“FERMATE QUEL GIUDICE DI TRENTO” – 5

a cura di Cornelio Galas

C’è una emblematica lettera inviata al Ministro di Grazia e Giustizia, dall’ ex Giudice Istruttore Carlo Palermo. La missiva risale al 1996: è un atto di accusa contro i vertici del sistema giudiziario veneziano e dello Stato, che non richiede commenti e mette in luce come la mafia possa agire indisturbatamente dalla Sicilia al Veneto, facendo sparire addirittura interi fascicoli contenenti atti «top secret» dagli archivi riservati della Procura di Venezia.

Venezia, la sede della Procura della Repubblica

Venezia, la sede della Procura della Repubblica

Negli anni ’80, come abbiamo visto, Carlo Palermo, quale Giudice Istruttore, partendo dalla Procura di Trento, condusse la grande inchiesta sul traffico di armi, droga, riciclaggio e finanziamenti illeciti, che i successivi eventi e stragi che hanno insanguinato importanti città anche del Nord e centro Italia, hanno messo in evidenza essere di decisiva importanza per dipanare quello che lo stesso Carlo Palermo definì come “quarto livello” (cioè il rapporto mafia, politica, affari, massoneria, servizi segreti), e che poi costò la vita a chi, dopo di lui, ne seguì coraggiosamente le orme, dal Sostituto Procuratore Rosario Livatino sino ai giudici Falcone e Borsellino.

Carlo Palermo

Carlo Palermo

L’azione di Carlo Palermo fu bloccata infatti da martellanti ingerenze e persecuzioni politico-giudiziarie, durante il governo Craxi, sino all’attentato stragista di Pizzolungo, nel 1985, da cui si salvò a stento, riportando lesioni permanenti, ma che provocò la morte di Barbara Rizzo Asta e dei suoi due figli gemelli Giuseppe e Salvatore.

In un intervista, pubblicata su “Antimafia 2000”, al riguardo, Carlo Palermo, ebbe a dichiarare: “Nell’85, scelsi di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima a Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo“.

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In altre parole bisognava fermare con ogni mezzo quelle indagini scomode ai poteri occulti per cui prima di lui erano già stati trucidati una serie di altri incorruttibili magistrati e funzionari dello Stato, tra cui Ciaccio Montaldo, del quale proseguì le indagini sul rapporto mafia-politica e i traffici internazionali di armi droga, con la regia di faccendieri e piduisti e la copertura di servizi segreti deviati.

Ciaccio Montalto

Ciaccio Montalto

Sull’anomalo svolgimento delle indagini ed epilogo del caso, Carlo Palermo rimarcò la “contraddizione” legata al fatto che il processo a carico dei presunti esecutori materiali, svoltosi a poca distanza dai fatti, “sfociò nelle assoluzioni“, e che “la condanna dei presunti mandanti avvenne molti anni dopo e solo per le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, questi ultimi neppure ascoltati organicamente”.

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Carlo Palermo ha poi ricordato che, all’epoca, “nonostante la chiedessi in continuazione, non vi era alcuna vigilanza sulla mia abitazione (una villetta al Villaggio Solare, in territorio di Valderice), né fu mai eseguita un’attività di bonifica lungo il percorso che facevo ogni mattina”. Per l’ex magistrato, “l’assenza di un controllo preventivo ha concorso in quest’attentato”.

“Auspico che in un futuro prossimo – ha detto Carlo Palermo – maturino i tempi e le condizioni per una ricostruzione storica. E’ da 23 anni che inseguo determinate piste”.

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Ma ecco il testo della lettera di Carlo Palermo pubblicata alla fine del suo libro “Il giudice“. (Reverdito Edizioni, Trento 1997):

“Egregio  Signor Ministro,

il 30 ottobre scorso, su richiesta del Sostituto Procuratore Paolo Fortuna di Torre Annunziata, ho collaborato, a Venezia, alla ricerca di alcuni atti processuali facenti parte del fascicolo relativo al procedimento penale da me istruito a Trento in qualità di giudice istruttore negli anni 1980-84, e successivamente definito con sentenza dal Tribunale di Venezia.

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Nell’occasione – presente era un sottufficiale dei Carabinieri di Torre Annunziata, e (all’inizio) il Sost. Proc. di Venezia dott. Foiadelli, che ci ha condotto sul posto -, è stato possibile constatare che quel fascicolo, che in origine era di circa 300.000 pagine processuali tutte chiuse in faldoni catalogati, si trovava invece, di fatto (all’interno di uno scantinato contenente altri archivi processuali) letteralmente sfasciato, sventrato, mancante di almeno 2/3 dell’originale.

