IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 7

In questa settima puntata sul Trentino nel Risorgimento ci occuperemo della difesa austriaca della provincia  nel 1859, quindi del rifiuto, da parte di tanti trentini, di non armarsi – nonostante l’obbligo di coscrizione – nelle fila di quello che considerano l'”oppressore”. Molti invece preferiranno, nonostante il rischio e molteplici peripezie, arruolarsi volontari nell’esercito piemontese. Tra questi ci sarà anche Narciso Bronzetti, ferito a morte in battaglia, e incensato come eroe da Garibaldi. Infine la visita degli emigrati trentini a re Vittorio Emanuele, l’appello – sulla questione trentina -all’Imperatore dei Francesi e l’armistizio (penalizzante per il Trentino) di Villafranca. Sotto c’è sempre un video didattico per inquadrare nel contesto storico i fatti narrati.

a cura di Cornelio Galas

L’Austria, sebbene trascinata alla guerra dalle insistenti e coraggiose provocazioni di Cavour, aveva iniziato la campagna del 1859 con una grande fiducia nella vittoria, e la prima fase delle operazioni sembrava aver dato ragione a queste speranze. La preoccupazione di difendere il Trentino contro le truppe piemontesi, alle quali con ritardo si aggiunsero le milizie napoleoniche, era dunque, allo scoppiare delle ostilità, alquanto lontana dall’animo dei governanti di Vienna: Torino, non già Trento, era preconizzata come teatro dell’azione !

montebelloFra Tirolo meridionale e Trentino, al principio della campagna non vi erano che il primo e settimo battaglione dei cacciatori Imperatore, i quarti battaglioni del 18°, 25° e 40° reggimento fanteria, la 15^ batteria di racchette e una batteria da montagna: in tutto da tre a quattromila uomini, dei quali il 4 maggio assunse la direzione il maggior generale conte Huyn. Una commissione — nominata verso la metà di aprile dal comando dell’armata di Verona con l’incarico di preparare ed eseguire progetti di fortificazione per i valichi delle Alpi — aveva proceduto nei suoi lavori con grande lentezza; l’Huyn, da parte sua, provvide a rafforzare alla meglio i passi principali e a mettere in attività per la mobilitazione e l’approvvigionamento dell’esercito la linea ferroviaria Verona-Bolzano, terminata proprio allora e non ancora aperta al traffico.

Le soldatesche a disposizione del generale Huyn furono ripartite, per la difesa, nel modo seguente: al primo battaglione cacciatori fu data la guardia della Chiusa veronese, della val di Ledro e delle Giudicarle, il settimo battaglione cacciatori fu inviato a presidiare il Tonale e lo Stelvio, i tre battaglioni di fanteria rimasero in riserva lungo la val d’Adige. Tale distribuzione, salvo qualche spostamento di scarsa importanza e l’aggiunta di pochi reparti, rimase ferma fino alla fine di maggio, e cioè finché il governo austriaco non ebbe ad accorgersi che l’ indirizzo della guerra andava radicalmente mutandosi a suo danno.

IL GENERALE HUYN

IL GENERALE HUYN

Ma il 31 maggio giunse dalla cancelleria centrale militare di Vienna l’ordine di mettere in moto verso il Tirolo meridionale tutto il sesto corpo d’armata, che si trovava col grosso delle sue forze a Linz. Ad affrettare tale ordine, più che l’esito disgraziato della battaglia di Montebello (20 maggio), aveva contribuito la notizia che Garibaldi coi cacciatori delle Alpi era entrato in campagna. Le sue rapide mosse, coronate dalle vittorie di Varese e di San Fermo (26-27 maggio), lasciavano arguire che egli, fiancheggiando sulle Alpi gli eserciti alleati, mirasse direttamente all’alto e medio Adige: il contegno delle popolazioni comasche e bresciane, favorevole a Garibaldi, e la condotta del Trentino, manifestamente infedele all’Austria, aumentavano le inquietudini viennesi.

Le truppe del sesto corpo d’armata che indugiavano ancora a Linz furono quindi avviate a destinazione a marce forzate, tanto più che le linee ferroviarie erano già ingombre. Solo verso la metà di giugno le milizie cosi mobilitate occupavano il Trentino : il tenente feld-maresciallo barone Paumgartten, comandante interinale del corpo d’esercito, si piazzò col quartier generale a Trento e distribuì le truppe della prima divisione, da lui stesso comandata, fra la media Val d’Adige e la Val Venosta, e le truppe della seconda di visione, comandata dal tenente feld-maresciallo barone Koudelka, fra la val Lagarina, la valle del Sarca, le Giudicarle e la val di Sole. Il Paumgartten contemporaneamente rinforzava tutti i presidi della valle del Chiese: aggiungeva cioè una compagnia di fanteria alla mezza che già si trovava senza cannoni né provvigioni al forte di Rocca d’Anfo, dislocava quattro compagnie di fanteria a Bagolino, quattro a Lodrone e quattro fra Condino e Storo, appoggiandole con una mezza batteria di racchette al Caffaro e con una batteria a Condino.

