IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 6

In questa sesta puntata sul Trentino nel periodo del Risorgimento italiano affronteremo in particolare gli avvenimenti fino al 1859. Vale a dire: gli ingiusti sospetti a carico degli emigrati trentini. La costituzione di un’associazione trentina a Brescia, i manifesti dei profughi  a Milano e i primi rapporti col Governo provvisorio lombardo. Quindi le idee dei trentini nel movimento annessionista, le trattative fra l’Austria e i vari governi italiani con specifico riferimento alla cosiddetta questione trentina. E ancora, Trento e i trentini al Governo provvisorio veneto, i contatti con Daniele Manin, Giovanni Prati e i combattenti trentini a difesa di Venezia. E infine le proteste, le contestazioni dei municipi trentini dopo la “reazione” dei tedeschi.

Ho riservato tutto lo spazio possibile inoltre ai nomi dei trentini che combatterono (e molti morirono) in quegli anni. Anche a Roma, a Venezia, sugli altri campi di battaglia del Risorgimento. C’è infine, come sempre, un video che aiuta a meglio comprendere i fatti narrati.

z_divise2

a cura di Cornelio Galas

IL VIDEO

Nella sua prima seduta (10 maggio) il Comitato di Brescia aveva nominato a suo deputato presso il governo provvisorio di Milano il dottor Angelo Ducati; ma il Gabinetto lombardo aveva prevenuto da qualche settimana questo legittimo desiderio chiamando il dott. Prospero Marchetti di Arco a far parte della giunta per la legge elettorale quale rappresentante del Trentino, come aveva invitato a parteciparvi un delegato della città di Mantova ancora in potere del nemico.

In quei giorni si agita la grande questione dell’aggregazione del Lombardo-Veneto agli Stati sardi. Due partiti si formano: l’uno, composto in prevalenza di repubblicani, è assolutamente contrario ad una immediata decisione, l’altro invece è favorevole a fondere le nuove provincie nell’antico Stato piemontese, allo scopo di rendere più solida la compagine delle forze e di togliere un grave motivo di discordanza e di dissidio. Il Governo di Milano, preso fra le due correnti, pensa dapprima di rimettere la questione all’Assemblea costituente; ma le città della Lombardia e dei ducati lo prevengono ed aprono per loro conto la sottoscrizione, o il plebiscito, come si sarebbe detto poi.

Brescia è stata la prima ad intendere questa necessità, e il 6 maggio ha già adunato ventiduemila firme a favore dell’annessione immediata. La sera di quel giorno la Commissione incaricata di raccogliere il voto popolare si riunisce, e í dottori Alfonso Ciolli e Girolamo Steffanini, delegati, dietro invito della Commissione, a partecipare ai suoi lavori dal Comitato trentino, dichiarano in nome del loro paese di unirsi alle opinioni dei convenuti nella massima della aggregazione agli Stati di S. M. Sarda e di voler cooperare al medesimo intento.

volontari2

In quello stesso giorno si recano al campo di Carlo Alberto il conte Sigismondo Manci, il dott. Angelo Ducati e il sacerdote Angelo Zanella di Trento per ottenere udienza dal sovrano. Ma il combattimento di Santa Lucia impedisce l’abboccamento: i profughi sono ricevuti da monsignor Corboli Bussi, nunzio apostolico presso il quartier generale, e a lui è consegnato un indirizzo per il Re, cosi concepito:

“Permettete a noi pure ultimi abitatori del bel paese di tributarvi un atto di riconoscenza e di omaggio ora che tutte le popolazioni d’Italia seguono i passi delle Vostre Armi vittoriose con animo grato e riconoscente. L’opera benedetta da Pio, che Voi avete impreso, e che ben presto vedremo gloriosamente compita, è opera santa, e Voi siete chiamato dalla Provvidenza al più grande trionfo che conoscano le storie antiche e moderne, al trionfo che spetta al redentore della sua patria, al liberatore d’Italia. O magnanimo Re ! cadano i Vostri sguardi anche sul nostro povero paese, povero sì per materiali condizioni, ma a nessun’altra parte d’ Italia secondo nel caldo amore di patria e in quella purità di fede e di costumi, senza di cui sono vane parole i sommi beni di ogni nazione: la libertà e l’indipendenza. Deh! pensate o Sire, che i nostri monti vennero posti da Dio a difesa naturale di quest’Italia, che tanto amate.

E se è proprio degli animi grandi il sollevare chi più di ogni altro geme sotto il peso di un’ inaudita barbarie, le popolazioni italiane del Tirolo hanno pur troppo il diritto d’invocare il possente Vostro aiuto. Esse da trenta e più anni violentemente assoggettate ad un governo tedesco, che con ogni modo di oppressione tentò di cancellare dal loro animo ogni nobile e generoso sentimento, si veggono ora punite coi terrori della legge marziale, solo per avere voluto conservare il più santo diritto degli uomini, il diritto della nazionalità, e per avere sdegnosamente respinte le armi, che a forza si volevano porre nelle loro mani per combattere i fratelli italiani.