Le carte residue si trovavano ammucchiate per terra e in scatoloni aperti, con evidenti specifiche mancanze di atti originali. Il dottor Foiadelli precisava che, tra questi atti, un’agenda del 1980 (da me sequestrata al direttore del Sismi, il generale Giuseppe Santovito), era stata legittimamente prelevata dal giudice istruttore di Roma Rosario Priore in connessione all’indagine da lui oggi condotta sulla strage di Ustica.

Il generale Giuseppe Santovito

Il generale Giuseppe Santovito

Al di là di questo specifico rinvenimento, rimane il dato di fatto, constatabile ictu oculi, che il fascicolo in questione non esiste più: esistono solo poche e ormai inutilizzabili “carte” scompaginate, abbandonate e lasciate in luogo e modalità quasi incredibili, trattandosi pur sempre di atti processuali da custodire secondo modalità disciplinate dalla legge e suscettibili comunque di essere consultate a vari scopi.

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A parte l’amarezza personale per lo stato di questi incartamenti, che costituirono il prodotto di quattro anni di lavoro di magistratura e di organi di polizia giudiziaria, non ritengo di essere personalmente in grado di valutare quali iniziative forse dovrebbero essere attivate, se non altro, per recuperare quel che rimane di quel fascicolo, che probabilmente racchiudeva la chiave dell’attentato che subii a Trapani e che ancor oggi continua a offrire spunti utili ad indagini attuali della magistratura.

Quanto sopra segnalo alla S. V. per quanto riterrà del caso. Un cordiale saluto. Trento 10 novembre 1996. Carlo Palermo

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Libri di Carlo Palermo:

Riflessioni di un giudice, Editori Riuniti, Roma 1987; L’attentato, Publiprint, Trento 1992;

Il quarto livello, Editori Riuniti, Roma 1996;

Il giudice, Reverdito, Trento 1997; Il papa nel mirino, Editori Riuniti, Roma 1998;

Ustica, Avvenimenti, Roma 1998.

Una sintesi della sua inchiesta del 1980-1984 è stata pubblicata, in Armi & droga:

L’atto d’accusa del giudice Carlo Palermo, Editori Riuniti, Roma 1988 (con un saggio introduttivo di Pino Arlacchi).

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Altra serie di documenti  consegnati da Palermo alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 e sul traffico di armi.seg21

In una recente intervista concessa a Raffaella Fanelli, Carlo Palermo “aggiorna” la situazione in fatto di traffico di armi all’emergenza terroristica:

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“Le armi dell’Isis provengono da Stati Uniti, Russia, Cina, Balcani e Iran.  I canali sono gli stessi che individuai con la mia inchiesta. In quegli anni, e anche oggi, era la Dea (l’agenzia antidroga Usa), l’organismo che scopriva, o non scopriva, determinati aspetti di questi traffici”.

Un’importante inchiesta su un traffico di droga e armi che risale ai primi anni 80 e che segnò la vita di Carlo Palermo, sostituto procuratore a Trento dal 1975 al 1984. “Dopo tre anni di istruttoria i miei fascicoli furono spostati a Venezia. Le difficoltà si presentarono nel momento in cui le indagini, in qualche modo, riguardarono l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi”.

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Il magistrato decise quindi di farsi trasferire alla procura di Trapani, dove le sue indagini si erano incrociate con quelle del collega Giangiacomo Ciaccio Montalto ucciso nel 1983: “tre settimane prima che fosse ucciso ci incontrammo a Trento per parlare dell’inchiesta”. Mentre la mattina del 2 aprile 1985 un’autobomba esplose a Pizzolungo, frazione di Trapani. Era destinata al giudice Carlo Palermo, ma uccise una donna di 38 anni, Barbara Asta, e i suoi due figli, Giuseppe e Salvatore di sei anni, “dal 1985 mi porto dentro un enorme senso di colpa, perché altri sono morti al posto mio”.

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“Per questo non ho mai smesso di cercare le ragioni di quell’attentato. Sono stati condannati boss mafiosi, ma non erano i soli a volermi eliminare. Mi ero avvicinato ad alcuni nomi intoccabili e che infatti non sono mai usciti”. Il riferimento è a quell’intreccio di affari sporchi scoperchiato nell’inchiesta di Trento. Un’inchiesta che Carlo Palermo si ostinava a continuare. Che potrebbe essere la causa della strage di Pizzolungo.

