2ª GUERRA MONDIALE, SEGRETI AMERICANI – 4

a cura di Cornelio Galas

Nella rapida invasione della Norvegia, le truppe germaniche passarono non viste sui loro trasporti lungo molti punti della frastagliata costa norvegese, sotto gli occhi ed anche i cannoni della Home Fleet. Fu la sprezzante risposta all’infelice frase di Neville Chamberlain, secondo cui Hitler “aveva perso l’autobus”.

Hitler

Hitler

Quando gli Inglesi tentarono di intervenire in Norvegia, andarono incontro ad un fiasco, che l’ex Primo ministro David Lloyd George definì “una ennesima tragedia del troppo poco e del troppo tardi”. Le due ultime parole costituivano un degno epitaffio sulla tomba delle buone intenzioni democratiche e si impressero a lettere di fuoco nell’anima e nel cuore di Franklin Roosevelt, esercitando la loro influenza, negli anni successivi, su tutti i responsabili dello sforzo bellico alleato.

Suscitarono il senso disperato dell’urgenza della situazione. E, una crisi dopo l’altra, si ripeté con sempre maggiore convinzione che “non doveva più verificarsi il troppo poco e troppo tardi”.

David Lloyd George

David Lloyd George

Eppure mancò un pelo che non ci cascassimo. Il margine tra la vittoria e la sconfitta fu davvero esiguo: certo non più ampio della Manica, né più ampio di una strada di Stalingrado o dello Stretto delle Salomone. L’invasione della Norvegia e della Danimarca, l’8 aprile 1940, costituì il principio della fine della “strana guerra” e con l’invasione dell’Olanda , del Belgio, del Lussemburgo e della Francia, il 10 maggio, anche quello strano periodo d’impotenza arrivò alla fine.

Panzer tedeschi, appartenenti alla 9ª divisione corazzata, entrano a Rotterdam il 14 maggio 1940

Panzer tedeschi, appartenenti alla 9ª divisione corazzata, entrano a Rotterdam il 14 maggio 1940

Nel corso dei sei mesi successivi, Roosevelt prese, senz’altro, la decisione più importante di tutta la sua carriera – e la prese, bisogna pur dirlo, senza la previa autorizzazione del Congresso e contro il parere stesso della maggioranza dei suoi fedeli ed amici.

Il giorno in cui i Tedeschi marciarono, o piuttosto, si abbatterono sull’Olanda, Chamberlain rassegnò le dimissioni e Churchill fu chiamato a Buckingham Palace per accettare l’incarico di Primo ministro del Re. (Fu da allora, che nella corrispondenza con Roosevelt, egli divenne “l’ex marinaio”).

Alla Camera dei Comuni, egli disse: “io non ho altro da offrire che sangue, fatiche, lacrime e sudore”. Anthony Eden, allontanato dal Governo un anno prima della guerra per la sua opposizione alla politica di Chamberlain, venne riportato in auge e divenne segretario di Stato alla Guerra nel nuovo Governo di coalizione. Il popolo inglese aveva ora dei capi degni di lui.

Anthony Eden

Anthony Eden

Il 14 maggio, l’Olanda si arrese e i Tedeschi ripresero la rapida marcia verso i classici campi di battaglia della Francia settentrionale. Le Ardenne divennero di nuovo teatro delle vittorie di massa tedesche. Il debole comandante in capo francese, generale Gamelin, venne sostituito da Weygand e Churchill disse per radio: “Possiamo attendere con fiducia lo stabilizzarsi del fronte in Francia”.

Ma il mondo attese invano. La famosa tattica delle “sacche” riuscì pienamente e solo due giorni dopo le assicurazioni di Churchill le colonne mobili tedesche passavano a nord della Somme e raggiungevano la Manica presso Abbeville piegando a nord-est fino a Boulogne e Calais, in vista dell’Inghilterra. Hitler aveva compiuto in undici giorni ciò che i Tedeschi avevano tentato invano di fare in quattro anni di duri combattimenti nella prima guerra mondiale. Fu una brillante campagna che contava di diffondere il panico fra le file nemiche e determinarlo alla resa.

Il 28 maggio, si arrese Re Leopoldo del Belgio, Weygand tentò di formare una linea di difesa sulla Somme. Per un certo periodo di tempo, ci domandammo tutti se Hitler avrebbe attaccato questa linea, piombando da nord su Parigi, o diretto le proprie forze, simili a catapulta, verso la Manica per invadere l’Inghilterra.

Re Leopoldo del Belgio

Re Leopoldo del Belgio

Appena dopo cinque giorni di guerra lampo in Occidente, Churchill inviò a Roosevelt un messaggio pieno di oscure previsioni sulla “straordinariamente facile” conquista Tedesca dell’Europa. Egli prevedeva bombardamenti pesanti sull’Inghilterra ed attacchi di paracadutisti. E prediceva che Mussolini avrebbe rotto gli indugi e sarebbe entrato in guerra per raccogliere la sua parte di bottino “nella sconfitta della civiltà” (Questo venticinque giorni prima che Mussolini si decidesse).