O Sire! quelle popolazioni nell’angosciosa situazione in cui si trovano, in Voi ripongono ogni speranza di salute, esse confidano nella spada invincibile di un principe italiano religioso e forte, in quel principe che additava Trento qual ultima città d’Italia, nel magnanimo Carlo Alberto; per esso e per la santa causa che propugna, sono pronte a sacrificare la vita ed ogni altro bene, e quel giorno, in cui dalle loro Alpi, naturali baluardi della patria riunita, potranno proclamarlo loro Re Liberatore, sarà il più bello, il più glorioso della loro vita”.

CARLO ALBERTO

CARLO ALBERTO

I profughi del Tirolo Italiano

Il movimento in favore dell’immediata annessione frattanto si diffondeva e s’ intensificava. A Milano, ove il governo provvisorio centrale era fino a pochi di prima stato d’avviso d’attendere il voto dell’Assemblea costituente, una dimostrazione popolare (12 maggio) induceva il Ministero a prendere una decisione contraria. Lo stesso giorno infatti il governo centrale di Milano con pubblico bando apriva una sottoscrizione in tutta la Lombardia invitando i cittadini a pronunziarsi pro o contro l’immediata fusione cogli stati sardi. E il 15 l’Amministrazione insurrezionale indirizzava al Comitato trentino una lettera ufficiale di plauso (firmata Casati, Borromeo e Correnti) nella quale la legge per l’annessione era cosi illustrata dai suoi stessi autori:

“Voi avrete veduto che nella formula del voto per l’unione immediata si accenna esplicitamente alla liberazione dell’ Italia intera, e alla fusione delle provincie lombarde e di tutti i paesi che vi aderiranno con gli Stati Sardi. Il nostro pensiero correva anche a voi, o fratelli Tirolesi, nel compilare quella formula, e noi ci teniamo sicuri che voi ci troverete una nuova guarentigia delle sollecitudini che di voi ci prendiamo e delle sorti communi (sic) di ogni parte del suolo italiano. Il Governo provvisorio applaude a tutto quello che già avete fatto per la causa italiana e ne piglia augurio di quello che farete in avvenire”.

GIACOMO MARCHETTI

GIACOMO MARCHETTI

Ma senza attendere questa lettera, il presidente del Comitato trentino dott. Giacomo Marchetti, che si trovava allora in Milano, avuta notizia della imminente pubblicazione della legge del 12 maggio, proponeva ai colleghi di Brescia di preparare una dichiarazione particolare di adesione a nome del loro paese.

L’indirizzo, steso dal dott. Angelo Ducati, porta la data del 15 maggio (sebbene sia stato consegnato solo qualche giorno più tardi al Governo di Milano) e reca le firme dei membri più influenti del Comitato:

“Noi pure quantunque profughi cittadini della provincia trentina, ci crediamo in diritto di rispondere al generoso appello che fa questo Governo alle Provincie lombarde …  Noi apparteniamo ad una provincia italiana tuttora sotto il terrore della legge marziale austriaca, e a noi soli, che ne sfuggimmo i rigori, è ora dato di liberamente esprimere il nostro voto … Noi possiamo assicurare che per l’ indole di tutti i nostri concittadini italianissima sempre, pei comuni vincoli d’interessi, di speranze, di desideri che a noi li lega, per l’influenza che nelle particolari nostre condizioni abbiamo esercitato, ed esercitiamo su di essi, il nostro voto può moralmente considerarsi come il voto di tutto il paese”.

Ecco le firme, seguite dalle rispettive qualità come nell’atto: “Dr. Angelo Ducati, avvocato, Assessore municipale, Fabbriciere della Cattedrale di Trento, e primo tenente di quella Guardia nazionale; Dr. Giacomo Marchetti, Capo del già Comitato Provvisorio di Governo in Tione; Dr. Gio. Danielli, assessore comunale, e Deputato stradale del Distretto di Vezzano, Capitano della Guardia Nazionale in Trento; dott. Luigi Segalla, comandante della Guardia nazionale del distr. di Riva; Lorenzo conte Festi, possidente; Conte Manci Presidente dell’Istituto Sociale, assessore municipale e consigliere della Congregazione di carità di Trento; Dr. Alessandro Boni, dottore in legge, candidato d’avvocatura, rappresentante di Tione, segretario del già Comitato provvisorio di governo di Tione, e Tenente di quella guardia civica; Vincenzo Colò dottore in legge, possidente di Biacesa in Val di Ledro, ed impiegato del giudizio di Strigno”.

PONTE CAFFARO

PONTE CAFFARO

L’indirizzo ricorda che i distretti di Condino, di Val di Ledro, di Tione, di Stenico, di Malé hanno all’arrivo dei corpi franchi liberamente e formalmente aderito al Governo provvisorio della provincia di Brescia, e dichiara infine, tenendosi fedele alla formula contenuta nella scheda del plebiscito bandito dal Gabinetto di Milano:

“Che per l’ interesse del nostro paese, come cittadini del Trentino, e nell’ interesse di tutta la Nazione, come italiani, vogliamo fin d’ora l’ immediata fusione delle provincie lombarde cogli stati sardi, e del nostro paese, cioè della provincia trentina, ora costituita dai due circoli di Trento e di Rovereto, non appena sarà libera dall’austriaco, semprecché sulle basi del suffragio universale sia convocata negli anzidetti paesi, e in tutti gli altri aderenti alla suddetta fusione, una comune assemblea costituente, la quale discuta, e stabilisca le basi e le forme di una nuova Monarchia costituzionale colla dinastia di Savoia. Questo voto valido per noi sottoscritti, quand’anche non si possa riguardare quale legale esternazione di tutti i nostri cittadini, che ancora gemono sotto il ferreo giogo del comune nostro nemico, sarà pur sempre un’arra sicura di questa generale adesione”.

