilateri di un tempo e lo scambio dei colpi era velocissimo; il moschetto ’91 veniva tenuto puntato con il calcio sotto l’ascella; questi alpini lombardi dovevano essere stati dei bravi cacciatori, perché prevalemmo piuttosto rapidamente sul nemico. Feci catturare l’unico superstite.

La situazione era capovolta: poco prima il nemico ci voleva arresi, io mi ero trovato sepolto e nell’impossibilità di un’azione tempestiva, avevo creduto di morire ed informato gli altri dove tenevo il diario che avrebbero dovuto salvare e portare ai miei. Il prigioniero disarmato rappresentava un fastidio; portarselo appresso nella grande sacca dove si doveva ancora combattere era assurdo, non lo si poteva uccidere perché la coscienza dell’uomo non deve mai dimenticare che non ne abbiamo il diritto; non rimaneva così che lasciarlo libero, contro ogni norma di guerra ma in accordo col sentimento.

Dissi agli alpini: “Dio l’ha salvato e noi faremo altrettanto; l’accompagnerò per una ventina di metri e lo lascerò libero!”. Tutti rimasero nel silenzio, i loro volti denotavano la voce del cuore. Quell’uomo mi seguì esitante, anche se aveva avuto dal nostro atteggiamento un segno di speranza; non poteva certo pensare, con certezza, che quelli venuti da lontano erano soprattutto degli uomini.

Caporal maggiore Gaetano Dell’Orto
44ª Compagnia, Battaglione Morbegno, 5^ Reggimento Alpini

Eravamo i pochi avanzi del glorioso Morbegno, sotto il comando del mio caro tenente Ugo Merlini. Alla mattina presto il grosso si mise in marcia ed arrivammo su una pianura e da lontano vedevamo la ferrovia e il borgo. Improvvisamente l’artiglieria russa ed aerei cominciarono a bombardarci e mitragliarci. Io ero caporal maggiore e comandavo la mia squadra. Iniziò così quel giorno di fuoco. Diversi miei soldati furono colpiti a morte ed alcuni feriti.

Ricevetti l’ordine di mettermi in contatto con il Battaglione Edolo comandato dal maggiore Belotti, il quale mi comandò di attaccare sulla sinistra del ponte della ferrovia. Verso le ore 16 il generale Reverberi dette l’ordine a tutti i suoi alpini di tenersi pronti per l’ultimo attacco. Lo rivedo, ancora in testa sul carro armato che al grido di “Alpini della Tridentina” ci spronava. Siamo scesi quindi sotto il fuoco nemico oltre la ferrovia, e verso le ore 18 il paese era conquistato.

Alla fine, della mia squadra eravamo rimasti in tre. Un mio alpino di nome Giovanni Tarabini fu fatto prigioniero, ma al termine della guerra fece ritorno. Quando siamo entrati con il grosso in paese, in un capannone russo abbiamo liberato diversi alpini già fatti prigionieri, fra questi c’era il caporal maggiore Bortolo Scandella di Barzio. Anch’io c’ero a Nikolajewka.

Sottotenente Ugo Merlini
44ª Compagnia, Battaglione Morbegno, 5^ Reggimento Alpini

Questa storia ha inizio il giorno 25 gennaio 1943, sulla pista di neve battuta da tanti passi e qualche slitta. I pochi alpini superstiti della 44ª Compagnia del Battaglione Morbegno stavano rimontando la finalmente ritrovata colonna, alla ricerca del loro reggimento. Durante una breve sosta, chi in piedi e chi seduto sui talloni, più per cambiare posizione alle gambe che per riposarsi, stavano mangiucchiando quelle pochissime cose rimaste sul fondo delle tasche e praticamente mettevano tutto in comune.

Non si parlava ormai più da alcuni giorni di cucina, di salmerie, di rancio. Eravamo usciti la notte prima dal combattimento di Tschuprinin, dove la 44ª e la 47ª si erano fatte inutilmente decimare pur di attraversare il villaggio. Le altre compagnie, la 45ª, la 107ª e la Comando erano state pressoché interamente distrutte a Warwarowka. Agli ordini del maggiore Fabrocini avevamo disperatamente cercato il 5^ Alpini per seguirne le sorti, come era giusto, ma nel fondo di ciascuno di noi anche per sentirci meno isolati, meno esposti al peggio.

