LA RESISTENZA IN TRENTINO – 6

a cura di Cornelio Galas

Anche a Belluno fu richiesta la collaborazione della popolazione per rincalzare le truppe di occupazione, ma il Corpo di Sicurezza Bellunese, osteggiato fortemente dai partigiani, non fu costituito. Risposero appena seicento giovani, dei quali molti poi scapparono, e i rimasti furono incorporati nel Polizeiregiment Brixen della provincia di Bolzano, ma ben presto disarmati data la loro inaffidabilità. Qualcuno degli “affidabili” fu aggregato al Cst. Per la provincia di Belluno, nel febbraio 1945, era già pronto e addestrato l’SS-Polizeiregiment-Brixen (Sod) di duemila uomini.

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Era già stato inviato a Belluno un avamposto a predisporre e a sorvegliare gli alloggiamenti. Quando si trattò di giurare fedeltà a Hitler davanti al Commissario Supremo Hofer, i militari si rifiutarono. Si cercò di “ammorbidirli” in varie maniere, minacciandoli anche di decimazione. Ufficiali e sottufficiali fecero ripetere il giuramento ma ottennero lo stesso risultato. Furono allora spediti in Slesia come “carne da cannone” incontro all’Armata Rossa che era già arrivata in Polonia. Pochi furono i sopravvissuti.

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Secondo lo storico Lorenzo Baratter gli uomini di questo reggimento erano addirittura duemila, suddivisi in due battaglioni di quattro compagnie ciascuno. La sigla “SS” davanti alla denominazione di quel reggimento fu voluta da Himmler quale anticipato riconoscimento del suo vigoroso ed efficace impegno. Gli altri tre SS-Regimenter erano l’Alpenvorland, lo Schlanders e il Bozen. Un battaglione di quest’ultima formazione fu spedito a Roma e gran parte dei poliziotti trovò la morte nell’attentato di via Rasella. Quello che provocò la rappresaglia delle Fosse Ardeatine.

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LEONARHD DALLASEGA

E’ degno di essere ricordato l’atto eroico di obiezione di coscienza di un soldato Sod, Leonhard Dallasega di Proves (Bolzano). Si rifiutò di far parte del plotone di esecuzione incaricato di fucilare un prete imputato di aver aiutato i partigiani. Morì il 27 aprile 1945 ad Ala assieme a colui che avrebbe dovuto uccidere, don Domenico Marcante, parroco di Giazza (Selva di Progno – Verona), per mano dei suoi commilitoni.

DON DOMENICO MERCANTE

DON DOMENICO MERCANTE

L’importanza dell’atteggiamento del clero verso il regime fascista prima e nazista poi fu rilevante nelle due province confinanti, come d’altra parte in tutto il resto d’Italia. Il Concordato tra la Santa Sede e Mussolini nel 1929 per l’Italia, e quello per la Germania del luglio 1933 tra il vice-cancelliere cattolico di Hitler, Franz von Papen, e il cardinale Eugenio Pacelli, Segretario di Stato di Pio XI, rassicurarono in parte sia il clero che i credenti. Molti furono tuttavia i religiosi che si opposero al nazifascismo morendo nei Lager, specialmente a Dachau e a Mauthausen.

FRANZ VON PAPEN

FRANZ VON PAPEN

Il diverso comportamento del vescovo di Trento monsignor de Ferrari e del vescovo di Belluno e Feltre monsignor Bortignon rispetto al fascismo e agli occupanti, ebbe forti conseguenze nella risposta delle popolazioni. Monsignor Carlo de Ferrari era nato nel 1885 a Lichtenberg-Montechiaro, in Val Venosta (Bolzano), dove suo padre era impiegato al Capitanato distrettuale (a quel tempo il Trentino faceva parte del Tirolo). La famiglia si trasferì poi a Tione di Trento; Carlo entrò in quel periodo nella congregazione degli Stimmatini. Nel 1945 fu  nominato vescovo di Carpi. Nel 1941 fece il suo solenne ingresso a Trento quale successore di monsignor Celestino Endrici, deceduto il 29 ottobre dell’anno precedente.

