ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA – 8

a cura di Cornelio Galas

Ultima puntata sulle armi di distruzione di massa. Con un’avvertenza: la ricerca del dott. Stefano Felician si ferma al 2009. E a quell’anno quindi è aggiornata per quanto riguarda le “crisi” internazionali (Corea del Nord e Iran, soprattutto) tornate in questi ultimi mesi a riproporre i rischi di una guerra con l’utilizzo di questo tipo di armi.

Ma il lettore certamente capirà che quelli del 2009 erano in realtà prodromi di ben più gravi situazioni. Nelle quali il mondo, adesso, senza voler fare le Cassandre di turno, sta rischiando di precipitare. Ringrazio come sempre quanti hanno inviato a “Televignole” preziose mappe, immagini e integrazioni.

Le armi di distruzione di massa in alcuni contesti

Sono diverse le parti del mondo nelle quale si assiste alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. La proliferazione è diversa a seconda degli stati e dei contesti; alcuni, ad esempio, sono più attenti a certi tipi di armi di distruzione di massa rispetto ad altri.

In ogni caso la selezione di alcuni abiti geografici (e dei conseguenti scenari) rispetto ad altri è solo una decisione soggettiva, e, come tale, arbitraria. Le diplomazie ed i governi seguono con attenzione le vicende a loro più vicine rispetto a quelle più lontane, anche se nel mondo globalizzato esprimersi in questo modo sembra avere sempre meno senso. I casi esaminati qui di seguito sono comunque due contesti tenuti sotto controllo dal governo italiano.

Corea del Nord

La Repubblica Popolare democratica di Corea è uno stato asiatico conosciuto anche con il nome di Corea del Nord o, in inglese, DPRK (Democratic Popular Republic of Korea). Situata nella penisola Coreana, la Corea del Nord confina a Nord-ovest con la Russia (19 km), a Nord con la Cina (1.416 km) ed a sud con la Corea del Sud (238 km). Ad est ed ad ovest è bagnata dal mare, rispettivamente il mar Giallo ed il mar del Giappone. La Corea del Nord si estende per 120.538 kmq, ha una popolazione di 22.600.000 persone, ed ha una posizione strategica fra la Cina, la Russia, la rivale Corea del Sud ed il vicino Giappone.

La Corea del Nord deriva il suo nome volgare dal fatto che essa occupa geograficamente la parte settentrionale della penisola coreana, ed è separata dall`altra repubblica di Corea da un confine artificiale creato sul trentottesimo parallelo. Il confine prevede per ogni lato una fascia di due chilometri di zona demilitarizzata.

La Corea del Nord, che ha la pretesa di essere la sola ed ufficiale repubblica di Corea, sostiene che “the South is still controlled by the imperialist interests and the U.S. troops”: dalla fine della Guerra di Corea, la Corea del Nord non ha mai riunciato alla volontà di riunificare il paese, secondo quanto insegnato dal (defunto) leader Kim Il Sung “to unify the divided country in this moment is the supreme national task of all the Korean people, and we cannot wait just one moment to achieve it”.


Storia e sistema politico
La penisola di Corea è sempre stata un piccolo limbo di terra pesantemente conteso da due vicini ambiziosi e potenti. La storia della Corea e del popolo coreano è costellata di guerre contro i cinesi ed i giapponesi, che ripetutamente hanno cercato di dominare la piccola penisola. Nel 1910 il Giappone conquistò la Corea, sottoponendola ad un regime politico molto severo e particolarmente feroce nei confronti dell’identità coreana, nettamente diversa da quella giapponese.

La dominazione terminò solo nel 1945 con la fine della seconda Guerra mondiale, quando la Corea venne divisa in due zone d’occupazione separate dal trentottesimo parallelo: la Corea del Nord, sotto controllo sovietico, e la Corea del Sud, sotto controllo americano. Secondo il principio enunciato da Milovan Gilas, anche in Corea le due nazioni “liberatrici” cominciarono presto a imporre i propri sistemi politici alle terre da loro controllate. Nel nord si affermò ben presto la figura di Kim Il Sung, che instaurò una dittatura di tipo comunista particolarmente severa: al sud si affermò invece un’altra dittatura controllata dagli Stati Uniti.

Come nel caso della Germania, la progressiva divisione della nazione rimandò l’ipotesi di riunificazione e cristallizzò lo status quo. Le paure di entrambe le superpotenze erano riconducibili all’ipotesi che in caso di riunificazione la Corea potesse finire interamente nella sfera di controllo dell’avversario. Gli avvenimenti degli ultimi anni quaranta, come il ponte aereo di Berlino, e la vittoria del comunismo in Cina rafforzarono ulteriormente le paure degli americani sull’espansione del comunismo, arrivando a far teorizzare la dottrina del containment, cioè il contenimento dell`espansione comunista e del rollback, cioè la capacità di reagire all’espansione.

Nel 1950 Kim Il Sung, convinto della debolezza della Corea del Sud e desideroso di riunificare la Corea sotto la sua guida, dopo le consultazioni (ed i relativi avvalli) di Stalin e Mao si decise ad invadere la parte meridionale della Penisola. L’iniziale risposta sudcoreana fu debole, ed in poco tempo le armate del nord giunsero fin quasi alla fine della penisola. Grazie alla mancanza del delegato sovietico nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, gli Stati Uniti riscirono a far condannare il gesto di Kim il Sung ed a far approvare un intervento ONU nel teatro.

Alla guida del generale MacArthur le truppe dell’ONU (per la maggior parte costituite da americani) dopo lo sbarco a Inchon riuscirono a ricacciare i nordcoreani oltre il precedente confine, invadendo la Corea del Nord. La guerra terminò con il ripristino del confine sul 38° parallelo, e con la sottoscrizione di un armistizio.

A questo non ha mai fatto seguito un trattato di pace, perciò le due Coree sono ancora se non in uno stato di guerra almeno non soggette ad una pace definitiva. Questo status internazionale ben rende l’idea di come il contesto regionale sia decisamente delicato e complesso. Dopo la fine della guerra le due Coree hanno scelto strade opposte, seguendo i rispettivi paesi guida: al Sud si è affermato un sistema capitalista e poi una democrazia occidentale, mentre il Nord ha perseguito un preciso posizionamento nell’orbita comunista.

Il regime autocratico di Kim Il Sung ha sostanzialmente isolato la Corea del Nord da qualsiasi rapporto con l’esterno, riducendo il paese all’ultimo regime di carattere stalinista del mondo: l’economia nordcoreana (e la sua popolazione) riusciva a sopravvivere grazie agli intensi aiuti degli altri paesi del blocco comunista.

Nel corso dei dissidi avvenuti fra Cina e Unione Sovietica la Corea del Nord è riuscita a ritagliarsi una posizione di equilibrata distanza dalla sfida, cosa che le ha permesso di mantenere buoni rapporti con entrambe le potenze: in altri termini, secondo il Dipartimento di Stato americano, “throughout the Cold War, North Korea balanced its relations with China and the Soviet Union to extract the maximum benefit from the relationships at minimum political cost […] North Korea tried to avoid becoming embroiled in the Sino-Soviet split, obtaining aid from both the Soviet Union and China and trying to avoid dependence on either”.

Il crollo del blocco orientale nel 1989 non turbò per nulla la situazione nordcoreana, rimasta saldamente nelle mani di Kim Il Sung; la mancanza di aiuti umanitari si ripercosse invece sulla popolazione, che si trovò ad affrontare una difficile situazione alimentare che perdura sino ad oggi. Stante la difficoltà a reperire informazioni attendibili sulla Corea del Nord, diversi autori hanno riferito di una vera e propria serie di carestie avvenute nel paese. Nel 1994 la morte di Kim il Sung permise il passaggio del potere nelle mani del figlio, Kim Jong Il, il quale continuò imperterrito il regime dittatoriale paterno, arrivando ad assumere tratti grotteschi e addirittura ridicoli.

La Corea del Nord ad oggi si definisce, a norma dell’articolo uno della Costituzione, “a socialist independent state that represents all the interests of the Korean people”, ed è uno dei pochi stati comunisti rimasti tali al mondo. La sua ideologia, come riportato dall’articolo cinque della Costituzione, si riferisce al centralismo democratico, corroborato dalle idee e le dottrina di Kim Il Sung, nominato “presidente eterno”: nonostante sia morto nel 1994, ad oggi la carica è vacante, stante l’eternità del “caro leader” (come Kim Il Sung si faceva chiamare).

La Corea del Nord continua oggi a vivere in una difficile situazione politica ed economica. Per prima cosa la pesante dittatura di Kim Jong Il continua a vigere con spietata durezza, al punto di attirare le critiche di moltissime istituzioni indipendenti, soprattutto quelle attive nel settore dei diritti umani. L’ideologia centrale nel sistema nordcoreano è stata teorizzata da Kim Il Sung, ed è il principio della juche, traducibile con “auto-realizzazione” ovvero “the ability to act independently without regard to outside interference”.

In altre parole, come riporta la dizione ufficiale del governo, “the Juche Idea means, in few words, that the owner of the revolution and construction are the people’s masses”: questa dottrina politica rimane al centro del sistema e continua ad informare il paese ai suoi dettami, incarnati e portati avanti dal leader Kim Jong Il. Il ruolo del partito comunista è centrale, seppure svuotato di poteri, tutti saldamente concentrati nelle mani del dittatore. Dalla caduta del blocco orientale si è inoltre affiancata alla dottrina della Juche la dottrina del Songun, cioè “priorità all’esercito” o “esercito al centro”.

Sulla base di tale idea, ufficializzata da Kim Jong Il nel 1995, le forze armate sono state considerate un elemento centrale per la difesa dei successi rivoluzionari e per lo sviluppo del socialismo. In altre parole, la teoria non ha fatto altro che cementare sempre più i destini della Corea del Nord al suo imponente apparato militare. In secondo luogo la Corea del Nord soffre si gravi problemi legati all’alimentazione della sua popolazione, il che genera grossi problemi soprattutto nelle aree rurali.

Il 37% della popolazione ancora lavora nelle campagne, il reddito pro capite è di 1.800 $ l’anno, e le infrastrutture sono deboli e poco sviluppate. Periodici problemi con la corrente elettrica si evidenziano dalle riprese satellitari notturne, nelle quali si vede che la Corea del Nord la notte è sostanzialmente priva di alcuna luce visibile. Il sistema economico risente tutt’oggi della forte centralizzazione e della conseguente mancanza di investimenti (salvo che nel settore militare), arretratezza nelle campagne, bassa elettrificazione e inefficienza delle fattorie collettive. Al momento solo lo stretto controllo delle autorità riesce ad impedire efficacemente ogni tipo di protesta.

Il sistema militare

Un ruolo predominante nel sistema politico e sociale nordcoreano è da sempre stato attribuito alla Difesa. La Corea del Nord è nota per essere uno degli stati più militarizzati del mondo, se non proprio il più militarizzato, nonostante all’articolo diciassette della Costituzione si affermi che “independence, peace, and solidarity are the basic ideals of the foreign policy and the principles of external activities of the DPRK”.

Le motivazioni di questo impressionante sviluppo dell’apparato militare non è solo dovuto ad esigenze di difesa ma a precise esigenze politiche di stabilità. La classe politica ha sempre visto con particolare favore le Forze Armate: lo stesso Kim il Sung fra i suoi innumerevoli meriti annovera anche quello di essere stato generale. Fin dal principio la Corea del Nord ha sempre attribuito un ruolo centrale al sistema militare ed alle Forze Armate, e sono esplicitamente citate nella Costituzione dall’articolo cinquantotto all’articolo sessantuno, rubricati “difesa nazionale”.

La finalità del ruolo delle Forze Armate è palesata nell’articolo cinquantanove, che recita “the mission of the armed forces of the DPRK is to safeguard the interests of the working people, to defend the socialist system and the gains of the revolution from aggression and to protect the freedom, independence and peace of the country”, ed è stato riaffermato da Kim Jong Il poco dopo la sua presa del potere con la teorizzazione del Songun.

La funzione ambivalente delle Forze Armate nordcoreane ha plasmato sia gli aspetti di politica interna che di politica internazionale: in altre parole “the army is much more than just a military organization; it is North Korea’s largest employer, purchaser, and consumer, the central unifying structure in the country, and the source of power for the regime”. Ad oggi (2009 ndr) la Corea del Nord tiene sotto le armi circa un milione e duecentomila persone, inquadrate nel Chosŏn inmin’gun, più conosciuto con la dizione inglese Korean People’s Army (KPA).

Le Forze Armate si ripartiscono su quattro settori diversi, cioè esercito, marina, aviazione e le forze  missilistiche. Gli impressionanti numeri delle forze armate di Pyongyang, quali 11.000 pezzi d’artiglieria, 5.000 carri armati, oltre 1.500 aerei e circa 700 navi devono confrontarsi con una realtà ben diversa dai numeri presenti sulla carta. Stanti le analisi della rivista Jane’s è difficile che un attacco nordcoreano possa sortire effetti positivi, in quanto è rilevante l’obsolescenza dei mezzi e la mancanza di ulteriori esperienze di combattimento del KPA.

Nonostante il governo nordcoreano spenda fra il dieci ed il venti percento del PIL solo nella difesa, le forze armate sono tutt’oggi uno strumento militare inefficiente, che si basa più sulla quantità che sulla qualità dei suoi membri. Il numero impressionante di divisioni schierate ben indica come il regime si affidi ai militari non solo per la difesa del paese ma anche per regolare e irreggimentare tutta la vita della popolazione. A fianco delle forze armate regolari esistono le riserve e un vasto programma di addestramento per i lavoratori, cosa che in caso di guerra aumenterebbe di molto gli organici del KPA.

La pesante militarizzazione della vita nordcoreana è sempre stata vista con particolare preoccupazione dalla vicina repubblica del Sud; tuttavia ciò che ha richiamato l’attenzione del mondo su questa piccola penisola è legato al programma di armamento nucleare che la Corea del Nord ha cominciato ad intraprendere, affiancato allo sviluppo di vettori (missili balistici).

Secondo diverse fonti la Corea del Nord è in possesso di armi di distruzione di massa, soprattutto chimiche: però quelle che oggi fanno più paura sono quelle nucleari, delle quali la Corea del Nord ha deciso di dotarsi e che ha dimostrato al mondo con una serie di esperimenti avvenuti negli scorsi anni.

La Corea del Nord al momento ha ratificato la BWTC e il Protocollo di Ginevra: non ha sottoscritto la CWC. Fonti diverse sostengono che la Corea del Nord sia in possesso di diversi agenti chimici, soprattutto gas nervini. Per quanto riguarda il trattato NPT, la Corea del Nord costituisce un caso anomalo nel panorama mondiale, ed un pericoloso precedente per la tenuta del trattato stesso.

Nel 1985 la Corea del Nord aderì al trattato NPT, e stipulò successivamente un accordo con l’IAEA nel 1992. Nonostante le buone intenzioni, ben presto vi furono problemi riguardo all’ispezione dei siti nucleari nordcoreani; per questo nel 1993 il governo di Pyongyang decise di recedere dal trattato NPT sulla base dell’articolo dieci, lamentando l’ostilità americana e delle manovre militari congiunte fatte da Stati Uniti e Corea del Sud. Ma il giorno prima della scadenza dei tre mesi indicati dal trattato perché il recesso avesse effetto, il governo decise di sospendere unilateralmente il proprio recesso.