Gli alpini sbocconcellavano in silenzio, avevano sofferto troppo negli ultimi giorni: avevano visto cadere amici, non avevano più visto molti altri amici che sembravano essersi un poco attardati nella marcia. L’animo era triste ma non rassegnato e gli sguardi di quegli uomini irsuti ed infreddoliti esprimevano ancora la decisa volontà di non essere sopraffatti né dagli uomini né dalla natura. Unico ufficiale superstite della compagnia un sottotenente di complemento, che scambiava qualche frase in dialetto con quei ragazzi delle sue valli.

Ad un certo momento il caporal maggiore Giovanni Della Nave, segnalatore del plotone mitraglieri, rivolgendosi al suo ufficiale disse: “Sciur tenent, sem restaa in pochi oramai”, e, dopo una piccola pausa, aggiunse: “Facciamo un patto, se qualcuno di noi è costretto a fermarsi perché non ce la fa più o perché gli è capitato qualcosa, anche gli altri si fermeranno per aiutarlo”. L’ufficiale lo guardò diritto negli occhi, perché sapeva che quelle non potevano che essere parole. Non poteva seriamente pensare ad un impegno del genere, nelle condizioni in cui tutti erano e con quello che capitava ad ogni istante.

Ma intuì che occorreva un gesto per sollevare gli spiriti e, dopo un attimo di incertezza, tese la mano e strinse quella del caporale. Guardando in faccia anche. gli altri alpini che osservavano nel più completo silenzio, disse: “D’accordo”. Questo accadeva fra Tschuprinin e Romanchowo, verso mezzogiorno. La marcia riprese agli ordini del maggiore Fabrocini, dopo che avevamo invano atteso per un po’”un folto gruppo di alpini e di ufficiali che si erano attardati alla partenza e che avrebbero dovuto essere agli ordini del tenente Trevisan.

Il 26 gennaio mattina, dopo un pernottamento di fortuna in un’isba lungo la pista, raggiungemmo finalmente il 5^ Alpini nei pressi di Arnautowo. Il tenente colonnello Nestore Zucchi, che aveva comandato il Morbegno fino a qualche mese prima, si commosse quando gli vennero presentati i resti del suo magnifico battaglione ridotto ad un subalterno e ad una quarantina di alpini.

Fummo assegnati alla Compagnia Comando Reggimentale e la marcia riprese verso Nikolajewka, che giungemmo a vedere nelle prime ore del pomeriggio. Ricordo l’incontro con il capitano Cerosa, mio concittadino, che mi offrì una preziosissima scatoletta di carne. Con lui mi affacciai alla conca di Nikolajewka, e, in attesa di ordini, assistemmo ad una parte del combattimento che si svolgeva nel paese e soprattutto al suo ingresso, a ridosso del terrapieno della ferrovia che costeggia l’abitato ad est. Una massa di uomini di tutti i reparti, ungheresi, rumeni, e tedeschi compresi, assistevano come noi a quello straordinario spettacolo.

Per la prima volta vidi da vicino un lanciarazzi tedesco a canne multiple; sembrava il tamburo di una gigantesca pistola. Venne l’ordine di avanzare ed i pochi superstiti del Morbegno scesero verso la ferrovia con gli altri alpini della Compagnia Comando Reggimentale e di altri reparti. Mi trovai ad essere vicino ai capitani Stucchi e Cerosa e mi avviai con loro. Avevo un parabellum – ormai quasi senza munizioni – preso ad un russo, un paio di bombe a mano e la pistola d’ordinanza.

Gli altri erano più o meno nelle mie stesse condizioni e non rappresentavano certo una forza d’urto con un buon volume di fuoco, ma non avevamo scelta. Ricordo il sole all’orizzonte di fronte a noi e strani effetti di luce sulla neve, che ribolliva dai colpi di mortaio e dalle raffiche delle mitragliatrici russe. Alcuni colpi di artiglieria russa aprirono dei vuoti nella massa che stava ancora a guardare.