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Dopo la battaglia di Magenta (4 giugno) le notizie si fecero sempre più allarmanti. Il 16 giugno il comando del corpo d’armata fu avvertito che quarantamila uomini si tenevano riuniti a Brescia per tentare un colpo sul Trentino e che Garibaldi avanzava verso le Giudicarie e Riva: informazione del tutto falsa, ma che determinò immediatamente un ordine di marcia offensiva delle truppe di Henikstein su Vestone.

ROCCA D'ANFO

ROCCA D’ANFO

E tale ordine si stava già eseguendo, quando la smentita alle prime informazioni indusse il Paumgartten a ridare alle truppe le loro antecedenti posizioni. Le precauzioni prese dall’Austria per impedire una invasione del Trentino furono affatto inutili, perché Vittorio Emanuele e Napoleone non pensavano minimamente di toccare il suolo scottantissimo della Confederazione germanica. Scopo delle mosse dell’esercito franco-italico era invece quello di sgombrare di truppe austriache tutto il territorio lombardo fino al Caffaro e al Tonale; e tale missione fu affidata al generale Cialdini, a disposizione del quale stavano per questo scopo il 15° e il 16° reggimento fanteria, il 6° e il 7″ battaglione bersaglieri, il reggimento cavalleggeri Novara e nove pezzi da campagna. Queste truppe, dopo alcune avvisaglie, attaccarono il giorno 21 e il 22 la Rocca d’Anfo, occupando prima la caserma d’Idro e impadronendosi poi della cinta esterna del forte. Tuttavia la guarnigione di Rocca d’Anfo. appoggiata dalle truppe mobili del Caffaro, non si arrendeva ancora; il Cialdini quindi dovette risolversi a girare la posizione per prendere a rovescio Monte Suello con buona parte delle sue milizie.

ALFRED VON HENIKSTEIN

ALFRED VON HENIKSTEIN

Il 23 nel pomeriggio, mentre il generale Broglia si manteneva col comando della brigata Savona a Lavenone per difendere la Val Sabbia contro un eventuale attacco, il generale Pianchis di Pomaretto spuntava con una colonna di due battaglioni di fanteria e di un battaglione di bersaglieri per il valico del Maniva su Bagolino, mentre il Cialdini con un reggimento di fanteria e un battaglione di bersaglieri si dirigeva verso la stessa posizione per il passo del Berga. Gli austriaci si trincerarono sulle alture di Riccomassimo e di Monte Suello; ma gli ordini di rispettare il confine della Confederazione germanica erano tanto severi, che il generale italiano trattenne i suoi soldati da un assalto contro Monte Tonol presso Riccomassimo, perché situato a pochi metri oltre la frontiera federale.

Ad onta di questo, l’impressione che il generale Henikstein aveva subito nel vedere le colline sopra Bagolino occupate dai bersaglieri e dalle truppe di linea di Vittorio Emanuele fu assai viva, cosi da indurlo ad avvertirne immediatamente il comando del corpo d’armata in Trento: al quale non nascose il suo timore che il Cialdini mirasse direttamente a Condino e che un attacco sulla destra potesse mettere in pericolo la sua ritirata sulle Sarche e Vezzano.

ENRICO CIALDINI

ENRICO CIALDINI

Il combattimento avvenne invece, il 24 giugno, intorno a Monte Suello, e fu piuttosto lungo ed accanito. Dopo aver cagionato seri danni al nemico, il grosso delle truppe del Cialdini ripiegò verso la Val Camonica, mantenendo però e fortificando i passi del Maniva e di Crocedomini, e lasciando il generale Broglia colla sua brigata a Lavenone e dintorni.

Durante la guerra l’Austria non aveva mancato, come nel 1848, di chiamare il “fedele popolo del Tirolo” alla difesa del paese. Le pratiche iniziate fra il ’60 e il ’61 per dare un diverso assetto a questa istituzione erano andate a vuoto, cosicché vigevano ancora le vecchie norme del 1848. Il bando di chiamata alle armi dei volontari fu emanato ai primi di maggio, ma, come al solito, nessun giovane trentino si presentò; nuovi inviti furono pubblicati il 1° e il 7 giugno, senza un miglior risultato. Per indurre qualche contadino ad arruolarsi, il governo austriaco portò sino ad un fiorino la paga giornaliera dei cosiddetti bersaglieri, accordando in cambio di un servizio di soli cento giorni l’esenzione da ogni ulteriore obbligo di leva, colla promessa che i volontari non avrebbero oltrepassato il confine della provincia; però non poté smuovere le popolazioni trentine dalla loro recalcitranza.

L’amministrazione militare peraltro teneva conto di questo rifiuto nel ripartire gli oneri della nuova leva bandita ai primi di giugno (l’altra era stata aperta in marzo) ; in quanto determinava il contingente per i circoli tedeschi, che stavano organizzando la difesa del paese in un quantitativo di soli trecento uomini, e per i circoli italiani, sensibilmente più scarsi di popolazione, in un quantitativo di mille, in compenso delle compagnie di bersaglieri che non volevano spontaneamente offrire all’Austria.  Alla fine di giugno fu poi decretata una terza coscrizione.