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Mons. de Ferrari

Da Carpi, de Ferrari partì con la fama di “prelato di sentimenti fascisti e patriottici”, avendo espresso “la sua fede piena di vescovo fascista”. A Trento de Ferrari fu ancora più esplicito. In occasione della posa della prima pietra della chiesa di Cristo Re, nel ricordare la passata attività squadristica del prefetto Foschi, lì presente, nel suo discorso così si espresse: “Bene facesti, prefetto Foschi, a menare le mani. Sante quelle manganellate”. Quelle parole furono duramente criticate anche da alcuni sacerdoti.

FRANZ HOFER

FRANZ HOFER

Di fronte all’occupazione tedesca nel periodo dell’Alpenvorland tenne invece un atteggiamento di non adesione alla politica nazista del Commissario Supremo Franz Hofer, pur esprimendo una “condanna chiara del movimento partigiano” forse per quieto vivere. Ed evitando di incontrare esponenti della Resistenza, tanto che perfino Guido de Unterrichter, nel Cln per la Democrazia Cristiana, sostenne a chiare lettere che “il vescovo era piuttosto compromesso col fascismo”.

Guido de Unterrichter

Guido de Unterrichter

Se ci furono in Trentino preti fascisti, ce ne furono però anche altri, nel Tesino ma non solo, che aiutarono il movimento partigiano, pagando a volte con la vita la loro coerenza cristiana. Molti parroci intervennero a favore della popolazione che, stretta tra ammasso e vere proprie ruberie da parte degli invasori, con la carta annonaria non trovava a volte neppure il pane.

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Un’ordinanza dell’ottobre 1943 obbligava alla cessione, in base alle necessità militari, delle case di abitazione, di materiali da costruzione, mezzi di locomozione, animali, foraggi, persino delle stoviglie e degli utensili da cucina. Subito dopo avvenne la precettazione al lavoro per tutti gli uomini dai 16 ai 60 anni e delle donne dai 18 a 45, con esonero per gli addetti a tempo pieno nell’agricoltura, per le gestanti e le madri di figli non ancora in età scolare.

Qualche parroco denunciò coraggiosamente anche dal pulpito ingiustizie e abusi, come fece il decano di Fiera di Primiero don Camillo Orsi, il quale, in un’omelia tenuta nel periodo natalizio del 1943, secondo un rapporto dei carabinieri di Borgo del 22 dicembre, disse “non essere giusto che, per quanto riguarda la distribuzione dei generi razionati, questi vengano dagli uffici annonari ingiustamente ripartiti, dando cioè la maggior parte ai ricchi, alle Autorità, a coloro che ne sono ben forniti, togliendoli ai poveri che languiscono e soffrono”.

L’arcivescovo di Trento Carlo de Ferrari si reca a una cerimonia al teatro Sociale. Alla sua sinistra il prefetto Italo Foschi e alla sua destra il vescovo ausiliare mons. Oreste Rauzi, il quale, per la sua conoscenza della lingua tedesca, aveva da svolgere l’attività specialmente in provincia di Bolzano

L’arcivescovo di Trento Carlo de Ferrari si reca a una cerimonia al teatro Sociale. Alla sua sinistra il prefetto Italo Foschi e alla sua destra il vescovo ausiliare mons. Oreste Rauzi, il quale, per la sua conoscenza della lingua tedesca, aveva da svolgere l’attività specialmente in provincia di Bolzano

De Bertolini si premurò di scrivere all’arcivescovo sollecitandolo a richiamare il decano “il quale non dovrebbe dal pergamo fomentare l’invidia tra le classi sociali”, avendone per risposta che “questa curia si è sempre data premura di raccomandare a tutti i parroci di evitare tutto quello che possa nuocere alla tranquillità”.

De Ferrari intervenne in qualche circostanza, specie per questioni religiose, presso il Commissario Prefetto de Bertolini, ma non risultano grandi proteste per il massacro del 28 giugno 1944, o per le fucilazioni, torture e distruzioni di case nel Tesino.