“Dalla Turchia arrivava la droga, che poi finiva in Sicilia e da qui era smistata in Francia, Svizzera e Stati Uniti. Armi e terrorismo costituivano parti inscindibili di patti segreti. Solo di recente, riprendendo le mie carte, ho scoperto la presenza a Trento di personaggi palestinesi. Da magistrato ho interrogato Stefano Giovannone (ex ufficiale del Sismi, già responsabile dei servizi segreti italiani in Libano) ponendolo in connessione con il traffico di armi con il Libano, la Siria, la Svizzera, l’Italia, e i terroristi”.

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Fatti presenti in registrazioni telefoniche, intercettazioni. Da avvocato  Carlo Palermo ha invece seguito tutti i casi collegati alla sua inchiesta: dalla tragedia del Moby Prince alla scomparsa in Libano dei due giornalisti italiani Italo Tony e Graziella De Palo: “Partirono per Beirut nel 1980 e non fecero più ritorno. Erano andati in Libano proprio per occuparsi di traffico d’armi. Anche l’omicidio in Somalia di Ilaria Alpi. Entrambi i casi, incredibilmente, riconducono alle stesse carte dell’istruttoria di Trento, agli stessi traffici oggetto della mia inchiesta”.

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E una conferma a quanto dichiarato da Carlo Palermo potrebbe essere la stessa “circolare Craxi”. Un documento ritrovato nelle carte declassificate dalla Camera dei deputati sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Si tratta di una direttiva  della Presidenza del Consiglio datata 30 luglio 1985, e coperta da segreto di Stato, emessa dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi e diretta ai vertici dei servizi segreti civili e militari italiani con l’ordine di non rivelare ai magistrati che potevano chiedere ragione in tribunale di segreti e misteri repubblicani, i compiti e l’impiego dei servizi segreti.

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Il 2 aprile 1985, come abbiamo già scritto nelle precedenti puntate, un’autobomba esplose a Pizzolungo, vicino Trapani, uccidendo Barbara Rizzo, 31 anni, e due dei suoi tre figli, Giuseppe e Salvatore, entrambi di 6 anni. Il tritolo era destinato al magistrato Carlo Palermo, sopravvissuto alla strage.

Pubblichiamo un estratto dal libro “Sola con te in un futuro aprile”, pubblicato da Fandango e scritto da Michela Gargiulo e Margherita Asta, figlia di Barbara scampata all’attentato.

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“La cattedrale di San Lorenzo è piena di gente, io e mio padre non riusciamo a passare. Entriamo da un ingresso laterale. Il nostro posto è davanti all’altare.

Davanti a noi ci sono le bare di mia madre e dei miei fratelli. Al centro quella scura di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto a lei quelle più piccole e bianche, con i gigli, di Salvatore e Giuseppe. Quando sono uscita di casa, questa mattina, ho trovato il pallone di Giuseppe, era dietro la magnolia.

Non riesco a piangere, in mezzo a tutta questa gente. Mio padre invece non riesce a smettere. Ha la giacca e la cravatta nere. È molto debole. Io sono stretta in quel cappottino blu che la mamma sosteneva non andasse bene per giocare. Ora serve per i funerali.

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Ai lati delle bare ci sono i compagni di scuola dei miei fratelli. Non conosco i nomi ma i loro visi sì. Ci sono i bambini della prima elementare dentro questa chiesa. Si guardano intorno smarriti, impauriti. Non dovevano essere qui oggi, non dovevo esserci neppure io.

Il vescovo, monsignor Romano, si commuove ricordando i miei fratelli. Li conosceva. Lo scorso anno, alla recita di Natale, Salvatore era Gesù Bambino e Giuseppe un angelo.

Mi guardano tristi i due carabinieri davanti a me. Reggono una corona di fiori, c’è scritto Pertini. Accanto ce n’è un’altra del presidente del consiglio Craxi. Vista così da vicino sembra una cosa immensa, grande e ordinata, con tutti i fiori stretti a rubarsi lo spazio.

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Ci sono fiori dappertutto, e polizia e carabinieri anche in chiesa. Ci sono tutti questi uomini in divisa e i gonfaloni del comune, e non so spiegarmelo. Forse è per la morte dei miei fratelli, che erano dei bambini, forse è per questo che tutti hanno voluto partecipare.