ANTONIO GAZZOLETTI

ANTONIO GAZZOLETTI

Presentato ufficialmente questo voto al Governo di Milano, il dott. Angelo Ducati, il conte Lorenzo Festi e l’avv. Antonio Gazzoletti partivano per Valeggio (7 giugno) con un indirizzo al Re, nel quale, dopo avergli resa nota la forma nella quale era seguito l’atto di adesione, lo si pregava di prenderlo in considerazione e gli si chiedeva una parola di conforto e di promessa. Il Re ricevette personalmente i tre delegati, volle essere informato sulle condizioni geografiche del Trentino, sull’ opinione degli abitanti, sui mezzi di sussistenza che avrebbero potuto fornire alle truppe, promettendo poi il suo aiuto; e il conte di Castagneto, primo segretario di Stato, che era presente al colloquio, li assicurò che o per forza di eserciti o per virtù di trattati il Trentino sarebbe entrato nel gran Regno subalpino.

Ad affrettare questo primo plebiscito in favore della casa di Savoia molto aveva contribuito una lettera che Vincenzo Gioberti, già banditore della concezione neo-guelfa, aveva scritto al dott. Timoteo Riboli di Parma, e alla quale si era data una larga pubblicità. In quella lettera il Gioberti dimostrava la utilità della formazione di un forte stato monarchico nell’alta Italia, preparando cosi il proprio trapasso, e il trapasso dell’opinione pubblica, dalle idee federaliste del Primato a quelle unitarie del Rinnovamento ; ma nell’enumerare gli stati e le provincie che dì questo Regno dovevano far parte, tralasciava il Trentino o Tirolo italiano, come si diceva allora.

I profughi trentini, nel leggere quella lettera, ne rimangono dolenti e irritati, e indirizzano al Gioberti una risposta nella quale, ricordando la loro grande venerazione per lui e per le idee rigeneratrici che aveva bandito, si lagnano della omissione, dovuta certo a “semplice accidente” e lo pregano di voler per l’avvenire ” avere a cuore anche i fratelli italiani del Tirolo, giacché ogni sua parola sempre, e adesso più che mai immensamente pesa sulla bilancia dei futuri destini della patria”.

VINCENZO GIOBERTI

Mentre i popoli italiani ansiosamente provvedevano alle loro sorti, l’Austria, minacciata da tutte le parti, coll’ Ungheria in subbuglio, coll’ Italia in rivoluzione, colla propria capitale in fiamme, colle finanze in rovina, si affrettò a pensare ai casi propri, persuasa che solo con qualche rinunzia essa potesse salvarsi ancora dal grande sconquasso di quel momento terribile. Un articolo pubblicato sopra il Diario ufficiale di Vienna, il 2 aprile, aveva già affermato che non conveniva più all’ Impero “l’ unione con uno Stato che non ha cuore per l’Austria”, e che il “conservare Venezia e Milano nelle condizioni attuali d’Europa” apporterebbe “mille volte più mali nel presente e nell’avvenire che non la perdita di quelle provincie”.

Senonché le trattative che di li a poco si aprirono per iniziativa dello stesso governo austriaco poggiarono sopra una base molto più ristretta, e cioè sulla condizione del semplice sgombero della Lombardia dal Ticino al Mincio. Ma il Ministero sardo, al legato inglese che gli comunicava tali vedute dell’Austria rispose (26 aprile) di rifiutare ogni accomodamento che non assicurasse la completa liberazione d’ Italia dalla dominazione austriaca; né meno reciso era il rifiuto che il Governo lombardo opponeva al commissario austriaco, conte Hartig.

ticinesivicari-29320668

Dopo l’insurrezione di Vienna (15 maggio) l’Austria si risolve a più larghe offerte: la Lombardia libera di provvedere ai propri destini, il Veneto dotato di un’amministrazione nazionale e di milizie nazionali sotto la sovranità dell’ Imperatore d’Austria, e con un ministro proprio nel governo centrale della Monarchia: però non una parola che riguardi Trieste o il Trentino. Simili proposte venivano rivolte verso la metà di maggio dal barone di Wessenberg, ministro austriaco degli esteri, a Lord Palmerston, ministro della regina d’Inghilterra, affinché intervenisse nei negoziati.

Lord Palmerston, visto il cattivo esito della sua prima mediazione e considerando ” il gagliardo sentimento di nazionalità maturato negl’italiani„ e i sistemi vessatori che l’Austria avrebbe dovuto applicare al Veneto e al Trentino per conservarli al suo dominio, dichiarava di non poter assumere il nuovo mandato che ad una condizione: e cioè che il Governo austriaco avesse consentito a porre il nuovo confine fra Trento e Bolzano (lasciando cioè il Trentino all’ Italia) e per la Venezia, fra il Tagliamento e il Piave (3 giugno). Ma l’Austria occupava allora con forti corpi di esercito il Trentino e quasi tutto il Veneto fino all’Adige, e perciò non volle rassegnarsi a tanto.