Chiedeva inoltre al Presidente di proclamare la “non belligeranza” degli Stati Uniti che potesse dare adito a tutti gli aiuti fuorché l’intervento armato. Chiedeva come aiuto immediato il prestito di quaranta o cinquanta cacciatorpediniere, parecchie centinaia di aeroplani da guerra, cannoni anticarro e acciaio e la cooperazione diplomatica americana per convincere lo Stato libero d’Irlanda di prendere misure preventive di fronte all’eventualità di una invasione tedesca.

La stessa cooperazione chiedeva per impedire una possibile invasione giapponese dell’Asia sud-orientale. A questo proposito, anzi, Churchill suggeriva che la Marina statunitense si servisse della base di Singapore.

CHURCHILL

CHURCHILL

Ma la cosa più importante di tutto il suo messaggio, era la decisa affermazione che la Gran Bretagna, se necessario, avrebbe continuato a combattere da sola. In un messaggio inviato cinque giorni dopo (20 maggio) Churchill ribadiva che, se l’Inghilterra fosse stata travolta, egli ed il suo Governo sarebbero periti insieme a lei e non sarebbero mai stati responsabili delle condizioni che i Tedeschi avessero imposto a una qualsiasi forma di “autorità” britannica da essi riconosciuta.

Roosevelt non ritenne affatto esagerate le affermazioni contente in questo e nei successivi messaggi di Churchill. Settimane di orrori che si susseguivano ad orrori come quelle che si attraversavano, lo inducevano a pensare che se Churchill errava nelle sue previsioni, errava semmai, per troppo ottimismo; ma non era certo Roosevelt l’uomo che potesse fare obbiezioni a un errore di questo genere.

Le truppe inglesi a Boulogne e a Calais ritardavano con la loro disperata ed estrema difesa l’avanzata germanica per il tempo strettamente necessario ad allargare la zona di Gravelines, che nel frattempo poté essere difesa dai Francesi. Pochi giorni che ebbero un’importanza storica, perché nel raggio di dieci miglia da Gravelines era l’obbiettivo finale della manovra di accerchiamento tedesca, Dunkerque, l’ultimo porto rimasto per lo sgombero.

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Se i Tedeschi fossero riusciti a raggiungerlo con il passo mantenuto fino ad allora , avrebbero potuto distruggere in un sol colpo la forze francesi del Nord e le intere armate britanniche e belghe, mentre il nucleo principale dell’esercito francese rimaneva, innocuo e senza aiuti, sulla linea Maginot. Ma fu qui che i Tedeschi fecero l’unico errore della loro fulminea avanzata, perché distolsero la loro attenzione dalla Manica, per rovesciarsi sulla Somme e sull’Aisne in direzione di Parigi.

Il mondo civile fu sconvolto da un invincibile senso di terrore di fronte al succedersi di avvenimenti così sconcertanti e alle incredibili conquiste della barbarie meccanizzata. La confusione, lo strazio e il panico delle popolazioni dei Paesi Bassi – imbrancate dalle quinte colonne entro le strettoie di non ampia strade e mitragliate e bombardate mentre fuggivano alle ondate degli Stukas – si comunicarono anche alle genti lontane dal teatro della battaglia.

Fu il trionfo supremo di ciò che Edmond Taylor aveva giustamente definito “la strategia del terrore”. E molti finirono con il convincersi che le bombe della propaganda nazista non fossero affatto fasulle; i Tedeschi erano dei superuomini e nulla li poteva fermare.

I nervi si distesero alquanto, all’annuncio dello sgombero di Dunkerque e chi aveva qualche nozione della realtà militare, poté trarre motivo di soddisfazione dal modo in cui era stato effettuato, pur pensando che i 335.585 uomini messi in salvo, avevano dovuto abbandonare tutte le armi pesanti e un equipaggiamento che ben difficilmente l’industria di guerra inglese, nelle sua precarie condizioni, avrebbe potuto sostituire.

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Fu a questo punto che gli Stati Uniti divennero il fattore strategico decisivo della guerra. Non vi fu infatti, più dubbio agli occhi di Roosevelt e dei suoi capi di Stato maggiore, che, dopo la perdita virtuale di tutto l’armamento inglese e la sconfitta della Francia metropolitana, la sopravvivenza del Regno Unito e dei resti della potenza francese dipendeva unicamente dall’ampiezza dei materiali che gli Stati Uniti potevano produrre e consegnare.