Mio padre mi stringe la mano e guarda per terra. Un bambino sta salendo le scale del pulpito. Lo riconosco è Michele, Michele Marchingiglio, un compagno di scuola di Giuseppe e Salvatore. Ha in mano un foglio di quaderno. Sembra ancora più piccolo su quell’altare.

“Gesù rendi buoni i cuori dei malviventi del barbaro attentato di ieri e dai la pace eterna alle vittime innocenti, alla mamma e ai bambini Salvatore e Giuseppe Asta.”

Barbara Rizzo e i suoi due bambini morti nell'attentato

Barbara Rizzo e i suoi due bambini morti nell’attentato

Penso a quanto sia piccolo quel bambino sull’altare, e a quanto sono piccoli i miei fratelli dentro le bare e finalmente piango.

Il vescovo chiude la sua omelia.

“Purtroppo la morte è venuta a bussare alle nostre case. Una morte cieca, voluta da una mente perversa e da mano omicida. E ancora una volta la rabbia mafiosa ha macchiato le nostre strade…”

Mi volto verso mio padre. Cosa c’entra la rabbia, voglio chiedergli, cosa c’entra la mafia con quello che è successo a mia madre e ai miei fratelli. Noi con certe cose non c’entriamo niente. Ma papà continua a piangere e queste sono domande che non ho il coraggio di fare.

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La messa è finita. Solo ora mi rendo conto di quante persone hanno partecipato. Non avevo mai visto una cerimonia funebre così a Trapani. Solo alla televisione mi era capitato di vedere tanta gente e tante corone. Ma nei funerali di persone importanti: attori, ministri, capi di stato. Oggi, invece, sono tutti qui per mia madre e i miei fratelli.

Per noi, gente normale. Lo imparo in questo preciso momento il significato della parola folla. La folla io, per la prima volta, l’ho vista oggi. Una folla è quando in una chiesa non c’è più spazio.

La gente inizia a uscire. Io e papà invece restiamo fermi. Molte persone si avvicinano a noi, tutti vogliono farci le condoglianze. Un signore distinto che non ho mai visto prima stringe forte la mia mano, poi abbraccia mio padre.

“Signor Asta, sono Antonio Palermo. Le porto anche le condoglianze di mio figlio che è ancora in ospedale.”

Lo sguardo di mio padre si fa più attento, come per dire qualcosa di importante che non gli viene, non ce n’è il tempo. È già il turno di qualcun altro, condoglianze, altri baci sulle guance, altre strette di mano.

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Accanto a me c’è una signora anziana vestita di nero. Ha in mano un rosario, i suoi occhi hanno pianto per tutta la cerimonia. L’accompagno mentalmente mentre recita l’ultima preghiera:

“L’eterno riposo dona loro, o Signore,

e splenda ad essi la luce perpetua.

Riposino in pace.

Amen.”

Fuori dalla cattedrale seguiamo le tre bare. La folla si apre intorno a noi per farci passare. Tutti gettano fiori sul sagrato. Una pioggia leggera di petali. La strada è un tappeto colorato e noi ci passiamo sopra mentre accompagniamo mia madre e i miei fratelli nel loro ultimo viaggio. Metto un piede davanti all’altro ma piano, sono morbidi, ho paura di fargli male. Da quel giorno non sono più riuscita a camminare a piedi nudi su un prato.

Percorriamo a piedi la strada fino al cimitero. Piazza Vittorio Emanuele è piena di gente, un corteo che sfila, ci sono anche i ragazzi delle scuole con i loro zainetti colorati. No, queste persone non sono qui per i funerali, deve essere una manifestazione in difesa di qualcuno, uno sciopero.

Carlo Palermo

Carlo Palermo

“La mafia a Trapani esiste.”

Lo hanno scritto su un cartello enorme e ora se lo portano dietro facendolo correre sulle loro teste, le braccia in alto. “Coraggio giudice” urla qualcuno. Altre persone, contemporaneamente intonano in coro: “Dieci, cento Palermo”.

La folla è compatta ma scorre quando ci vedono passare. Arriviamo al cancello, sfioro delicatamente le bare della mia mamma e dei miei fratelli come a volerle accarezzare. Zio Vincenzo viene a prenderci con la macchina. Abbiamo tutti delle facce stanchissime. Tra pochi minuti saremo di nuovo a casa, in qualche modo che non capisco saremo al sicuro.