LORD PALMERSTON

LORD PALMERSTON

Nel frattempo Pio IX, per smorzare lo sdegno che la sua allocuzione del 29 aprile aveva suscitato fra gli italiani, si presentava a sua volta come paciere, e verso i primi di maggio spediva da Roma a Ferdinando I monsignor Luigi Carlo Morichini con una lettera, che esortava l’Imperatore d’Austria a rinunziare ai propri possedimenti della Lombardia e della Venezia. Nella lettera non era fatto cenno di Trento; quando però il Morichini verso la fine di maggio passò per Milano, alcuni rappresentanti dei profughi ebbero un abboccamento con lui e lo interessarono a trattare anche per il Trentino.

Senonché il Morichini, recatosi ad Innsbruck per avvicinare Ferdinando I, fu da lui rimandato a Vienna presso il Ministro degli esteri, e questi, appena vistolo, lo congedò bruscamente osservandogli che l’Austria possedeva le provincie italiane in virtù di quei trattati stessi che costituivano il fondamento giuridico del principato temporale della Chiesa.

MONS. CARLO LUIGI MORICHINI

MONS. CARLO LUIGI MORICHINI

Parve un momento, verso la metà di giugno, che le truppe di Carlo Alberto si decidessero, in seguito alle pressioni dei trentini ed anche in considerazione di possibili vantaggi strategici, a passare il confine del Lombardo-Veneto. Il combattimento di Goito (30 maggio) seguito all’insuccesso di Curtatone e Montanara, aveva risollevato gli spiriti, e più ancora aveva animato le speranze dei patrioti l’occupazione delle alture di Rivoli, presso la chiusa veronese, avvenuta il 10 giugno. Questa mossa poteva assicurare all’esercito di Carlo Alberto il passaggio delle sue truppe per la via dell’Adige nel Trentino e tagliare alle milizie austriache riunite a Verona ogni comunicazione verso Ala.

“L’occupazione di Rivoli” – scrivono i governanti di Milano (Borromeo e Guerrieri) ad Alessandro Porro l’11 giugno –  “ci assicura il passo del Tirolo, ed il nemico non può più lusingarsi di operare una ritirata da quella parte”. Nello stesso senso scrive tre giorni dopo a Prospero Marchetti il conte Sigismondo Manci, allora a Milano. E che Carlo Alberto intendesse finalmente rompere gli indugi e di passare sul suolo della Confederazione germanica è provato dal fatto che il 13 giugno, ossia tre giorni dopo l’occupazione di Rivoli, il Manci, il Danieli e il dott. Giacomo Marchetti erano chiamati dal generale Perrone a dare informazioni sulle condizioni topografiche, sulle vie di comunicazione e sui possibili mezzi di rifornimento del Trentino.

250px-Battaglia_di_Goito

Anche all’interno del paese gli animi s’erano alquanto rinfrancati. A Rovereto, alla notizia della vittoria di Goito (30 maggio), si ebbero delle manifestazioni di giubilo che indussero il governo a sfrattare come promotori di esse tre cittadini (due fratelli Dominicatti e un Isnenghi) e ad intimare l’arresto in casa a Giuseppe Botturi.

Assai più imponente fu la manifestazione che gli abitanti di Trento improvvisarono ai prigionieri di Curtatone allorché, ai primi di giugno, essi attraversarono la città. La strada per la quale i volontari toscani passavano, scortati dalla cavalleria austriaca e dai cacciatori tirolesi, era ingombra di popolo. Grida di evviva all’Italia, a Pio nono, a Gioberti si scambiavano fra i prigionieri e la folla, nel fragore degli applausi.

Molte signore trentine, approfittando della fermata del triste corteo, recarono ai compatrioti indumenti, calzature, denari: la borgata di San Martino, sebbene abitata da gente povera, fu larga di ogni soccorso al Montanelli e ai suoi compagni. Ma questo risveglio dì illusioni non durò che pochi giorni. La capitolazione di Vicenza (13 giugno) e l’avanzata dei due eserciti del Radetzky e del Nugent verso Verona sventarono il progetto di invadere il Trentino ed aggiunsero nuove difficoltà alla guerra.

art_3445_1_battaglia Sorio

Perché, in simili condizioni, il Governo provvisorio lombardo non accettò le proposte di pace del Governo austriaco (17 giugno) che assicuravano alla Lombardia, fino all’Adige, l’indipendenza? Per una nobile ragione di patriottismo: il Governo lombardo voleva che tutta la questione italiana fosse posta sul tappeto. A quanto appare dalle lettere che il Porro vergava in quei giorni, il Governo lombardo s’ illudeva di potere almeno ottenere l’abbandono del Trentino da parte dell’Austria, e il gabinetto di Carlo Alberto sembrava dello stesso parere.

Garibaldi, arrivato in quel punto a Milano, era designato ad assumere, in sostituzione del Durando, il comando dei volontari del Caffaro e una deputazione di trentini presieduta da Giacomo Marchetti si recava da lui (18 luglio) e ne otteneva promessa che in tal caso egli avrebbe volentieri colto la prima occasione per avanzare lungo le Giudicarie. Poi, come è noto, l’eroe nizzardo ebbe altra destinazione.