Questo materiale poteva essere pagato alla consegna, sulla base del “pagare e portare via”, ma ciò non poteva durare più di qualche mese; quando l’Inghilterra avesse esaurito anche l’ultimo dollaro delle sue scarse riserve, Roosevelt si sarebbe trovato nella necessità di ricorrere ad altri sistemi (naturalmente a spese dei contribuenti americani), se non voleva che la Germania vincesse.

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Il 4 giugno, l’ambasciatore americano a Parigi, William Bullitt, invitato a pranzo da Pétain, riferì al Presidente che il vecchio Maresciallo gli aveva espresso l’opinione che gli Inglesi avrebbero lasciato la Francia a combattere da sola, fino alla sua ultima stilla di sangue, e poi, forti di tutte le loro truppe in patria, dell’intatto numero di aeroplani e del dominio del mare, sarebbero scesi con Hitler a una pace di compromesso, che poteva anche travolgere il presente Governo inglese sotto una dittatura di tipo fascista.

Ma lo stesso giorno Churchill elettrizzava il popolo inglese e la maggior parte del mondo con uno dei suoi più grandi discorsi. È raro ch’egli sottoponesse il suo uditorio alla fatica di leggere tra le righe e ben difficilmente si potevano fraintendere parole come queste:

Noi difenderemo la nostra isola, a qualunque costo; combatteremo sulle coste, in terra, nei campi e nelle strade, combatteremo sui colli.

Non ci arrenderemo e se, cosa che non voglio credere neanche per un minuto, pure l’Inghilterra dovesse venire soggiogata ed affamata, entrerà nella lotta il nostro impero di là dai mari, armato e difeso dalla nostra flotta, finché, all’epoca da Dio predestinata, non avanzerà alla riscossa e alla liberazione del vecchio, il Nuovo Mondo, con tutta la sua potenza e le sue risorse.

Fu una bella sveglia per il popolo inglese, che si era assopito sugli allori ed era stato afflitto da un’acuta forma di isolazionismo e di compiacimento; fu il primo grido d’aiuto lanciato all’America.

Roosevelt cercò di rispondervi nel suo discorso di Charlottesville del 10 giugno, giorno dell’entrata in guerra dell’Italia. I timidi del Dipartimento di Stato impallidirono d’orrore quando Roosevelt, di propria iniziativa, se ne uscì con queste parole: “La mano che tiene il pugnale l’ha conficcato nella schiena del suo vicino”.

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Non ci voleva molto a capire che egli mirava più lontano. Ma sentiva tuttora di non essere in grado di sporgersi fin dove avrebbe voluto. Nello stesso discorso fece un’altra dichiarazione gravida di conseguenze, di cui naturalmente non aveva chiesto né ricevuto alcuna autorizzazione dal Congresso, pur pensando di potervi contare:

L’unità americana ci permette di seguire due direttive ben distinte e simultanee: estendere a coloro che si oppongono alla violenza le risorse materiali della nostra nazione e nello stesso tempo incrementare e accelerare la nostra produzione in modo da avere noi stessi un equipaggiamento ed un addestramento che ci diano la possibilità di fronteggiare con successo ogni emergenza ed ogni compito difensivo.

Fu la prima promessa d’aiuti offerta a “coloro che si opponevano alla violenza”; il primo segno di una politica che portava agli affitti e prestiti e all’incremento di quella produzione “senza la quale – come disse Stalin a Teheran – avremmo perduto la guerra”.

Roosevelt

Roosevelt

Quando in Francia si conobbe il contenuto di questo discorso, il presidente del Consiglio Reynaud lanciò il suo disperato appello a Roosevelt, chiedendo “aiuti e mezzi di carattere materiale, in qualsiasi forma, eccettuato l’intervento armato”.

Ma Roosevelt no poteva offrire in risposta che “tutta la sua simpatia” e la promessa che il Governo degli Stati Uniti “non avrebbe riconosciuto i risultati delle conquiste territoriali ottenuti mediante un’aggressione armata”.

Poi, con il carisma di non so quali cavilli e sottigliezze legali del segretario del Tesoro, Henry Morgenthau, si concentrarono al Canada circa centocinquanta apparecchi americani, per venir caricati sulla portaerei francese Béarn, ma non giunsero mai a destinazione. Aeroplani e portaerei erano ancora in mare quando la Francia si arrese e finirono la guerra inutilizzati ed oziosi inseme a una gran quantità d’oro francese nell’isola della Martinica.

Il giorno dopo del discorso di Charlottesville, Churchill e Eden giunsero improvvisamente in Francia per conferire con Reynaud e con altri nei pressi di Tours. Weygand espose a Churchill senza tanti preamboli che la Francia non poteva più condurre una guerra, come egli disse: “coordinata”. Reynaud era deciso a continuare la lotta in tutti i modi ed a qualunque costo ed era vigorosamente appoggiato dal suo nuovo sottosegretario alla Guerra, generale Charles De Gaulle.