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Altre misure di coazione morale erano state adottate all’indirizzo di quei municipi che più gravemente si sospettavano di infedeltà. Appena dopo lo scoppio della guerra, il Comitato permanente degli Stati provinciali invitava da Innsbruck il Municipio di Trento, gli altri Comuni del Trentino ed i notabili del paese a sottoscrivere un indirizzo bell’e compilato, nel quale si offrivano all’ Imperatore beni e sangue per la difesa del trono e dell’altare. La rappresentanza municipale di Trento ricusò di firmarlo, ed ebbe nella resistenza la solidarietà degli altri Comuni trentini. Il pretesto addotto per il rifiuto consisteva nel far notare che i rappresentanti non avevano alcun mandato od autorizzazione dai loro rispettivi elettori per aderire a una simile dichiarazione. L’Arciduca luogotenente del Tirolo ordinò allora ai funzionari governativi delle singole città di imporre la sottoscrizione dell’atto. Il consigliere aulico Sterneck, a nome dell’Arciduca, esprimeva al Comune di Trento (17 maggio) la sua sorpresa per un simile contegno che faceva porre “in dubbio i leali sentimenti della città o piuttosto del suo stesso capo” e aggiungeva: “Un dichiarato illeale sentimento da parte del Magistrato e del suo capo, provocherà necessariamente contro quello corrispondenti misure da parte del Governo. Il giorno 20 corr. mese gli sarà spedito brevi manu l’indirizzo, non d’altro fedele interprete che dei sentimenti di questa popolazione; e per non provocare dispiacevoli misure, non esiterà più oltre à prender parte all’ indirizzo, e non vorrà formare la sola eccezione fra le città della monarchia, che tutte s’affrettarono ad esprimere tali sentimenti”.

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Ad onta di queste e di altre pressioni fatte sul Municipio di Trento e su vari municipi trentini, alcuni di questi rimasero fermi nella loro denegazione, altri non piegarono che dopo essersi più volte schermiti con pretesti. L’Austria replicò deponendo i podestà e i capicomune dalle loro cariche e aggravando il suo regime di governo: proibito ogni commercio col Lombardo-Veneto, fuor che l’ importazione delle granaglie; intimato ai cittadini (27 giugno) di consegnare entro tre giorni tutte le armi;-decretato lo stato d’assedio; rigorosamente vigilati i confini per impedire la emigrazione dei giovani che volevano correre ad arruolarsi sotto le bandiere di Vittorio Emanuele.

Ma nonostante ogni sorveglianza molti erano i trentini che sfidando i disagi e i pericoli si avventuravano attraverso i monti per raggiungere l’esercito piemontese. Un comitato di cittadini, che aveva fra i suoi membri più influenti il podestà Gaetano Manci e a capo del quale stavano Pietro Larcher e Giuseppe Santoni, conduceva un’attiva opera di propaganda per aumentare il numero dei volontari che andavano a battersi per la causa italiana, e forniva loro i mezzi necessari per intraprendere il viaggio.

VITTORIO EMANUELE

VITTORIO EMANUELE

Durante la guerra, quando la Lombardia era ancora occupata dal nemico ed i passi del Trentino presidiati dalle truppe austriache, l’eroico pellegrinaggio si presentava carico di peripezie e di sofferenze: occorreva valicare alte montagne, fra ghiacci e nevi, con stenti e rischi gravissimi.

E conviene ricordare qui il caso di un certo Valentino Bazzanella di Trento, che emigrando per arruolarsi ebbe i piedi gelati fra le nevi sui monti dell’Alta Val di Sole e fu arrestato dagli austriaci. Un altro episodio degno di esser ricordato è quello che toccò al conte Francesco Martini mentre si accingeva con altri quattro compagni a tentare attraverso i monti della Val di Sole e della Svizzera, una regolare ascensione alpina con apposite guide, per raggiungere il Piemonte. I suoi compagni, pervenuti al sommo della valle di Non, furono arrestati dai gendarmi e ricondotti a Trento; e Francesco Martini, che li attese invano al ponte di Mostizzola, dovette a sua volta rassegnarsi a rimandare il tentativo. Rientrò a Riva, sua patria, donde tentò fuggire con Gerardo Tiboni, con Luigi Marcabruni e col Peterlini, ma anche stavolta senza nulla concludere. Alcuni giorni appresso il Martini e il Marcabruni, guidati dall’ardito patriota Vincenzo Andreis, riuscirono finalmente ad infilare la via del Ponale e di Pregasina e a scendere a Limone. Qui poterono far rimettere a galla una barchetta da pescatori che era stata affondata per sfuggire al sequestro rigorosamente esercitato dalla flottiglia austriaca; e durante la notte, costeggiando il monte toccarono Gargnano, donde per Brescia si diressero su Rezzato, ad arruolarsi fra i cacciatori delle Alpi.

GIUSEPPE GARIBALDI

GIUSEPPE GARIBALDI

I cacciatori delle Alpi e le guide a cavallo di Garibaldi avevano accolto nel loro seno il fiore della gioventù trentina. Era in quelle schiere Nepomuceno Bolognini, il quale, senza accampare pretese di sorta per il grado di sottotenente conseguito nel 1848-49 nella legione trentina, si era arruolato con Garibaldi come semplice soldato; c’erano Ergisto Bezzi, futuro eroe dei Mille e capo della cospirazione del 1884, e Filippo Manci, che sarebbe divenuto l’ inseparabile suo compagno di fede mazziniana e di azione rivoluzionaria; c’erano Quirino Moiola, Camillo Zancani, Antonio Bassi, Germano Bendelli, Antonio Bezzi, Quintilio Bonfanti, Giambattista Cattarozzi, Olinto Olivieri, Cesare Depretis, Antonio Fronza, Luigi Marcobruni, Enrico e Federico Martini, Tito Tabacchi, Gerardo Tiboni, Emanuele Tisi, Leopoldo Tonini, Claudio Valeri, Gaetano Vicentini ed altri ancora:  ma più di tutti degni di storia gli eroici fratelli Narciso e Pilade Bronzetti.