Girolamo Bortignon, vescovo di Belluno e Feltre

Girolamo Bortignon, vescovo di Belluno e Feltre

Ben diverso l’atteggiamento del responsabile della diocesi limitrofa, mons. Girolamo Bortignon, vescovo di Belluno e Feltre. Non ci fu “un solo ecclesiastico” che espresse “una positiva opinione nei confronti dei comandi tedeschi e delle loro misure”. Per questo avrebbe dovuto essere ammonito severamente, come scrisse un comandante SS al commissario supremo Hofer.

Bortignon era nato a Fellette (Romano d’Ezzelino-Vicenza) nel 1905. Entrato nell’ordine dei  francescani, aveva studiato all’Università gregoriana di Roma e nel 1938 era stato ministro provinciale a Venezia. Nel 1944 fu nominato vescovo. Albino Sordo “Nina” di Castello Tesino, detenuto nel Lager di Bolzano dal gennaio 1945, testimonia che il vescovo due o tre volte al mese riusciva a far arrivare al Lager di via Resia un furgone con dei viveri per i detenuti della sua diocesi. In ogni sacchetto c’era un pezzo di pane, un pomodoro o una mela, secondo la stagione, un uovo o un pezzetto di formaggio.

Albino Sordo "Nina"

Albino Sordo “Nina”

Spesso quei sacchetti tanto attesi venivano però alleggeriti dai disciplinatissimi aguzzini di Franz Hofer. Bortignon aveva esteso quella carità anche ai detenuti del Tesino, probabilmente considerandoli suoi diocesani, integrati com’erano con i bellunesi nel battaglione “Gherlenda”.

Sede del Comando del Corpo d’Armata di Bolzano dove dal 1943 al 1945 si insediò la “Gestapo”. Nella sala caldaie avvenivano interrogatori e sevizie. Qui furono “interrogati”, prima del processo davanti al Tribunale Speciale, Angelo Peruzzo, Manlio Silvestri e Armando Bortolotti. Nel cortile interno, il 7 luglio 1944, trovò la morte Giannantonio Manci, dopo essersi buttato dall’ultimo piano

Sede del Comando del Corpo d’Armata di Bolzano dove dal 1943 al 1945 si insediò la “Gestapo”. Nella sala caldaie avvenivano interrogatori e sevizie. Qui furono “interrogati”, prima del processo davanti al Tribunale Speciale, Angelo Peruzzo, Manlio Silvestri e Armando Bortolotti. Nel cortile interno, il 7 luglio 1944, trovò la morte Giannantonio Manci, dopo essersi buttato dall’ultimo piano

Fu l’unico vescovo delle tre province dell’Alpenvorland a far visita ai detenuti del Lager. Il 17 marzo 1945, a Belluno, in piazza Campitello (ora piazza Martiri), il vescovo costrinse i nazisti a porgergli la scala per salire, baciare uno ad uno e dare l’estrema unzione ai quattro impiccati di quel giorno: Valentino Andreani di Limana, Salvatore Cacciatore di Agrigento, Giuseppe de Zordo di Perarolo e Gianleone Piazza di Belluno. Fu raro esempio di “presule che abbia impavido affrontato le minacce dei tedeschi e sia riuscito a strappare alla morte tante povere creature”.

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Alcide Degasperi, in un discorso a Milano nel 1945, lo portò come esempio “per dimostrare che anche l’alto clero aveva preso posizione nelle tragiche vicende della repressione antipartigiana”. Il 3 aprile 1945 monsignor Bortignon scrisse un’accorata ma ferma lettera di protesta allo stesso Commissario Supremo denunciando che erano stati schiaffeggiati e percossi sacerdoti tra i quali mons. Giulio Gaio. Mons. Candido Fent, don Giuseppe Masoch, e che “molti cittadini furono derubati delle loro sostanze ed ebbero la loro abitazione distrutta dal fuoco. Paesi interi furono completamente incendiati: Aune, Croce d’Aune, Valle di Seren, Borgate di Seren, Valle di Canzoi, Caviola, Feder, Tabiadon, Gares, Fregona, Vallesina, Pieve d’Alpago ed altre Borgate”.