Churchill

Churchill

L’ammiraglio Darlan era favorevole a mandare la flotta francese in Canada. Anni dopo a guerra finita, Edouard Herriot, intervistato dal New York Times disse che in quell’occasione, 11 giugno 1940, Churchill era scoppiato in lacrime come un bambino, ma aveva stretto i pugni con fiera decisione, dichiarando di sperare quasi che Hitler volgesse le sue mire sull’Inghilterra, attaccandola, pur di concedere a Weygand la possibilità di stabilizzare il fronte sulla Somme.

Churchill promise di far pressione sul Gabinetto inglese per indurlo ad inviare in Francia alcune squadriglie della R.A.F. e disse:

La Gran Bretagna si rifiuta di abbandonare la lotta, se non sarà prima completamente prostrata.

Se l’esercito francese è costretto a cessare la resistenza, l’Inghilterra continuerà nella speranza che Hitler sia rovinato dalle sue stesse vittorie. Con le sue forze aeree e con la sua flotta, l’Impero britannico può resistere per anni e imporre all’Europa il blocco più serrato.

Churchill fece a Roosevelt un’ampia relazione d’incontro, dicendo che il vecchio maresciallo Pétain aveva “reso poco” anche nel 1918 e si dimostrava ora disposto a trattare un armistizio con Hitler. Il 13 giugno, Roosevelt inviò a Reynaud il seguente dispaccio:

Il vostro messaggio del 10 giugno mi ha profondamente commosso. Come ho già dichiarato a voi e a Mr. Churchill, questo Governo sta facendo tutto quanto è in suo potere per procurare ai Governi alleati tutti gli aiuti che urgentemente ci richiedono; raddoppieremo anzi gli sforzi, per fare ancora di più. E ciò per manifestare la fede e il nostro sostegno verso gli ideali per cui combattono gli alleati.

La magnifica resistenza degli eserciti francese e inglese ha profondamente impressionato il popolo americano. Io personalmente sono ammirato dalla vostra dichiarazione che la Francia continuerà a combattere in difesa della democrazia, anche a costo di doversi ritirare dall’Africa del Nord e nell’Atlantico.

È bene ricordare che le flotte francese e britannica sono sempre padrone dell’Atlantico e degli altri oceani e che tutti gli eserciti, per sostenersi, hanno bisogno di rifornimenti dall’estero.

Mi rincuora grandemente quanto ha detto giorni fa Mr. Churchill, sulla sua decisione di continuare a resistere nell’Impero britannico e sonno certo che tale decisione si adatti mirabilmente anche al grande Impero francese sparso in tutto il mondo.

La storia ci insegna l’importanza decisiva della potenza navale nel dominio mondiale, come ben sa l’ammiraglio Darlan.

Churchill telefonò al Presidente la sua entusiastica approvazione per questo “magnifico messaggio” e chiese dii poterlo rendere di pubblica ragione, in modo che non solo il popolo inglese e francese, ma anche l tedesco, potessero conoscere quale fosse la posizione decisamente assunta dagli Stati Uniti d’America.

Roosevelt corse subito ai ripari facendo dire da Kennedy al Primo ministro che certamente egli aveva male interpretato il messaggio. E sottolineò il fatto che la Costituzione non gli permetteva di prendere altri impegni, oltre agli già annunciati aiuti materiali.

Roosevelt

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Lo stesso giorno, 13 giugno, vigilia della caduta di Parigi, Churchill ritornò in volo in Francia, per compiere l’estremo tentativo di decidere il Governo francese a combattere a qualunque costo ed a qualunque condizione, anche ritirandosi nell’Africa del Nord e continuando di là la guerra, mentre la flotta francese poteva unirsi a quella britannica.

Reynaud informò Churchill che senza l’aiuto di un maggior numero di squadriglia da caccia del R.A.F. era impresa disperata il continuare a combattere. Ora, secondo quanto ha detto il generale Sir Hasting Ismay, capo di Stato maggiore personale del Primo ministro: “Prima che noi partissimo per l’incontro di Briare, il Maresciallo dell’Aria Dowding, comandante in capo del Comando Caccia, aveva rivolto al Gabinetto il monito più solenne che, se si fossero inviate altre squadriglie in Francia, egli avrebbe declinato ogni responsabilità per la sicurezza delle isole britanniche”.

Alcuni collaboratori di Churchill temevano che, spinto dal suo intimo attaccamento alla Francia e dal profondo senso degli obblighi verso l’alleato, non prendesse in considerazione l’avvertimento; ma egli respinse la richiesta di Reynaud.

Gli furono riferite le parole di Weygand che volevano essere una predizione: “fra tre settimane, tireremo il collo all’Inghilterra, come una gallina” e se le fissò ben bene in testa, per citarle a tempo debito. Ma Reynaud si vide costretto a ricorrere al maresciallo Pétain e questi iniziò immediatamente le pratiche per una pace separata.