Scendevamo la dolce conca, priva di qualsiasi riparo, abbastanza lentamente – forse eravamo stanchi – conversando di cose strane con le mani in tasca (per il freddo!) come se andassimo a passeggio. Non potevamo fare altro, finché non fossimo giunti a ridosso della ferrovia, a tiro utile per le nostre armi. A circa metà discesa c’era una cucina da campo tedesca con un soldato germanico morto. La minestra fumava ancora. Altri caduti erano disseminati qua e là lungo il leggero pendio che chiude da quel lato Nikolajewka come un anfiteatro. Nessuno vi faceva caso: in quel momento erano soltanto punti di riferimento.

Man mano che scendevamo, la tensione interna aumentava, vedevamo distintamente le fiammelle delle armi automatiche che ci sparavano addosso. Vicino al terrapieno della ferrovia cominciammo a correre per appiattirci su di esso e ripararci. Proprio a ridosso c’era un pezzo di artiglieria del Gruppo Bergamo e ammirai la calma assoluta con la quale i serventi si muovevano: sembravano in esercitazione e invece sparavano a zero.

Un magnifico colpo centrò in pieno l’alto serbatoio dell’acqua per il rifornimento delle locomotive in stazione: il serbatoio crollò, e scomparve con esso la micidiale sparatoria dei cinque o sei russi appostati lassù con armi automatiche, che falciavano largamente nei nostri reparti che scendevano il declivio. All’inizio dello stretto sottopassaggio che immetteva in paese, il sottotenente medico Aldeghi (che conoscevo benissimo anche perché era quasi compaesano), aveva improvvisato un posto di medicazione: non lo salutai per non fargli perdere tempo e attraversammo il sottopassaggio.

Potemmo appena affacciarci dal lato opposto: la neve ribolliva dalle sventagliate delle mitragliatrici russe che inchiodavano tutti coloro che tentavano di superare quell’unico ostacolo naturale. Davanti a noi c’era uno spiazzo, prima che continuasse la strada principale verso ovest che attraversava il paese. In quello spiazzo c’era una mitragliatrice russa, abbandonata, e mi pare ci fossero vicino due soldati russi morti. In uno di quei momenti di calma che si producono quasi miracolosamente nei combattimenti, tentammo qualche passo oltre il terrapieno.

Cerosa stava avvicinandosi alla mitragliatrice abbandonata, forse con intenzione di servirsene se avesse avuto ancora munizioni. Gli gridai: “Non toccarla! Le armi del nemico portano male”. Mi ascoltò ed attraversammo di corsa lo spiazzo. Dovemmo buttarci a terra perché ci investì una nutrita pioggia di bombe da mortaio. Nemmeno un minuto dopo che l’avevamo scoperta, la mitragliatrice russa saltò in aria centrata in pieno da una granata.

Cerosa mi guardò negli occhi. Mentre stavamo per rialzarci, scorsi il capitano Novello, il pittore, e restai sbalordito: camminava tranquillo con le mani in tasca ed il naso al vento, incurante di tutto quello che gli stava succedendo intorno, col suo solito arguto sorriso. Per lui non esisteva la guerra forse? Come poteva infischiarsene così? Era solo sereno coraggio e fu un magnifico esempio per tutti noi. Riuscimmo ad attraversare quel maledetto spiazzo e ad imboccare la strada costeggiata, in quel punto, dagli steccati degli orticelli delle isbe.

Raggiungemmo un semovente tedesco che avanzava lentamente. Ero sempre vicino al capitano Cerosa ed alla mia sinistra avevo il tenente Sardi. Ci riparammo di corsa dietro il carro tedesco e improvvisamente scorsi vicino a me, sulla destra, uno strano personaggio con un berretto nero dal pelo interno che gli scendeva fin sugli occhi. Si agitava e guardava da ogni lato, gridando: “Venga l’Edolo! Avanti l’Edolo!”. Dalla voce lo riconobbi: era il generale Reverberi, il nostro generale “gazusa”, che comandava la Tridentina.