Comunque fin dal 7 luglio Carlo Alberto, vedendo che la guerra prendeva una piega sempre più pericolosa, scrisse al ministro britannico a Torino che avrebbe accettato l’Adige per confine orientale del suo Stato. Senonché l’Austria, imbaldanzita dai suoi successi militari, rassicurata dalle forze preponderanti che teneva nel quadrilatero e tranquillizzata dalla defezione del papa e del re di Napoli, e dall’atteggiamento indifferente assunto dalla Francia, sospese qualsiasi concessione; e le giornate di Custoza (23-25 luglio) le dettero ragione.

Bataille_de_Neerwinden_(1793)

La disastrosa ritirata che ne segui e le gravissime condizioni dell’armistizio Salasco (6 agosto) sono note. Ma i patrioti non avevano ancora dimesso ogni speranza. La legione trentina dal Caffaro, col corpo del Durando, si ritirò a Novara; Giacomo Marchetti, Giovanni Danieli ed altri si rifugiarono a Lugano, ove il 28 agosto arrivava anche Giuseppe Garibaldi fra le acclamazioni del popolo; e Prospero Marchetti, reduce da Francoforte, si recò a Torino a perorare caldamente la causa trentina in occasione delle trattative di pace.

Nonostante la ritirata delle truppe piemontesi oltre il Ticino e i patti disastrosi dell’armistizio Salasco, popoli e governi ancora sognavano che l’Austria si rassegnasse a spogliarsi almeno della Lombardia, e i trentini nutrivano qualche vaga speranza che in tal caso la Lombardia fosse arrotondata colla cessione del Trentino, o che questo ottenesse almeno l’autonomia e lo svincolo dalla Confederazione germanica. Anzi, nella seconda metà d’agosto Prospero Marchetti a nome dei profughi del suo paese presentava un pro-memoria in questo senso al Presidente del Consiglio dei ministri del Re di Sardegna marchese Cesare Alfieri di Sostegno, a Gino Capponi, capo del Gabinetto toscano e agli ambasciatori inglese e francese presso la Corte di Torino.

Il memoriale, riassunte le ragioni strategiche, storiche ed economiche che volevano quella regione riunita all’Italia, lumeggiati i motivi del suo contegno durante la rivoluzione e la guerra, ricordata la lotta parlamentare sostenuta a Francoforte e la legione costituita a Brescia, chiedeva che il Trentino, quando pur dovesse rimaner sotto l’Austria, venisse almeno sciolto dal legame federale che lo riuniva alla Germania e ottenesse un’amministrazione propria e nazionale. Secondo il memoriale, le potenze raggiungerebbero questo intento quando a base delle trattative di pace si ponesse il principio di nazionalità. Una diversa soluzione costituirebbe da sola un pericolo permanente di guerra fra l’Italia e l’Austria.

CESARE ALFIERI DI SOSTEGNO

CESARE ALFIERI DI SOSTEGNO

D’altronde, dato che gli Stati italiani decidessero di formare una federazione coll’intervento dell’Austria, questa avrebbe interesse a parteciparvi col più esteso territorio possibile; mentre agli altri stati tedeschi doveva premere di attenuare l’influenza austriaca nella Confederazione germanica, escludendone parte dei domini austriaci. Ma simili ragionamenti, che si erano già in precedenza chiariti oziosi e vani, non ebbero alcun peso sui negoziati di pace che, come è noto, abortirono.

Unica consolazione dei profughi fu quella di apprendere che un decreto imperiale pubblicato il 24 agosto annunziava la desistenza da ogni procedimento politico e riammetteva tutti liberamente in patria, compresi gli impiegati che si erano allontanati dalla propria residenza e i militari che avevano disertato.

rivoliaaa

I trentini fuggiti nel Veneto nella primavera del 1848 erano in numero forse inferiore a quelli ritiratisi in Lombardia, ma molti se ne trovavano già a Padova o in altre città venete per ragione d’interessi. Questi avevano preso parte attiva alle vicende della rivoluzione, facilitando i rapporti fra il governo provvisorio di Venezia e il Municipio di Trento. La fase iniziale dei moti di Venezia e del Veneto, prima che Carlo Alberto dichiarasse la guerra, era improntata ad una nota di schietto giubilo costituzionale: il proposito di scuotere il giogo austriaco si manifestò qualche giorno più tardi, come una ripercussione delle cinque giornate di Milano. Né diverso carattere aveva avuto, allora, come già, vedemmo, l’agitazione a Trento e nel Trentino.

(Gli impiegati trentini che avevano fatto causa comune coi corpi franchi e che poi avevano cospirato a Brescia o militato fra i volontari erano parecchi: Andrea Deifanti, cancellista al giudizio di Condino; Cosimo Salvotti, aggiunto nello stesso giudizio; dott. Antonio Nicolini, medico distrettuale di Condino; Leopoldo Martini, diurnista del giudizio di Tione; Pietro Martini, cancellista a Malè; Camillo Clauser, attuano a Malè; Giovanni Degasperi, concepista praticante a Cles; Luigi Catterina, giudice a Malè; Vincenzo Colò, impiegato nel giudizio di Strigno. Cosimo Salvotti durante il suo soggiorno a Brescia si faceva chiamare Salvini per non esser creduto parente del famoso inquisitore).