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Churchill appena tornato con il suo seguito da Briare a Londra (volando su territorio già occupato dai Tedeschi), inviò subito un messaggio a Roosevelt, per annunciargli che l’unica speranza per salvare ancora la Francia stava in una immediata dichiarazione del Presidente che gli Stati Uniti sarebbero, all’occorrenza entrati in guerra. Roosevelt rispose che una cosa simile non era di sua competenza, ma aspettava esclusivamente al Congresso.

Churchill lo sapeva benissimo, ma stretto alla gola com’era, si sentiva disposto a tentare ogni cosa. Ormai sapeva che l’Inghilterra avrebbe dovuto combattere da sola e che la prima fase dell’imminente campagna sarebbe stata una strenua lotta per il dominio del cielo inglese; la seconda sarebbe stata combattuta sulle acque della Manica e Churchill insisteva in tutti i suoi messaggi al Presidente perché venisse soddisfatta la richiesta inglese di cacciatorpediniere americani.

La corrispondenza tra la Casa Bianca e Downing Street non cessò affatto nei giorni in cui il venerando disfattista, Pétain, trattava la resa con Hitler; fu anzi Roosevelt a porre le domande più ansiose. Il Presidente voleva sapere da Churchill quando prevedesse che sarebbe stato iniziato l’attacco tedesco all’Inghilterra e la risposta fu: “con tutta probabilità immediatamente”.

Chiedeva inoltre, cosa sarebbe successo alla Home Fleet in caso di vittoriosa invasione tedesca. Essa poteva essere dislocata in varie basi come Terranova, Aden, Città del Capo, Singapore e Roosevelt dichiarava che la flotta americana si sarebbe assunta la responsabilità della difesa dell’emisfero Occidentale, compreso il Canada.

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“Come uomini di mare – affermava – voi ed io sappiamo benissimo che l’efficienza della flotta ed il dominio del mare determineranno a lungo andare la salvezza della democrazia e di coloro che subiscono presentemente i rovesci”.

La risposta di Londra fu ineccepibile, nell’amara verità delle sue costatazioni. Roosevelt seppe che la Marina, o parte di essa, piuttosto di arrendersi a Hitler, si sarebbe rifugiata nelle basi anzidette: ma, si sottolineava, tutte indistintamente le unità in grado di tenere il mare sarebbero state violentemente impegnate nella difesa delle isole inglesi e l’avverarsi di una vittoriosa invasione tedesca, avrebbe significato in pratica la completa e totale distruzione della Home Fleet.

Era proprio questo che Roosevelt voleva conoscere. Ora sapeva che l’ex-marinaio era deciso a non arrendersi; se l’Inghilterra avesse dovuto soccombere, gli Inglesi sarebbero caduti con tutti i loro vessilli al vento ed i cannoni arroventati. Essendo egli stesso un uomo di mare cominciava ora a sperare che l’Inghilterra, con una tale decisione ed una flotta simile non avrebbe mai potuto essere sommersa.

Chiese ancora se si aveva intenzione di trasferire il Governo di Londra nel Canada o in altre località del Commonwealth, nel caso di una invasione vittoriosa. Voleva essere sicuro che gli Inglesi seguissero l’esempio degli Olandesi, dei Belgi, Norvegesi, Cechi e Polacchi, istituendo un Governo in esilio, ciò che non aveva fatto Pétain. La risposta datagli fu ambigua. Ma quando Harry Hopkins andò a Londra, seppe la piena verità: il Governo britannico non aveva fatto nessun piano di evacuazione nel Canada o altrove.

Hopkins

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Churchill riteneva che la caduta del Regno Unito avrebbe determinato la fine, almeno temporanea, dell’Impero e che la supremazia sui resti del Commonwealth britannico sarebbe passata a Washington. I Governi dei Domini tempestavano Londra di messaggi, affinché la Famiglia reale, o almeno le due principessine, si mettessero in salvo in località sicura, per salvare se non altro, l’Istituto della Corona, qualunque fosse il destino della madrepatria.

Tali richieste furono respinte. La Regina Elisabetta disse: “le principesse non potrebbero partire senza di me ed io non potrei partire senza il Re; e il Re, naturalmente, non partirà mai”. C’era invece un piano per lo sgombero di Londra, studiato nei minimi particolari, secondo il quale il Governo avrebbe dovuto trasferirsi a Malvern, nell’Inghilterra occidentale.

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Ignorando l’opinione personale di Churchill in materia, diversi suoi collaboratori espressero la loro convinzione ch’egli non ebbe mai la minima intenzione di abbandonare Londra, qualunque cosa succedesse. Se i nazisti fossero riusciti a prendere la città – o, come amava dire, “la città imperiale” – avrebbero preso insieme anche lui, o quel che ne fosse rimasto.