Il Battaglione Edolo stava arrivando ed il suo comandante, maggiore Belotti, in testa a tutti, raggiunse anche lui il semovente tedesco, proprio mentre dalla sua torretta scendeva un uomo dell’equipaggio gridando “Keine munizioni Keine munizioni”. Eravamo in troppi dietro quel carro e, mentre gli alpini dell’Edolo si aprivano a ventaglio a destra ed a sinistra della strada, scavalcando le staccionate e aggirando le isbe, scorsi un pezzo anticarro che quattro soldati russi stavano mettendo in azione a non più di duecento metri avanti a noi.

In pochi istanti aprì il fuoco e non feci in tempo a scorgere la fiammata, che sentii un secco colpo sulla torretta del carro. Capimmo che potevamo saltare in aria col carro e mi buttai d’un balzo a sinistra, con Sardi. Proprio in quel momento partiva il secondo colpo del cannone anticarro e la granata scoppiò sulla fiancata sinistra della torretta. Vidi distintamente il tenente Sardi rotolare per terra e sentii come un pugno alla spalla destra.

Era una scheggia della granata che mi aveva passato da parte a parte, proprio mentre stavo saltando una bassa staccionata. Sentii il sangue sgorgare a fiotti dai due fori, anteriore e posteriore, proprio sotto la spalla e cercai qualcuno con gli occhi. Vicino a me c’era il caporale Della Nave che mi sorresse fino all’isba più vicina, dove mi fece sedere sulla grande stufa di terra. Mi lasciò per qualche minuto per andare a cercare un medico o qualcosa per medicarmi.

Nell’isba c’erano altri feriti e altri arrivavano ogni momento. Ne ricordo uno che si lamentava continuamente per un dolore certamente insopportabile. Arrivò Della Nave col capitano Cerosa, al quale dissi di salutare i miei, se ce l’avesse fatta, e tentai di dare al caporal maggiore Della Nave un piccolo portafoglio con la fotografia dei miei cari e della mia morosa. Il sangue continuava a uscire dalle due ferite e mi sembrava impossibile che ne avessi ancora.

Faticavo a respirare e non avevo più la forza di muovermi: capii che era giunta la mia ora e dopo aver guardato negli occhi il Della Nave,… morii. Così almeno pensai allora e devo dire che non fu una cosa straordinaria o tragica: ero rassegnato e mi pareva di averla già scampata troppe volte. In brevissimi istanti rividi volti cari, salutai mentalmente e persi conoscenza. Ma ero solo svenuto per la perdita del sangue. Non so quanto tempo dopo rinvenni, ma ricordo che mi trovai alle labbra una mezza gavetta di neve sciolta: me la porgeva il Della Nave, il quale mi disse che dovevamo far presto, perché i nostri se ne erano già andati!

Sul momento non pensai ad altro che alla mia ferita, che non sapevo ancora esattamente quali danni mi aveva arrecato. Ero mezzo seduto e mezzo sdraiato e sentivo male alla spalla destra ed al braccio, che tenevo appoggiato in grembo. Provai a muovere le dita della mano destra e con lieto stupore mi accorsi che i muscoli obbedivano. Con la sinistra alzai il braccio destro e constatai che non era staccato, come mi era parso in un primo momento.

Mi balenò il pensiero che era cosa da poco, che ero stato un debole, che bisognava continuare a fare il proprio dovere; che bisognava tornare a casa. Abbozzai un movimento per rimettermi in piedi, ma barcollai e sentii tutto girarmi intorno. Arrivò Della Nave con un paio di vecchi mutandoni di lana del proprietario dell’isba, me ne legò le gambe dietro il collo e mi infilò il braccio destro in modo che appoggiasse sul “cavallo”, lasciando che davanti a me penzolasse il resto dell’indumento e mi incitò a partire, perché fuori c’erano i russi.