MATTEO THUN

MATTEO THUN

Del singolare stato degli spiriti dei patrioti in quella fugace settimana fa fede la seguente lettera che il conte Matteo Thun di Trento scriveva ai governanti di Venezia, trasmettendo loro i proclami emanati dal Podestà e dal Vescovo:

Trento, 20 marzo.

“I nostri voti sono appagati; un’éra costituzionale ed italiana speriamo che si apra anche per questo alpigiano paese, e noi non abbiamo perso tempo per assicurarci quanto è possibile il conseguimento dei nostri desideri. A S. M. fu nel primo giorno mandata la petizione per l’aggregazione al regno lombardo-veneto; ieri partì l’indirizzo, che l’annunzia alle congregazioni centrali provinciali, pregandole di tener saldo anche per noi. Vi mando una copia dei proclami, ora emessi da questo Municipio, perché conosciate lo spirito che vi regna. Ieri avemmo un movimento che fortunatamente terminò con due sole vittime, e ciò non per opinioni, ma perché la feccia dei contadini minacciava d’invadere i pubblici stabilimenti, le casse, ecc. Stiamo organizzando la guardia nazionale, avendo disciolto la civica, che si era formata nei primi momenti. La coccarda vostra tricolore è accettata da tutto il paese, e rispettata dalle autorità civili e militari. Il contado è tranquillo e spero rimarrà tale. Anche la città ritorna alle sue industrie”.

NICCOLO' TOMMASEO

NICCOLO’ TOMMASEO

Ma fra i veneti e i trentini non tardano a mutarsi le condizioni dello spirito pubblico. Niccolò Tommaseo, allora uno dei capi del Governo provvisorio di Venezia, dirige ai trentini, in data 4 aprile, un proclama in cui è detto: “Pensiamo con sollecitudine al cimento in cui siete: e desidereremmo ne usciste con quella gloria che si conviene al valor vostro. Non è a noi bisogno d’incitare il vostro coraggio, né la vostra umanità consigliare. Saprete combattere; saprete esser generosi col vinto”.

Giovanni Prati, in quei giorni, era già reduce a Venezia dalle peripezie dell’esilio trentino: e il suo nome si associava a quello di altri conterranei colà residenti nella risposta al nobile manifesto:

A Nicolò Tommaseo i Trentini in Venezia.

“Noi vi ringraziamo delle benevole parole che avete indirizzato agli abitanti del Trentino. Nativi di quella terra infelice sopra quante mai l’Austria ha sfortunato colla sua tirannide, noi vi assicuriamo che le vostre parole non saranno gittate. Le ascolteranno nella vendetta e nel perdono. Ei sono frementi d’un giogo che gli opprime insieme ed infama, e soccorsi dagli altri fratelli, ed incitati da tanti sublimi esempi, sapranno scuoterlo da veri figli d’Italia. La vittoria é certa, e noi non dubitiamo che la vittoria farà sventolare la bandiera tricolore dovunque si estende questa lingua. Ma se la vittoria dovesse essere prevenuta dal patto, se l’ inimico tremante vi chiedesse un patto, se un patto si fermasse, oh non ci abbandonate, non ci lasciate esclusi dalla redenzione d’ Italia, esuli in terra italiana.

Ve ne scongiuriamo in nome della comune madre, di Pio IX, nel nome di Cristo invocato da tutte le libertà, nel nome di Cristo che disse « io non vi lascerò orfani, io sarò con voi”. Accolti, e ribenedetti dalla patria comune, non si dirà più che le Alpi sono all’ Italia una siepe mal fida, perché i nostri petti staranno a difenderla”.

Seguivano le firme di: Carlo Vaeni — Giordani Giovanni Nepomuceno — Antonio Serafini — Antonio Cerchi — Sigismondo Tarter — Giuseppe Bazzani — Pietro Benvenuti — Giuseppe Andreis — Costantino e Fedele fratelli Zorzi — Francesco Venturi — Iacopo Mattei — G. Prati — Francesco Serafini — Ferdinando Bassi — Giuseppe Insom — Emanuele Berti — Dott. Domenico Agostini — Giovanni Insom — Giuseppe Dal Lago — Giacomo Giongo Albanesi — Simone Giongo — Giovanni Micheli — Alessandro Marchesi — Gerola Domenico.

PIO IX

PIO IX

Pochi giorni appresso Giovanni Prati pubblicava a Venezia (17 aprile) il suo Cantico futuro, glorificando la rivoluzione e la guerra e ricordando agli italiani la sorte dì Trento e di Trieste:

Gloria al Signor! … Ma il cupido

Scettro Idumeo dimora,

Tu il sai, gran Dio, nell’ ultima

Tua Palestina ancora!

Manca al consorzio santo

Di due fratelli il canto

E tu perfetto il novero

Debbi, o gran Dio, voler.

Oh insigni prenci, oh italiche

Squadre, or temute e grandi,

Pietà di noi. Nel fodero

Non riponete i brandi,

Ché v’aspettiam frementi

Lungo i natii torrenti

Noi, condannati ai vincoli

Di Babilonia ancor!

Pietà di noi! Commoviti,

Carlo, ché è tua la spada:

Tua, loricato arcangelo

Della immortal contrada.

E tu ne compi i fati

Ché i tuoi gran dì son nati;

E il sen ti lista e gli omeri

Il balteo del Signor.