PILADE BRONZETTI

PILADE BRONZETTI

Narciso Bronzetti era nato a Cavalese in valle di Fiemme nel 1821, da famiglia oriunda di Rovere della Luna. Dal 1840 al 1847 aveva militato nell’esercito austriaco, ma l’incompatibilità di quella carriera coi suoi sentimenti italiani lo aveva forzato a dimettersi. Da Mantova — ove dimorava nel 1848 — fuggi per arruolarsi in una compagnia di volontari che combatté a Castiglione e a Governolo. Dopo l’armistizio Salasco entrò nel battaglione Manara; e nel reggimento Manara, a Roma, ebbe il comando della quarta compagnia, segnalandosi a Palestrina, a Velletri, a San Pancrazio con atti di sublime eroismo..  Dopo il ’49 il Bronzetti cercò il suo rifugio di esule nell’isola di Malta, ma non vi poté sbarcare: di qui, sbalestrato a Civitavecchia e poi in Corsica, fini per ritirarsi in Piemonte.

All’aprirsi della guerra del 1859 è nominato capitano della terza compagnia del primo reggimento dei cacciatori delle Alpi. Nel combattimento di Seriate (8 giugno) la compagnia Bronzetti, forte di 105 uomini appena, assale alla baionetta 1400 austriaci e li pone in fuga costringendoli a riparare sul treno dal quale sono scesi.

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Due giorni dopo Garibaldi promuoveva Narciso maggiore per merito di guerra e di lui scriveva nell’ordine del giorno le seguenti parole :

“Il capitano Bronzetti …  ha compiuto uno di quei fatti che sono unici nei fasti militari delle prime nazioni del mondo. Con soli cento uomini circa assale un campo nemico di circa mille uomini a Seriate, lo sbaraglia e fa dei prigionieri. Con uomini di tanta prodezza si può tentare ogni impresa, e l’Italia deve ricordarli eternamente”.

Non era passata una settimana che Narciso Bronzetti doveva dare appunto la più fulgida conferma alle parole di Garibaldi, la più meravigliosa attestazione del proprio eroismo: l’ultima. Il 15 giugno egli attraversava intrepido con due compagnie il ponte di San Giacomo, e noncurante del fuoco nemico che lo fulminava dall’alto, assaliva e fugava alla baionetta gli austriaci appostati ad un roccolo sul colle di Castenedolo. Ma persistendo nell’inseguimento del nemico, fu ferito, prima al braccio sinistro, poi all’avambraccio destro. Ad onta di tutto, coll’omero rotto, prosegui nella corsa levando in alto la spada al grido di Viva ì’ Italia! Avanti, avanti! Una terza palla lo colse nel fianco sinistro attraversandogli il ventre. Si rovesciò sfinito, ma ad suo cenno quattro cacciatori lo sollevarono sui fucili e lo portarono avanti: finché, colpiti anch’essi, stramazzarono a terra. Suonava il segnale della ritirata, e il povero Bronzetti fu tratto in salvo fra i suoi da un fedele soldato e di qui, sopra un carretto a mano, trascinato a Brescia. Era pienamente in sé, e deplorava soltanto di non avere avuto a propria disposizione una compagnia di più. Il Bertani, che lo assistette nelle sue ultime ore, volle fotografarlo sul letto colla spada a lato e col cappotto fregiato della medaglia d’argento al valor militare che da Vittorio Emanuele, memore del fatto di Seriate, gli era giunta al letto di morte. Il Bronzetti baciò la medaglia da quel lato che recava le parole: Guerra all’ impero austriaco, e sorrise all’annunzio che Garibaldi aveva chiesto per lui la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia.

NARCISO BRONZETTI FOTOGRAFATO SUL LETTO DI MORTE

NARCISO BRONZETTI FOTOGRAFATO SUL LETTO DI MORTE

Due giorni dopo, quasi inconscio della sua fine, Narciso mori: aveva solo trentotto anni. Era appena spirato quando arrivò la seguente lettera:

“Carissimo Bronzetti,

Voi siete certamente al disopra di qualunque elogio ed avete meritato certamente il nome di prode dei prodi della vostra colonna. Il vostro coraggio superò la gravità delle vostre ferite, e voi sarete reso ai vostri compagni d’armi.

Accogliete un fraterno abbraccio dal vostro amico”.

Garibaldi

Pilade Bronzetti, che militava nello stesso corpo dei cacciatori col grado di tenente, s’ebbe anch’egli la medaglia d’argento al valor militare per la brillante condotta da lui tenuta nella campagna. Ma non era Narciso Bronzetti il solo martire trentino della guerra del 1859. Leopoldo Martini, l’infaticabile combattente di Malé, il fedele legionario del ’48, il forte bersagliere di Crimea, moriva da prode alla battaglia di San Martino; o non dimentichiamo Giovanni Podestà di Arco, che era ucciso fra le nevi delle Alpi mentre a soli diciassette anni esulava per arruolarsi fra i combattenti per l’indipendenza d’Italia.