Non posso citare tutti i cablogrammi che si scambiarono allora Downing Street e la Casa Bianca, perché pur avendoli letti, non fanno parte delle carte di Hopkins. Mi limiterò a riassumere i punti principali di quelli inviati dagli inglesi, che sono i seguenti: L’unica speranza inglese di riuscire a sconfiggere la Germania era la difesa del Regno Unito, per mantenere così, una base alla cui salvezza doveva essere dedicato ogni sforzo.

Se il Regno Unito fosse stato conquistato e la flotta distrutta, l’Africa settentrionale e quella occidentale sarebbero pure cadute, come l’Europa, in mano tedesca. Nel Mediterraneo gli Inglesi non potevano fare altro che impedire ai Tedeschi l’uso del canale di Suez, non difendendolo ma distruggendolo. I Tedeschi avrebbero costituito una preponderante forza navale, aggiungendo alle proprie unità tutta la flotta italiana e le più importanti unità navali francesi.

Con tutti i cantieri dell’Europa occidentale a sua disposizione, la Germania avrebbe inoltre avuto la possibilità di incrementare al massimo la produzione. Non solo, ma i trionfi di Hitler in Europa avrebbero indubbiamente spronato i Giapponesi ad atti di aggressione contro l’Indocina francese e le Indie orientali olandesi, accaparrandosi basi di somma utilità per proseguire gli attacchi contro gli stessi territori inglesi e americani.

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Churchill riteneva che la situazione mondiale, avrebbe tratto enorme vantaggio da una dichiarazione degli Stati Uniti, secondo la quali ogni tentativo di alterare con la violenza lo status quo in Estremo Oriente avrebbe “prodotto uno stato di belligeranza” o (temperando la minaccia) “non sarebbe stato tollerato”.

Roosevelt ripeté (e non quella volta sola) che, a norma della Costituzione, egli non poteva garantire affatto che gli Stati Uniti avrebbero dichiarato guerra di fronte a un qualsiasi atto provocatorio, a meno che, non fosse seguito da un attacco contro il loro territorio. Affermò tuttavia, esplicitamente l’intenzione di fare il possibile non solo a parole, “all’infuori di un atto di guerra”, perché l’Inghilterra non cadesse.

Sapeva infatti che con l’Inghilterra e con la sua Marina sarebbero caduti tutti i nostri tradizionali concetti di sicurezza nell’Oceano Atlantico e la dottrina di Monroe, il principio della libertà dei mari, la solidarietà dell’emisfero occidentale sarebbero diventati dei ricordi puri e semplici e gli Americani sarebbero vissuti costantemente “sotto il tiro dei cannoni nazisti”.

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Nelle note di un discorso ch’egli tenne in una seduta segreta alla Camera dei Comuni il 20 giugno, Churchill dichiarò che l’Inghilterra, se avesse potuto superare i prossimi tre mesi, non avrebbe avuto difficoltà a resistere anche tre anni. Diede grande importanza al fatto di poter ottenere la superiorità aerea, soprattutto in relazione all’ormai imminente battaglia aerea d’Inghilterra e disse che i combattimenti nel suo cielo e sul suo territorio avrebbero potuto costituire un fattore decisivo per gli Americani.

Nulla, più che l’eroica lotta del popolo britannico, poteva agire come una spinta ad una loro decisione. Elogiò Roosevelt e concluse che tutto dipendeva dalla capacità del popolo britannico di resistere con fermezza decisa, finché non si fossero conosciuti i risultati delle elezioni americane. (Churchill, benché mettesse continuamente in guardia i suoi collaboratori e il popolo dall’abbandonarsi all’ottimismo, non era lui stesso uomo capace di resistervi e vi indulgeva spesso, non dissimile in questo da Roosevelt, come già precedentemente detto).

Con la firma dell’armistizio nella foresta di Compiègne, il Governo britannico dovette affrontare il problema della Marina francese. Si trattava di impedire che essa cadesse in mano ai Tedeschi e di distruggere tutte quelle unità che non si unissero spontaneamente agli Inglesi, o non consentissero a portarsi fuori del raggio d’azione tedesco e ad essere smilitarizzate per tutta la durata della guerra: la decisione fu presa “col cuore sanguinante”.

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Si offrirono varie alternativa alle navi alla fonda ad Orano, in Algeria e non si escluse che esse potessero “consegnarsi agli Stati Uniti e rimanere intatte fino alla fine del conflitto, rimpatriando anche gli equipaggi”. Le proposte fatte ad Orano furono tutte respinte dall’ammiraglio francese Gensoul e la Marina britannica attaccò cannonate e con l’aviazione. I danni e le perdite subite dai Francesi furono sensibili; solo un incrociatore riuscì a raggiungere indenne Tolone.