Ma poiché la sospirata liberazione delle Alpi trentine tardava a realizzarsi, il Prati con altri conterranei sollecitava i dirigenti della Venezia ad accogliere nel Governo provvisorio speciali rappresentanti del loro paese, presentando alla Camera della Consulta il seguente indirizzo:

“La città di Trento è sotto la minaccia del cannone austriaco: ma fremente del desiderio di unirsi a voi. Fu certo della vostra sapiente delicatezza il non chiederle consultori con ispeciale mandato; né ella avrebbe potuto inviarveli, senza aggravare i suoi già grandi pericoli. Noi però, figli delle Alpi italiane, possiamo assicurarvi dello spirito generoso e concorde di quel paese che ci ha dato la vita, il quale vi sarebbe legato di profonda e tacita riconoscenza se Voi con moto spontaneo chiamaste nel vostro seno alcuni dei suoi cittadini a rappresentarne i sentimenti e i diritti. Avete l’esempio di Lombardia e più di ogni esempio il vostro intelligente affetto italiano”.

(Prati, G. Mattei, G. Giongo, Dom.co Tom. Larcher, Ferdinando Bassi, Francesco Soverio, Gius.e Pompeati, Giuseppe Insom, Francesco Venturi, Emanuele Berti, Pietro Zanella).

GIOVANNI PRATI

GIOVANNI PRATI

A questo appello dei trentini, presentato il 20 aprile, la Consulta veneta, meno generosa del Governo provvisorio lombardo, rispondeva il 24 aprile che il Tirolo non faceva parte delle provincie venete, e che i ricorrenti non avevano rappresentanza legale per il Tirolo medesimo; era però spiacente di non poter accogliere per il momento quella istanza, della quale ammirava i patriottici sensi. Più tardi i trentini che soggiornavano a Padova e a Venezia sentivano il bisogno di unirsi per propugnare, coll’appoggio della repubblica veneta, le rivendicazioni nazionali della propria regione. In quell’occasione lo storico trentino Tommaso Gar con altri compatrioti, fra i quali Francesco Venturi, Pietro Pedrotti e Giacomo Mattei si recavano (8 maggio) presso Daniele Manin, allora Presidente del Governo provvisorio, e presentavano a lui, il seguente indirizzo:

“Al Presidente del Governo provvisorio della repubblica veneta.

Essendo incontrastabile che la gran causa della indipendenza italiana, iniziata e promossa dal sentimento di nazionalità, non potrebbe dirsi mai vinta, finché una frazione cosi geograficamente e moralmente importante, come è il Tirolo italiano, fosse staccata dal Corpo italico; e trovandosi quest’ ultimo lembo di terra italiana tuttora occupato e compresso dall’ inimico, molti stimabili e generosi abitanti di quell’ infelice paese, sfuggiti all’austriaca sevizie e ricoveratisi nella prossima Lombardia, s’adoperarono e si adoperano con tutte le forze a render più facile e più sollecito l’adempimento dei comuni desideri. Gli sforzi isolati e parchi fatti finora nel Trentino dai corpi franchi non ebbero l’effetto che si aspettava, ad onta della sincera simpatia di quelle popolazioni per la causa comune.

Ora però che il Governo provvisorio di Lombardia e Carlo Alberto riconoscono l’ imprescrittibile diritto dei tirolesi italiani di prendere il loro posto nel futuro consesso della nazione, e la necessità di farlo ad ogni costo valere, e mandano a questo fine schiere regolari ed esperte, una Deputazione di profughi trentini, impazienti di prestare la loro opera in pro della patria, chiese ed ottenne dal Governo lombardo la facoltà di stabilire un Comitato trentino il quale (senza fare atto pubblico di esistenza) rappresentasse il loro paese presso i governi italiani, e organizzasse un corpo franco che, sotto il nome di Legione tridentina, secondi le mosse e fiancheggi e prepari la via alle truppe regolari dei nostri fratelli che entreranno quanto prima nel Tirolo italiano.

I sottoscritti, a nome di tutti i loro concittadini abitanti nella Venezia, pieni di confidenza nella generosità, dei principi del Governo Veneto e nella simpatia che Voi, illustre Presidente ed ottimo cittadino, avete sempre dimostrata per il loro sventurato paese, ricorrono a Voi in tale decisivo momento, affinché concediate anche in Padova l’ istituzione d’un Comitato trentino, tendente al medesimo scopo, e validamente lo proteggiate. Appoggiano la loro domanda ai documenti seguenti, ecc. ecc. (seguono le firme)”.

DANIELE MANIN

DANIELE MANIN

Il Manin accolse la commissione trentina assai cortesemente, e permise che un Comitato trentino fosse istituito in Padova, ma colla stessa limitazione posta dal Governo lombardo, e cioè di non dar pubblici segni di esistenza. Si dichiarò peraltro dolente di non poter fornire le armi per costituire uno speciale corpo di trentini. Uno degli inviati ebbe occasione, nel lasciare l’ufficio del Manin, di abboccarsi col generale Armandi, presidente del Comitato di guerra, il quale gli riferì che per cura del padre Torniello si stava organizzando un corpo di circa 400 uomini avvezzi alla guerra di montagna. Tale reparto si sarebbe spinto a Rovereto per la Vallarsa, al fine di ostacolare la marcia degli austriaci che passando per quella valle volevano ricongiungersi alle truppe del Nugent; in quella milizia potevano essere utilmente incorporati i volontari trentini.