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I trentini che presero parte alla campagna del 1869 non furono tutti con Garibaldi; molti invece ne entrarono nell’esercito regolare: cosi Giambattista Adami (che nel 1872 fu uno dei fondatori delle prime compagnie alpine ed arrivò poi al grado di maggiore) aveva lasciato l’Università di Padova fin dai primi di aprile per accorrere alla guerra, era entrato nella 14^ compagnia del decimo reggimento, sotto il generale Cialdini si era battuto a Palestro (31 maggio) e si trovava presso Monte Suello  il di susseguente alia battaglia (25 giugno) con Filippo Tranquillini, Ferdinando Rinaldi ed altri trentini. Sotto riporto l’elenco:

Giovanni e Pietro Jagher di Trento, Oliviero Olivieri Trento, Pompeo Panizza di Pergine, Pietro Peretti di Mori, Enrico Zanotto di Torcegno, poi ferito a Castelfidardo, tutti appartenenti alla brigata Regina (9° e 10° reggimento). Altri trentini erano sparsi in altre brigate: nella brigata granatieri di Sardegna c’erano, ad esempio, Faustino Moiola di Pieve di Ledro e Domenico Simonini di Serravalle, nella brigata Piemonte Valentino Primon di Calliano ed Eliodoro Pedrini di Lasino, nella brigata Aosta Alessandro Daziaro di Pieve Tesino’ nella brigata Cuneo Achille Conci di Trento, nella brigata Pinerolo Giuseppe Cescati di Trento, nella brigata Casale Pietro Oss di Zavà e Carlo Paoli di Campo.

“Alle sei del 26 –  scrive l’Adami nelle sue memorie –  presa la via del passo di Croce Domini, ci avviammo alla volta di Val Camonica. Fino a questo giorno si sperava di entrar nel Tirolo; io posi ogni premura per sopportare qualsiasi fatica. Ahi! come fu amara la disillusione! Mi parve doppia la fatica, e più penosa la salita, che durò sei ore”.

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Purtroppo, l’esclusione del Trentino dai piani di guerra del 1859 era stabilita ancor prima dello scoppio delle ostilità. Napoleone III era venuto in Italia contro il volere dei suoi ministri e dei suoi sudditi, sfidando la collera della Prussia e di tutta la Germania, quasi affascinato e travolto dalla suggestione del conte di Cavour. L’opinione pubblica germanica aveva già dal principio della campagna interpretato l’attacco contro l’Austria come una pericolosa mossa offensiva contro tutta la nazione tedesca. Anzi fin dia primi giorni del 1859 in Baviera e nell’Hannover governi e Camere si pronunciarono per la conservazione del dominio austriaco nel Lombardo-Veneto, minacciato dai bellicosi preparativi della Francia e della Sardegna; a Lipsia, a Hof, a Monaco e in altre città si improvvisarono calorose dimostrazioni di simpatia ai battaglioni austriaci ai quali Baviera e Sassonia avevano concesso il libero passaggio sul proprio territorio per muoversi contro l’Italia.

Il Governo di Berlino, sebbene tentasse apparentemente di smorzare questi ardori di solidarietà germanica, tardava a concedere l’aiuto delle sue armi all’Austria soltanto per rendere questo aiuto più prezioso nel momento opportuno. La Prussia, attendendo di muovere in soccorso dell’ Impero quando il pericolo che lo minacciava divenisse più incombente, mirava ad atteggiarsi a salvatrice dell’Austria e ad elevare con ciò il proprio prestigio nel seno della Confederazione tedesca. Ma già il 14 giugno partiva l’ordine di mobilitare sei corpi d’armata prussiani verso il Reno, e contemporaneamente il ministro degli esteri von Schleinitz informava l’ambasciatore prussiano a Vienna, von Werthe, circa lo scopo di questi armamenti: la conservazione dei possedimenti territoriali dell’Austria in Italia secondo i trattati del 1816. Da allora in poi, Austria e Prussia si posero rapidamente a negoziare le condizioni dell’entrata in campagna da parte di quest’ ultima: il feldmaresciallo principe di Windischgratz fu mandato in speciale missione presso il principe reggente di Prussia appunto con questo fine.

CRISTOPH VON SCHLEINITZ

CRISTOPH VON SCHLEINITZ

Queste trattative non dovevano essere del tutto ignote a Napoleone III, né egli poteva meravigliarsene. L’effervescenza tedesca era d’altra parte salita a tal segno, che persino l’Inghilterra e la Russia vollero energicamente interporsi allo scopo di calmarla. L’opinione pubblica germanica era pervenuta a considerare come un assioma non solo la conservazione del saliente tridentino all’Austria e alla Confederazione alemanna, bensì pure il mantenimento della Venezia e financo della Lombardia come antemurale necessaria ai possedimenti tedeschi verso l’ Italia.

Pretendere, in simili condizioni, che Vittorio Emanuele e Napoleone ardissero oltrepassare la stessa frontiera della Confederazione inoltrando le loro truppe nel Trentino, era vana illusione. Ma i nostri patrioti non vollero perdere questa nuova occasione per manifestare il loro desiderio di aver congiunti i propri destini a quelli della gran patria italiana.

Un Comitato privato si era costituito, fin da maggio 1869, fra gli emigrati in Piemonte, nell’intento di influire sui governi e sull’opinione pubblica in favore della causa trentina, di servir di guida e di aiuto ai volontari, di raccogliere denari in paese. Segretario del Comitato era il dott. Vittore Ricci, che non aveva potuto arruolarsi nell’esercito per ragioni di salute, ed anima di tutte le iniziative del Comitato stesso l’avvocato Antonio Gazzoletti, del quale già notammo la magnifica operosità durante gli avvenimenti del 1848-49.

ANTONIO GAZZOLETTI

ANTONIO GAZZOLETTI

Il 20 giugno 1859 il Gazzoletti stendeva a Milano un indirizzo a Vittorio Emanuele cosi concepito:

“A Sua Maestà Vittorio Emanuele II

Re di Sardegna.

Sire!

Undici anni or sono, una deputazione della provincia di Trento ebbe l’onore di essere ripetutamente presentata al magnanimo Vostro Genitore, per umiliare a Suoi piedi un atto di fusione di quel paese col regno Sardo e per supplicare la Maestà Sua, affinché, com’ Ella erasi fatta della Indipendenza della Penisola degnasse prendere in considerazione il territorio trentino, parte schietta e fortilizio naturale e necessario; sicurezza del Lombardo Veneto, contro le ambizioni e le prepotenze austriache. Quel memoriale e quelle preghiere non poterono allora essere esauditi, perché piacque alla Provvidenza di riserbare al Vostro regno ed a Voi il compimento della grande opera del riscatto d’ Italia.

Adesso che a fianco del generoso Vostro alleato, l imperatore de’ Francesi, per una via seminata ad ogni passo di vittorie e benedizioni, Vi inoltrate trionfante per le provincie italiane redente nel Vostro nome e raccogliete dappertutto gli omaggi più fervorosi delle popolazioni che anelano di unirsi sotto la Vostra corona, permettete, o Sire, che anche gli Italiani della provincia di Trento, vengano per mezzo nostro innanzi a Voi a ripetere, che la croce di Savoia non è meno invocata fra i loro monti di quello che lo sia nelle altre parti dell’alta Italia; che colà pure siete aspettato e sospirato liberatore e re; e che la comparsa delle Vostre insegne in quel paese, sarebbe avvenimento tanto più festoso ed acclamato, quanto maggiore è il numero e il peso delle catene da cui i trentini verrebbero sciolti, e quanto più infelice e quasi disperata si può fin d’ora presagire la loro condizione se mala sorte li volesse esclusi dai lieti destini che la M. V. apparecchia alle Provincie limitrofe.

Noi non ci nascondiamo, o Sire, la gravità delle circostanze eccezionali in cui versa il nostro paese di fronte alla gloriosa Vostra impresa; ma appunto perché infeudati mostruosamente a Germania, sentiamo con più calore di essere italiani, e strettamente legati alla causa dei nostri fratelli, da Voi con tanto valore e lealtà propugnata; e come speriamo d’averlo dimostrato per lo addietro in tutti quei migliori modi che le difficili circostanze ci consentirono, proviamo ora un nobile orgoglio, pensando che eletti giovani nostri conterranei, frammezzo a disagi e pericoli d’ogni maniera, accorsero volenterosi a combattere e combattono nelle file del Vostro esercito. Questa concordia di sentimenti, di desideri, di opere, tien viva in noi la speranza che non ci sia tolto il frutto della grande impresa capitanata da Voi, che possiamo assieme ai nostri fratelli farci incontro fiduciosi ai tempi che si preparano; nei quali gli abusi della forza dovranno scomparire innanzi all’intervento della giustizia, nei quali i diritti d’ Italia e delle altre nazioni saranno nella loro interezza rialzati e guarentiti.

Il Cielo, Sire, non cessi un solo istante di prosperare le Vostre armi, e possano l’esultanza e la gloria, che compita la grande opera, circonderanno il Vostro trono, non essere contristate dal pianto di Italiani curvi ancora sotto il peso della straniera oppressione”.

Milano, 20 giugno 1859.

Per incarico dell’emigrazione trentina :

Avvocato dott. Ant. Gazzoletti

Vittore Ricci

Dott. Girolamo Pietrapiana

ALFONSO LA MARMORA

ALFONSO LA MARMORA

I tre sottoscrittori dell’indirizzo, rivoltisi al Vigliani, governatore della Lombardia, ottennero un salvacondotto per il campo di Vittorio Emanuele, dal quale furono ricevuti a Calcinato il 22 giugno alle sei del mattino. Sull’esito di questa visita, il Ricci ha lasciato scritto in calce alla minuta dell’ indirizzo lo seguenti parole: Accoglienza cortese e benevola del Re, cortese e fredda del generale La Marmora che gli stava a lato … il re, detto che accoglieva i nostri voti ma che. era difficile poterli soddisfare etc, scappò fuori con le precise: — Io volevo mandare delle truppe da quella parte, ma l’Imperatore … — e qui troncò.

NAPOLEONE III

NAPOLEONE III

Analogo appello avevano i nostri patrioti steso per Napoleone III; il quale, a differenza di Vittorio Emanuele, non trovò il tempo o non vide l’opportunità di ammetterli alla sua presenza. L’atto però giunse indubbiamente a destinazione, perché era allegato in copia alla domanda per il salvacondotto che i trentini avevano indirizzato al Vigliani. Pertanto vale la pena di riprodurlo.

Sire

L’Europa in un momento solenne raccolse dalle auguste labbra della M. V. quelle memorabili parole, colle quali, alludendo alle condizioni politiche dell’ Impero austriaco e dell’Alta Italia, pronunciaste che questa tra breve sarebbe o Austria sino all’Alpe o libera sino all’Adriatico. A tali Vostre parole, tutta quella parte d’ Italia che portò sinora il giogo straniero, esultò di gioia e di speranza: speranza e gioia che i posteriori avvenimenti ogni dì più raffermano ed accrescono.

Ora, un ritaglio di quell’Alta Italia, un gruppo delle Alpi italiane, che dal confine del Tirolo Tedesco, seguendo il corso dell’Adige, si spinge in forma di cono sin quasi nel centro dell’odierno Lombardo- Veneto, il Trentino, la patria degli umili sottoscritti, partecipò anch’esso alla universale commozione destata dal Vostro discorso, e sperò in Voi; perché anche il Trentino soggiace da mezzo secolo a straniera signoria, e in modo ben più duraturo ed oltraggioso al diritto ed al sentimento nazionale, che non il resto dell’ Italia austriaca.

Non è mestieri ricordarvi, o Sire, come l’antico Principato ecclesiastico di Trento, per origine, storia, sito geografico, costituzione fisica, lingua, costumi, bisogni, simpatie, schiettamente italiano, fosse appena nel 1802 annestato alla Contea principesca del Tirolo, poi nel 1815 destinato a formar parte della Confederazione germanica.

Da quell’epoca in avanti i Trentini, avversi come il resto dell’Italia al Governo austriaco, ebbero nella loro specialità a protestare continuamente colle parole, e coi fatti anche, contro l’ ingiusta violenza che, recidendo il loro paese dal suo legittimo naturale consorzio ne calpesta la nazionalità, ne compromette gli interessi per il presente e ne stoglie i profitti per lo avvenire; costringendo quattrocento mila italiani a portare forzatamente il peso di una federazione straniera e, industriosi ma non ricchi eglino stessi, a dividere sotto lo specioso pretesto di fratellanza politica, il frutto dei loro sudori con una provincia tedesca più povera di loro.

Così nel 1848 una legione di volontari Trentini scese a combattere sotto Re Carlo Alberto la guerra dell’ indipendenza italiana; cosi nello stesso anno la Provincia di Trento mediante un indirizzo coperto da numerose firme dei principali suoi cittadini implorò spontaneamente da quel principe più illustre che fortunato d’essere staccata dal forestiero sodalizio, e restituita ad Italia; così i deputati di lei all’Assemblea nazionale di Francoforte, ossequienti al mandato ricevuto dagli elettori, sfidarono ripetutamente i malumori del Parlamento Germanico, dichiarando innanzi alla giustizia divina ed umana, che suo malgrado e contro ragione il loro paese era condannato a patire il vincolo d’una associazione straniera, e tali loro dichiarazioni, a salvezza dei diritto, vollero consegnate negli atti di quella assemblea, che ne faranno perpetua fede; così finalmente in tempi più vicini uno dei cento cannoni offerti da Italia alle fortificazioni di Alessandria porterà il nome di Trento: mentre in buon numero eletti giovani Trentini accorsero ed accorrono volonterosi a vestire le divise dell’esercito, che sotto la Suprema Vostra direzione compirà la più gloriosa delle imprese, ridonando a Italia, a Europa la pace.

NAPOLEONE III

NAPOLEONE III

Sire! Già il grido della nazionalità doppiamente compressa nella povera nostra patria è argomento più che bastevole per fermare sovra essa l’alto pensiero della M. V., del generoso e potente propugnatore dei diritti delle nazioni: ma nel caso nostro militano per noi riguardi d’altro ordine, i quali dalla M. V. furono senza dubbio apprezzati.

Sire! La grande opera della ricostruzione d’Italia, che farà risplendere il Vostro nome d’ una luce immortale, non potrà dirsi compiuta finché in potere dell’Austria, ossia del Governo che concentrò in sé le viete ed ingiuste pretensioni germaniche sul conto della penisola, restino le nostre montagne e le nostre valli, onde sei principali sbocchi s’aprono su diversi punti della Lombardia e della Venezia: sbocchi tutti bastevoli al trasporto di qualunque forza militare, mentre una sola via accessibile agli eserciti e di facile difesa taglia al confine settentrionale del nostro paese quella linea di montagne che lo divide dal Tirolo Tedesco. Epperò la posizione e la natura del suolo fanno della provincia Trentina un fortilizio necessario a sicurezza d’ Italia, senza ch’essa implichi né minaccia né pericolo per la Germania; mentre ne fanno d’altra parte un posto avanzato d’offesa comodo per i nostri oppressori, i quali ben dimostrarono e dimostrano di valutarne convenientemente l’importanza mercé lo zelo pertinace onde si adoperarono ad affermarne e mantenerne il possesso, spingendosi fino a contestare e mentire innanzi all’Europa la sua nazionalità.

Né queste verità sfuggirono all’occhio del Vostro Gran Zio, di cui ereditaste il genio e la missione provvidenziale; del Vostro Gran Zio, che nel 1810 spiccò il Trentino dall’Austria, aggregandolo come dipartimento dell’Alto Adige al Regno d’ Italia, epoca fortunata per noi e ricordata sempre con affettuoso desiderio dai nostri padri, molti dei quali ebbero la sorte (li combattere sotto i vittoriosi suoi stendardi nell’esercito italiano.

Sire ! Il Trentino non si dissimula la gravità delle condizioni eccezionali in cui trovasi rimpetto alla magnanima Vostra impresa, e tuttavia la gravezza stessa dei suoi mali e la giustizia luminosa della sua causa lo confortano a sperare: a sperare nella M. V., che già mette la provvida spada nel mostruoso nodo gordiano creato dalla diplomazia a danno dei popoli coi trattati del 1815 ; nella M. V., che non manca mai ove sia un grande diritto offeso da rialzare, o un nobile provvedimento da prendere a salvaguardia delle sue opere.

Noi intanto, interpreti del voto generale della nostra provincia, e assecondando il desiderio da lei caldamente manifestato, rechiamo devotamente alla M. V. l’assicurazione, che allorquando o gli eventi della guerra o le trattative della pace vi facessero stendere fino a noi la mano redentrice, ne avreste gratitudine pari al benefìcio, tanto maggiore quanto più pesanti sono le catene da cui venissimo sciolti, e più terribile l’avvenire che ci sovrasterebbe, nel caso che nuove barriere politiche dovessero alzarsi tra la riconquistata eredità dei fratelli, e le nostre sventure.

NAPOLEONE III

NAPOLEONE III

Il Cielo secondi, o Sire, gli alti Vostri intendimenti, e possa sulla base di quel monumento eternamente glorioso, e benedetto, che l’Italia risorta innalzerà al suo liberatore, non mancare il nome del nostro paese nativo, il nome di Trento”.

Dott. Antonio Gazzoletti

Vittore Ricci

Dott. Gerolamo Pietrapiana

Anche Giovanni Prati, che aveva pochi giorni prima pubblicato tre canti in onore degli eserciti alleati {Napoleone III, Montebello e Palestro) e che dopo Solferino era stato presentato all’Imperatore, cercò di approfittare della benevolenza colla quale Napoleone lo accolse per perorare presso di lui la causa del suo Trentino: sembra anzi che Napoleone gli abbia rivolto delle buone parole … senonché Villafranca era ormai imminente.

Le ostilità tedesche contro la Francia erano infatti divenute gravissime: in ogni parte della Germania i giornali ufficiosi tenevano un linguaggio asprissimo contro Napoleone. Dopo Solferino il Governo di Vienna invocava disperatamente l’aiuto prussiano, e per dare una soddisfazione alla corte di Berlino accondiscendeva alla proposta di porre tutte le forze federali mobilitate sul Reno sotto la direzione della Prussia, designando come comandante supremo il principe Federico Guglielmo in persona. Pochi particolari, pochissimi giorni mancavano ormai a compir l’accordo per l’ invasione del territorio francese, la quale sarebbe indubbiamente avvenuta senza l’armistizio del 13 luglio. Poteva l’esercito franco-piemontese — in tali frangenti — accingersi ad invadere il Trentino, e cioè a penetrare nel suolo stesso della Confederazione germanica?

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Tuttavia la sorpresa di Villafranca fu dolorosa e profonda anche in quella regione, che pur meno del Veneto aveva a sperare. Il corrispondente trentino della Lombardia scriveva, in data 16 luglio:

“Quale effetto abbia qui prodotto la notizia della pace repentinamente conchiusa, lasciando la Venezia all’Austria e non prendendo neppure in considerazione quest’ ultimo lembo della patria schiettamente italiano e per giunta necessario alla sicurezza dell’Alta Italia, potete immaginarvelo. La costernazione è generale, e tanto più grande che già si credeva prossima la nostra liberazione dopo i movimenti militari allo Stelvio e al Tonale … Parrà incredibile, ma la nostra situazione è così disperata, che già ci parrebbe di fare un gran passo innanzi se il Trentino fosse unito alla Venezia e alle sue sorti”.

E a tale obbiettivo immediato furono infatti indirizzati tutti gli sforzi dei trentini durante il semestre di angosciosa incertezza che attraversò l’Italia dopo il benefico fulmine di Villafranca.

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Seguire i destini del Veneto significava per il Trentino togliersi dall’isolamento, dispensare gli italiani dal fare una questione distinta per il suo territorio importante sì ma angusto, bandire l’equivoco che lo teneva proiettato sul Tirolo e confuso con esso, riprendere la propria individualità di fronte ad una regione tedesca e sacrificarla ad una regione italiana, prepararsi a passare con questa all’Italia, che certo l’avrebbe riconquistata un giorno: in una parola moltiplicare le proprie speranze di redenzione.

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