Fu in quell’istante che mi resi conto che lui era lì con me, che non era ferito per niente, che non aveva nulla e che si prendeva cura di me, ormai praticamente prigioniero. “Cosa fai tu, ancora qui?” gli chiesi. E lui con tutta tranquillità: “Eravamo d’accordo, no?”. Aveva ancora il suo bravo moschetto a tracolla e mi sosteneva nei primi passi verso la porta dell’isba, per raggiungere la quale dovemmo scavalcare qualche corpo inerte e qualche ferito che stava per terra.

Aperta la porta, ci investì una violenta ventata di freddo, ma rabbrividii ancora di più quando scorsi, seduti sui gradini dell’isba di fronte, due russi dalle facce da mongoli che mangiavano da una gavetta, con due mitragliatori appoggiati uno al muro e l’altro fra le ginocchia. Li fissai tanto intensamente che, se fossi un disegnatore, potrei forse ancora oggi riprodurre quelle facce che mi osservavano con indifferenza. Dall’interno gridarono: “Chiudi, fa freddo” e Della Nave mi spinse dolcemente in avanti. Mi attaccai al suo collo con il braccio sano e, con quella incredibile… medicazione esterna, ci avviammo a sinistra verso la strada.

Ricordo con precisione un pensiero strano e stupido: meglio morire al freddo, per conservarsi di più. Certamente i due russi credettero che io mi allontanassi solo di qualche passo, sorretto da un compagno; forse sapevano che eravamo già prigionieri e che non valeva la pena di sprecare colpi per noi due: ma io sentivo nelle orecchie continuamente lo scatto metallico del caricatore del loro parabellum e mi sentivo la schiena trafitta dalle sventagliate.

Mi imposi di andare lentamente, molto lentamente, per aumentare l’impressione della mia incapacità, ormai, di essere un soldato nemico. Mormorai a Della Nave “andiamo piano piano, se riusciamo a girare l’angolo, forse ce la facciamo”. Così avvenne e le armi dei due russi rimasero mute. Sudavo freddo e mi sentivo debole e perduto, ma quando svoltai e fui fuori della loro vista, le forze rinvennero di colpo ed allungammo il passo. Traversammo il villaggio di Nikolajewka disseminato di caduti e prendemmo la pista verso ovest, come due punti scuri isolati in una immensità di neve.

Allora cominciai a pensare: Della Nave si era fermato perché aveva fatto un patto; aveva rischiato di morire con me; nella migliore delle ipotesi aveva rischiato la prigionia che, pur non sapendo ancora quanto potesse essere dura, temevamo al di sopra di ogni cosa. Aveva anche lui a casa una famiglia che lo aspettava. Avrebbe potuto andarsene con gli altri e nessuno lo avrebbe certo rimproverato. No. Lui aveva superato tutto per tenere fede ad una parola. Io l’avrei fatto? Quanti altri l’avrebbero fatto? Mi commossi e strinsi ancora di più col braccio il collo dell’amico, giurandogli dentro di me eterno affetto.

Il resto è storia comune: dopo molte ore di penoso andare ritrovammo la colonna e dopo pochi giorni e molte decine di chilometri eravamo fuori dalla sacca, dopo aver superato ancora alcune peripezie. Ma io ero sempre amorosamente assistito e accompagnato dal Della Nave, che mi lasciò solo quando fui caricato su una autoambulanza e ricoverato a Karkow all’Ospedale n. 8.

Sono passati quasi trent’anni. Giovanni Della Nave abita con la famiglia a Morbegno e lavora in Svizzera; un suo figliolo è sotto le armi ed è artigliere alpino al 5^. Anche un figlio di quell’ufficiale di allora è stato già sottotenente ed anche lui al 5^ Alpini, Battaglione Morbegno. Non è tradizione questa? Quel sottotenente di allora ero io ed ho ancora oggi il rimpianto di non aver potuto ottenere per Della Nave una ricompensa al valore che attestasse di fronte a tutti il sereno eroismo di quel suo grande gesto.