Dopo alcuni anni, fra il 2002 ed il 2003 si verificarono ulteriori problemi con il governo di Pyongyang, il quale, nel 2003, unilateralmente decise di ritirare la sospensione del 1993 e così di non ritenersi più vincolato al trattato NPT. Questo comportamento, criticato a livello internazionale anche per le modalità con cui è avvenuto, ha comunque segnato de facto l’uscita della Corea del Nord dal trattato NPT, costituendo un pericoloso precedente per gli altri stati partecipanti.

Il regime nordcoreano ha sempre avuto particolarmente paura di un attacco dei vicini del Sud, e questo timore è stato utilizzato non solo come un elemento di pressione sulla opinione pubblica interna, ma anche come una giustificazione per l’imponente arsenale militare. Sulla base di queste riflessioni il governo comunista ha deciso di intraprendere un programma nucleare come strumento di deterrenza contro i possibili attacchi degli americani e dei loro alleati, ma anche come elemento di rafforzamento del prestigio politico e militare della nazione. Anche in questo caso il programma nucleare svolge una doppia funzione, sia interna che esterna.

Il programma nucleare e le sue conseguenze

Secondo uno studio dello Strategic Studies Institute “an additional motivation for a country to acquire nuclear weapons is for the prestige that comes with this status. North Korea’s leaders have inflated opinions of themselves and their country. North Korea’s status as a member of the exclusive nuclear club is a prestigious badge”. Il programma nucleare di Pyongyang cominciò ad essere ideato già verso la metà degli anni cinquanta, in funzione antigiapponese, americana e sudcoreana: non va dimenticato che fu merito del presidente Truman se nella guerra di Corea non vennero usate armi atomiche.

La crisi dei missili del 1962 convinse Kim il Sung che i russi non erano partner credibili per la difesa del territorio coreano con armi nucleari: da qui la decisione di intraprendere un proprio programma atomico, basato su risorse nazionali. Con l’assistenza sovietica e del personale mandato a specializzarsi in Russia, nel paese di Yongbyon venne allestito un centro di ricerca nucleare. Successivamente il centro di Yongbyon venne chiuso nel 1994, in seguito a degli accordi avvenuti fra la Corea del Nord e gli Stati Uniti; tuttavia le attività ripresero nel 2003 dopo l’uscita dal trattato NPT, e proprio da Yongbyon è derivato il materiale nucleare utilizzato per gli ordigni nordcoreani.

Il programma nucleare subì un’accelerazione dopo il 1989, e nel 1992 la Corea del Nord impedì agli ispettori dell’IAEA di visitare il sito di Yongbyon, confermando i timori riguardo alla produzione di materiale per ordigni nucleari. Nel 1994 in un accordo con gli Stati Uniti il governo di Pyongyang si dichiarava disposto a sospendere il programma di arricchimento del plutonio in cambio di assistenza economica e forniture di petrolio americane, assieme alla costruzione di un paio di reattori ad acqua pesante. Il clima di dialogo instauratosi con l’isolato regime coreano purtroppo durò poco.

Nel 1998 la Corea del Nord provò (senza successo) a lanciare in orbita un proprio satellite mediante un vettore balistico di propria produzione, il missile Taepodong 1458. Nonostante questo lancio venne giustificato come lecito desiderio di esplorazione spaziale, in realtà il missile era (ed è, in quanto ancora in servizio) capace di trasportare anche testate nucleari: per questo le reazioni americane (e soprattutto giapponesi) non furono affatto morbide nei confronti dell’iniziativa di Pyongyang. Pochi anni dopo, nel 2002, George Bush accusò la Corea del Nord di far parte del cosiddetto “asse del male” (Axis of evil) di stati che sponsorizzavano il terrorismo e che ponevano minacce alla pace mondiale.

Verso la fine dell’anno la Corea del Nord espulse gli ispettori dell’IAEA, e agli inizi del 2003 si ritirò dal trattato NPT, primo caso mai avvenuto nella storia del trattato. Considerando la necessità di aprire un negoziato con Pyongyang ma tenendo conto dell’opposizione americana ad un dialogo a due, di seguito al ritiro nordcoreano vennero varati i cosiddetti “Six Party talks”, cioè una serie di incontri cui presero parte Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone, DPRK e Corea del Sud.

Nel corso di questi colloqui, che continuarono fino al 2007, vennero compiuti pochi progressi: ciò che turbò l’opinione pubblica mondiale in questo periodo fu l’annuncio e la successiva esplosione di un ordigno atomico avvenuta nel 2006. Dopo l’annuncio del tre ottobre, il nove ottobre 2006 a Hwaderi, nel nordest del paese la Corea del Nord fece esplodere il suo primo ordigno nucleare, acquisendo pertanto l’agognato status di  “nazione nucleare”, l’ultima del famoso “club”.

La rete dei sismografi rilevò intorno alle 10.30 del mattino una scossa di terremoto di grado 4,2 della scala Richter, nella zona dell’esplosione. Successivamente venne rilasciato un comunicato stampa dall’agenzia KCNA (l’organo ufficiale del regime di Pyongyang) che confermava l’esplosione del primo ordigno nucleare completamente costruito in Corea del Nord. Le stime delle varie agenzie nucleari indicarono che l’ordigno esploso era di bassa intensità, e secondo alcuni sembrava incerto che si fosse fatto esplodere un ordigno nucleare.

Qualche settimana dopo, comunque, in Canada vennero avvertite da diverse stazioni di rilevamento forti quantità di xenon, probabilmente derivate dall’esplosione. Allo stesso modo diversi dati sembravano confermare l’acquisita capacità nucleare nordcoreana. La risposta della comunità internazionale non si fece attendere. Già il 14 ottobre il Consiglio di sicurezza dell’ONU approvava la risoluzione 1718 la quale, riaffermando che la proliferazione delle armi NBC “as well as their means of delivery, constitutes a threat to international peace and security” esprimeva la propria preoccupazione per il test nucleare appena compiuto.

Ai sensi dell’articolo quarantuno della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza condannava il test nucleare, richiedeva di non condurne più, chiedeva alla Corea del Nord di ritrattare il proprio ritiro dal trattato NPT e di riprenderne parte, intimando anche di abbandonare, in modo irreversibile, tutte le armi nucleari ed i programmi in materia ed infine il Consiglio comminava tutta una serie di sanzioni. Le reazioni internazionali furono sostanzialmente unanimi nel condannare il gesto nordcoreano, comprese quelle di Russia e Cina.

Verso la fine del 2007 i “Six Party talks” ripresero, e il 16 febbraio 2007 venne raggiunto un accordo nel quale la Corea del Nord si impegnava a chiudere l’impianto di Yongbyon in cambio della fornitura di grosse quantità di risorse energetiche. Verso la fine del 2008 gli Stati Uniti rimossero la Corea del Nord dall’elenco degli Stati che fomentavano il terrorismo. La situazione si è però aggravata nei primi mesi del 2009, in quanto il cinque aprile la Corea del Nord testò un nuovo missile.

A seguito della condanna dell’Onu intervenuta pochi giorni dopo, il governo di Pyongyang decise di non partecipare più ai Six Party talks ed espulse gli ispettori internazionali. Di seguito riattivò i propri impianti nucleari ed il venticinque maggio fece esplodere un secondo ordigno nucleare. Tale arma, detonata intorno alle dieci del mattino ha generato un terremoto di circa 4,5 gradi della scala Richter, immediatamente avvertito dai sismografi della CTBTO e dei diversi paesi circostanti.

La notizia è poi stata ufficialmente confermata dalla KCNA, con un comunicato che giustificava l’esperimento “as part of the measures to bolster up its nuclear deterrent for self-defence in every way as requested by its scientists and technicians. The current nuclear test was safely conducted on a new higher level in terms of its explosive power and technology of its control and the results of the test helped satisfactorily settle the scientific and technological problems arising in further increasing the power of nuclear weapons and steadily developing nuclear technology”.

Lo scopo dell’esperimento, sempre secondo la versione ufficiale, era di contribuire a difendere “the sovereignty of the country and the nation and socialism and ensuring peace and security on the Korean Peninsula and the region around it with the might of Songun”. L’agenzia taceva invece riguardo al luogo ed alla dimensione dell’arma. Inizialmente alcuni dubitarono dell’effettiva detonazione di un ordigno nucleare, in quanto non si erano registrate emissioni di gas collegate all’esplosione: questo fece ritenere che la Corea del Nord non avesse compiuto un effettivo test nucleare.

Le stazioni di rilevamento della CTBTO, infatti, non avevano registrato alcun tipo di gas nobile. Dopo diversi giorni di incertezze, il dodici giugno la CTBTO confermò definitivamente l’esistenza di un test nucleare nordcoreano, che per di più aveva avuto effetti sismici superiori all’esperimento del 2006. Secondo le stime di diversi analisti l’ordigno poteva essere al massimo da venti chilotoni, cioè pari all’entità delle bombe esplose durante la seconda guerra mondiale.

La provocatoria esplosione attirò sul governo di Pyogyang immediate critiche da tutti gli stati vicini politicamente come la Cina, la Russia ed il Vietnam che condannarono senza mezzi termini l’esperimento nordcoreano: l’Iran, invece, dichiarò che si trattava di una questione interna alla DPRK. Il dodici giugno del 2009 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò all’unanimità la risoluzione 1874, con la quale condannava l’esplosione nordcoreana e chiedeva alla Corea del Nord di non condurre più “any further nuclear test or any launch using ballistic missile technology”, di sospendere le attività inerenti i missili balistici, di adempiere alla risoluzione 1718 del 2006 e di ritrattare il ritiro dal trattato NPT.

Più generalmente, all’articolo otto veniva richiesto che la Corea del Nord “shall abandon all nuclear weapons and existing nuclear programmes in a complete, verifiable and irreversible manner and immediately cease all related activities, shall act strictly in accordance with the obligations applicable to parties under the NPT and the terms and conditions of the IAEA Safeguards Agreement (IAEA INFCIRC/403) and shall provide the IAEA transparency measures extending beyond these requirements, including such access to individuals, documentation, equipment and facilities as may be required and deemed necessary by the IAEA”.

La risoluzione proseguiva indicando altre misure non militari come l’embargo che doveva, almeno teoricamente, far si che la Corea del Nord ritrattasse la sua posizione. Il governo di Pyongyang condannò la risoluzione, e fra il due ed il quattro luglio testò una serie di missili balistici sul Mar del Giappone. La coincidenza simbolica della seconda data (il quattro luglio è l’anniversario dell’indipendenza statunitense) è stata letta da molti analisti internazionali come una palese sfida agli Stati Uniti, i quali poco prima si erano espressi negativamente riguardo alla capacità nucleare nordcoreana.

Il lancio dei missili, in violazione della risoluzione 1874, fu seguito da pesanti critiche del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Da luglio non si sono più verificati lanci di missili o esplosioni nucleari, ma la tensione nell’area resta palpabile. I motivi che spingono la comunità internazionale ad interessarsi così tanto della piccola e totalitaria Corea del Nord oggi sono basati più sulla paura di un nuovo attore capace nuclearmente piuttosto che su quella delle forze convenzionali nordcoreane, molto numerose ma qualitativamente obsolete.

Il programma missilistico nordcoreano

Come noto, le armi nucleari possono essere trasportate in molti modi diversi. La riflessione che al momento riguarda la Corea del Nord è finalizzata soprattutto alla sua capacità balistica, cioè ai sistemi missilistici usabili sia per motivi spaziali – e così giustificati da Pyongyang – sia come veicoli per trasportare testate nucleari, come temuto dalla comunità internazionale. La Corea del Nord oggi mantiene un interessante programma missilistico, il quale è stato oggetto di ripetute critiche sia dei paesi confinanti che di molti altri.

D’altro canto il programma missilistico nordoreano “in the late 1970s, the missile program became a national priority equal to that of the nuclear program“; è pertanto evidente che nel momento in cui Pyongyang dimostra di possedere effettive capacità belliche nucleari si concentri l’attenzione sui relative vettori. Agli inizi degli anni sessanta i russi cominciarono a fornire dei missili SAM (surface-air missiles) alla Corea del Nord; di seguito Kim il Sung creò una struttura militare per cominciare a studiare e sviluppare la missilistica nordcoreana: l’Accademia militare di Hamhung.

Verso la fine degli anni sessanta l’Unione Sovietica cominciò a fornire a Pyongyang i primi missili SS-2. I primi missili nordcoreani furono i missili tattici nominati come Hwasong 5 e Hwasong 6: si trattava di missili a corto raggio (meno di 1.000 km) e capaci di portare una testata relativamente leggera. Alcuni di questi missili vennero addirittura esportati in Iran nel corso degli anni Ottanta. Sempre in quel periodo, la Corea del Nord “began to focus on research, development, and the eventual production of medium-range missiles”: si trattava dei missili Nodong, derivati dal missile sovietico SS-1, più conosciuto con il nome Nato di “scud”.

Il capofila di questa serie, il Nodong 1, è un missile del raggio di circa 1.300-1.500 km capace di portare un carico di 700/1.000 kg. Alcuni prototipi vennero testati nel 1993 sul mar del Giappone, allarmando molto le autorità nipponiche. Il Nodong 1 non è preciso, ma la breve distanza fra Corea del Nord e Giappone e la potenziale distruttività di un’arma nucleare vanifica l’imprecisione del sistema. Inoltre nel raggio d’azione del missile rientra anche la capitale Tokyo, una delle aree urbane più grandi e popolose del pianeta.

Il modello Nodong 1 fu seguito dal Nodong 2, il quale possiede un raggio d’azione stimato attorno ai 2.000 km. Alcuni modelli di Nodong 2 furono lanciati a luglio del 2006. La corsa agli sviluppi della tecnologia missilistica non si fermò dopo questi primi modelli: “in the 1980s and early 1990s, the primary concern about North Korea was as a leading proliferator of missiles and missile technology”.

La fortunata serie di missili Nodong rappresenta un elemento importante nella strategia e nell’evoluzione tecnologica: sulla base degli studi fatti per questa categoria di missili, verso la fine degli anni Novanta vennero sviluppati dei nuovi missili a lungo raggio, la serie Taepodong.

La serie dei missili a lungo raggio è stata inaugurata dal Taepodong 1, un missile di raggio intermedio derivato dalla serie Nodong e dagli Scud. Capace di trasportare testate militari (convenzionali o meno), il Taepodong è un tipico esempio di tecnologia dual use, in quanto può essere sfruttato anche per finalità spaziali civili. Le stime sulla sua gittata si aggirano su 6.000 km, che si abbassano a 2.000-2.500 km con un carico di una tonnellata.

Lanciato per la prima volta nel 1998, il Taepodong 1 doveva servire ufficialmente per lanciare in orbita un satellite; nonostante i toni trionfalistici dell’agenzia KCNA, l’esperimento, secondo le agenzie occidentali, fu un fallimento. Nonostante l’esito dubbio, lo sviluppo di un missile di queste capacità dimostra una certa intraprendenza nordocoreana nello sviluppo della tecnologia, anche se compiuto in assenza dei suoi partner storici, soprattutto l’Urss. Questo insuccesso non ha impedito lo sviluppo del sistema missilistico successivo, il Taepodong 2, sul quale permangono ancora notevoli dubbi riguardo alle effettive capacità.

Circondato da una notevole alone di segretezza, il Taepodong 2 rappresenta senza dubbio il missile nordcoreano di raggio più ampio, capace di una gittata stimata fra i 6.000 ed i 9.000 km a seconda del peso della testata: il che fa di questo missile il solo ICBM nordcoreano. Testato per la prima volta nel 2006, il primo lancio dell’ICBM di Pyongyang si rivelò fallimentare. Nell’aprile del 2009 si è tenuto un altro lancio del Taepodong 2, finalizzato a mandare in orbita un satellite per comunicazioni.

Questo missile, come risulta ben evidenziato dalla cartina sottostante, sarebbe in grado di trasformare la capacità nucleare nordcoreana da tattica in strategica. Bersagli come l’Alaska o l’Australia sono ora a portata di mano – almeno teorica – delle forze missilistiche di Pyongyang, il che aumenta ancora di più le preoccupazioni della comunità internazionale.

Nonostante gli unici due esperimenti si siano risolti in sostanziali fallimenti, ovviamente smentiti dai toni trionfalistici della propaganda di regime, la Corea del Nord ad oggi rappresenta uno dei paesi più impegnati nella proliferazione di missili balistici idonei anche ad una finalità militare. Al momento sono in corso studi ulteriori per incrementare la gittata utile del Taepodong 2, ridisegnando i vari stadi del missile.

Il contesto geopolitico
Situazione interna

L’autocratico regime di Pyongyang è oggi al centro del dibattito politico mondiale per certe sue azzardate scelte propagandistiche inerenti la convinta decisione di assumere una capacità nucleare militare. In quest’ottica, è possibile definire la Corea del Nord come una minaccia regionale per la pace? Ed una minaccia mondiale? Prima di rispondere a questi interrogativi occorre analizzare diverse cause che stanno spingendo così fortemente la piccola repubblica comunista a volersi dotare di un armamento nucleare. All’insieme dei notevoli problemi interni del paese si somma un contesto regionale non semplice, nel quale per di più si trova un attore in forte ascesa politica e militare, la Cina.

Per quanto riguarda il profilo politico interno, la Corea del Nord è da anni afflitta da una profonda crisi economica che si è concretata in una pesante carestia che affligge migliaia di persone. La spesa militare, che al momento è una delle più alte del mondo, drena consistenti risorse utilizzabili per lo sviluppo del paese, rimasto ancora fermo ai principi del centralismo democratico e della completa pianificazione dell’economia. Le aperture del mercato a capitali stranieri, verificatesi con un certo successo in paesi comunisti vicini (Cina, Vietnam) sono sempre state temute da Pyongyang.

A parte una piccola collaborazione con alcune imprese sudcoreane a pochi chilometri dal paese di Panmunjon, nella Corea del Nord l’economia è rimasta pianificata in perfetto stile comunista. Le difficoltà economiche sembrano però non scalfire il monolitico potere del dittatore Kim Jong Il, ancora saldamente al potere. Tuttavia le insistenti voci su una sua malattia e le ultime rare uscite pubbliche hanno dato adito a molte riflessioni riguardo alla sua salute, soprattutto dopo la vistosa assenza alla parata del 60° anniversario della DPRK, in ottobre del 2008.

Mentre la transizione da Kim Il Sung al (figlio) Kim Jong Il fu un processo tutto sommato alquanto automatico, vi sono molti dubbi per quanto riguarda l’attuale successione del “Caro Leader”. Al di là delle parole della retorica di regime, la classe politica nordcoreana è perfettamente al corrente delle difficoltà che il paese sta vivendo. Nonostante la delicata situazione economica e le provocazioni militari, fino ad oggi il profilo politico del paese è rimasto tutto sommato stabile, racchiuso com’è in una completa ed autocratica autonomia.

Tuttavia la Corea del Nord è riuscita a sopravvivere in questi anni solamente grazie a massicci aiuti alimentari e di materie prime forniti dalla comunità internazionale. L’ondivago comportamento di Kim Jong Il è stato pesantemente stigmatizzato dalla comunità internazionale a seguito dell’accresciuta capacità nucleare del paese; inoltre il clima si è esacerbato nel momento in cui il governo di Pyongyang ha deciso di perseguire una capacità missilistica strategica.

Nel corso del 2009 si è poi assistito ad un’impennata di dimostrazioni di forza, giunte sino all’ultimo lancio di missili a breve raggio del 12 ottobre. Secondo diversi analisti l’attuale sfoggio di forza da parte dell’isolato regime servirebbe non solo a distogliere l’opinione pubblica con il costante richiamo ad un nazionalismo di tipo militarista, ma anche a evitare capovolgimenti negli assetti di potere di vertice della Corea del Nord. Le precarie condizioni di salute di Kim Jong Il, di recente apparso molto magro nelle ultime foto ufficiali rilasciate, hanno portato al centro del dibattito il problema della successione politica del regime comunista.

Escluso (al momento) alcun tipo di transizione alla democrazia o ad un regime che le assomigli, per ora l’ipotesi più convincente è un passaggio di consegne all’interno della famiglia. Dei tre figli di Kim Jong Il, il favorito era sicuramente il primogenito Kim Jong Nam, incorso tuttavia in un imbarazzante episodio riguardante dei passaporti falsi durante un suo viaggio in Giappone nel 2001. Questa vicenda sembra aver definitivamente allontanato il primogenito dalla possibile successione al padre.

Chi viene dato per probabile nuovo reggente della Corea del Nord è invece il più giovane Kim Jong Un, fratello più piccolo di Kim Jong Nam e Kim Jong Chul. Del giovane Kim Jong Un si sa poco: le uniche fotografie risalgono a quando era undicenne, ed al momento non sono state registrate sue apparizioni pubbliche. Si sa solamente che è nato nel 1984 e che è stato educato in Svizzera. Ai primi di giugno del 2009 l’agenzia sudcoreana Yonhap annunciò che Kim Jong Il aveva scelto il terzogenito come suo erede: tale notizia ha comprensibilmente fatto il giro del mondo, ma non è stata confermata dalla KCNA.

Nell’alone di incertezza e riservatezza che circonda l’argomento della successione al potere, Kim Jong Un ad oggi è il più favorito al succedere al padre. Una grande incognita rimane il sistema militare. La Commissione di Difesa Nazionale è il raccordo di livello più alto fra mondo militare e mondo politico nordcoreano. Riconosciuta come un’istituzione dello Stato, la Commissione rappresenta al meglio la dottrina del “military first”, cioè la prevalenza assegnata ai militari.

La gran parte dei componenti sono militari, e la presidenza della Commissione ad aprile del 2009 è stata di nuovo assegnata a Kim Jong Il in persona. La rilevanza della nomina, soprattutto in questo periodo di transizione, è stata evidenziata da tutti i commentatori internazionali: solamente un intervento del sistema militare potrebbe essere in grado di alterare la “normale” successione ereditaria del paese. Ma d’altro canto va considerato che i vertici militari nordcoreani – in perfetto stile sovietico – hanno ormai età avanzate e poca visibilità pubblica se paragonata a quella del dittatore.

Il contesto regionale

A livello regionale la situazione è più complicata. Innanzi tutto la capacità nucleare nordcoreana si somma a quella dei due vicini già armati nuclearmente, cioè Russia e Cina, affiancati dalla presenza americana, da sempre vicina politicamente e militarmente alla Corea del Sud. E proprio questo stato è quello più direttamente minacciato dalle azioni di Pyongyang. Le due Coree sono formalmente ancora in guerra, in quanto non è mai stato concluso un trattato di pace dopo il 1953; la Corea del Nord, allo stesso modo, non ha mai cessato di indicare i vicini sudcoreani come dei semplici asserviti ai desideri dell’imperialismo americano.

Il governo di Pyongyang ha sempre dichiarato di essere l’unico e vero governo della Corea, evitando accuratamente di identificarsi solo con la parte settentrionale. Secondo le parole di Kim il Sung, infatti, “to unify the divided country in this moment is the supreme national task of all the Korean people, and we cannot wait just one moment to achieve it”: come evidente, tali espressioni non rassicurano affatto la Corea del Sud. La vulnerabilità sudcoreana è evidente non solo per la contiguità geografica fra i due paesi, ma anche per la superficie relativamente piccola della parte meridionale e per la vicinanza della capitale, Seoul, alla linea di confine.

Già i missili Hwasong 5 e Hwasong 6, per quanto non precisi, erano in grado di colpire tutto il territorio sudcoreano. La possibilità di caricare questi missili con testate nucleari rende il discorso ancora più preoccupante per il governo del Sud, il quale ha concentrata nella sola città di Seoul non solo le principali funzioni economiche, commerciali, politiche e militari, ma anche oltre dieci milioni di abitanti su circa quarantacinque milioni di sudcoreani.

Un missile atomico, per quanto non preciso, potrebbe facilmente provocare una strage di dimensioni immani. Al momento è in corso un dibattito intenso sulla possibilità di trasferire la capitale da Seoul ad un’altra città più a sud. La Corea del Sud segue con preoccupazione la crescita nucleare di Pyongyang e stigmatizza sempre con intensità le varie provocazioni nordcoreane.

La Cina, potenza atomica, è stata per anni vicina al governo di Pyongyang, anche grazie all’affinità politica dei due regimi. È pertanto altamente improbabile che Pyongyang possa mai pensare di usare i suoi missili contro il territorio di Pechino. Non va dimenticato che Kim il Sung in persona trattò con Mao e Stalin prima di invadere la Corea del sud. Nel corso degli ultimi anni, però, le relazioni fra i due stati si sono molto raffreddate. La Cina non vede di buon occhio un armamento nucleare di Pyongyang, perché tale scelta potrebbe comportare una pericolosa escalation di armamenti atomici in nazioni alleate agli Stati Uniti, cioè Giappone, Taiwan e Corea del Sud.

Una possibile risposta americana alle provocazioni di Pyongyang potrebbe consistere nel dispiegare una serie di armi atomiche in territori vicini alla Cina: naturalmente il governo di Pechino non gradirebbe affatto un’ azione di questo tipo. D’altro canto oggi fra Cina e Corea del Sud vi è anche un importante interscambio commerciale, il che rende i due stati decisamente interessati a raffreddare la situazione politica della piccola penisola. La Cina ha sempre condannato in sede di consiglio di Sicurezza le recenti manifestazioni militari nordcoreane.

Il ruolo della Cina è tuttavia decisivo per rompere l’isolamento del governo di Pyongyang dal resto del mondo. Sebbene i due sistemi comunisti siano oggi profondamente diversi, soprattutto a livello economico, la vicinanza ideologica può comunque essere un modo per creare un canale preferenziale Pyongyang-Pechino che riesca a dissuadere il governo nordocreano da ulteriori azioni di tipo militare. La mediazione cinese, infatti, è sicuramente percepita dal governo di Pyongyang come più “amica” che quella americana.

Anche la Russia è una potenza nucleare che confina con la Corea del Nord. Come la Cina anche Mosca non vede di buon occhio un’escalation nucleare nell’area, anche perché in caso di attacco con armi nucleari il suo territorio sarebbe direttamente interessato dal fallout radioattivo. La cooperazione militare con Pyongyang è risalente nel tempo, e pertanto la Russia si trova ad essere un partner importante ma meno centrale nel dialogo con l’autocratica repubblica. Inoltre la minaccia nordcoreana difficilmente potrebbe essere rivolta contro il territorio russo.

Come la Cina, anche la Russia non vedrebbe di buon occhio una nuclearizzazione della regione, soprattutto se vi fossero armi americane. Il Giappone segue con estrema preoccupazione gli sviluppi nucleari e missilistici di Pyongyang, conscio com’è che anche vettori non all’avanguardia (ad esempio i Nodong) sono comunque sufficienti a coprire la gran parte del suo territorio. E proprio l’imprecisione di questi vettori che spaventa il governo di Tokyo, preoccupato soprattutto per la comunità umana che vive nella megalopoli che si concentra attorno al cosiddetto “Tokaido corridor”, cioè una lunga serie di città che si stendono dal Giappone orientale a quello occidentale, nel quale sono concentrati circa ottanta milioni di giapponesi, oltre ai principali centri decisionali.

In caso di attacco, l’imprecisione di un missile nucleare sarebbe poco rilevante, ed in qualsiasi modo si produrrebbero effetti devastanti. Inoltre il Giappone sta attraversando una fase di ripensamento riguardo alle sue forze armate; è chiaro che le scelte nordcoreane saranno sicuramente prese in considerazione nel dibattito politico giapponese, e potrebbero essere ottime giustificazioni per consentire una nuova fase della difesa giapponese, fortemente temuta da tutti i paesi vicini, in primis la Cina.

La Corea del Nord oggi manifesta appieno i sintomi di uno stato prossimo al collasso: il Failed States index 2009 della rivista Foreign Policy riporta la Corea del Nord come stato sull’orlo del pericolo, posizionandolo al diciassettesimo posto nella classifica mondiale. Nonostante gli evidenti segni della crisi, la situazione in Corea del Nord al momento è cristallizzata intorno alla figura di Kim Jong Il, il quale detiene ancora i pieni poteri. Non si notano nemmeno segni di transizione come ad esempio sta avvenendo a Cuba: per questo le potenziali incertezze della piccola repubblica preoccupano molto le superpotenze che la circondano.

La difficoltà di allacciare dialoghi e il tono ricattatorio di Pyongyang non aiutano di certo una veloce soluzione del problema. È comunque opinione condivisa del Consiglio di Sicurezza che le recenti azioni nordcoreane stanno seriamente minando quella politica che, a piccoli passi, cerca di contenere il più possibile la proliferazione orizzontale degli ordigni nucleari. Oltre a tutto questo, la Corea del Nord rimane uno dei maggiori proliferatori in materia missilistica che ci siano.

Le esportazioni di tecnologie militari costituiscono una buona voce nel bilancio del governo di Pyongyang, ed attribuiscono un prestigio militare che la piccola repubblica non potrebbe avere con le sue faraoniche (ma deboli) forze convenzionali. Anche in questo caso la proliferazione fomentata da Pyongyang può agevolare alcuni stati ad acquisire capacità missilistiche, il che potrebbe a sua volta essere un pericolo nel caso in cui sui vettori si caricassero armi nucleari (o altre armi di distruzione di massa).

La Corea del Nord riavvierà il reattore nucleare fermato nel 2007. Lo riferisce l’agenzia ufficiale Kcna. La mappa del nucleare nordcoreano

La comunità internazionale è compatta nel criticare la politica “muscolare” di Pyongyang, ed al momento l’unica soluzione possibile è la riapertura di un negoziato che permetta da uscire dalla scivolosa situazione di stallo che si è generata dopo tutti questi mesi di provocazioni. È evidente che un futuro accordo con la Corea del Nord non potrà non avere ripercussioni sulla situazione regionale, e, inevitabilmente, richiederà una complessa ponderazione di interessi di molte importanti nazioni che insistono sull’area con i loro interessi politici ed economici.

D’altro canto, per avere un esito favorevole delle negoziazioni non si potrà sottovalutare nemmeno la volontà di Pyongyang di presentarsi come “vincitrice” al tavolo del negoziato, in quanto il governo nordcoreano ha fatto degli slogan nucleari uno dei pochi elementi che riescono ancora a tenere unito il paese. In conclusione, citando l’autorevole analisi della rivista Jane’s, “although regional conflict is inconceivable in the short term, in the longer term these trends are detrimental to regional stability”.

In altre parole, prima si riuscirà a chiudere un accordo con Pyongyang per cristallizzare la situazione ed i test missilistici, prima si potrà impedire una deriva che sul lungo periodo rischia di divenire pericolosa, aprendo la strada ad un riarmamento (che potrebbe essere anche non convenzionale) di tutta l’area.

Iran

L’Iran, ufficialmente conosciuto come Repubblica Islamica dell’Iran è uno stato mediorientale posizionato fra il Mar Caspio ed il Golfo persico e confinante (partendo da est) con il Turkmenistan, l’Afghanistan, il Pakistan, l’Iraq, la Turchia, l’Armenia e l’Azerbaijan. Con una superficie di oltre un milione e mezzo di chilometri quadrati e quasi 5.500 chilometri di confini, è facile comprendere come mai l’Iran sia uno stato cardine nel contesto mediorientale sotto diversi punti di vista.

L’attuale repubblica islamica conta oggi circa sessantasei milioni di abitanti, e presenta delle impressionanti capacità di crescita demografica: il 21,7% della popolazione è sotto i quattordici anni e solo il 5,4% è sopra i sessantacinque: l’età media della popolazione è ventisette anni. La popolazione è un mosaico di diverse etnie, nelle quali spicca quella persiana (51%) seguita da quella azera (24%) e da quella gilaka e mazandarana (8%), affiancate da diverse minoranze, come quella turkmena, curda o armena.

La religione principale, come indica il nome stesso dello Stato, è l’islam: l’Iran ha assunto la dicitura ufficiale di “repubblica islamica” dopo la rivoluzione del 1979. Contrariamente ad altri stati dell’area, all’interno del 98% di popolazione di fede islamica l’89% segue il culto sciita, mentre solamente il 9% quello sunnita. Prima della diffusione dell’islam, in Iran la religione maggioritaria era lo zoroastrismo, ancora oggi presente seppur in piccola parte, così come sono piccole minoranze l’ebraismo e le religioni cristiane. La costituzione iraniana all’articolo dodici afferma che l’islam è la religione ufficiale dell’Iran.


Le vicende che oggi fanno si che l’Iran sia su tute le prime pagine dei giornali non sono frutto di una casualità, ma rappresentano una precisa evoluzione nei processi politici e militari del paese. In particolar modo questi ultimi sono una chiara spiegazione al tentativo del governo di Tehran di dotarsi di armi di distruzione di massa, in particolare nucleari. Le specificità del paese ed il contesto nel quale agisce sono fondamentali per comprendere le mosse che nel corso degli ultimi anni hanno reso l’Iran, nel bene o nel male, una presenza costante nel dibattito internazionale.

Situazione storica ed economica

L’Iran, il cui nome era Persia fino agli anni trenta, è l’erede della lunghissima tradizione imperiale persiana, a cui storia si dipana fino a ere remote. D’altro canto la posizione centrale del paese nella regione lo ha spesso reso teatro di scontri e di attacchi da parte di moltissime popolazioni. Nel corso del 600 dopo Cristo gli arabi invasero il paese e contribuirono alla diffusione dell’islam. Dopo diversi secoli di alterne vicende, nei primi anni del Novecento si manifestarono le prime rivolte nazionaliste e la nascita della monarchia costituzionale nel 1906.

Sempre in quegli anni venne scoperto il petrolio, elemento che in pochi anni fu destinato a rivelarsi cruciale per la successiva storia del paese. Sia la Russia cha la Gran Bretagna guardavano con attenzione la nazione persiana, e cominciarono i primi scambi commerciali. La rivoluzione russa del 1917 segnò la fine dell’influenza russa sull’Iran (che assunse tale nome solo nel 1935), che divenne così un protettorato inglese. La lenta modernizzazione del paese venne in parte accelerata dallo sfruttamento petrolifero, ma in seno alla società iraniana rimanevano profonde contraddizioni.

Dopo la nascita dell’Unione Sovietica, quest’ultima cominciò a sobillare movimenti rivoluzionari contrari al regime di Tehran, ed alla fine la Gran Bretagna e il regime sovietico si divisero le sfere d’influenza nel paese, soprattutto per evitare la pericolosa vicinanza sospettata di esserci con la Germania hitleriana. Dopo la seconda guerra mondiale alla presenza inglese si sostituì quella americana, soprattutto dopo il ritiro delle truppe sovietiche, e grazie al nuovo sovrano, Reza Pahlavi, decisamente propenso a posizioni filo-occidentali.

Nel 1941 quest’ultimo entrò in carica, e cominciò ad avvicinare il suo paese agli Alleati, per poi scegliere, fra questi, gli Stati Uniti come partner politico principale. Allontanati i militari russi presenti nel paese, che avevano tentato addirittura di creare una repubblica separatista, lo Shah (questo è il nome del titolo imperiale) collocò il suo paese nell’orbita occidentale. Nel 1951 il governo guidato dal primo ministro Mossadeq nazionalizzò la compagnia petrolifera anglo-iranina AIOC, e costrinse lo Shah a fuggire a Roma. Ma grazie all’aiuto dell’intelligence britannica ed americana, Pahlavi riuscì con un colpo di stato a riprendere il potere restaurando la sua autorità sull’Iran.

Negli anni successivi le riforme intraprese dallo Shah allargarono sempre più il solco fra le aspirazioni del regnante e l’effettiva condizione sociale del paese. Le contraddizioni riguardavano soprattutto certi ambiti di riforma (come, ad esempio, la condizione femminile) che venivano fortemente criticati dagli ambienti religiosi. I falliti esiti della riforma agraria e la crescente repressione poliziesca, stigmatizzate e denunciate dalla classe religiosa aizzavano il popolo contro il regnante.

Dopo diversi mesi di manifestazioni di piazza nel 1978, nel gennaio del 1979 lo Shah abbandonò l’Iran, ed al suo posto venne richiamato dall’esilio parigino il leader religioso (ayatollah) Khomeini, che venne proclamato guida suprema del paese. Costui instaurò in Iran una repubblica teocratica, di stretta osservanza sciita, basata ed ispirata ai principi islamici. Dopo l’eliminazione dei seguaci del vecchio regime, l’ira dell’ayatollah si rivolse contro gli Stati Uniti, visti come “il grande satana”, e rei di proteggere l’ex Shah (che comunque morì nel 1980 in Egitto).

Le tensioni con gli Stati Uniti raggiunsero un momento di profonda crisi nel novembre del 1979, quando una folla di persone, guidata anche da molti studenti, prese d’assalto l’ambasciata americana e sequestrò il personale lì presente. La crisi degli ostaggi, aggravata da un fallito intervento militare americano, durò 444 giorni, e rappresentò un chiaro segnale di come gli Stati Uniti, avessero perso il controllo del paese. Il nuovo regime, che intanto provvedeva ad approvare una serie di leggi fortemente basta sulla dottrina islamica, non perse l’occasione di additare agli Stati Uniti come ad un regime depravato e malvagio.

La caduta del governo filo-americano di Tehran fu vista con favore dall’Unione Sovietica: gli Stati Uniti avevano perso il loro principale alleato nella regione. Tuttavia, dopo l’invasione dell’Afghanistan (dicembre 1979) la chiamata iraniana alla guerra santa contro gli infedeli invasori cominciò a dar fastidio a Mosca. Approfittando della situazione di debolezza iraniana, e attratto da idee e desideri egemonici sull’area, Saddam Hussein, dittatore iracheno, attaccò l’Iran dando origine ad un conflitto che durò per ben otto anni, e che è ricordato come una delle guerre convenzionali più lunghe e sanguinose del ventesimo secolo e dell’era contemporanea.

Nel corso degli anni Ottanta tutta l’area fu attraversata da grandi conflitti: mentre ad est dell’Iran si scatenava la guerra in Afghanistan, ad ovest il conflitto con l’Iraq decimava le forze rivoluzionarie per colpa delle armi chimiche e delle offensive portate avanti dai giovani adepti del regime. Naturalmente dietro questo conflitto regionale si muovevano pure le grandi potenze, interessate a sostenere una delle parti o addirittura entrambe. Poco dopo la fine della guerra Iran-Iraq, terminata sostanzialmente in parità, moriva l’ayatollah Khomeini, sostituito da Ali Khamnei al ruolo di guida suprema del paese.

Nel 1989 venne eletto come Presidente Akbar Rafsanjani, seguito nel 1997 da Mohammad Khatami: quest’ultimo tentò di intraprendere alcuni progetti di riforma, ma senza troppi successi. Le crescenti proteste di alcuni settori dell’opinione pubblica, in particolare gli studenti, misero in allarme i settori più conservatori dell’establishment iraniano: non va dimenticato che proprio il settore studentesco era stato uno degli elementi guida della rivoluzione del 1979.

Alcune tensioni e proteste verso la fine degli anni Novanta non impedirono a Khatami di essere riconfermato nel 2001, ma la svolta conservatrice si ebbe nella competizione elettorale del 2004. In tale occasione diversi candidati progressisti vennero interdetti dalla partecipazioni alle elezioni, che alla fine segnarono un successo per l’ex sindaco di Teheran e già membro dei pasdaran Mahmud Ahmadinejad, molto vicino agli ambienti politici conservatori iraniani. La sua elezione alla Presidenza segnò una fase di deciso protagonismo iraniano nella scena regionale ed internazionale.

Particolare scalpore fecero alcune pesanti dichiarazioni del presidente riguardo allo stato di Israele. Che i rapporti non fossero buoni fra Tel Aviv e Tehran era cosa nota, ma fece particolare scalpore nel mondo la dichiarazione di Ahmadinejad fatta nel giugno del 2008 nella quale il presidente dichiarava che “the criminal and terrorist Zionist regime which has 60 years of plundering, aggression and crimes in its file has reached the end of its work and will soon disappear off the geographical scene”.

Tali affermazioni furono immediatamente criticate da buona parte dell’opinione pubblica mondiale, ma allo stesso tempo fecero assurgere il presidente iraniano come il leader della resistenza all’attacco occidentale e sionista (questi i termini più utilizzati) contro i popoli arabi e mussulmani. Successivi interventi di Ahmadinejad riguardarono l’Olocausto (con punti di vista definibili come “negazionisti” o “revisionisti”) e la condanna generale nei confronti di Israele, gli americani e l’Occidente. Nonostante le forti prese di posizione dei vertici iraniani, negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo rafforzamento del movimento di dissidenza politica.

Anche in questo caso sono stati soprattutto gli studenti a guidare le proteste contro il regime, in nome di maggiori libertà civili e democrazia. Come trenta anni prima, le spinte rivoluzionarie o comunque innovatrici trovano fertile humus nelle nuove generazioni, particolarmente numerose. Le contraddizioni fra la classe politica iraniana e la società sono poi assurte agli onori della cronaca internazionale nel corso del mese di giugno del 2009, durante le elezioni politiche che hanno visto la riconferma di Ahmadinejad.

Tutte le agenzie di stampa internazionale hanno ripreso le imponenti manifestazioni popolari che accusavano il presidente uscente (e rientrante) di brogli a danno dei rivali: nel corso dei mesi successivi alle elezioni vi sono state innumerevoli manifestazioni di piazza con morti e feriti fra i manifestanti. Numerose sono state le prese di posizione internazionale in favore dei dissidenti, ma la presidenza, almeno formalmente, non ne è stata intaccata.

Particolare efficacia nella repressione dei moti di piazza la hanno avuta i corpi dei Basij e dei Pasdaran, gruppi paramilitari con funzioni sia politiche che di sicurezza, e particolarmente fedeli al regime. Al momento attuale l’Iran è sotto gli occhi del mondo intero per dei suoi pericolosi comportamenti riguardo alla proliferazione nucleare: ciò che rimane comunque chiaro e che il governo di Tehran non è sicuramente intenzionato ad essere un passivo spettatore nel complicato gioco che si svolge nella regione in cui è inserito.

Il sistema istituzionale

Definire il sistema istituzionale iraniano con un termine proveniente dalla tradizione giuridica occidentale è decisamente difficile: inoltre “il quadro istituzionale è fluido e i rapporti tra gli organi costituzionali (religiosi e politici) sono soggetti a continua evoluzione”. L’Iran deriva la sua complessa struttura istituzionale dalla sua recente storia politica, il che rende ogni riferimento al termine “politico” molto difficile da definire. Nell’ordinamento iraniano la tradizionale divisione dei poteri esiste formalmente, ma in realtà vi è una forte compenetrazione fra gli stessi. In ogni modo il sistema istituzionale è decisamente policentrico, e risente delle differenti pressioni che giungono dal complesso mosaico di organi che lo compongono.

Se qui convenzionalmente si utilizzerà il termine “sistema politico” lo si farà solo per semplicità espositiva, in quanto nel sistema iraniano vi sono importanti ruoli e posizioni che derivano la loro legittimazione dalla religione più che dalla “politica” come intesa in senso occidentale. Il sistema politico iraniano è alquanto complesso, in quanto articola il proprio ruolo politico affiancandolo a quello religioso. Inoltre questi due poteri sono necessariamente sostenuti da una forte struttura di tipo poliziesco-militare, affiancata dai pasdaran, corpo militare a carattere politico.

Come ricorda la BBC, “Iran’s complex and unusual political system combines elements of a modern Islamic theocracy with democracy. A network of unelected institutions controlled by the highly powerful conservative Supreme Leader is countered by a president and parliament elected by the people”.

Alla base del sistema costituzionale iraniano vi è il popolo, che consiste di circa 46 milioni di votanti. Nonostante questo, il sistema politico iraniano si articola su una dualità di poteri, che vedono coesistere meccanismi di elezione (come il presidente o il parlamento) affiancati da metodi di selezione della classe dirigente basati su scelte di autorità non legittimate dal voto popolare. Il tutto, naturalmente, va inquadrato nella prospettiva della forma di stato definita dalla rivoluzione del 1979 “repubblica islamica”.

Il vertice della piramide del potere è la Guida Suprema, designato a vita e sommo guardiano delle altre istituzioni. Questa figura istituzionale venne ispirata dallo stesso ayatollah Khomieini, che fu il primo a ricoprire la carica. Egli provvede a nominare sei membri del potente Consiglio dei Guardiani della Costituzione, così come suo è il compito di valutare la validità delle candidature alla presidenza della repubblica islamica ed al parlamento. Provvede inoltre a confermare l’elezione del presidente. Infine ha il comando delle forze armate e nomina i vertici del sistema giudiziario, ed un’altra serie di importanti poteri indicati all’articolo 110 della Costituzione.

La Guida Suprema è scelta dai membri dell’Assemblea degli Esperti. Ad oggi l’incarico è ricoperto da Ali Khamenei. L’Assemblea degli Esperti è un organo assembleare composto da ottantasei membri eletti ogni otto anni. L’Assemblea si riunisce due volte all’anno, ed il suo scopo principale è di eleggere la Guida Suprema, controllare il suo operato ed, eventualmente, rimuoverlo dalla carica (cosa che ad oggi non è mai successa). Il compito di vagliare l’ammissibilità delle candidature all’Assemblea degli Esperti è riservato al Consiglio dei Guardiani.

Il potere esecutivo iraniano è affidato al presidente ed al consiglio dei ministri. Il presidente è una carica elettiva, votata a suffragio universale da tutti gli elettori con almeno diciotto anni. L’incarico dura quattro anni e non può durare più di due mandati consecutivi. Secondo la Costituzione il presidente è la più alta carica dello Stato dopo la Guida Suprema, cui comunque è assegnata una posizione di primazia politica e morale. Al presidente spetta il compito di dirigere l’azione esecutiva secondo i dettami della costituzione, salvo nelle materie di competenza della Guida Suprema, alla quale spetta, fra le altre, l’indirizzo della politica della difesa del paese.

Ogni cittadino può correre per la posizione di presidente purchè la sua candidatura sia esplicitamente accettata dal Consiglio dei Guardiani: senza questa autorizzazione il candidato non si può presentare alle elezioni. Al momento la carica di presidente è ricoperta dall’ex sindaco di Tehran Mahmoud Ahmadinejad, eletto per la prima volta nel 2005 e riconfermato, seppur fra molte polemiche, nel 2009. Il presidente nomina e dirige i ministri, i quali collettivamente formano il Consiglio dei Ministri. I ministri devo essere approvati dal parlamento, che può anche sfiduciarli, se lo ritiene opportuno.

Nelle competenze del Consiglio dei Ministri è esclusa la difesa, riservata alla Guida Suprema: allo stesso modo quest’ultimo “has some control over appointments to the more sensitive ministries”, il che riflette la prassi consolidata di concordare fra Presidente e Guida Suprema i nomi di ceri ministri chiave, come quello della Difesa. Il potere legislativo durante l’epoca dello Shah era bicamerale, nel quale era presente un Senato metà eletto metà nominato dallo Shah.

La rivoluzione del 1979 ha eliminato il Senato, ed oggi il potere risiede nel parlamento monocamerale dell’Iran, il Majlis, composto da 290 membri eletti con voto universale, diretto e segreto. Il mandato è quadriennale, ed il parlamento ha il potere di votare le leggi, il bilancio nazionale e può approvare e rimuovere i ministri. Il potere legislativo riflette bene la tipica dualità iraniana perché affianca alla sua presenza il Consiglio dei Guardiani, organo che concretamente si trova a condividere il potere legislativo con il Majlis.

Questo Consiglio è composto di dodici giuristi, di cui sei religiosi nominati dalla Guida Suprema, e sei nominati dal Majlis fra quelli laici suggeriti dall’apparato giudiziario. I membri sono eletti per sei anni, ma in modo che ogni tre anni cambino i membri del Consiglio. Tale organo ha un’importanza centrale nelle dinamiche politiche iraniane, in quanto approva tutte le leggi votate dal Majlis ed ha potere di veto sulle stesse, qualora siano in contrasto con la legge islamica. Oltre a ciò monitora l’ammissibilità dei candidati alle elezioni in parlamento, alla presidenza ed all’Assemblea degli Esperti.

Ad oggi il Consiglio è nelle mani delle fazioni più conservatrici, e stante l’attuale architettura costituzionale, quest’organo è in grado di paralizzare ogni iniziativa parlamentare sgradevole ai vertici del sistema. I numerosi tentativi di ridurre i poteri del Consiglio si sono sempre risolti in un nulla di fatto. Il sistema legislativo è completato dal Consiglio per il Discernimento (in inglese detto “Expediency Council”), un organo preposto alla risoluzione dei problemi che possono intercorrere fra il Majlis ed il Consiglio dei Guardiani.

Nato per questo fine, oggi si è trasformato in un organo di consiglio per la Guida Suprema, che provvede e nominarne i membri, in carica per tre anni. Il ruolo dell’organo è incerto come finalità, ma politicamente è molto rilevante, in quanto anche organo di consulenza del vertice politico dell’Iran. Il sistema giudiziario, sebbene considerato come un potere distinto, in realtà non lo è. Il vertice del sistema giudiziario è nominato dalla Guida Suprema, il quale nell’ordinamento iraniano non ha il ruolo di “quarto potere”, ma è direttamente coinvolto nelle scelte politiche principali del paese.

Compito del potere giudiziario è l’applicazione delle leggi, in accordo con la legge islamica. Oltre a questo nomina (con l’approvazione del Majlis) i sei membri laici che vanno a comporre (insieme ad i sei religiosi indicati dalla guida Suprema) il Consiglio dei Guardiani. Negli ultimi tempi il potere giudiziario è stato utilizzato come mezzo per reprimere il dissenso, silenziando gli oppositori con arresti e chiusure di giornali.

Il sistema militare

Il sistema militare iraniano è un’altra realtà complessa che però riveste un ruolo di primo piano nella politica di Tehran. Le forze armate iraniane sono le dirette eredi, idealmente, della potenza dell’impero persiano: a questa (tipica) brama di egemonia si aggiunge l’importante ruolo che esse giocano nel sistema politico. Non è un caso che, contrariamente a quanto accade nei governi occidentali, sia la Guida Suprema e non il Presidente ad assumersi le decisioni in materia di difesa. I militari si sono trovati fin da subito nella difficile condizione di fronteggiare l’astio delle principali superpotenze che non vedevano di buon occhio la nascita di una “terza potenza” nelle aree in cui essi operavano.

L’iniziale favore russo conseguente la cacciata dello Shah (esponente dell’imperialismo occidentale) ben presto si tramutò in astio, in seguito all’invasione dell’Afghanistan. Quanto agli Stati Uniti, i rapporti con loro si deteriorarono fin dal principio. Soli ed isolati, e nel mezzo di un’area contrassegnata da profonde crisi ed instabilità, i dirigenti iraniani cominciarono da subito a rafforzare le forze armate in modo da scoraggiare qualsiasi azione, esterna od interna, che avesse potuto destabilizzare il neonato governo rivoluzionario.

La sanguinosa guerra con l’Iraq dimostrò come il fanatismo religioso, entro certi limiti, potesse rivelarsi comunque un mezzo idoneo a sopperire alle numerose deficienze nelle tecnologie e negli armamenti. All’inizio degli anni Novanta le forze armate iraniane erano stremate dal conflitto, ma erano riuscite a difendere l’integrità nazionale. Pertanto ai tradizionali compiti di difesa dei confini si intreccia la difesa dello status quo politico-istituzionale, ispirato alla Rivoluzione.

Ad oggi le forze armate iraniane comprendono la IRIA (Islamic Republic of Iran Army) e la IRGC (Iranian Revolutionary Guards Corps), come indicato nella Costituzione negli articoli 143-151, rubricati (in inglese) come “the Army and the Islamic Revolution Guards Corps”. La forza totale, indicata in un rapporto di Jane’s di dicembre 2008, è così ripartita: su un totale di 523.000 membri, l’esercito ne ha 350.000, l’aeronautica 30.000, la marina 18.000 e l’IRGC 125.000.

In base all’articolo 143 della costituzione, le forze armate regolari sono responsabili “for guarding the independence and territorial integrity of the country, as well as the order of the Islamic Republic” e si dividono in esercito, marina, aeronautica e difesa aerea; allo stesso modo avviene per la IRGC, più nota con il nome di pasdaran. Quest’ultimo corpo, articolato come una forza armata completa e con una propria e autonoma catena di comando, si prefigura come braccio militare e politico del regime.

Il ruolo dell’IRGC è costituzionalizzato nell’articolo 150 della Costituzione iraniana, che recita: “the Islamic Revolution Guards Corps, organized in the early days of the triumph of the Revolution, is to be maintained so that it may continue in its role of guarding the Revolution and its achievements. The scope of the duties of this Corps, and its areas of responsibility, in relation to the duties and areas of responsibility of the other armed forces, are to be determined by law, with emphasis on brotherly cooperation and harmony among them”.

A propria volta i pasdaran si articolano anche su una milizia popolare, detta Basij, recentemente assurti a grande popolarità per la crudezza con cui hanno represso le recenti rivolte post-elettorali. Inoltre la struttura dei Pasdaran mantiene una forte presenza nell’economia grazie a istituzioni collegate. Infine a queste due articolazioni si affianca una forza militare con compiti di polizia, la LEF (Law Enforcement Force) una gendarmeria controllata dal ministero degli Interni.

Secondo Jane’s le forze armate dell’Iran “are widely considered relatively combat ineffective against a well-trained, sophisticated military such as that of the United States […] Iran’s forces are believed to be sufficiently effective to deter or fend off conventional threats from Iran’s weaker neighbours such as post-war Iraq, Turkmenistan, Azerbaijan and Afghanistan but are largely lacking in logistical ability to project power much beyond Iran’s borders or to confront militarily capable neighbours such as Turkey and Pakistan”.

Gli analisti internazionali riportano che la debolezza dello strumento militare iraniano è anche imputabile a una mancanza di coordinamento fra i vari settori, nonostante le esercitazioni che si tengano per cercare di integrarli. Il vertice della struttura resta comunque la Guida Suprema: “as commander-in-chief, the Supreme Leader, Ayatollah Ali Khamanei, retains tight control over the armed forces” cosa indicata nell’articolo 110 della Costituzione. Un ruolo centrale nel sistema della difesa iraniana è giocato dal Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale (Supreme Council for National Security), organo costituzionale istituito dall’articolo 176 della Costituzione.

Per sovrintendere agli interessi nazionali e preservare la rivoluzione islamica, la sicurezza e l’integrità territoriale la Costituzione ha creato questo organo con gli scopi di:

  • Determining the defence and national security policies within the framework of general policies determined by the Leader;
  • Coordination of activities in the areas relating to politics, intelligence, social, cultural and economic fields in regard to general defence and security;
  • policiesxploitation of materialistic and intellectual resources of the country for facing the internal and external threats.

La composizione del Consiglio assomma le principali cariche dell’Iran, e attribuisce all’organo una posizione determinante per gli assetti del paese. Il Consiglio è poi articolato in sottocommissioni. Il Consiglio “plays a key role in the formulation of Iran’s security and defence policies”: non per nulla il criticato programma nucleare è sotto il diretto controllo dell’organo in questione, strettamente collegato al ruolo militare che l’Iran ambisce avere nella regione.

Il programma nucleare e le sue conseguenze

Al contrario di altre potenze dell’area, l’Iran della Rivoluzione islamica è stato una delle poche nazioni che hanno sperimentato – a caro prezzo – gli effetti delle armi chimiche nel corso di un conflitto convenzionale. È noto che durante la guerra Iran-Iraq del 1980-1988 furono usati dagli iracheni molti agenti contro le truppe iraniane: al momento questo caso rimane uno dei più rilevanti nell’ambito dei recenti conflitti convenzionali. Tale comportamento dell’Iraq come ovvio ha attirato le pesanti critiche iraniane in materia di armi chimiche: ad oggi la repubblica islamica è firmataria sia della Convenzione sulle armi chimiche che di quella sulle armi biologiche.

Il problema dell’Iran riguardo alle armi di distruzione di massa si pone invece quando si affrontano i problemi inerenti le questioni nucleari: nonostante la firma del trattato NPT, ad oggi vi sono molti timori nella comunità internazionale che l’Iran acquisisca una piena capacità nucleare. Il programma atomico iraniano iniziò già durante l’epoca dello Shah, grazie alla forte cooperazione con gli Stati Uniti. Mediante il progetto americano Atoms for Peace verso la fine degli anni Sessanta fu creato a Tehran un centro di ricerca gestito dall’agenzia atomica iraniana.

La crisi petrolifera del 1973 convinse lo Shah sull’importanza del nucleare civile (confermata dalla sottoscrizione del trattato NPT) rispetto alle fonti energetiche fossili. Il primo reattore costruito fu a Bushehr, grazie alla collaborazione di alcune imprese tedesche. La rivoluzione del 1979 però, fermò i lavori di costruzione delle centrali, che poi furono colpite anche da bombardamenti iracheni durante la guerra. Dopo alcuni accordi presi con l’Argentina, dall’inizio degli anni Novanta l’Iran si rivolse invece alla Russia per incrementare le sue capacità nucleari (ma anche missilistiche).

Il risultato fu di attirare l’attenzione dell’IAEA, che nel 1992 dispose una indagine sulla situazione nucleare iraniana. Il risultato fu comunque positivo, in quanto gli ispettori internazionali riscontrarono che l’Iran era adempiente con le sue obbligazioni in materia atomica. Verso la metà degli anni Novanta un altro accordo con la Russia permise di riprendere le attività nel sito di Bushehr, il cui completamento è stato successivamente posticipato fino ad oggi. Erano anche previsti ulteriori reattori, ma al momento i lavori non sono ancora cominciati. Ad oggi la capacità nucleare iraniana si articola su più siti: per la precisione si tratta di Qom, Bushehr, Isfahan, Natanz e Arak.

Il sito di Qom (situato nei pressi della città considerata santa dagli iraniani) è ritenuto non ancora operativo, ma si suppone possieda un grosso impianto di arricchimento dell’uranio, come dichiarato dallo stesso governo dell’Iran all’IAEA nel settembre del 2009. Isfahan è un grande centro di ricerca e di preparazione del combustibile nucleare; Natanz serve all’arricchimento dell’uranio iraniano a partire dal 2004, ed è il luogo dove ci sono le centrifughe al centro delle dispute con l’ONU.

Proprio a causa di queste installazioni la comunità internazionale teme che l’arricchimento possa essere portato fino alla creazione di uranio utilizzabile in dispositivi militari. Infine ad Arak si trova un impianto ad acqua pesante utilizzabile non solo come moderatore nei reattori, ma anche come potenziale struttura per la creazione di plutonio. Le infrastrutture sono coordinate dalla AEOI, l’Atomic Energy Organization of Iran.

Nel corso degli ultimi anni il sistema nucleare iraniano è stato al centro di molte polemiche, che hanno avuto ed hanno rilevanti riflessi internazionali. Alla (lecita) volontà di perseguire un programma nucleare civile, l’Iran sembrerebbe voler affiancare anche una capacità di creazione di combustibile  nucleare utilizzabile per fini militari: in altri termini, avere delle infrastrutture pronte per la creazione di ordigni atomici.

Per questo l’IAEA tiene costantemente sotto controllo gli sviluppi nucleari iraniani,
capaci di acquisire capacità dual use. Nel 2007 il Presidente Ahmadinejad annunciò al mondo che nel sito di Natanz era possibile iniziare a produrre su scala industriale combustibile nucleare grazie alle centrifughe. Il 4 marzo del 2008 il Consiglio di Sicurezza con quattordici voti a favore e una astensione (Indonesia) approvò la risoluzione 1803 con la quale, sulla base dell’articolo 41 della carta dell’Onu, si chiedeva a Tehran di interrompere il processo di arricchimento dell’uranio e si intimavano limiti alle esportazioni verso l’Iran di tecnologie legate alla missilistica, all’ambito nucleare ed ai beni dual use in materia.

A tutte queste critiche l’Iran ha sempre replicato che è un suo diritto sviluppare l’energia nucleare per fini civili. Nel febbraio del 2009 un rapporto dell’IAEA sostenne che “there remain a number of outstanding issues which give rise to concerns, and which need to be clarified, to exclude the existence of possible military dimensions to Iran’s nuclear programme […] for the Agency to be able to address these concerns and make progress in its efforts to provide assurance about the absence of undeclared nuclear material and activities in Iran, it is essential that Iran, inter alia, provide the information and access requested by the Agency”.

Verso giugno l’IAEA lamentò la non osservanza della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1737 da parte dell’Iran. Il tutto avveniva mentre Israele continuava a manifestare la sua opposizione sempre più completa non esitando a presagire l’ uso della forza come risposta alle provocazioni di Tehran. L’attuale programma nucleare, sovrinteso dal presidente e dal comandante generale dell’IRGC (oltre che dall’agenzia delle industrie della difesa e dall’agenzia atomica iraniana) è oggi ancora ai primi puni dell’agenda politica iraniana.

Il programma missilistico iraniano

Come nel caso nordcoreano, anche per l’Iran la capacità missilistica strategica è un’opzione rilevante da giocare nella politica estera. Il controllo dei missili iraniani dipende in toto dall’aviazione dell’IRGC, e già questo dato è indicativo. Gli armamenti strategici sono sotto lo stretto controllo del corpo militare più connesso con l’establishment politico. Nonostante i primi programmi missilistici iraniani fossero risalenti agli ultimi anni dello Shah, ciò che convinse il governo di Tehran a sviluppare le tecnologie missilistiche fu il sanguinoso conflitto con l’Iraq.

Durante gli anni di guerra i dirigenti iraniani si resero conto di essere vulnerabili agli attacchi iracheni (compiuti con missili di fabbricazione sovietica FROG), e notarono l’impossibilità di replicarvi. Per questo nel 1984 vennero comprati dalla Libia alcuni missili SCUD, e furono immediatamente messi a disposizione di uno speciale reparto dell’IRGC appositamente addestrato.

Nel 1985 le truppe iraniane furono capaci di lanciare il primo attacco missilistico. Negli anni successivi, l’acquisto di missili nordcoreani Hwasong 5 permisero all’Iran di acquisire una semplice ma efficace capacità missilistica. I modelli nordcoreani, ribattezzati Shahab 1, furono prodotti e sviluppati anche dopo la fine della guerra, quando l’Iran cominciò a studiare sistemi dotati di propellente solido e liquido.

I missili a propellente solido come gli Oghab e gli Shahin furono le basi per i successivi sviluppi dei sistemi Fajr, Nazeat e Zelzal e vennero sviluppati grazie al determinante aiuto della Cina; una volta acquisita la capacità tecnica, l’Iran è stato capace di creare autonomamente questi vettori. I missili a propellente liquido furono sviluppati a partire dal modello sovietico SCUD B, concretatosi nello Shahab 1, costruito in Iran e capofila dell’omonima serie.

A tale modello sono seguiti lo Shahab 2 e lo Shahab 3, realizzati grazie alla forte cooperazione con la Corea del Nord e la Russia. Ulteriori modelli studiati sono stati poi i sistemi Shahab 4, Shahab 5 e Shahab 6, che si suppone siano stati realizzati su
ispirazione dei modelli Nordcoreani Taepodong. I missili Oghab sono stati i primi ad essere sviluppati ed usati in combattimento dall’Iran: “Although the Iranians frequently call the Oghab a missile, it is actually a 230mm unguided artillery rocket, with a range of 45 km, and a warhead of 70kg”.

Realizzato verso la metà degli anni Ottanta con l’aiuto cinese, nonostante un tale missile sia di prevalente uso tattico nel contesto iraniano può assumere addirittura una valenza strategica. Così è stato quando si è svolto il conflitto Iran-Iraq, durante il quale molti missili sono stati lanciati contro bersagli urbani iracheni in quella fase della guerra divenuta note col termine di “guerra delle città”. Ciò è dovuto alla vicinanza delle città dell’Iraq al confine iraniano, cosa che ne permise il ripetuto bombardamento. Inoltre i missili Oghab sono utilizzabili anche su aerei come i Phantom e gli F-14.

I missili Shahin sono concepiti come missili tattici, con gittate di poche decine di chilometri e un carico utile di quasi duecento chilogrammi. Entrambi sono più strumenti d’artiglieria che missili veri e propri, e sono utilizzabili principalmente per fini tattici. I sistemi Fajr comprendono due tipi di razzi d’artiglieria, i Fajr 3 ed i Fajr 5. I programmi di sviluppo si sono concretizzati verso la fine del conflitto, anche se si suppone che l’ideazione iniziale risalga all’inizio della guerra: nel complesso hanno un raggio limitato (rispettivamente 45 e 75 chilometri).

Entrambi sono alquanto imprecisi, però diverse analisi ritengono che il Fajr 5 sia in grado di essere armato con testate chimiche o comunque non convenzionali. Alcuni di questi missili sembrano essere stati utilizzati dal movimento libanese Hezbollah. I missili Nazeat sono nati verso la metà degli anni Ottanta per creare un sistema autoctono simile ai missili russi FROG. Dopo la guerra, nell’ambito della riorganizzazione dei programmi missilistici iraniani, il programma Nazeat fu revisionato mentre cominciavano delle iniziative congiunte con la Cina per sviluppare un comune missile balistico a carburante solido.

Ad oggi sono conosciute due versioni di questo sistema, il Nazeat 6 ed il Nazeat 10. Il primo ha una gittata di cento chilometri, ed è capace di portare una testata di 85 chili; il secondo ha una gittata di centoquaranta chilometri ed un carico utile di ducentocinquanta chili. Le testate convenzionali, chimiche, biologiche e radiologiche sono caricabili su questo sistema; secondo alcune analisi il Nazeat 6 è anche capace di trasportare una testata nucleare.

Anche i missili Zezal hanno le loro origini nella metà degli anni Ottanta, sempre nell’ottica di creare un’autonoma capacità iraniana nella produzione di missili. Sviluppati completamente negli anni Novanta, i missili oggi disponibili sono i modelli Zezal 1 e Zezal 2. Da alcuni rapporti sembra che nel 2002 Hezbollah abbia utilizzato questi missili nella valle della Bekaa (Libano) con il supporto dell’IRGC, anche se sembra che tali missili non siano mai stati utilizzati contro Israele.

Recenti informazioni confermano l’utilizzo del missile a fini di test nel 2008, con alcuni esperimenti fatti dall’IRGC. Al momento sono disponibili due diversi tipi di Zezal: lo Zezal 1 ha un raggio di 120-125 chilometri ed un carico utile di seicento chili; lo Zezal 2 ha un raggio di 200 chilometri e un carico utile di cinquecento chili. Questi missili sono sospettati di essere armati con testate ad alto esplosivo, chimiche, biologiche o radiologiche.

Infine uno dei più recenti missili testati è il Sajjil550, testato per la prima volta nel novembre del 2008: secondo le parole di Mohammed Najjar, ministro della difesa “this missile test was conducted within the framework of a defensive, deterrent strategy […] and specifically with defensive objectives”. Il primo missile Sajjil (detto Sajjil 1) è ritenuto capace di avere un raggio di 2.000 chilometri, decisamente superiore a qualsiasi altro missile iraniano. Nel maggio del 2009 è stato testato con successo una versione aggiornata del sistema, il Sajjil 2, che sembra essere più preciso, efficace e dotato di gittata maggiore rispetto al suo predecessore.

La BBC, riferendosi alle parole del presidente Ahmadinejad, ha affermato che “the missile used “advanced technology” and had “landed exactly” on its intended target”. Grazie a questa gittata di 2.000 chilometri il Sajjil è ormai in grado di colpire Israele e lambire il sud Europa: molti commentatori sostengono che quest’arma sia alla pari (se non superiore) rispetto ai missili Shahab e che ben indichi le mature capacità missilistiche dell’industria iraniana.

Non è un caso che il secondo test sia avvenuto in una data vicina alle elezioni presidenziali. Il sistema Sajjil 2 è più preciso del precedente, sfrutta le tecnologie gps, può essere lanciato in breve tempo e sembra essere il successore della serie Shahab. I modelli a propellente liquido più famosi ed importanti sono i sistemi noti come Shahab, una vera e propria “famiglia” di missili che rappresentano il fiore all’occhiello della produzione iraniana.

Il capostipite della serie è lo Shahab 1, progenitore del programma missilistico strategico di Tehran. Verso la metà degli anni Ottanta l’Iran acquisì alcuni SCUD B sovietici tramite la Libia e la Siria, ed anche tramite la Corea del Nord. Il sistema SCUD “is the AK-47 of the missile world: reliable, simple and ubiquitous” e perciò ben si prestava agli usi bellici immediati che interessavano il governo rivoluzionario.

Con una gittata fra i duecentottanta e i trecento chilometri, e capace di una testata di circa una tonnellata, i missili vennero testati nel corso del conflitto contro alcune città irachene. Altri missili vennero acquistati dalla Corea del Nord, e secondo alcune fonti, anche direttamente dall’Unione Sovietica, nonostante fra i due stati ci fosse già molto attrito. Sebbene il sistema fosse primordiale, fu il punto di partenza per una fortunata serie di missili che portarono lo stesso nome. Lo stadio successivo fu lo Shahab 2, realizzato fra il 1989 ed il 1990 con la fondamentale cooperazione nordcoreana concretatasi nell’invio degli elementi del missile a Tehran.

Altri missili vennero inviati in Siria, di cui una parte rimase nel paese mentre l’altra arrivò in Iran. Lo Shahab 2 è un sistema similare allo SCUD C ed allo Hwasong 6 e ha un raggio d’azione compreso fra i cinquecento ed i seicento chilometri ed un carico utile di circa settecento chilogrammi. Il suo successore è stato lo Shahab 3, divenuto la punta di lancia della missilistica di Tehran.

Questo sistema rappresenta un vero e proprio punto di svolta nella storia militare iraniana, perché ha aperto a Tehran la possibilità di costruire sistemi missilistici strategici: lo Shahab 3 ha infatti una gittata stimata fra i 1.300 ed i 1.600 chilometri, il che lo rende capace di colpire agevolmente tutti i paesi del Golfo Persico e Israele; il carico utile è di 1.200 chili.

In altre parole, secondo un’analisi del sito Nuclear Threat Initiative “first, its 1,300km range allows it to strike every important U.S. ally in the region (i.e., Israel, Saudi Arabia, and Turkey), southern Russia, and most of Afghanistan. Second, it was designed as a delivery system for WMD warheads”. Il missile iraniano è un adattamento del sistema nordocreano Nodong, nel quale anche l’Iran giocò un ruolo durante la fase di sviluppo, e che assorbì un lungo periodo degli anni novanta.

Nel 1998 vi fu il primo test dello Shahab 3, che però esplose in volo pochi minuti dopo essere stato lanciato: diversi analisti hanno obiettato che forse è stato fatto esplodere intenzionalmente. Nel corso degli anni successivi vi sono stati alcuni altri test del sistema: quello che ha destato più impressione nelle opinioni occidentali è stata l’esercitazione Great Prophet III, tenutasi nel luglio del 2008. L’esercitazione è consistita nel lancio di diversi missili Shahab 3, ed altri sistemi minori.

Le reazioni internazionali sono state tutte omogeneamente contrarie a tale sfoggio di forza, ed in sostanza hanno segnato il riconoscimento di una effettiva capacità missilistica di Tehran. Le stesse fonti governative hanno sostenuto che i loro attuali missili siano in grado di raggiungere i 2.000 chilometri di distanza; queste dichiarazioni hanno riacceso il dibattito sull’esistenza di modelli di Shahab 3 più avanzati, dotati di caratteristiche più efficienti.

Si tratta dei modelli Shahab 3b, Shahab 3c e Shahab 3d, i quali sarebbero versioni migliorate del sistema originario (definito Shahab 3a). Si conosce poco riguardo a questi nuovi missili, ma da alcune fonti sembra che lo Shahab 3b sia capace addirittura di un raggio d’azione di 2.500 chilometri. Alcune fonti israeliane, infine, riportano che l’Iran stia ipotizzando lo studio del modello Shahab 3d, derivando la tecnologia dal Taepodong nordcoreano; questo sistema sarebbe caratterizzato da una maggiore accuratezza e precisione rispetto agli altri modelli della serie.

Al momento lo Shahab 3 e le sue eventuali versioni parallele costituiscono la principale minaccia per le potenze occidentali, soprattutto se il regime di Tehran acquisirà un effettiva capacità nucleare. Lo sviluppo della serie Shahab non si è però fermata al terzo modello. Al momento è allo studio il modello Shahab 4, il quale utilizza la tecnologia del modello precedente ma con un incremento di gittata
(2.000 chilometri e forse più) con una capacità di carico di 1.400 chilogrammi.

Il progetto originario dello Shahab 4 è oggetto di due diverse ipotesi: secondo alcuni analisti la derivazione del è russa, secondo altri è invece una implementazione del modello Shahab 3 con alcuni aiuti pachistani. In ogni caso sembra che il quarto modello della serie Shahab sia dotato di una gittata maggiore dei precedenti ed anche di un margine di errore inferiore. Nonostante il silenzio che circonda il programma, sembra che nel 2006 siano stati testati alcuni modelli del nuovo missile; vi è anche chi sostiene che altri missili Shahab 4 siano stati lanciati nell’esercitazione del 2008.

Secondo un’analisi del sito Missile Threat, “at present the future of the Iranian missile program is uncertain, but the existence of these missiles proves that ballistic missiles are no longer the purview of first world nations. If the US and its allies are to remain safe they must deploy missile defense systems capable of undermining the effectiveness of these now ubiquitous offensive systems”.

I progetti Shahab 5 e Shahab 6 sono ancora in sviluppo, e rappresentano i principali programmi di aggiornamento e di ricerca del complesso militare iraniano. La volontà di raggiungere un’autonoma e piena capacità di creazione e dispiegamento dei missili è ormai un obiettivo politico di primo piano per l’establishment di Tehran; per questi motivi le notizie pubbliche sugli sviluppi della missilistica sono rare, e molto più spesso bisogna basarsi su informazioni dell’intelligence, com’è ovvio raramente confermate.

Il programma Shahab 5 è circondato da un alone di mistero; rispetto al suo predecessore sembra sia basato sula tecnologia nordcoreana del Taepodong, e, stando alle stime, dovrebbe essere in grado di portare un carco di quasi una tonnellata per 3.500 – 4.000 chilometri. Si comporrebbe di due o tre diversi stadi, il che può cambiare sensibilmente a gittata.

Un missile di tale capacità non solo permetterebbe all’asse Iran-Corea del Nord di sviluppare ulteriori sistemi a raggio ancora più lungo, ma porrebbe in serio rischio la sicurezza di un’area molto più vasta rispetto ai missili precedenti, aprendo le porte ad una piena ed effettiva capacità nucleare intercontinentale dei due paesi, cosa particolarmente sgradita alle grandi potenze. Ulteriori problemi li pone il programma più avanzato di cui al momento si sia a conoscenza, ovvero lo Shahab 6, un missile intercontinentale capace di ben 6.000 chilometri di gittata e una capacità di carico di 500-1.000 chilogrammi.

Le poche informazioni disponibili sembrano indicare in questo sistema una copia iraniana del missile Taepodong 2, con alcune migliorie che lo rendono più efficiente rispetto allo Shahab 5. Se già si conosce poco della quinta serie di Shahab, per quanto riguarda il sesto vi sono ancora meno informazioni.

In conclusione si può affermare che la capacità missilistica iraniana si è rapidamente evoluta non solo per mere necessità di difesa o di offesa a livello tattico, come è stato durante gli anni del conflitto, ma è giunta ad assumere un ruolo centrale nel processo di riposizionamento geopolitico del paese nel contesto centro-asiatico.

Dopo gli stentati inizi con i primi derivati dei missili SCUD, eliminata la minaccia irachena (che impegnava le esigue risorse missilistiche di Tehran) il governo ha avuto modo di incrementare le proprie competenze missilistiche, passando da vettori meramente tattici a quelli strategici. In questo processo di “autarchia missilistica”, tutto finalizzato ad acquisire una capacità nazionale in materia, si è rivelato di fondamentale importanza l’aiuto di Pyongyang, cosa che ha permesso alle diplomazie mondiali di additare la Corea del Nord come uno dei paesi maggiormente proliferatori del mondo.

L’esportazione di tecnologia sarebbe però stata vana se non vi fosse stata una precisa volontà iraniana di incrementare le proprie capacità missilistiche. Nel corso degli ultimi anni i passi avanti realizzati dalle industrie di Tehran sono stati più volte oggetto di roboanti proclami del presidente Ahmadinejad e dei principali vertici dell’elitè iraniana. Questi slogan e questa ostentazione di capacità missilistica, però, hanno avuto e stanno avendo ripercussioni sulla delicata e complessa situazione regionale in cui l’Iran è inserito.

Il contesto geopolitico

Può sembrare una banalità pensare che lo sforzo “muscolare” di Tehran sulle vicende nucleari e missilistiche sia solamente un modo di placare un’opinione pubblica delusa da trent’anni di rivoluzione e desiderosa di cambiamenti politici radicali. È certo che la politica di potenza perseguita da Tehran con i lanci di missile sia un potente alleato delle classi dirigenti per far apparire il paese come una potenza regionale affermata rispetto ad una “in potenza”: non si spiegherebbe, sennò, la abbondantissima serie di comunicati che seguono ogni singola esercitazione missilistica.

Il programma è saldamente nelle mani dell’articolazione più fedele del regime, e ad oggi gode della massima priorità e considerazione all’interno del paese. Questa apparente forza dell’Iran è sicuramente un buon modo per distogliere le masse da altre necessità più impellenti, come la richiesta delle riforme e la sostanziale crisi di legittimità del regime; allo stesso modo è strumentale per lanciare alcuni messaggi alle altre potenze nell’area, soprattutto agli stati Uniti.

Il contesto geopolitico in cui l’Iran è inserito è uno dei più complessi al mondo. Paesi di cultura araba si trovano a convivere con la piccola ma rilevante presenza israeliana; potenze nucleari come il Pakistan, quasi a rischio di collassare coesistono vicine a stati più stabili e progressisti (come la Giordania) o a dittature, come la Siria. Non va infine dimenticata la massiccia presenza americana (e, in generale, occidentale) situata attorno all’Iran e schierata militarmente sia in Iraq che in Afghanistan.

Soprattutto in quest’ultimo paese si sta svolgendo una missione Nato, cosa che aumenta ancora di più il numero dei contingenti militari lì presenti. Non può sfuggire, infine, la vasta presenza di altre nazioni nucleari che insistono nell’area, come la Russia, la Cina e l’India. Esse non confinano direttamente con l’Iran ma di sicuro non vedono di buon occhio la nascita di una “nuova” potenza così vicino alle proprie frontiere.


All’aspirazione di potenza convenzionale l’Iran inoltre sembra affiancare il desiderio di conseguire l’ambito status nucleare, cosa che potrebbe veramente destabilizzare l’intera area. Si tratterebbe comunque di uno status de facto, in quanto non vi è alcuna intenzione da parte delle potenze titolari dello status nucleare di concedere questo riconoscimento all’Iran. Se così fosse, verrebbe da chiedersi perché non riconoscerlo anche agli altri possessori di armi nucleari.

Ma, al di là delle questioni di diritto, l’impatto dell’eventuale armamento iraniano nel contesto mediorientale non potrebbe passare inosservato. Nel corso di questi anni il presidente Ahmadinejad ha ripetutamente annunciato che l’Iran ha conseguito un’autonoma capacità di arricchire l’uranio; per questo il governo di Tehran si è attirato gli strali dell’opinione pubblica internazionale, preoccupata del potenziale sviluppo di armi nucleari.

I molti dubbi che ad oggi circondano la capacità nucleare iraniana e il recente sviluppo di tecnologie missilistiche a lungo raggio hanno complicato ulteriormente la posizione di Tehran, resa già non semplice a causa del tono fortemente anti-occidentale unito alle recenti dichiarazioni del desiderio di far “scomparire” Israele dalla carta geografica.

Come noto, queste azioni e la retorica del regime riflettono pienamente la storia e la politica estere del regime rivoluzionario degli ayatollah: liquidarle come una semplice serie di boutade rischia di far giungere a conclusioni fortemente sbagliate. Come riporta una recente analisi di Stratfor “for most countries, the first geographical imperative is to maintain internal cohesion. For Iran, it is to maintain secure borders, then secure the country internally. Without secure borders, Iran would be vulnerable to foreign powers who would continually try to manipulate its internal dynamics, destabilize its ruling regime and then exploit the resulting openings”.

Da qui si origina l’attenzione che l’Iran dedica ai suoi vicini, e l’aspirazione ad essere una guida per la regione, a maggior ragione dopo che l’Iraq di Saddam Hussein è stato pesantemente ridimensionato. Come già affermato, “the creation of an Iranian nuclear program serves two functions. First, if successful, it further deters external threats. Second, simply having the program enhances Iranian power”: solo esaminando le mosse dell’Iran in questa chiave di lettura si può comprendere coma mai nell’area si stia giocando una partita decisiva sotto diversi profili.

La principale minaccia nella regione, manco farlo apposta, sono gli americani. La rivalità con gli Stati Uniti, dopo l’idillio dell’epoca dello Shah, è cosa nota. A seguito della rivoluzione del 1979 l’Iran ha dimostrato al resto del mondo che poteva percorrere una “terza via” fra i blocchi. La rivoluzione da movimento di popolo si è istituzionalizzata nel corso degli anni della guerra, anche però grazie al livore anti-Stati Uniti (il “Grande Satana”, come diceva l’ayatollah Khomeini), potente elemento nazionalista.

Geograficamente l’Iran si trova ad un’enorme distanza dagli Stati Uniti: però a partire dagli anni Novanta e con la fine dei blocchi la presenza americana nella regione mediorientale si è fatta sempre più presente e capillare. Tralasciando il legame ormai storico con Israele e l’Arabia Saudita (rapporto già più complesso) e il confine della Turchia sul fianco occidentale, la presenza americana si è fatta sentire con tutta la sua forza durante la conduzione della prima guerra del Golfo.

Dopo diversi mesi di guerra aerea in sole cento ore il regime di Saddam Hussein si era arreso alla coalizione alleata sostanzialmente comandata e gestita dagli americani. In questo modo un pericoloso nemico dell’Iran veniva ridimensionato dai suoi stessi ex-alleati. Dopo l’undici settembre del 2001 il fronte di combattimento si è poi spostato in Afghanistan; questo stato montagnoso condivide ben 936 chilometri di confine con l’Iran.

Dopo la caduta dei talebani a Kabul, l’Afghanistan in breve tempo è divenuto base principale delle operazioni americane e Nato contro la guerriglia ed i “santuari” del terrorismo quaedista. Allo stesso modo il vicino Pakistan (con cui l’Iran condivide altri 909 chilometri di frontiera) divenne un importante alleato americano per la guerra in Afghanistan. Nel 2002 con l’inclusione dell’Iran nell’“Axis of Evil”, in compagnia di Iraq e Corea del Nord, le preoccupazioni per un intervento diretto degli Stati Uniti nel paese sono aumentate.

L’accerchiamento iraniano si è poi stretto ulteriormente nel momento in cui gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iraq, conquistando i paese e tentando di stabilizzarlo. Con l’Iraq l’Iran condivide ben 1.458 chilometri di confine: e fu da lì che giunsero i sanguinosi attacchi che rischiarono di abbattere la rivoluzione durante il lungo conflitto del 1980-1988.

In fin dei conti la morsa americana sta circondando, direttamente o indirettamente i confini dell’Iran: come ricorda Romano “le due guerre americane degli scorsi anni hanno drammaticamente accorciato la distanza che separa il paese dagli Stati Uniti, ormai installati con i loro soldati sulle frontiere orientali ed occidentali”. Le armi di distruzione di massa possono anche servire a distogliere l’opinione pubblica dai problemi contingenti, ma anche a crearsi uno strumento di pressione contro i possibili attacchi americani.

L’atavico nemico dell’Iran, almeno ai fini propagandistici, è tradizionalmente Israele. Alleato degli Stati Uniti da sempre e unica presenza ebraica in un contesto prevalentemente mussulmano, il piccolo stato nato nel 1948 ha da subito dovuto puntare sulla massima efficienza militare per evitare di essere schiacciato dai belligeranti vicini, tutti più estesi e più popolosi.

Ad oggi “Israel has not confirmed that it has nuclear weapons and officially maintains that it will not be the first country to introduce nuclear weapons into the Middle East. Yet the existence of Israeli nuclear weapons is a “public secret” by now due to the declassification of large numbers of formerly highly classified US government documents which show that the United States by 1975 was convinced that Israel had nuclear weapons”.

Ad ogni modo, riporta la BBC, “Israel has never officially admitted having nuclear weapons, but is widely recognised to possess a significant arsenal. There are estimates it has between 75 and 200 nuclear warheads”. Il governo di Tel Aviv in ogni caso non ha sottoscritto il trattato NPT, e ad oggi è ritenuto, insieme a Pakistan, India e Corea del Nord, come un membro del “club nucleare”.

La necessità di difendersi dai bellicosi avversari regionali con ogni mezzo possibile non solo ha condizionato gli sviluppi militari convenzionali, ma ha anche fatto intraprendere ad Israele una comoda “zona d’ombra” in merito alle armi nucleari che si è rivelato un buon deterrente. Il mistero che circonda il nucleare israeliano è sfruttato apposta dai dirigenti di Tel Aviv per poter giocare, in caso estremo, un’ultima carta. Inoltre Israele non ebbe esitazioni a colpire con un raid aereo l’Iraq di Saddam Hussein quando ebbe il sospetto che il dittatore stesse realizzando combustibile nucleare.

Come molte operazioni speciali israeliane, l’attacco di Osirak è rimasto storico: il 7 giugno 1981 un “commando” di alcuni aerei F15 ed F16 israeliani a sorpresa si diresse in Iraq, distrusse l’impianto nucleare di Osirak e ritornò in patria. Era un chiaro messaggio che Israele non avrebbe in alcun modo tollerato dei vicini “nucleari”.

La retorica profondamente anti-israeliana di Ahmadinejad ha già esacerbato gli animi delle opinioni pubbliche dei due paesi: espressioni come quelle legate alla “cancellazione” di Israele non hanno sicuramente contribuito a creare un clima più disteso fra le parti. La preoccupazione israeliana di veder sorgere un vicino dotato di armi nucleari è notevole: durante ogni recente attività missilistica iraniana (così come in quelle legate all’arricchimento dell’uranio od alla costruzione di nuove centrali) non sono mai mancate le ferme condanne israeliane alle politiche di Tehran.

Lo stesso Israele tiene sempre aggiornati dei piani d’attacco all’Iran, in risposta ai quali Tehran ha sempre affermato di essere pronta. La situazione difficilmente si potrà risolvere nel breve periodo, almeno finchè non si abbassano i toni fra i due stati. È certo che agitare l’antiebraismo nel mondo arabo paga, se non altro dal punto di vista dell’immagine: inoltre l’Iran finanzia a piene mani due movimenti ugualmente impegnati nella lotta contro Israele, cioè Hezbollah (movimento sciita) ed Hamas (movimento sunnita), che rispettivamente insidiano Israele da nord e da sud.

Finché non si comporranno tutte queste diverse tessere, sarà difficile ricomporre il mosaico della pace in medio oriente. La possibilità di dotarsi di armi nucleari, che ingigantirebbe il prestigio di Tehran in modo notevole, potrebbe destabilizzare in modo irreparabile gli equilibri israeliani aumentando la paura di Tel Aviv, che in quel caso potrebbe considerare l’opzione militare come una soluzione costosa ma necessaria. È chiaro che se quest’ipotesi andasse in porto, le conseguenze nella regione sarebbero tragiche.

L’Afghanistan e l’Iraq al momento sono in condizioni di debolezza tali da non costituire una minaccia per Tehran. Certo è che essi sono situati in posizione perfettamente opposta rispetto ai confini iraniani: in caso di attacco militare convenzionale, essi costituirebbero due buone teste di ponte per invadere l’Iran. Non va dimenticato che ormai questi due stati sono pesantemente presidiati da truppe occidentali; la nuova strategia americana, che punta a rinforzare il contingente in Afghanistan con altri 30.000 soldati di certo non piacerà al regime degli Ayatollah, che hanno già potuto sperimentare sulla propria pelle cosa e quanto costasse essere coinvolti in un conflitto convenzionale.

Se gli Stati Uniti prendessero in seria considerazione un intervento militare (cosa, al momento, poco probabile) di certo trovarsi alle frontiere dei grossi corpi d’armata americani già schierati e radicati sul territorio non sarebbe di certo una bella prospettiva per l’Iran, il cui strumento militare soffre di una certa obsolescenza e di alcune disfunzioni a livello di comando e controllo fra i pasdaran e le forze militari ordinarie.

In caso di attacco americano, però, il nazionalismo iraniano potrebbe trovare un elemento di aggregazione nazionale contro il “Grande Satana”, cosa che potrebbe rinsaldare la nazione attorno al presidente ed alla Guida Suprema. Un finale elemento scomodo presso le frontiere iraniane è il Pakistan, il quale non solo è dotato di un piccolo arsenale nucleare, ma al momento è l’ennesimo alleato americano nell’area.

Tuttavia, stanti le complesse vicende di politica interna che coinvolgono il governo di Islamabad, probabilmente è difficile ipotizzare alcun tipo di contrasto con Tehran; rimane comunque il fatto che l’Iran non può che percepire come parte dell’accerchiamento anche questo stato arabo.

Le armi di distruzione di massa e alcune ipotesi di risposta

Le minacce inerenti le armi di distruzione di massa non giungono solamente da attori statali. Per quanto la proliferazione negli stati sia preoccupante, ancora di più lo è quella che viene da soggetti sub statali, che sfuggono alle tradizionali articolazioni del potere politico internazionale. L’emergere di network terroristi transnazionali così come di fenomeni di crimine organizzato non sono di certo delle novità.

Durante gli anni del bipolarismo il terrorismo è sempre stato un elemento presente a fianco del confronto convenzionale delle superpotenze. Non sono mancate effettive “sponsorizzazioni” ai gruppi terroristici, sempre con la prospettiva che essi erano dei “liberatori” che combattevano contro il “tiranno” di turno. Queste giustificazioni hanno permesso, in modo più o meno occulto, il sovvenzionamento di gruppi ed organizzazioni che hanno agito con modalità ed azioni di tipo terroristico, destabilizzante o addirittura rivoluzionario.

Gli esiti sono stati diversi a seconda dei luoghi e dei contesti; in ogni modo l’agevolazione o l’istigazione di fenomeni eversivi è stata una costante nel corso della Guerra Fredda, una sorta di guerra parallela che si è combattuta con mezzi non convenzionali e che permetteva di rinvigorire l’immagine delle superpotenze come simpatizzanti di gruppi che combattevano per la libertà, la giustizia o, in generale, un avvenire più equo e felice.

Al di là della componente ideologica, che comunque svolgeva un ruolo principale per il terrorismo “sponsorizzato”, il terrorismo è stato una variabile rilevante nella storia politica degli ultimi cinquant’anni. A fianco vi sono stati altri fenomeni slegati dal contesto bipolare. È il caso della resistenza afghana all’invasione russa, nata sotto gli auspici di una guerra contro “gli infedeli” (russi) e successivamente “adottata” dagli Stati Uniti.

Infine non sono mancati terroristi “indipendenti”, cioè slegati dal confronto bipolare. Tuttavia nel corso di queste guerriglie “per procura” non sono state utilizzate armi di distruzione di massa, se non da parte di soggetti terzi al confronto fra le superpotenze. La fine della Guerra Fredda ha visto poi assurgere il terrorismo a minaccia universale, indicato al mondo come nuova piaga da estirpare ovunque si trovi.

Dalla simmetria dei blocchi agli scenari asimmetrici

Durante l’epoca del confronto bipolare, ogni singola azione orchestrata dai gruppi terroristici simpatizzanti delle superpotenze era costantemente pianificata, e si svolgeva in un disegno politico più o meno preciso, ma comunque riconducibile ai disegni delle nazioni “sponsor”. Formazioni come la RAF in Germania o i Contras in Nicaragua sono due semplici esempi di gruppi paramilitari legati e finanziati dalle superpotenze o dai loro emissari, e pertanto rispondenti ai dettami provenienti dalle rispettive capitali.

La mancata risoluzione del problema palestinese e i sommovimenti politici della Libia e dell’Iran hanno poi creato un nuovo filone di terrorismo diverso o comunque parallelo a quello ideologico: era l’inizio di un terrorismo di ispirazione religiosa estremista, noto nel dibattito attuale come “fondamentalista”. Il fondamentalismo è riuscito a resistere alle rivoluzioni che nel 1989 fecero implodere il sistema comunista; dal crollo delle ideologie si sono salvati solo pochi gruppi “di sinistra”, mentre invece il fattore religioso assurgeva sempre più agli onori delle cronache.

Dopo una serie di attacchi contro installazioni americane come navi, ambasciate ed una bomba nei sotterranei delle Twin Towers (1993) l’undici settembre del 2001 il mondo potè assistere in diretta ad uno dei più importanti fenomeni mediatici che la storia ricordi: l’attacco simultaneo a Washington e a New York condotto da una sparuta pattuglia, appunto, di “terroristi”. Da quel momento la Global war on terror è divenuta l’immediata risposta degli Stati Uniti al dilagare del “nuovo” fenomeno.

La fine delle “eleganti certezze bipolari” unite alla sempre maggiore evoluzione delle tecnologie ha permesso al terrorismo di divenire una realtà complessa e sempre più integrata. Al pari di fenomeni civili e leciti come i trasporti, la logistica, l’informatica e via discorrendo, anche le reti terroristiche si sono evolute e oggi rappresentano una sfida importante e attuale per la comunità internazionale.

Approfittando della fine degli equilibri bipolari, oggi è più semplice per le strutture sub statali conseguire i propri scopi rispetto a quanto poteva avvenire solo pochi anni fa: “i gradi di flessibilità internazionale, e quindi anche la libertà d’azione degli attori, crescono in sistemi multipolari e omogenei e decrescono in sistemi bipolari e disomogenei”.

La minaccia di uso di armi di distruzione di massa da parte di gruppi terroristici sembra una delle incognite attuali più spaventose per le società occidentali, perché “i mezzi di distruzione di massa stanno diventando accessibili a gruppi sempre più ridotti di persone”. Sinora i principali attacchi si sono verificati senza armi di distruzione di massa, ma casi come quello di Tokyo sono indicativi di come non si possa non considerare ipotesi di questo tipo.

È chiaro che la flessibilità delle organizzazioni potenzialmente impegnate in questo tipo di azioni non favorisce la loro rintracciabilità; reagire a questa nuova minaccia richiede una maggior convergenza fra il mondo della difesa e quello della sicurezza, tanto a livello nazionale che sovranazionale. Qui si esamineranno due ipotesi di contrasto.

Il caso italiano: il ruolo dell’intelligence

nel contrasto alle armi di distruzione di massa

Come ricorda Umana in una pubblicazione del 2003, “a partire dalla seconda metà degli anni ’80 gli apparati di sicurezza italiani rilevarono sostanziali mutamenti nel settore del traffico di armamenti e di tecnologie avanzate ed in quello della proliferazione delle armi di distruzione di massa”. Con il declinare della minaccia sovietica il quadro geopolitico mondiale non si è avviato verso una maggior pacificazione, ma anzi, vi era già attenzione ai desideri di dotarsi di armi di distruzione di massa da parte di paesi del terzo mondo.

Nel corso di questi anni, nei quali sul suolo italiano non si sono prodotti attacchi con armi di distruzione di massa, l’allerta ed il controllo delle minacce NBCR è stata perseguita in diversi modi: si sono tenuti sotto controllo gli ambiti regionali in cui vi erano stati intenzionati ad acquisire capacità non NBCR ma anche si sono tenuti sotto controlli le esportazioni di tecnologie cosiddette dual use, cioè capaci di usi sia civili che militari. Come ricorda Dottori “in questo caso l’attività informativa può contribuire a scongiurare il materializzarsi di un grave fattore di pericolo per la stessa sicurezza militare dello Stato”.

Nonostante la scarsità di informazioni disponibili al riguardo, è noto che il sistema dell’intelligence italiana (al pari di quelli degli altri paesi) segue da vicino la questione della contropoliferazione, cioè il contrasto alla diffusione di materiali strategici. Questa missione è stata istituzionalmente affidata all’AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), diretta erede del SISMI.

L’articolo sei comma 1 della l. 124/2007 affida all’AISE il “compito di ricercare ed elaborare nei settori di competenza tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica, anche in attuazione di accordi internazionali, dalle minacce provenienti dall’estero” affidando all’agenzia anche “le attività in materia di controproliferazione concernenti i materiali strategici”.

Nell’ultima relazione annuale presentata al Parlamento del 2008 questa attività è indicata come “uno degli obiettivi informativi prioritari dell’AISE, che dedica alla tematica un’apposita struttura”. Nel corso dell’ultimo anno – prosegue la relazione –  sono stati tenuti sotto controllo:

  • -I potenziali siti di interesse dei paesi a rischio;
  • · I programmi di ricerca, sviluppo, produzione ed acquisizione di armamenti non convenzionali condotti da tali paesi;
  • · L’attivismo delle connesse reti di procurement;
  • · I settori strategici, le tecnologie critiche e i trasferimenti di materiale dual use.

L’attenzione della relazione si sofferma, a diverso titolo, su alcuni stati, quali l’Iran, la Siria, il Pakistan e la Corea del Nord, inquadrando sinteticamente i motivi per i quali sono stati tenuti d’occhio con particolare attenzione. Il resto delle informazioni attualmente pubblicate al riguardo sono pochissime.

Si può concludere che, dal punto di vista preventivo, l’attenzione sulle armi di distruzione di massa conferma un interesse dell’agenzie che è risalente nel tempo, come ha già notato Umana. Non vanno infine trascurate le collaborazioni informative con le altre Istituzioni che si occupano di sicurezza in Italia ed i costanti rapporti con i Servizi esteri, per quanto possibili. Minacce globali come quella delle armi di distruzione di massa non possono che favorire sempre più (salvi i dovuti limiti) l’osmosi informativa finalizzata alla prevenzione, al contrasto ed alla repressione di eventuali attacchi NBCR.

La scuola interforze per la difesa NBC

Il contrasto alle armi NBC è seguito, dal punto di vista operativo, dalla “Scuola interforze per la difesa NBC”, istituto che di pende da Stato Maggiore Difesa e che, per l’appunto, è interforze. Le problematiche NBC erano prerogative delle singole forze armate fino al primo marzo 1999, anno in cui si è deciso di concentrare la formazione NBC nell’ambito di un unico polo.

Come ricorda il ministero della Difesa, “La Scuola Interforze per la Difesa NBC”  ha assunto le funzioni di “Polo Interforze per la Difesa Nucleare Biologica Chimica”, ed ha ricevuto nuovi compiti istituzionali tra i quali quello di redigere e diramare, dopo l’approvazione dell’Ispettorato delle Armi dell’Esercito, le pubblicazioni dottrinali afferenti alla specifica materia. I contenuti dottrinali di tali pubblicazioni recepiscono le direttive emanate dalla NATO e i successivi indirizzi di Forza Armata”.

La Grande guerra aveva dimostrato come fosse necessario considerare militarmente possibile l’utilizzo di armi chimiche. Per questo il primo luglio 1923 fu istituito il Servizio Chimico Militare e, nello stesso anno, un Reparto Chimico, due anni dopo trasformatosi in reggimento. Dopo la Seconda guerra mondiale venne creato (1953) da parte di Stato Maggiore Esercito una “Scuola Unica Interforze Armate per la Difesa Atomica, Batteriologica e Chimica” a Roma, e compiti di formazione ed addestramento nel settore ABC.

Nel marzo del 1956 il nome mutò in “Scuola Unica Interforze Armate per la Difesa Atomica, Biologica, Chimica” per divenire, nel 1970, “Scuola Unica Interforze per la Difesa Atomica, Biologica e Chimica” ed infine, il 1° febbraio 1977 “Scuola Unica Interforze per la Difesa Nucleare, Biologica, Chimica”.

A fianco dell’istituzione della scuola venne poi creata prima una compagnia sperimentale ABC, divenuta poi Battaglione Difesa NBC (1967) e, di seguito, nel 1976, 1° Battaglione NBC Etruria, ereditando Bandiera e tradizioni del precedente Reggimento Chimico. Infine “dal 1° marzo 1999 la Scuola è assurta al rango di“Polo Interforze per la Difesa NBC””. La scuola permette di curare tutte le attività addestrative che coinvolgono il settore NBC, “per una più completa e realistica preparazione dalle unità delle Forze Armate”.

Il ruolo della Nato

Il contrasto alle armi di distruzione di massa non avviene solo a livello nazionale; vi sono dei naturali collegamenti, anche informativi, a livello internazionale, e, nel caso della Nato, un apposito approccio alle armi di distruzione di massa. La trasformazione dell’Alleanza Atlantica dopo la fine della Guerra fredda non poteva tralasciare questo settore di competizione.

Come ricorda la Nato in un recente documento, “weapons of mass destruction pose serious risks and challenges to the Alliance and to international security. A primary aim of the Alliance is to prevent the proliferation of these weapons or, should proliferation occur, to reverse it through diplomatic means. The Allies have taken a comprehensive set of practical initiatives to defend their populations, territory and forces against potential WMD threats”.

È chiaro che un’alleanza come la Nato non poteva permettersi di sottovalutare la minaccia. Al Washington summit del 1999 venne presentata la Weapons of Mass Destruction Initiative (WMDI), “designed to promote understanding of WMD issues, develop ways of responding to them, improve intelligence and information sharing, enhance existing Allied military readiness to operate in a WMD environment and counter threats posed by these weapons”.

L’anno dopo, presso il Nato Headquarter, venne creato il WMD Centre, con lo scopo di coordinare le iniziative nel settore. Di seguito, nel 2002, a seguito del Summit di Praga, venne approvato il Prague Capabilities Commitment (PCC), che prevedeva interventi in tutta una serie di settori fra cui le armi di distruzione di massa. Pensando che la minaccia terroristica si poteva anche manifestare con questo tipo di mezzi, le iniziative adottate determinarono:

  • La creazione di un Joint Assessment Team che possa valutare e consigliare i comandanti Nato sugli effetti di un evento NBC;
  • Un deployable analytical laboratory trasportabile rapidamente in teatro per raccogliere ed analizzare campioni per l’identificazione di agenti NBCR;
  • Una difesa NBC condivisa fra i membri dell’Alleanza;
  • Un migliore addestramento NBC;
  • Un sistema di sorveglianza delle malattie per facilitare la raccolta di informazioni, combinarle e allertare la Nato in caso di eventi biologici anomali.

A lato di queste attività la Nato ha proseguito le sue attività con momenti di formazione e standardizzazione delle tecnologie e dei materiali, in modo da garantire alle truppe dell’Alleanza la piena interoperabilità. Nel 2004 è stato creato creato un Multinational Chemical Biological Radiologial Nuclear (CBRN) Defence Battalion, che è stato dichiarato “fully operational” al summit di Istanbul nel giugno del 2004, seguito poi dalla creazione di una Combined Joined CBRN Defence Task Force “esigned to respond to and manage the consequences of the release of any CBRN agent”.

Questa Task force opera in contatto con la Nato Response Force, e di norma è guidata da una nazione alleata, a rotazione, per la durata di sei mesi. Questa struttura NBCR è destinata a reagire velocemente ad ogni tipo di crisi che possa fronteggiare l’Alleanza, sia a livello di missioni che nel caso di assistenza civile. Il summit di Riga del 2006, approvando la Comprehensive political guidnce (CPG) “analyses the probable future security environment, but acknowledges the possibility of unpredictable events”, indicando fra le sfide, i rischi e le minacce da fronteggiare anche la proliferazione della armi di distruzione di massa.

Di seguito, nel 2007, è stato poi creato il Joint Centre of Excellence on CBRN Defence (JCRBN Defence COE) a Vyskov, in Repubblica ceca, con lo scopo di offrire competenze ed esperienze a beneficio dell’Alleanza. Lo scopo del COE è:

  • Provide advice in all CBRN defence related areas;
  • Develop CBRN defence doctrines, standards, knowledge to support improvement of interoperability and capabilities;
  • Provide opportunities to enhance education and training;
  • Contribute to the relevant lessons learned processes;
  • Within a PoW approved by the SC, assist NATO, SNs and other international institutions/organisations in their CBRN defence related efforts, including validation through experimentation.

Il JCRBN COE è sostenuto da Repubblica Ceca, Germania, Grecia, Italia, Slovacchia, Romania, Slovenia, Polonia e Regno Unito. La nato infine si occupa anche di disarmo, controllo delle armi ed antiproliferazione, nonchè di difesa missilistica.

Conclusione

La minaccia delle armi di distruzione di massa è oggi un pericolo concreto che i decisori politici, militari e di sicurezza non possono permettersi di trascurare. In un mondo che ha perso la rigidità degli anni della Guerra fredda nuovi interrogativi si affacciano sulla scena mondiale. Gruppi substatali si muovono anche nell’ombra delle società “evolute” e, sfruttando le tecnologie dell’Occidente che deprecano, possono acquisire capacità belliche NBC non indifferenti.

La letteratura americana, molto copiosa sull’argomento, non esita a ricordare questa possibilità, forse enfatizzandola troppo. Certo è che alcuni episodi, come Tokyo o il caso dell’antrace hanno messo in allarme la comunità mondiale. In un mondo sempre più piccolo e, come direbbe Bauman, “liquido”, lo spazio sembra non contare più. Si sprecano le opere che trattano la fine dello Stato, la fine della sovranità, l’ordine post-westfaliano.

Negare questa tendenza sarebbe presuntuoso e forse utopico. Ma avvallare appieno questa tesi mancherebbe di realismo. La fine della guerra fredda ha rifatto emergere il nazionalismo, le dispute tribali ed etniche, il problema dei confini e del controllo del territorio: in altre parole è riemerso, appunto, il territorio, inteso come “uno spazio segnato dalle creazioni e dai vissuti umani. La territorialità corrisponde all’insieme delle relazioni che consentono ai diversi gruppi di far valere i propri interessi nello spazio”.

In tema di armi di distruzione di massa questa tendenza si legge bene nelle ultime vicende. Alcuni stati mondiali, come l’Iran, il Pakistan, la corea del Nord sono oggi aree centrali attorno alle quali altri attori, regionali e non, si concentrano. A volte solo con la forza dell’economia, a volte con gli strumenti militari, attorno al territorio di questi stati si scatenano dispute, attenzioni e pressioni. E i protagonisti di queste dinamiche sono proprio quegli stati che tutti stanno dando come agonizzanti.

I loro comportamenti agitano tutte le diplomazie, i loro sistemi missilistici obbligano gli esperti di balistica a calcolare distanze e gittate, e, grazie ai vettori strategici, divengono pericolosi vicini anche per i paesi più lontani. Comprendere il mondo delle armi di distruzione di massa non può limitarsi quindi alla sola dimensione militare o di homeland security; l’approccio geografico rimane essenziale per capire come i territori reagiscano alle spinte che giungono dagli attori vicini, e come queste spinte successivamente modifichino i contesti.

Infine la crescita delle armi di distruzione di massa (o il loro rischio di crescita) modifica la centralità delle aree geografiche, ridisegnando l’assetto centro-periferia. Anche in questo caso la percezione soggettiva dei governi contribuisce a plasmare, sulla base dei problemi dei territori, l’agenda della politica estera. Stati fino a ieri considerati secondari oggi sono al primo posto nelle attenzione di alcuni
governi ed anche dell’Onu.

Il mondo della armi di distruzione di massa rimane un settore fluido, almeno finché non si addiverrà ad una sua normazione completa, cosa che richiederà ancora abbastanza tempo, e sempreché non si scatenino “corse al riarmo” in certe parti della Terra. Quest’ipotesi sarebbe deleteria e segnerebbe un vistoso passo indietro dopo anni di lenti ma costanti passi avanti per avere un mondo un po’ più sicuro.

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