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E continua: “Non si ebbe neppure riguardo per la persona del Vescovo, che fu trattenuto per quattro ore e mezza alla Gendarmeria di Belluno, che fu preso a forza da un sottufficiale in quel di Lamon, e costretto a portarsi d’innanzi all’incendio di una casa entro cui fu fatta bruciare crudelmente una povera mamma; che fu rastrellato a Feltre e, nonostante replicate proteste, trattenuto per ben sette ore. Si volle prendere d’assalto il Seminario di Feltre con lancio di bombe e colpi di fucile (…), si osò perquisire perfino il Santa Tabernacolo, ed il sacerdote don Giulio Perotto, che stava preparando l’altare per la celebrazione della messa per gli operai della Todt, oscenamente insultato”.

Mons. Bortignon e, dietro, don Antonio Varotto

Mons. Bortignon e, dietro, don Antonio Varotto

Nel marzo 1944 una nuova ondata di scioperi in molte fabbriche, al motto “I sacchi vuoti non stanno in piedi !”, aveva fortemente rallentato la produzione bellica e non. Al lanificio Rossi di Schio lasciarono il posto di lavoro ben tremila operai e ai lanifici Marzotto di Valdagno quattromila. Naturalmente non mancarono all’appello le fabbriche metalmeccaniche e chimiche, come la Breda, la Termoelettrica e la Fonderia de Pretto. Agli scioperi alla Magneti Marelli di Sesto San Giovanni (Milano) seguirono deportazioni, morti in carcere e fucilazioni.

Remo Sordo, nato a Borgo Valsugana nel 1913 e fucilato a Barzio (Como) il 31 dicembre 1944

Remo Sordo, nato a Borgo Valsugana nel 1913 e fucilato a Barzio (Como) il 31 dicembre 1944

Remo Sordo di Borgo Valsugana venne fucilato a Barzio (Como) il 31 dicembre successivo per aver partecipato a quegli scioperi e per essersi rifiutato di aderire alla repubblica di Salò. A San Donà e a Portogruaro anche i braccianti e i terzanti (gli addetti alla terza aratura) incrociarono le braccia. A Porto Marghera furono ventimila gli scioperanti: la produzione crollò dell’ottanta per cento. Seguirono rappresaglie e deportazioni nei Lager. Gli occupanti si allarmarono e, dove potevano, cercarono di impedire che gli oppositori si organizzassero.

Il colonnello Angelo Zancanaro

Il colonnello Angelo Zancanaro

La notte del 19 giugno 1944 a Feltre ci fu una feroce rappresaglia nazifascista con morti e arrestati: è passata alla storia della Resistenza con il nome di “Notte di santa Marina”. Nazisti, affiancati da spie locali in divisa tedesca, devastarono abitazioni civili arrestando 37 persone. Uccisero il colonnello Angelo Zancanaro e il figlio Luciano, non ancora ventenne. Fu poi la volta dell’ingegner Pietro Vendrami. Quindi si diressero verso il seminario: colpirono a morte il giovane Romano Colonna, catturarono il rettore don Candido Fent il vice don Giulio Gaio. Con una bomba a mano massacrarono Odino De Paoli.

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Era la risposta alla liberazione di 73 detenuti politici dal carcere Baldenich di Belluno. Il 15 giugno, con una audace azione, alcuni uomini del distaccamento “Ferdiani” della brigata “Pisacane”, guidati da Mariano Mandolesi “Carlo”, erano entrati nel carcere travestiti da tedeschi e trascinando dei partigiani in catene. Avevano liberato così molti detenuti, tra cui Gigi Doriguzzi “Momi” ed Edoardo de Bortoli “Carducci”, accusati ingiustamente del sabotaggio alla centrale delle Moline. L’azione è nota nella storia della Resistenza come “la beffa di Belluno”.

Volontari della brigata "Pisacane"

Volontari della brigata “Pisacane”

In precedenza a Feltre, come detto, era stata messa fuori attività la Metallurgica (pezzi di ricambio per aerei Messerschmitt) e il 6 giugno era stata fatta saltare la ferrovia della Valsugana presso il forte del Tombion a Cismon del Grappa.