L’azione si prestò ad essere sfruttata per ben quattro anni dalla propaganda nazista in Francia, ma ebbe un enorme effetto sull’opinione mondiale, soprattutto negli Stati Uniti, poiché avvalorò in modo decisivo la sfida lanciata da Churchill: “Noi combatteremo i Tedeschi fin nelle strade” e “non ci arrenderemo mai”.

Su Roosevelt ebbe un effetto particolare, poiché presumibilmente egli era al corrente dell’azione. Il Presidente aveva svuotato i magazzini militari americani prelevando un mezzo milione di fucili, ottomila mitragliatrici, centotrenta milioni di cartucce, novecento cannoni da 75 mm. e un milione di proiettili, bombe ed esplosivi da spedirsi in Inghilterra.

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E tutto per mezzo di cavilli legali e in un’atmosfera di assoluta ostilità, in un momento in cui molte persone vicine alla Casa Bianca gridavano istericamente che ciò significava il suicidio di Roosevelt e con tutta probabilità quello della nazione – perché l’Inghilterra era finita e tutto quel materiale sarebbe caduto pari pari in mano di Hitler, per essere rivolto contro di noi che ci trovavamo pressoché senza difesa.

Ma la spedizione avvenne e fu di valore inestimabile per l’Inghilterra, nell’ora del più grande bisogno. Quei materiali erano così utili e necessari che Churchill diede ordine che la cerimonia della consegna avesse tutte le caratteristiche di “una manovra militare”.

Ad attendere le navi alla banchina erano autofurgoni, pronti a portare immediatamente le armi, all’istante stesso dello sbarco, direttamente ai vari punti strategici dell’isola, proprio coma se si trattasse di mantenere una precaria “testa di ponte”. Il milite della territoriale inglese, che si accingeva ad affrontare l’invasione tedesca con una lancia ed una forca per tutta armatura, ora aveva in mano un fucile e munizioni nelle giberne. Si sentiva più sicuro, si sentiva imbattibile.

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Churchill

Quando la “guerra-lampo” giunse al culmine, Churchill disse in una seduta segreta:

Il nemico sta facendo i suoi preparativi per l’invasione e raduna in tutta fretta navi e motozattere: da un’ora all’altra l’isola può trovarsi di fronte all’invasione … Sono già radunate in molti porti della costa avversa … più di millesettecento motozattere e duemila navi, pronte a salpare …

Ho fiducia che riusciremo fermare ed a disperdere definitivamente il tremendo assalto da cui siamo minacciati: comunque, qualsiasi cosa accada, noi tutti cadremo combattendo fino all’ultimo.

Forse queste erano solo parole dette per caricare le tinte, ma credo che più d’uno in Inghilterra – e non mi meraviglierei se fra costoro fosse stato anche Churchill – abbia deplorato in seguito che Hitler non avesse tentato l’invasione. Come disse più tardi un membro dello Stato maggiore a Hopkins, “ci sarebbe stata una battaglia infernale”.

Gli Inglesi difettavano in maniere sbalorditiva di armi moderne, ma avevano milioni di granate anticarro, fatte con bottiglie di birra contenenti tritolo e zolfo e avevano una voglia incredibile di usarle. Sapevano che il Presidente degli Stati Uniti, pur con tutte le limitazioni cui era costretto, era dalla loro parte, almeno in spirito.

E questa certezza li esaltava e i incoraggiava forse più del patto non ancora scritto. Questa fu la prima grande decisione di Roosevelt nel tempo di guerra: sostenere la causa apparentemente disperata dell’Inghilterra con ogni sorta di mezzi, materiali e morali, a sua disposizione. La decisione fu tutta sua.

Churchill e Roosevelt

Churchill e Roosevelt

Non vi fu epoca durante tutta la sua carriera presidenziale in cui incontrasse maggior opposizione nell’ambiente dei propri funzionari e in cui la sua posizione nel Paese fosse meno sicura. I suoi due principali informatori e consiglieri diplomatici, Bullitt in Francia e Kennedy in Inghilterra, erano molto scettici sulle possibilità Inglesi.

Bullitt appassionatamente francofilo, riteneva fermamente che gli Inglesi avessero tradito i propri alleati, rifiutandosi di inviare in Francia le ultime forze della loro caccia. Kennedy ammoniva il Presidente a “non voler tenere il sacco in una guerra che gi alleati avevano già perduta”.

Ma Roosevelt prese la sua decisione e la mantenne – si noti bene – quasi alle soglie di una campagna presidenziale, prima ancor di annunciare la propria volontà di presentarsi ad una terza rielezione e di sapere se il candidato repubblicano sarebbe stato Wendell Willkie, Robert A. Taft, Thomas E. Dewey o Arthur H. Vandenberg, tutti allora confessatamente isolazionisti.

Roosevelt fu evidentemente influenzato da considerazioni strategiche: egli conosceva molto bene l’importanza della Gran Bretagna come base e quella della Marina inglese come strumento di difesa dell’emisfero occidentale. Ma ad agire risolutamente su di lui furono considerazioni d’ordine morale.

L’impossibilità in cui s’erra trovato di concedere il minimo aiuto ai disperati appelli della Francia, gli aveva dato, credo, il più grave senso di amarezza e di disfatta che avesse mai provato. Era deciso a non incorrere una seconda volta in questa specie di umiliazione nazionale. E voleva affermare la supremazia del popolo americano – cosa di cui, sia detto tra parentesi, la maggioranza del popolo era soddisfatta, perché s’era trovata colpita e turbata dall’improvviso sviluppo degli eventi.

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Tutta la corrispondenza diretta alla Casa Bianca era in quei giorni piena di dubbi e di timori, non di un pericolo conosciuto, ma della sconcertante incertezza e perplessità che si era impadronita della gente. Molte lettere contenevano appelli commenti di madri e di mogli al Presidente, poiché “dicesse al Paese di non voler mandare i figli d’America a combattere all’estero. Prometteteci che essi non saranno inviati fuori dall’emisfero occidentale!” (come se fosse stato preferibile avere la guerra in casa e mandare i nostri ragazzi a morire nelle giungle del Brasile e nelle steppe dell’Alaska).

Ma c’erano lettere che esprimevano timore per il nostro onore nazionale e per l’avvenire della nostra libertà. Una di queste era del vecchio amico di Hopkins, William Hodson, commissario all’assistenza nella città di New York, il quale si era molto adoperato per far conoscere Hopkins al Presidente. Egli scriveva:

Non dubito che l’America è sulla soglia di un disastro e sono perfettamente conscio della immensa responsabilità che si accollano in quest’ora buia, il Presidente e i suoi consiglieri.

Spero che il Presidente parlerà chiaramente e dirà all’America il peggio, come ha fatto Churchill in Inghilterra, perché il popolo americano possa armarsi di coraggio di fronte agli avvenimenti che ci attendono e che il popolo americano non conosce ancora nella loro interezza.

Che cosa potesse fare in queste condizioni i cittadini per portare agli alleati un aiuto immediato, che deve essere dato in ogni modo possibile? Come possono appoggiare e sostenere gli sforzi del Presidente per riorganizzare ed incrementare il riarmo del Paese senza indugio?

Mi sembra che se non suoneremo subito la tromba c’è pericolo di cadere in un letargo e in un’inerzia che possono pregiudicare e soffocare i nostri sforzi e solo il Presidente può lanciare questo appello. Dio voglia che non sia già troppo tardi!

Hodson perì due anni e mezzo dopo, nel disastro di un aeroplano militare in rotta verso l’Africa del Nord, dove doveva organizzare il primo programma del U.N.R.R.A. Aveva vissuto abbastanza per vedere la guerra giungere alla sua svolta decisiva alle Midway, El Alamein e Stalingrado. Ma Roosevelt non diede mai fiato “alla tromba”, come chiedevano Hodson e molti altri; egli attese finché non lo fecero per lui i “signori della guerra” giapponesi: egli è stato per ciò criticato da molti benpensanti compreso il fedelissimo “luogotenente”, Henry L. Stimson.

Forse la storia dirà se egli abbia sbagliato a non gettare le carte in tavola fin dal 1940 o ’41 e a non domandare il responso del Congresso sull’entrata o meno in guerra degli Stati Uniti. Non mi voglio pronunciare, ma ho la quasi certezza che se lo avesse fatto sarebbe stato malamente sconfitto e la Germania ed il Giappone avrebbero avuto spianata la strada per conquistare l’Europa e l’Asia, Unione Sovietica compresa, fin dal 1942.

Roosevelt

Roosevelt

Esito anche ad affermare quali ne sarebbero state le conseguenze nell’emisfero occidentale. Ma non importa. Sia stato meglio o peggio, non è materia d’indagine storica esaminare quanto non sia effettivamente accaduto. Qualunque altra via Roosevelt avesse potuto seguire, rimane il fatto che la decisione da lui presa nel 1940, di sua iniziativa e senza squilli di tromba, impegnò gli Stati Uniti ad assumersi tutte le responsabilità di una supremazia mondiale.

Ed è una coincidenza, ma al tempo stesso un suggestivo richiamo storico, che Roosevelt abbia annunciato la sua decisione a Charlottesville, nella Virginia dov’era presente in spirito Thomas Jefferson, il quale arditamente e senza autorizzazione del Congresso aveva posto i giovani Stati Uniti sulla via di un predominio continentale, con la speranza che ciò potesse evitare loro di impicciarsi negli affari del Vecchio Mondo.

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