Imbocchiamo la provinciale, mio padre è seduto accanto a me con gli occhi chiusi, sembra stia dormendo. Guardo il mare oltre il finestrino, sono due giorni che dalla litoranea non si poteva passare, la strada era chiusa per via dell’incidente.

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Arriviamo al distributore, siamo vicini a casa, davanti a noi c’è l’hotel Tirreno. La macchina rallenta improvvisamente, c’è una buca enorme sull’asfalto, sembra sia esploso un vulcano. Sul muro bianco della villa davanti a noi c’è una macchia rossa. Non faccio neanche in tempo a vederla bene.

“Papà, è sangue nostro questo?”

Le zie hanno rassettato casa, non so quando l’hanno fatto. Tutto è pulito e ordinato. Non abbiamo il tempo di rimanere soli, io e papà, e questo è un bene. Zia Vita e gli altri sono già arrivati, le loro voci riempiono di nuovo la casa, anche se con discrezione. Dalla finestra vedo una macchina della polizia che si ferma nel vialetto. Due uomini si avvicinano alla porta, suonano, sono io quella che va ad aprire.

“Asta?”

“Sì, sono Margherita.”

“La figlia di Barbara Rizzo?”

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Non ho mai sentito ripetere tante volte il cognome di mia madre da nubile come in questi due giorni, “sì, sono io.” Sento dietro di me i passi di papà e della zia Vita, mi faccio da parte. La presenza di mio padre sembra imbarazzare ancora di più il poliziotto. “Signor Asta, questi sono gli oggetti di sua moglie. Qui ci sono quelli dei suoi bambini.” Sono due sacchetti di plastica bianca, sembrano quelli della spesa. Il poliziotto allunga le braccia e li porge a mio padre.

Margherita Asta e Carlo Palermo sul luogo dell'attentato

Margherita Asta e Carlo Palermo sul luogo dell’attentato

In quello di Giuseppe e Salvatore ci sono delle pagine dei libri di scuola, alcuni fogli strappati con i loro disegni. Ci sono due scarpe da tennis, mi sembrano quelle di Salvatore. Rosse con la linguetta autoadesiva perché ancora non aveva imparato ad allacciarle da solo.

Dove sono i vestiti, la cartella, i quaderni? Apro quello di mia madre. C’è il suo portafoglio, la fede, la custodia degli occhiali, l’anello con lo zaffiro e i brillanti e quello d’ambra, il suo preferito. C’è solo questo, di mia madre non è rimasto altro.

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Marzo 2016: i familiari di Graziella De Palo hanno scelto come loro avvocato penale Carlo Palermo, l’ex giudice che con la sua inchiesta di Trento è stato il primo a far luce sui traffici di armi tra Italia e Medio Oriente. Palermo seguirà il caso di Graziella De Palo, la giornalista “scomparsa” a Beirut, in Libano, il 2 settembre 1980 con il suo collega Italo Toni. I familiari di Graziella dopo 36 anni attendono ancora delle risposte sulla fine della loro congiunta, di cui non sono ancora riusciti ad avere nemmeno i resti. Lo stesso vale per Italo. Alcuni documenti relativi alla vicenda sono ancora coperti dal segreto di Stato.

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In particolare, lo è tutto quello che riguarda i rapporti e gli accordi tra Italia e organizzazioni palestinesi: il presidente del COPASIR, Giacomo Stucchi, nel settembre 2014, ha dichiarato alla famiglia che la possibilità di svelare queste vicende fa tremare anche il governo Renzi.

Un compito difficile, dunque, quello di Carlo Palermo, che ha già pagato tanto sia nella sua carriera di giudice sia con la sua vita personale l’impegno nel ricostruire la Verità, di cui è testimonianza profetica il suo saggio sul terrorismo di matrice islamica Il quarto livello, la cui prima edizione, degli Editori Riuniti, risale all’ormai lontano 1996.

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Nel 1985, mentre stava lavorando in qualità di giudice alla sua inchiesta sul traffico d’armi, egli aveva subìto un attentato a Pizzolungo, al quale scampò per miracolo, ma nel quale persero la vita una madre e i suoi due figli.

Anche Graziella De Palo indagava sul traffico d’armi in quegli stessi anni, e, proprio per seguire una pista su questi traffici, nel 1980 si era recata in Libano insieme al collega Italo Toni. Adesso i destini dell’ex giudice e della giornalista “scomparsa” si intrecciano ancora di più e Carlo Palermo avrà il difficile compito di cercare di svelare una Verità occultata dallo Stato italiano per quasi 40 anni.

da sx a dx: Carlo Palermo e Giancarlo De Palo tra un ritratto raffigurante Graziella De Palo

da sx a dx: Carlo Palermo e Giancarlo De Palo tra un ritratto raffigurante Graziella De Palo

Avvocato, il segreto di Stato permane ancora su alcuni documenti e la vicenda della scomparsa di Graziella De Palo attende ancora oggi una risposta. Si tratta del doveroso prevalere dei nostri superiori interessi nazionali o dell’appoggio a un gravissimo depistaggio, che vede accusati gli ignari cristiani oltranzisti libanesi a scapito dei veri assassini palestinesi, i cui nomi erano stati addirittura comunicati all’ambasciatore italiano a Beirut, Stefano D’Andrea, dai Servizi libanesi?

“Non sono in grado di esprimere valutazioni su quello che sarebbe stato l’esito delle indagini ove fosse rimasto D’Andrea. Ritengo che tutti i nostri rappresentanti in Libano, a quell’epoca, siano rimasti, a vario titolo, coinvolti nella vicenda della scomparsa dei due giornalisti, e, prima ancora, nei complessi rapporti tra  i nostri apparati governativi e “informativi” con quelli locali. Il “vario titolo”, per tutti, non è stato accertato in quanto nel suo complesso e nei suoi particolari, è venuta a mancare una adeguata ricostruzione dei fatti e della verità.”

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All’epoca dei fatti, l’entità statale del piccolo Libano si trovava, nella zona nella quale è avvenuto il delitto, sotto il mandato siriano dei due feroci criminali di Stato, i fratelli Afez e Rifat Al-Assad. Il giudice Armati, che si occupò della scomparsa di Graziella, ipotizzò nella sentenza finale del processo un coinvolgimento siriano. È d’accordo?

“Personalmente ritengo che numerosi personaggi vicini al regime siriano siano ricollegabili alla vicenda in quanto già da lungo tempo vicini ai gruppi più oltranzisti della Olp e implicati in vari rapporti, quantomeno oscuri, ruotanti attorno a traffici internazionali di armi nonché a collegamenti con il terrorismo internazionale. A tutto ciò non erano estranei anche i nostri gruppi terroristici.

Attorno a questi rapporti i due giornalisti scrissero pubblicamente, attorno ad essi sono individuabili le ragioni del loro viaggio, attorno ad essi con ogni probabilità ruotarono anche i fatti che provocarono la loro eliminazione”.

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Come giudica la decisione del Segretario generale del Ministero degli Esteri di allora, Francesco Malfatti di Montetretto, di estromettere dalle indagini l’ambasciatore italiano a Beirut – che pure aveva il dovere istitutivo di tutelare la vita dei nostri due connazionali e aveva tempestivamente comunicato la verità della quale era venuto a conoscenza – e di farla affidare attraverso il CESIS, organismo del quale era membro di diritto, al SISMI?

“La decisione di estromettere dalle indagini l’ambasciata credo abbia avuto influenza notevole per i diversi canali che questa era in grado di coltivare. Considerati i depistaggi riscontrati in occasione degli accertamenti avvenuti nel primo processo, la mancata attuazione di un percorso alternativo può avere svolto addirittura un ruolo su quanto di fatto avvenne: l’occultamento della verità e delle responsabilità rinvenibili nella contestualità dei fatti.”

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Avvocato, da dove partirà per fare luce su una vicenda che negli anni si è complicata e resta così oscura ancora oggi?

 “Gli strumenti per far luce sulla vicenda non possono che partire dalla lettura degli atti del primo processo, quello del giudice Giancarlo Armati, integrati da quelli di recente desecretati.

A questi dovrebbero tuttavia aggiungersi necessariamente anche quelli sui quali, quasi incredibilmente, pare persista una volontà di secretazione che appare incomprensibile e inammissibile sia in ragione della presenza, nel caso, di attività riconosciute di carattere terroristico -che di per sé dovrebbero non consentire segreti di Stato –  sia in considerazione della nota presenza di pubbliche declamazioni di volontà politiche di desecretazione non seguite in concreto dal reale mantenimento di tali impegni e promesse. Il che può apparire non accettabile dalle parti offese in considerazione della interminabile sofferenza conseguente al mancato accertamento della verità”.

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