Alpino Davide Caprani
45ª Compagnia, Battaglione Morbegno, Reggimento Alpini

Dopo la tremenda notte di Warwarowka, nell’inferno delle autoblinde e dei carri armati, nella quale cadde il maggiore Sarti e vicino a me i due sergenti del battaglione, Aondio e Conca abitanti a Gravedona, trovammo rifugio in un’isba abbandonata. Durante la notte attraverso le finestre ci furono lanciate alcune bombe a mano che causarono dei feriti, e al mattino il primo di noi che si affacciò alla porta vide dinnanzi al suo viso la rotonda sagoma di un caricatore di parabellum.

Presi prigionieri fummo avviati lungo una distesa gelata e fummo costretti a marciare quasi sempre con le mani levate in alto; verso sera ci fermammo e con altri ufficiali russi venne verso di noi un giovanissimo sottotenente che parlava perfettamente l’italiano. La marcia riprese il giorno dopo e verso sera giungemmo a Nikolajewka e fummo messi (eravamo in 300) in una vecchia chiesa.

Prima di sistemarci riapparve quel giovane ufficiale e uno di noi più ardito degli altri gli chiese dove avesse imparato così bene l’italiano; gli fu risposto in modo quasi cordiale che era stato sette mesi a Roma, ma invece noi pensammo che fosse figlio di qualche fuoriuscito italiano vivente in Russia. Diede ordine che i tedeschi ammassati con noi facessero un gruppo a parte, e così fu. Si salvò solo un sergente abitante a Bolzano che ci pregò di non rivelare la sua appartenenza alla Wehrmacht. Si salvò soprattutto perché eravamo vestiti con indumenti di ogni foggia e il bolzanino aveva un cappuccio grigioverde del nostro esercito.

Al mattino seguente si incominciò a sentire sparare e il fuoco con varia intensità durò tutto il giorno; nella chiesa non c’erano russi, e noi ci domandavamo cosa accadesse e lo domandavamo al tenente Giovanni De Vecchi, abitante nel Friuli, ufficiale della 45ª che comandò poi, dopo l’uscita dalla sacca, l’intera compagnia, o meglio quei pochi resti che rimanevano.

Quando incominciava ad oscurare il cielo, il fuoco si sentì più violento e allora facemmo una piramide per salire a vedere dalle alte finestrelle cosa succedesse. Chi era in cima a tutti disse che si vedevano girare pattuglie vestite di bianco ma non gridò per attirare la loro attenzione temendo che fossero truppe russe. Infine gridò con gioia di aver riconosciuto una mitragliatrice Breda tra quei soldati.

Allora con le poche forze rimasteci sfondammo la porta e ci precipitammo fuori: di fronte a me, alla guida di quei soldati prima sconosciuti c’era il maggiore Belotti, mio comandante di compagnia sul fronte grecoalbanese. Mi domandò di che battaglione fossi, io risposi del Morbegno e il maggiore Belotti mi disse: “Il Morbegno non esiste più, aggrègati all’Edolo”. E ricordo ancora ora dopo 30 anni queste parole che mi gelarono il cuore.

Vidi anche alcuni compaesani dell’alto Lario e precisamente Manzini di Peglio e i fratelli Caraccio di Montemezzo, artiglieri alpini del Gruppo Valcamonica, e mi ricordo come adesso che avevano su un mulo una capra morta che mangiammo insieme la sera stessa quando pernottammo nella chiesa a me ormai familiare. Il mattino dopo, quando gli ufficiali riordinarono le file, trovammo alcuni carabinieri che non lasciavano passare da una parvenza di posto di blocco i soldati che erano disarmati e li facevano unire alla grande massa degli sbandati che da tanti giorni seguivano le truppe combattenti.

Poiché volevamo tornare tra i nostri vecchi compagni di reparto e di vallata, un mio compaesano di Vercana, Raimondo Aggio, al quale ero legato da legami risalenti ai tempi di scuola e con il quale trascorsi tanti anni di guerra, prese due fucili da un’autoblinda tedesca. Così superammo il posto di blocco e con due fucili… scarichi ci avviammo verso l’Italia.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento