a cura di Cornelio Galas
PUBBLICAZIONI DEGLI ARCHIVI DI STATO
L’ARMISTIZIO TRA L’ITALIA E GLI ANGLOAMERICANI
RETROSCENA, SEGRETI E FALSE VERITA’
di Elena Aga Rossi *
Reazioni dei governi angloamericani al 25 luglio
e avvio dei negoziati per l’armistizio
E’ difficile districarsi nella serie di malintesi, inganni, illusioni che caratterizzarono i negoziati tra l’Italia e gli angloamericani dopo la caduta di Mussolini se non si chiariscono i presupposti sbagliati e le errate convinzioni sulla situazione reciproca da cui prendevano le mosse le due parti. In primo luogo, fu la convinzione italiana di trovarsi di fronte ad una immensa forza militare alleata a condizionare le scelte del governo. Non sapendo, ovviamente, che l’obiettivo principale degli alleati era il nord della Francia, i vertici militari e politici italiani pensavano che fosse imminente uno sbarco in forze nella penisola o nei Balcani.
La sopravvalutazione della forza angloamericana era dovuta al successo della propaganda alleata, che da mesi proclamava la propria superiorità e invincibilità, e in parte forse agli effetti dei continui bombardamenti sulle città italiane, ma soprattutto fu confermata dalla quantità di forze alleate impiegate nello sbarco in Sicilia. Se in una operazione abbastanza limitata era stato usato un tale dispiego di mezzi, come si poteva pensare che se ne sarebbero impiegati meno nel caso di uno sbarco nella penisola, difesa da forze italiane e tedesche più numerose?
In secondo luogo, il comando italiano era convinto che se l’obiettivo principale di uno sbarco era l’occupazione dell’Italia, esso sarebbe avvenuto a nord di Roma, perché uno sbarco a sud avrebbe escluso una rapida avanzata delle forze angloamericane. Infine, vi era da parte italiana una infondata sopravvalutazione della propria forza contrattuale. L’idea coltivata dal fascismo che l’Italia fosse divenuta una “grande potenza” non svanì nel nulla e la classe dirigente italiana si illuse che gli Alleati, pur di eliminare l’Italia dal conflitto, non avrebbero insistito sulla resa incondizionata se il nuovo governo si fosse presentato con un’immagine “antifascista”.
Anche in questo caso tale illusione fu alimentata dalla propaganda alleata e dalle stesse dichiarazioni dei massimi dirigenti alleati. Churchill e Roosevelt, in una dichiarazione congiunta del 16 luglio, affermarono che “la sola speranza di salvezza per l’Italia [era] in una capitolazione onorevole”.“Noi veniamo come liberatori”, dichiarò tra l’altro Eisenhower in un messaggio agli italiani trasmesso il 28 luglio dopo la caduta di Mussolini, nel quale riprese l’accenno a “condizioni onorevoli”.
Tali dichiarazioni indussero la parte italiana a sperare in una pace negoziata. Il governo italiano era convinto che gli angloamericani avrebbero preferito un’Italia neutrale ad una occupazione tedesca del paese e all’imposizione di un nuovo governo fascista. Come abbiamo notato in precedenza, proprio questa era invece considerata dal Foreign Office la soluzione migliore, perché l’Italia avrebbe in tal modo costituito un peso per le risorse tedesche.
Si deve aggiungere però che tale posizione non era pienamente condivisa né all’interno del governo inglese, né dai militari. I piani militari angloamericani per il Mediterraneo erano molto diversi da quelli immaginati dagli italiani. Nella strategia alleata del 1943, l’Italia occupava un posto decisamente secondario. La campagna d’Italia nacque con la decisione nel gennaio del 1943 di effettuare uno sbarco in Sicilia come operazione diversiva rispetto a quella di Overlord, nome in codice del piano per lo sbarco in Normandia.
Alle operazioni nel Mediterraneo furono assegnate conseguentemente fin dall’inizio forze molto limitate, in parte già destinate ad essere ritirate per la preparazione di Overlord. Già
agli inizi dell’aprile 1943 vi fu una piccola crisi, quando Eisenhower inviò un telegramma in cui affermava che la presenza di due divisioni tedesche in Sicilia poneva in dubbio la possibilità che una sua invasione fosse coronata dal successo. Lo sbarco in Sicilia invece riuscì e l’isola venne conquistata in poco più di un mese.
Dopo questo successo fu deciso di continuare le operazioni militari con uno sbarco a Salerno (operazione Avalanche) per mantenere l’iniziativa senza quasi aumentare però le truppe coinvolte. I piani per questa operazione furono improvvisati, con truppe meno preparate, tanto che il Comando alleato temette fino alla vigilia dell’azione che esse sarebbero state respinte in mare. In sostanza il Comando alleato cercò di capitalizzare il successo iniziale, pur riconoscendo l’inadeguatezza delle forze e il rischio che comportava uno scontro frontale con le forze avversarie .
La caduta di Mussolini il 25 luglio fu vista dai governi inglese e americano come la conferma del crollo,da tempo previsto, del regime fascista, cui sarebbe seguita al più presto da parte del nuovo governo la richiesta di un armistizio. Nello stesso tempo si sopravvalutava la capacità dell’esercito italiano di contrastare i tedeschi. Nelle “Considerazioni sulla caduta di Mussolini”, pubblicate nelle sue memorie, Churchill prevedeva uno scenario ideale : una resa delle forze italiane agli alleati sia in Italia che nei Balcani e in Grecia , dopo che le stesse forze insieme alla popolazione avessero cacciato i tedeschi dall’Italia. Roosevelt condivise il suo ottimismo e l’esigenza di trattare con “qualunque persona o gruppo di persone in Italia capaci prima di tutto di effettuare il disarmo e in secondo luogo di dare garanzie contro il caos”.
Sembra che i due statisti fossero caduti vittime dalla loro stessa propaganda, secondo cui la popolazione e l’esercito italiani erano pronti e in grado di cacciare gli “invasori”, che avevano provocato tanta distruzione e miseria al paese. E’ evidente che gli angloamericani sottovalutavano la capacità dei tedeschi di assumere il controllo dell’Italia e non prendevano in considerazione la presenza nei ranghi elevati dell’esercito italiano di elementi filotedeschi o almeno favorevoli a continuare la guerra a fianco della Germania.
Inoltre era noto, come ha testimoniato Ambrosio, che il servizio segreto militare italiano, il SIM, “era strettamente collegato con il comando tedesco e i suoi membri avevano rapporti amichevoli con i colleghi tedeschi”, tali da rendere impossibile l’utilizzazione della sua rete informativa. Per quanto i tedeschi non fossero certo amati, erano però temuti dagli italiani, tanto che ogni iniziativa del governo sarebbe stata totalmente condizionata dalla paura della reazione delle forze armate tedesche.
La lettura della situazione italiana da parte di Eisenhower fu più realistica. La caduta di Mussolini capitava al momento più opportuno, nell’imminenza dello sbarco, e Eisenhower vide subito la possibilità di sfruttare l’occasione per raggiungere un armistizio prima dell’inizio delle operazioni, in modo da compensare la debolezza militare alleata. Come nota Macmillan nel suo diario, Eisenhower lo chiamò alle 8 del mattino del 26 luglio “in stato di grande agitazione e pieno di piani e di idee per sfruttare la situazione italiana”.
In due giorni fu preparato il testo di un messaggio agli italiani e una bozza di quello che sarebbe divenuto poi con alcune correzioni l’armistizio “breve”, dieci condizioni militari di resa – poi portate a dodici – da presentare nel caso gli italiani si facessero vivi. In questo testo si prevedeva la resa italiana, ma non il passaggio dalla parte alleata, perché Eisenhower era convinto che non si poteva chiedere agli italiani una decisione che egli stesso considerava contraria al codice d’onore militare.
L’iniziativa di Eisenhower cadde in un momento felice. I due governi alleati stavano da tempo discutendo su un testo molto dettagliato, preparato dagli inglesi e presentato nel maggio del 1943 agli americani, sul quale mancava proprio il consenso di questi ultimi. I capi di Stato maggiore americani e lo stesso Roosevelt erano contrari ad un documento articolato che presupponeva di fatto il riconoscimento di un governo centrale in Italia. Ciò sarebbe stato in netta contraddizione con l’interpretazione americana del principio della resa incondizionata, secondo cui gli alleati non dovevano trattare con alcuna autorità centrale del paese nemico, perché questo sarebbe equivalso ad un suo riconoscimento, ma semplicemente imporre una propria amministrazione militare.
Roosevelt sostenne in una lettera di Churchill del 3 agosto che era meglio limitarsi ad un documento breve, che attribuisse tutti i poteri a Eisenhower, il quale sarebbe stato così libero di agire e di far fronte alle situazioni quando si presentassero. Alla fine, dopo molte discussioni, il testo di Eisenhower fu accettato da entrambi i governi, anche se con alcune modifiche, che ne accentuavano il tono intransigente.
Soltanto il Foreign Office continuò a non essere d’accordo sulla esclusione di condizioni politiche, ritenendo insufficiente l’aggiunta di un articolo finale, che diceva: “altre condizioni di natura politica, economica e finanziaria che l’Italia sarà tenuta ad eseguire saranno fatte conoscere in seguito”. Ma gli inglesi per il momento dovettero accettare la formulazione dell’armistizio breve, in mancanza di un accordo tra i due governi su un testo alternativo.
Da parte italiana la decisione di stabilire contatti con gli alleati fu presa in un clima di grande incertezza e confusione e in assenza di un piano preciso. Contrariamente a quanto si aspettavano gli angloamericani il governo italiano non intendeva chiedere immediatamente un armistizio. In realtà, messi da parte, almeno in apparenza, i gerarchi fascisti che avevano provocato la caduta di Mussolini, Badoglio e il re non erano preparati a una resa senza condizioni così come non erano stati in grado di prendere l’iniziativa di estromettere Mussolini.
La diffidenza reciproca e le divisioni all’interno dei comandi militari – in particolare tra il Comando supremo e lo Stato maggiore dell’esercito – e l’ossessiva paura di reazioni tedesche in caso trapelassero informazioni su contatti con gli alleati ritardarono una scelta definitiva sulle modalità di uscita dalla guerra. Inoltre, fin dai suoi primi atti, Badoglio si trovò di fronte all’ostilità degli ambienti di corte, che lo accusavano di essere troppo debole nei confronti dell’opposizione antifascista. Anche quest’ultima era divisa sul da farsi: pur premendo sul governo perché agisse, finì per rimanere inattiva proprio allo scopo di lasciare a Badoglio la conclusione dell’armistizio: questa era, secondo l’espressione di Alcide De Gasperi, leader del nuovo partito cattolico, una “partita passiva” che avrebbe necessariamente creato pesanti responsabilità per i negoziatori.
Tra i militari soltanto il capo di Stato maggiore generale, Ambrosio, sosteneva l’urgenza di raggiungere un accordo con gli angloamericani, convinto dalle argomentazioni del generale Giuseppe Castellano, che godeva della sua piena fiducia e che da diversi mesi premeva affinché i militari assumessero l’iniziativa.
La decisione di stabilire dei contatti con gli alleati fu presa in una riunione al Quirinale il 31 luglio, dopo il ritorno da Ankara del nuovo ministro degli esteri Raffaele Guariglia. I primi emissari furono due diplomatici, il marchese Blasco Lanza d’Aieta, che venne inviato subito a Lisbona, e Alberto Berio, mandato a Tangeri, dove era stato nominato console generale. Essi non avevano alcun mandato di aprire trattative per l’armistizio ma erano stati incaricati di sondare le intenzioni degli angloamericani e sollecitarli a sbarcare nella Francia meridionale o nei Balcani, in modo che queste operazioni di diversione “succhiassero” le divisioni tedesche di stanza in Italia. Entrambi presero contatto soltanto con l’ambasciata inglese e si limitarono sostanzialmente a descrivere la difficile situazione interna e a spiegare che il governo italiano doveva fingere di continuare l’alleanza per evitare un colpo di stato tedesco.
Era – come Churchill scrisse a Roosevelt – una pressante richiesta perché l’Italia fosse “salvata dai tedeschi e da se stessa al più presto possibile” con uno sbarco alleato in forze sulla penisola. La risposta inglese fu il rifiuto di ogni discussione e la richiesta preliminare di una capitolazione senza condizioni. Di questi primi contatti non fu informato nemmeno Eisenhower.
Il vero negoziato-iniziò soltanto quando l’iniziativa passò ai militari e Ambrosio scelse di inviare a Lisbona Giuseppe Castellano, approfittando di una delegazione italiana che partiva per la capitale portoghese il 12 agosto. Castellano fu inviato senza credenziali, non solo per evitare che documenti compromettenti cadessero in mano nemica, ma anche per tenere aperta la possibilità di sconfessarne l’azione qualora ciò fosse stato ritenuto utile.
Castellano però, ardente fautore della scelta armistiziale, andò oltre il generico mandato assegnatogli, di presentare agli alleati la situazione italiana e di “consigliare di effettuare uno sbarco a nord di Roma perché altrimenti la capitale e gli uomini responsabili potevano correre serio pericolo“. Così facendo si sarebbe trovato di fronte allo stesso muro opposto fino a quel momento dal Foreign Office a tutte le iniziative italiane: la richiesta di una resa incondizionata prima di ogni discussione.
Egli riuscì a superare questo blocco sostenendo che il vero obiettivo del nuovo governo italiano era il passaggio dell’Italia dalla parte alleata e l’attiva collaborazione dell’esercito italiano contro i tedeschi al momento dello sbarco delle truppe alleate nel paese. Il governo italiano non aveva autorizzato Castellano a fare una tale dichiarazione (come il ministro Guariglia gli fece osservare al suo ritorno a Roma), ma fu proprio questa proposta, avanzata da Castellano in un incontro con l’ambasciatore inglese Samuel Hoare a Madrid, durante una sosta di alcune ore nel viaggio verso Lisbona, a far prendere in considerazione l’emissario italiano e a provocare un sostanziale cambiamento di atteggiamento degli angloamericani.
Infatti, le informazioni fornite da Castellano sulla dislocazione delle forze tedesche in Italia e la richiesta di discutere con ufficiali angloamericani l’offerta di una collaborazione militare furono questa volta trasmesse ai capi di Stato maggiore angloamericani, a Churchill e a Roosevelt, in quei giorni a Quebec per una conferenza militare, e da questi girate a Eisenhower.
Convinti della possibilità di un concreto aiuto italiano, Churchill e Roosevelt decisero, in contrasto con l’opinione del Foreign Office, di non limitarsi ad insistere sulla accettazione preventiva da parte italiana della resa senza condizioni. Fecero inviare a Lisbona due rappresentanti del Quartier generale di Eisenhower ad Algeri (l’americano Bedell Smith e l’inglese Kenneth Strong) e trasmisero all’inviato italiano sia il testo delle condizioni militari d’armistizio che una dichiarazione scritta, preparata a Quebec (la cosiddetta “dichiarazione di Quebec”). Quest’ultima affermava che un’eventuale modifica delle condizioni d’armistizio sarebbe dipesa dall’”apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”.
In quel primo incontro tra Castellano e i militari angloamericani, che si tenne a Lisbona il 19 agosto, vi fu un inganno reciproco: l’inviato italiano sostenne che il suo governo voleva un rovesciamento dell’alleanza e un’attiva collaborazione dell’esercito italiano nella lotta contro i tedeschi dopo lo sbarco alleato, mentre tale idea era stata preventivamente discussa soltanto con Ambrosio, e non era stata nemmeno presentata a Badoglio o a Guariglia. Gli angloamericani insistettero per la resa senza condizioni, presentandosi come una forza soverchiante, che non aveva alcuna necessità di aiuti esterni. In realtà i militari angloamericani ritenevano di estrema importanza ottenere la collaborazione o almeno la neutralità italiana per evitare il rischio di un insuccesso al momento dello sbarco a Salerno.
In particolare il responsabile dell’operazione, il generale Alexander, sottolineò più volte ai negoziatori alleati la debolezza della posizione militare alleata e la necessità di ottenere a qualunque costo la firma dell’armistizio. Partito il 12 agosto, per una serie di contrattempi Castellano non poté fare ritorno a Roma che il 28; nel frattempo la divisione e il sospetto all’interno delle forze armate italiane erano tali che un altro emissario, il generale Zanussi, fu inviato da Roatta e da Carboni a Lisbona “per equilibrare e controllare il lavoro di Castellano”, con l’effetto di rendere gli alleati ancora più sospettosi delle intenzioni italiane.
Zanussi fu praticamente requisito dagli angloamericani dopo che l’ambasciatore inglese Campbell, dietro istruzioni del Foreign Office, gli aveva consegnato a Lisbona copia del lungo armistizio, il cui testo era stato nel frattempo finalmente approvato dai due governi. Il Foreign Office sperava con questo intervento di riuscire a sostituire il breve armistizio con il lungo. Invece, il Comando di Algeri, temendo che le dure clausole in esso contenute spingessero il governo Badoglio a non firmare la resa, chiese di essere autorizzato a far firmare soltanto le clausole militari, pur impegnandosi a consegnare agli emissari italiani il testo aggiuntivo dopo la firma dell’armistizio. Bedell Smith e Kenneth Strong presero in consegna Zanussi e lo riportarono con loro ad Algeri, per impedire che egli potesse comunicare al proprio governo il testo del lungo armistizio.
La firma dell’armistizio breve a Cassibile
Castellano al suo ritorno a Roma riferì a Badoglio sia del proposito espresso a nome del governo di un rivolgimento di fronte, sia dell’intransigenza degli emissari angloamericani sulla questione della resa incondizionata. Badoglio decise di non sconfessare l’iniziativa di Castellano, e pensando che ci fossero ancora spazi per una trattativa, gli dette mandato di presentare delle controproposte. I colloqui continuarono a Cassibile, presso Siracusa, dove Castellano si recò il 31 agosto, trovandovi già Zanussi, che inspiegabilmente non lo informò di aver visto il testo del lungo armistizio.
Castellano riferì le condizioni del suo governo per un cambiamento di fronte, avanzando la richiesta di uno sbarco alleato di 15 divisioni, ma ottenne da Bedell Smith la significativa risposta che in quel caso le potenze alleate non avrebbero avuto alcun bisogno di concludere un armistizio con l’Italia. Castellano dichiarò inoltre di non avere l’autorizzazione a firmare l’armistizio, senza previo impegno da parte angloamericana a sbarcare a nord di Roma e fino alla fine cercò inutilmente di far accettare la proposta di rinviare l’annuncio dell’armistizio a sbarco avvenuto.
Gli angloamericani dichiararono che queste richieste erano inaccettabili e insistettero che l’armistizio doveva essere proclamato contemporaneamente allo sbarco. Sbarchi secondari sarebbero avvenuti prima (da una a due settimane) della proclamazione dell’armistizio. Non soltanto furono quindi molto elusivi sulle date, ma lasciarono che Castellano si convincesse che vi era ancora tempo prima della proclamazione dell’armistizio, invece di comunicargli un senso di urgenza, e gli fecero credere che sarebbero sbarcati in forze. Furono però chiari sul punto fondamentale, che lo sbarco sarebbe avvenuto a sud di Roma, e che quindi gli italiani avrebbero dovuto proteggere con le loro sole forze la capitale fino all’arrivo degli Alleati.
Per convincere gli italiani a firmare l’armistizio, gli angloamericani non lasciarono nulla di intentato, sottoponendoli a continue pressioni per una immediata decisione, passando dalle minacce di bombardamenti sulla capitale fino alla accettazione della richiesta avanzata da Castellano dell’invio di una divisione aviotrasportata per aiutare gli italiani a mantenere il controllo di Roma. Nel comunicare la sua decisione di attuare questa rischiosa operazione, Eisenhower sostenne, in due messaggi ai capi di Stato maggiore congiunti , entrambi del primo settembre 1943, che l’ Italia era ormai “di fatto un paese occupato”, almeno al nord di Roma e che l’invio della divisione costituiva l’unica possibilità per convincere gli italiani a firmare l’armistizio e per riuscire con il loro aiuto a prendere Roma e tutto il territorio a sud della città.
Intanto Castellano, tornato a Roma la sera del 31 agosto, fu convocato da Badoglio per il giorno seguente, 1 settembre. Alla riunione, cui parteciparono anche Guariglia, Ambrosio e Carboni, Castellano riferì le condizioni poste dagli angloamericani e consegnò a Badoglio copia del verbale dei colloqui. In questo documento, era specificato che ci sarebbero stati “sbarchi secondari (5 o 6 divisioni) con opposizione italiana. Dopo un breve periodo di tempo (una o due settimane?) sbarco principale in forze, a sud di Roma; azione della divisione paracadutisti vicino a Roma e contemporaneamente annuncio dell’armistizio”.
Il verbale riportava inoltre sia il rifiuto alleato ad accogliere la richiesta italiana di far concentrare la flotta alla Maddalena, sia l’indicazione del generale Bedell Smith che lo sbarco sarebbe stato certamente inferiore a 15 divisioni. Dopo il resoconto di Castellano i pareri dei presenti furono divisi: Ambrosio e Guariglia dichiararono che a quel punto non si poteva far altro che accettare le condizioni imposte, Carboni si pronunciò contro l’accettazione perché non ci si poteva fidare delle assicurazioni verbali degli angloamericani e perché il suo corpo d’armata a difesa della capitale non avrebbe potuto combattere i tedeschi “mancando di benzina e di munizioni”. Badoglio non si pronunciò al momento, riservandosi di parlare al re, che nel pomeriggio decise l’accettazione delle condizioni imposte.
Così dall’1 settembre il governo italiano sapeva che “la scelta del giorno della dichiarazione
del concluso armistizio rimaneva a discrezione degli alleati”, e che al momento dell’annuncio dell’armistizio doveva iniziare un’azione concertata, che prevedeva il controllo degli aeroporti stabiliti per l’arrivo della divisione e la difesa di Roma contro i tedeschi. Eisenhower informò lo stesso giorno il Comando supremo italiano della sua decisione di inviare una “grande forza di truppe aeree nelle vicinanze di Roma”, purché gli italiani potessero controllare gli aeroporti necessari e le loro divisioni intraprendessero “attiva ed effettiva azione militare contro i tedeschi, e l’armistizio [venisse] annunziato al momento richiesto”.
Né Badoglio né Ambrosio ritennero opportuno informare di questi accordi il capo di Stato maggiore dell’esercito, generale Roatta, o almeno questa è la versione ufficiale. Sembra però strano che Roatta non ne fosse messo a conoscenza da Carboni e che da quest’ultimo continuasse a dipendere un’operazione così delicata, dopo che egli aveva apertamente espresso la sua opposizione.
Castellano tornò a Cassibile per la firma del testo d’armistizio il 2 settembre, ma senza una autorizzazione scritta, che dovette essere richiesta a Roma. La risposta positiva arrivò nel pomeriggio del 3 e un’ora dopo il documento di armistizio fu firmato da Castellano e Bedell Smith. Subito dopo la firma Bedell Smith consegnò a Castellano il testo dell’armistizio “lungo”, che era stato dato a Zanussi a Lisbona e poi ritirato dagli angloamericani
.
In conclusione, si deve ancora sottolineare che firmando l’armistizio entrambe le parti si fondavano su errate valutazioni e giudizi sulla situazione italiana. A parte l’inganno e le ambiguità reciproci sulla forza rispettiva, lo sbaglio principale di valutazione riguardò le previste reazioni tedesche. Sia i governi alleati che quello italiano erano a conoscenza del piano tedesco di ritirarsi almeno agli Appennini in caso di uno sbarco in forze. Gli angloamericani non tennero in considerazione il fatto che la sua attuazione dipendeva proprio dal numero delle truppe che loro avrebbero impegnato sul fronte italiano. In effetti, il feldmaresciallo Kesselring riuscì a far modificare il piano di ritirata quando si rese conto della limitata consistenza delle forze di sbarco angloamericane.
Durante i colloqui con i rappresentanti alleati e nel corso delle trattative la parte italiana non nascose la debolezza dell’esercito italiano e la necessità di avere l’appoggio alleato per combattere contro i tedeschi. Evidentemente, gli angloamericani sottovalutarono tali indicazioni, tanto da essere convinti che l’invio di una divisione aviotrasportata sarebbe stato sufficiente a mantenere il controllo di Roma. Inoltre, pur temendo un doppio gioco italiano, gli alleati credettero nelle assicurazioni di Castellano che gli italiani avrebbero combattuto contro i tedeschi.
Come ha scritto il biografo del generale Alexander, “lo strumento di resa, di fatto un armistizio, era anche implicitamente uno strumento di alleanza: perché presupponeva l’aiuto italiano contro i tedeschi e l’aiuto alleato per gli italiani”. D’altra parte essi pensavano che le sei divisioni italiane intorno a Roma sarebbero state largamente sufficienti a tenere a bada le due tedesche e a proteggere gli aeroporti, permettendo l’arrivo della divisione paracadutisti.
I piani e le previsioni dei servizi militari angloamericani nel periodo luglio-agosto 1943 dimostrano che i comandi angloamericani si aspettavano un “collasso” o una “progressiva disintegrazione” delle forze italiane anche senza una resa formale e il ritiro dei tedeschi: in questa situazione non si dubitava di poter arrivare al più presto a Roma. A sua volta Castellano si convinse che l’accoglimento della sua richiesta era una prova che gli alleati avrebbero effettuato lo sbarco con forze sufficienti per raggiungere presto la capitale, perché altrimenti la divisione sarebbe stata mandata allo sbaraglio.
Dalla firma dell’armistizio all ‘8 settembre
La firma dell’armistizio fu accolta con enorme sollievo dai rappresentanti alleati, che fino alla fine avevano temuto un ripensamento da parte degli italiani. Subito dopo la firma, il 3 settembre, Harold Macmillan scriveva a Churchill: “le condizioni d’armistizio sono state firmate questo pomeriggio senza emendamenti di nessun genere”. Anche il generale Alexander scriveva a Churchill informandolo che Castellano “rimane qui al Quartier Generale e iniziamo questa sera colloqui militari per accordarci sulla migliore assistenza che le forze italiane ci possono dare per contribuire alle nostre operazioni”. Infatti Castellano rimase a Cassibile per concordare i piani di collaborazione militare al momento dell’annuncio dell’armistizio e per stabilire quali posizioni avrebbero dovuto occupare le unità italiane.
Il resoconto dei colloqui intrapresi immediatamente tra i comandanti militari alleati e i rappresentanti italiani dimostra che inizialmente Alexander era convinto che gli italiani sarebbero stati in grado di controllare il loro territorio e di opporsi ai tedeschi. I compiti assegnati agli italiani erano infatti molto estesi e comprendevano: attacchi diretti ai quartier generali delle formazioni e unità tedesche, interruzione delle comunicazioni, distruzioni dei depositi e degli aerei, controllo delle vie di comunicazione nell’area intorno a Roma e blocco verso il nord per impedire l’arrivo di rinforzi tedeschi. Veniva infine chiesto il controllo italiano dei porti di La Spezia, Taranto e Brindisi.
L’ottimismo iniziale sulla possibilità di un’efficace collaborazione italiana contro i tedeschi venne meno col passare dei giorni. In un messaggio del 4 settembre ai capi di Stato maggiore generale inglesi Alexander scriveva: “ho passato tutta la scorsa notte in colloqui militari con la parte italiana. Ho messo bene in chiaro con loro che al momento della proclamazione ufficiale dell’armistizio cessiamo di essere nemici, ma non diventiamo, ripeto, non diventiamo alleati. Ho dato loro le specifiche indicazioni sulle operazioni da svolgere”.
Nei giorni seguenti il dubbio sull’attuabilità dei piani messi a punto cominciò a farsi strada. Il 6 settembre Alexander scriveva: “stiamo facendo piani dettagliati con gli italiani. Tutto questo sta andando molto bene in teoria, ma dobbiamo poi vedere quale effettivo aiuto saranno in grado effettivamente di darci”; e il 7 annunciava che i piani finali “per operazioni immediate nell’area intorno a Roma, per Avalanche e Taranto sono finalmente fissati”. Infine l’8 settembre: “Avevo sperato che i colloqui del nostro staff con gli italiani sarebbero sfociati almeno in loro preparativi per riceverci ed assisterci, ma temo che nonostante le nostre istruzioni dettagliate, non abbiano fatto niente”.
I timori del generale Alexander dovevano dimostrarsi del tutto fondati. Badoglio, nonostante l’impegno preso di svolgere un’azione comune con gli angloamericani per la difesa di Roma, non prese nessuna iniziativa e decise di continuare a mantenere il segreto sull’avvenuta firma dell’armistizio anche con i più stretti collaboratori. Proprio nel pomeriggio del 3 settembre Badoglio convocò una riunione con i tre ministri militari, de Courten della marina, Sorice della guerra e Sandalli dell’areonautica, alla presenza di Ambrosio e del ministro della Real Casa, Acquarone, e li informò non che l’accordo era stato concluso ma che erano in corso trattative per l’armistizio.
Badoglio però dette anche dei dettagli precisi sulle operazioni previste dagli angloamericani, il che contrasta con le dichiarazioni successive, sue e dei ministri militari, di non aver saputo nulla prima dell’8 settembre delle intenzioni alleate. Mentre le versioni degli altri protagonisti sorvolano su quanto fu detto nella riunione, secondo il resoconto scritto da de Courten pochi giorni dopo, Badoglio avrebbe detto: “Gli angloamericani effettueranno piccoli sbarchi in Calabria, poi un grosso sbarco vicino a Napoli (6 divisioni), poi una divisione paracadutisti vicino a Roma, dove nel frattempo saranno concentrate le 6 divisioni del Carboni e le divisioni della IV armata”.
Questa breve notazione, proveniente da fonte non sospetta, è di importanza fondamentale perché fa cadere il castello di menzogne costruito da Badoglio e dai comandi militari. Essa precisa il contenuto delle informazioni date da Castellano due giorni prima e gli impegni presi dagli italiani; conferma inoltre non solo che Badoglio sapeva che lo sbarco angloamericano sarebbe avvenuto a sud di Roma, ma anche che questa informazione fu trasmessa il 3 settembre ai ministri militari. Non c’è alcun riferimento ad ulteriori sbarchi a nord di Roma.
L’accenno alla IV armata fa pensare che si desse per scontato che l’annuncio dell’armistizio non fosse vicino: l’armata infatti era in via di trasferimento, una parte in Piemonte e in Liguria e una parte addirittura in Francia. Comunque, una volta deciso di firmare l’armistizio e sapendo che Roma poteva essere protetta solo dalle divisioni italiane e dalla divisione aviotrasportata, il governo avrebbe dovuto dare le istruzioni necessarie per attuare gli accordi presi. Perché queste istruzioni non furono date né da Badoglio né da Ambrosio?
La spiegazione che è stata avanzata è che Badoglio decise di attendere il giorno dell’armistizio senza, prendere alcuna iniziativa per timore che i tedeschi ne fossero informati. Così facendo, però, il capo del governo decise anche fin dall’inizio di non osservare gli impegni presi da Castellano e di mettere a repentaglio l’azione dei paracadutisti su Roma.
Intanto ad Algeri stavano preparando in dettaglio i piani operativi per l’aviosbarco della divisione paracadutisti alla periferia di Roma. Il 5 settembre ritornò a Roma il maggiore Marchesi (che aveva accompagnato Castellano a Cassibile il 2 settembre) per consegnare ad Ambrosio vari importanti documenti: il testo del lungo armistizio, un promemoria sulle
direttive per la flotta (di cui si parlerà più avanti) e appunto l’ordine di operazioni per l’aviosbarco. Questo prevedeva il controllo da parte italiana degli aereoporti di Furbara e di Cerveteri, per permettere l’arrivo della divisione in tre o quattro ·notti. Era anche previsto successivamente uno sbarco ad Ostia di una divisione corazzata, e in questa prospettiva si richiedeva la neutralizzazione di un’area di circa venti chilometri a cavallo del Tevere.
Oltre ai documenti Castellano inviò anche una lettera personale ad Ambrosio, in cui dichiarava che non gli era stato possibile avere notizie precise sulla data dello sbarco principale, ma “di ritenere presumibile che essa dovesse cadere intorno al 12”. Da quel momento Ambrosio si comportò come se lo sbarco non potesse avvenire prima del 12 o 13 settembre e si affrettò a comunicare la notizia a de Courten e a Roatta. E’ a questo punto che le versioni dei vari protagonisti incominciano a divergere e viene messa in circolazione la falsa notizia che le divisioni angloamericane sarebbero state 15, proprio il numero richiesto da Castellano nel colloquio del 31 agosto e respinto con tono quasi irrisorio da Bedell Smith.
L’ordine di operazioni per l’aviosbarco della divisione paracadutisti arrivò sul tavolo di Roatta nella mattina del 6 settembre, con la direttiva di predisporre i mezzi di appoggio e la difesa degli aeroporti necessari per la sua attuazione. Solo allora Roatta sembrò rendersi conto che “le truppe italiane avrebbero dovuto prendere l’iniziativa delle operazioni contro i tedeschi”. Se è vero, come egli sostiene senza essere stato smentito, che fino a quel momento era rimasto all’oscuro del progetto, la rivelazione dovette essere un brutto colpo.
La neutralizzazione delle truppe tedesche a cavallo del Tevere e la protezione dei reparti paracadutisti a partire dall’armistizio, presupponevano che gli italiani avessero il totale controllo dell’area o fossero disposti a prendere da soli l’iniziativa contro i tedeschi e a impedire che occupassero gli aeroporti per i tre o quattro giorni necessari al completamento dell’operazione. Erano ormai passati cinque giorni da quando era stata presa la decisione dell’aviosbarco, ma gli italiani non avevano predisposto alcuna misura. Inoltre, nella stessa mattina del 6 settembre , dai movimenti di mezzi da sbarco tra Palermo e la costa salernitana, Roatta intuì che si stava forse preparando uno sbarco nella zona di Salerno e che quindi potesse essere imminente la dichiarazione d’armistizio.
Nel pomeriggio Roatta andò a riferire le sue perplessità al generale Ambrosio, che continuò a dichiararsi convinto che non sarebbe avvenuto nulla prima del 12 settembre. Roatta parlò anche con Carboni, il quale espresse l’opinione che non si poteva pensare di resistere per più giorni a truppe tedesche “non impegnate contemporaneamente contro truppe americane”. Infine, anche se nessuno dei protagonisti ne parla, l’indicazione di uno sbarco a brevissimo termine proveniva direttamente dalla fonte più autorevole: il 6 settembre il Quartier generale alleato di Algeri inviò una serie di messaggi, avvertendo il governo italiano di “mantenere continua vigilanza ogni giorno per importantissimo messaggio” che sarebbe stato inviato “il sette settembre o dopo” e altre informazioni accessorie , riguardanti “l’annuncio del grande (G) giorno”.
A quel punto, l’ipotesi di affrontare i tedeschi senza aiuti esterni nella zona intorno a Roma fu nettamente scartata. Roatta preparò un memorandum nel quale affermava che in quelle condizioni bisognava rivedere i piani per l’aviosbarco e il loro collegamento con l’annuncio dell’armistizio. Una copia del promemoria fu lasciata al Comando supremo e un’altra a Carboni, come capo del SIM , che la trasmise a Badoglio. Un altro promemoria fu redatto al Comando supremo sulla base delle informazioni ricevute da Roatta e portato la sera del 6 a Castellano dal maggiore Briatore, che con altri ufficiali raggiunse Algeri per costituire una missione militare italiana presso il Quartier generale alleato. Questo testo fu inutilmente cercato dalla Commissione Palermo, mentre è stato da me ritrovato nelle carte Castellano.
E’ un documento molto importante perché vi si parla esplicitamente dello “sbarco principale da mare nella zona Salerno-Napoli” e quindi costituisce una conferma inequivocabile che il 6 settembre il comando italiano sapeva che lo sbarco principale sarebbe avvenuto in quella area. Su questi due promemoria, uno scritto da Roatta e l’altro redatto dal Comando supremo, si era già scatenata un’accesa polemica durante l’inchiesta Palermo. Infatti Carboni consegnò alla commissione un documento, sostenendo che si trattava della copia datagli dal Comando supremo del testo inviato a Castellano il 6 settembre. Il documento è diverso nella formulazione, ma molto simile nella sostanza a quello che si trova nelle carte Castellano, per la parte in cui si chiedeva di ritardare l’annuncio dell’armistizio ad alcuni giorni dopo “l’attacco di 6 divisioni in Zona Salerno-Napoli”.
Se fosse stata accettata la testimonianza di Carboni, sarebbe stato provato che gli italiani erano già a conoscenza del luogo dello sbarco il 6 settembre. L’autenticità del documento fu però smentita da Ambrosio e Roatta, i quali dichiararono che era un falso fabbricato per
squalificare il Comando. La nota fu in un primo tempo riconosciuta come autentica da Castellano e Rossi, che però dopo alcune settimane chiesero di farsi sentire di nuovo dalla commissione per negare di aver saputo il 6 settembre che lo sbarco sarebbe avvenuto sulle coste campane. E’ probabile che il testo consegnato da Carboni fosse il promemoria preparato da Roatta la sera del 6, come confermerebbe la testimonianza del colonnello Vincenzo Toschi, che era alle dirette dipendenze di Carboni.
Questi dichiarò alla commissione d’inchiesta di riconoscere il documento, scritto d i pugno da Roatta e da lui battuto a macchina la sera del 6. Toschi ricordò anche che nel testo si parlava della zona di sbarco Salerno-Napoli, e aggiunse una considerazione illuminante: “del resto dello sbarco Salerno-Napoli da parecchio tempo se ne parlava, specie dopo lo sbarco in Calabria”.
L’insistenza della commissione sulla questione del promemoria mostra quanto fosse cruciale chiarire il problema delle informazioni in possesso del comando italiano prima dell’8 settembre. Il tentativo di coprire la verità – la scelta cioè fatta il 6 settembre di non combattere da soli a Roma i tedeschi e di non collaborare con gli angloamericani nell’operazione Giant 2 – fu condotto in modo molto maldestro, ma ebbe il risultato sperato. La tesi che il comando italiano si aspettava uno sbarco vicino a Roma e fu colto di sorpresa l’8 settembre divenne la versione ufficiale degli avvenimenti.
C’è un altro aspetto importante da sottolineare in questa vicenda. Nonostante le divisioni tra i militari, la posizione assunta da Roatta e da Ambrosio davanti alla commissione d’inchiesta mostra che entrambi furono solidali con Badoglio nel tentare di costruire una verità alternativa e di edificare un muro di omertà sulle loro azioni. Cade del tutto l’ipotesi di un Ambrosio che voleva attuare un vero cambiamento di fronte, ma che ne fu impedito da Badoglio o da Roatta. Per questo il peso dato dalla commissione al promemoria Roatta-Ambrosio è giustificato, e per questo il vero promemoria fu probabilmente fatto temporaneamente sparire.
I dirigenti italiani sperarono di poter salvare la situazione chiedendo una proroga dell’annuncio dell’armistizio il 6 e fecero poi un ultimo tentativo l’8. Nello stesso tempo prepararono l’alternativa della fuga. L’impreparazione italiana fu scoperta soltanto nella notte del 7, quando arrivò in missione segreta a Roma il generale Maxwell Taylor, comandante della Divisione aviotrasportata, accompagnato da un altro ufficiale, per prendere gli ultimi accordi e controllare la fondatezza delle assicurazioni di Castellano che gli aeroporti dove dovevano scendere i paracadutisti alleati fossero in mano italiana. I due ufficiali scoprirono allibiti che l’unico preparativo fatto in previsione del loro arrivo era quello di un lauto pranzo.
Il generale Ambrosio era partito per Torino il giorno precedente, ufficialmente per andare a distruggere delle carte compromettenti, e poterono parlare soltanto con Marchesi e Carboni. Di fronte alle richieste di Taylor di ispezionare i campi di aviazione, e alla sua comunicazione che il giorno X sarebbe stato l’indomani, Carboni sostenne l’esigenza di rimandare o annullare l’operazione, esagerando la presenza intorno a Roma delle truppe tedesche e minimizzando quella italiana. Carboni dichiarò anche che le divisioni a Roma non avevano carburante, una scusa poco credibile, perché equivaleva ad affermare che il corpo motocorazzato a difesa di Roma era inutilizzabile. In realtà Carboni mentiva, perché un grosso deposito di carburante si trovava sulla via Ostiense.
Stentando a credere a Carboni, e non riuscendo a capire come si fosse arrivati a questo “voltafaccia” Taylor pretese di parlare con Badoglio, che data l’ora tarda stava dormendo. I due si recarono a casa di Badoglio, che si limitò a confermare le affermazioni di Carboni. La partenza della divisione era molto vicina, così Taylor costrinse Badoglio a inviare subito personalmente la richiesta di annullare l’operazione a Eisenhower, insieme ad un suo resoconto della situazione. Nel suo messaggio Badoglio affermò: “‘Dati cambiamenti e precipitare situazione esistenza forze tedesche nella Zona di Roma non è più possibile accettare l’armistizio immediato dato che ciò porterà la capitale ad essere occupata ed il governo ad essere sopraffatto dai tedeschi. Operazione Giant 2 non è più possibile dato che io non ho forze sufficienti per garantire gli areoporti”.
Di questo documento cruciale, in cui si respinge l’armistizio e l’invio della divisione aviotrasportata e non se ne chiede nemmeno un rinvio, Badoglio dette nelle sue memorie una versione radicalmente diversa. Secondo Badoglio egli “riconfermando i sentimenti di collaborazione e lealtà del governo italiano” avrebbe insistito “che l’armistizio fosse mantenuto al 12”. La falsa versione di Badoglio è divenuta quella comunemente accettata ed è da allora ripetuta nelle storie militari ufficiali e dalla maggioranza degli storici.
In questa situazione gli americani non avevano altra scelta che cancellare l’operazione, poche ore prima del suo avvio. Gli storici militari sono divisi sull’attuabilità e sulla possibilità di successo di Giant 2. Date le circostanze, l’operazione sarebbe stata molto rischiosa e non è possibile valutarne le conseguenze. D’altra parte, in quel momento, nessuno conosceva i piani alleati, e non dovrebbe essere sottovalutato l’effetto psicologico che l’arrivo della divisione a Roma avrebbe avuto sul Comando tedesco. Poteva essere l’unica occasione per spingere i tedeschi a ritirarsi a nord di Roma.
Le direttive dello Stato maggiore della Marina
Il destino della flotta era stato al centro delle preoccupazioni italiane fin dai primi contatti con gli angloamericani. A Lisbona Castellano aveva cercato di eliminare dal testo dell’armistizio la condizione della consegna della flotta in porti sotto controllo alleato, sostenendo che la sua attuazione sarebbe stata troppo umiliante. La sua controproposta di far concentrare le unità in Sardegna fu però nettamente respinta. La richiesta italiana era stata poi ribadita nei successivi colloqui, ma non fu mai presa in considerazione.
Non è chiaro quanti dettagli sulle trattative fosse venuto a sapere Raffaele de Courten, il ministro e capo di Stato maggiore della Marina, ma egli fu certamente tra i primi ad esserne messo al corrente: secondo la sua versione il 3 settembre, secondo quella di Badoglio e di Ambrosio almeno due giorni prima. Ambrosio con infondata sicurezza confidò a de Courten che la flotta avrebbe dovuto andare a La Maddalena “dove si recherebbe anche Sua Maestà”. Queste informazioni furono smentite il 6 settembre, quando lo stesso Ambrosio trasmise a de Courten il promemoria in inglese inviato da CasteIlano, con l’indicazione delle località sotto controllo angloamericano verso le quali la flotta si doveva dirigere al momento della proclamazione dell’armistizio. Dovevano essere Bona per la flotta situata a La Spezia e Malta per le navi che si trovavano nei porti adriatici o a Taranto.
Di fronte alle proteste di de Courten, per una decisione tanto grave per la Marina, Ambrosio lo rassicurò ancora una volta dicendo che “il documento doveva considerarsi lettera morta”, perché egli aveva chiesto agli alleati di permettere alla flotta di recarsi alla Maddalena e che “certamente non vi sarebbero state difficoltà”. Infatti questa richiesta è presente nella famosa nota dello stesso 6 settembre inviata da Ambrosio a Castellano. Non si capisce invece la convinzione di Ambrosio che essa potesse essere accolta, visto che era già stata proposta da Castellano nei precedenti incontri e sempre respinta.
De Courten poteva dedurre che le trattative fossero molto avanzate dalla richiesta di Ambrosio il 5 settembre di inviare a Ustica due motosiluranti per incontrare due ufficiali inglesi e trasportarli a Roma. Eppure nonostante questi segnali che l’annuncio dell’armistizio poteva essere vicino, de Courten si comportò fino alla fine come se dovesse preparare la flotta allo scontro finale contro il tradizionale nemico, l’Inghilterra. Egli decise quindi di mantenere il più assoluto segreto anche con i suoi più stretti collaboratori, lasciando che i comandanti in capo delle forze navali si preparassero per lo scontro con gli inglesi.
Come ha scritto nelle sue memorie: “Convenimmo che, tutto ponderato, i preparativi per contrastare la probabile azione offensiva angloamericana non dovessero subire alcuna interruzione. Sull’opportunità di tener fermo a queste direttive finché gli sviluppi delle trattative con una sospensione delle ostilità non fossero giunti a constatata e controllata definizione, ebbi pienamente consenziente il gen. Sandalli, ministro e capo di Stato maggiore dell’areonautica”.
Lo stesso 6 settembre de Courten ricevette il “Promemoria n. 1” – la direttiva diramata quel giorno dal Comando supremo ai capi di Stato maggiore della Marina, dell’Esercito e dell’Aviazione che indicava le misure da prendere in caso di un colpo di mano tedesco contro il governo – e convocò per il giorno seguente una riunione degli ammiragli. Nella riunione del 7 settembre , de Courten non fece alcun accenno alla possibilità di un armistizio, ma si limitò ad illustrare il promemoria. Come ha scritto nelle sue memorie, non ritenne opportuno “dare ai presenti notizia delle trattative in corso per l’armistizio, non avendo ricevuto al riguardo che notizie generiche, sotto il vincolo del segreto”.
Con l’ammiraglio Bergamini discusse anche la possibilità di un autoaffondamento delle navi “come mezzo per non rimanere in zona controllata dai tedeschi e per non passare in zona controllata dagli anglo-americani” e stabilì la parola d’ordine (“Raccomando massimo riserbo”) per l’applicazione di questa estrema misura. La mattina dell’8 ordinò all’ammiraglio Bergamini di tenersi pronto “per il previsto intervento offensivo nella zona di sbarco”, da effettuarsi il mattino seguente e analogo ordine fu impartito alla squadra di La Spezia.
A quel punto i comandanti delle forze navali si accinsero ad affrontare il nemico nel Tirreno meridionale e in caso di sconfitta a predisporre l’autoaffondamento. Così la Marina non soltanto non era preparata ad un rivolgimento di fronte ma, come assicurò Bergamini a de Courten, “era pronta all’ultimo sacrificio” nell’imminente scontro con la marina inglese.
*Elena Aga Rossi si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con una tesi sul movimento Giustizia e Libertà e sulle origini del Partito d’Azione, con relatore il professor Guido Verucci. Durante la preparazione della tesi ha conosciuto lo storico Renzo De Felice, del quale è poi diventata assistente. Ha successivamente insegnato nelle università di Padova, Pisa, Palermo e Roma; ha inoltre svolto ricerche presso il Woodrow Wilson International Center for Scholars, l’Università di Oxford, la British Academy of Sciences, il Center for European Studies, l’Università di Harvard e la Stanford University. È vedova dello storico russo Viktor Zaslavskij, con il quale nel 1997 ha pubblicato il saggio Togliatti e Stalin, basato su documenti degli archivi sovietici fino ad allora inediti nel quale sostiene, tra l’altro, che la “svolta di Salerno” – con cui il Partito Comunista Italiano abbandonò la pregiudiziale antimonarchica ed entrò nel governo Badoglio II – non derivò da una decisione autonoma di Palmiro Togliatti, bensì da un ordine diretto di Stalin. Per questo lavoro, nel 1998 ha ricevuto il premio Acqui Storia. Il 22 aprile 2012 è stata insignita del Premio Renato Benedetto Fabrizi dell’ANPI.