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“Il 28 giugno 1944 a Riva, ad Arco, a Nago e a Limone, i cittadini furono svegliati dal passo marcata dei drappelli delle SS e della Gestapo e dai colpi di mitra nazisti indirizzati su bersagli umani segnati loro da spie nostrane”. Caddero, nel tentare la fuga: il brigadiere dei carabinieri Antonio Gambaretto, Franco Gerardi, Eugenio Impera, Gioacchino Bertoldi, Augusto Betta, Enrico Meroni, Giuseppe Marconi, Ferdinando Toti, Giuseppe Ballanti e Giovanni Bresadola. A Rovereto fu ucciso l’avvocato Angelo Bettini.

ANGELO BETTINI

ANGELO BETTINI

Complessivamente furono arrestate 17 persone, fra le quali Fiore Lutterotti, spia dei nazisti, che era riuscito a infiltrarsi nel gruppo giocando sull’amicizia di Gastone Franchetti, comandante della formazione partigiana cattolica “Fiamme Verdi”. La cattura del Lutterotti era tutta una messa in scena per sviare eventuali sospetti. Fra gli arrestati, Giuseppe Porpora fu condannato a morte dal Tribunale Speciale di Bolzano e fucilato a Fonzaso il 10 agosto successivo, mentre Franchetti venne fucilato a Bolzano il 29 agosto.

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Da notare che nel Basso Sarca nessuno venne sorpreso con le armi in pugno. Alcuni furono assassinati ancora nei loro letti, senza nemmeno passare attraverso una parvenza di processo. Non c’era stato nessun atto di sabotaggio che giustificasse un intervento di tale violenza: fu un esempio tipico di strage preventiva, scelta spesso adottata dai nazisti. Probabilmente gli invasori si aspettavano più fedeltà dai trentini, quali ex sudditi austriaci.

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In provincia di Trento pochissimi dei carabinieri alle dipendenze del colonnello Michele de Finis aderirono o collaborarono alla Resistenza. Tra questi sono da ricordare il maresciallo comandante della Stazione di Roncegno, Michele Guidone, e il brigadiere Antonio Gambaretto. Il carabiniere Cesare Furlan (nato a Novaledo il 12 marzo 1923), partigiano del battaglione “Panarotta” (divisione “Garemi”), morì il 29 aprile 1945 in seguito a ferite riportate durante l’attacco al presidio tedesco ferroviario dei “Chiocchetti”.

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Fra i carabinieri ci fu anche chi finì nei campi di sterminio, come l’appuntato Luigi Calpicchi, in servizio a Commezzadura (era nato a Vejano Viterbo, nel 1899), deceduto a Ohrdruf (Buchenwald) il 10 marzo 1945, e il carabiniere Virgilio Rosa di Condino, morto a Gusen (Mauthausen) il 25 gennaio 1945. Il carabiniere Ermete Nervo fece ritorno a Pieve Tesino dopo aver combattuto in Jugoslavia nelle formazioni di Tito.

Nel Bellunese furono invece decine i carabinieri che assieme ai loro comandanti partecipazrono alla Lotta di Liberazione. Un esempio emblematico è il maresciallo comandante della Stazione di Lamon, Vincenzo Pasqualotti che, non accettando di collaborare con i nazisti, si aggregò ai partigiani della brigata “Gramsci”: fu, come vedremo più avanti, catturato e trucidato.

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A Feltre, il 7 luglio 1944, vennero internati tutti i carabinieri, compreso il comandante, tenente Loris Musy, rei, secondo la spia Arturo Bolzonella, di aver favorito i partigiani. Il comandante Musy fu detenuto nel Lager di Bolzano. Il maresciallo Antonio Raga “Lapin” tenne uniti dopo l’8 settembre oltre quaranta carabinieri e altri militari formando il battaglione “X” di cui fu comandante. Contribuì all’organizzazione del Gap di Belluno e di una rete di informatori.

Altri carabinieri che aderirono alla lotta partigiana furono Giorgio Bertoldi, Pio Crivelotto, Antonio Falconieri e Gavino Sotgiu (poi arrestato dai tedeschi). Ad Agordo furono arrestati, quali collaboratori dei partigiani, il comandante maresciallo Giovanni Trivellino e cinque suoi subalterni.

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