Il battaglione del Torniello doveva partire, secondo le intenzioni dell’Armandi, entro una settimana; e i trentini già studiavano il modo di combinare le sue mosse con quelle dei volontari ammassati al Caffaro (i quali dovevano essere raggiunti dalla legione trentina, allora in formazione a Brescia); quando gli avvenimenti fecero andare in fumo il progetto.

bersaglieri

Il battaglione dei bersaglieri Torniello, posto alla dipendenza del maggiore Pietro d’Azzo, fu pochi giorni dopo ridotto a soli 180 uomini scelti, i quali rimasero fino al 27 maggio a Venezia, presso il forte Marghera, ad istruirsi nel maneggio delle armi, e di li passarono a Treviso. L’ irruzione austriaca nel Veneto aveva infatti costretto a distogliere le truppe destinate a operare su Vallarsa e Rovereto, per impiegarle nella difesa di Treviso e di Vicenza, città allora minacciate dal nemico.

Non per questo si sfiduciarono i trentini, ma con ogni possa si adoperarono al soccorso delle pericolanti sorti di Venezia e dell’Italia. Tommaso Gar, l’insigne erudito di Trento, fu inviato a Parigi con Aleardo Aleardi, colla missione di perorare presso quel Governo repubblicano la causa veneta. La loro opera riuscì inutile perché la Francia, vedendo di mal occhio la possibile costituzione di un nuovo grande Stato ai suoi confini, agiva verso Carlo Alberto e verso i governi provvisori dell’alta Italia con diffidenza e talora con perfidia; e perciò, accortosi il Gar che la Francia stava per sacrificare Venezia con un nuovo trattato di Campoformio, il 9 agosto lasciò Parigi e tornò in Italia.

NUGENT

NUGENT

Né minore è in quel tempo l’attività del bardo trentino Giovanni Prati: egli si agita a Venezia in favore del suo paese, va a Treviso, ove partecipa all’arresto della figlia del Nugent; ritorna a Venezia a propugnare con tutte le forze l’adesione alla monarchia costituzionale di Carlo Alberto.

Questo suo atteggiamento, dopo l’armistizio Salasco, lo compromette talmente di fronte al popolo — nel quale la corrente repubblicana ha riacquistato vigore — che il dittatore è costretto a dargli il passaporto perché si allontani al più presto, come agitatore pericoloso. Giuseppe Francesco Venturi di Avio, è uno dei più entusiasti cooperatori nella formazione del corpo franco padovano, composto in massima parte di studenti ed ex-studenti universitari, fra i quali vari trentini.

Il Venturi è incaricato di recarsi a Vicenza con 50 fucili per raccogliere nuove reclute, ed entra come sergente nella terza compagnia comandata da un fratello di Antonio Gazzoletti. Il Venturi si distingue specialmente nel fatto d’arme di Treviso, ove è nominato tenente per merito di guerra; passa ancora a combattere a Vicenza, e dopo la resa di questa città (13 giugno) si ritira col battaglione volontario “Italia libera” in Lombardia.

Ma oltre ai sunnominati, i trentini che si arruolarono nei corpi veneti e che poi presero parte alla difesa di Venezia sono circa un centinaio: reclutati in parte fra i profughi politici, in parte fra gli studenti dell’Ateneo padovano, in parte fra coloro che per ragioni d’interesse o d’affari risiedevano stabilmente o temporaneamente a Venezia o in altre città del Veneto.

Andreis Giovanni, Avancini Lodovico, Bacchi Domenico e Giacomo, Baldassari Giuseppe, Baroni Pietro, Bassetti, Bellat, Bettí Giovanni, Bleggi Francesco, Bontorin Giovanni, Busetti, Calderari Francesco, Campestrini Leonardo, Canella Antonio e Giovanni, Carli Luigi, Casagrande Giuseppe e Pietro, Chemen Antonio, Ciolli Alfonso, De Anesi, Deluca Carlo, Egger Carlo, Fabbris Giuseppe, Facchini Giuseppe e Pietro, Felicetti Giuseppe, Fontanari Pietro, Francisci Michele, Furlanelli Antonio, Gasperazzo Valentino, Gazzoletti Antonio, Gentilotti Pietro, Gerardi Giovanni, Giselli Francesco, Giongo Giuseppe, Gotha Carlo, Iagher Simone, Isnenghi Francesco, Lambertenghi Andrea, Larcher Filippo, Longhi Carlo, Luca Carlo, Mancini Nicola, Marina, Martini Federico, Martino e Pietro, Mattei Iacopo, Mazzi Vincenzo, Menegatti Giambattista, Moll barone Sigismondo, Nardel Giuseppe, Obber Angelo, Ognibeni Quirino e Giorgio, Olivieri Giovanni, Paccanaro Antonio, Paisan Giuseppe, Pedò, Pedrolli Fortunato, Pedrottí Giovanni, Perotti Giovanni, Raiser Domenico, Ricci Giuseppe, Ricciardini Felice, Ries Giovanni, Sani Giovanni, Santoni Giuseppe, Sardagna Antonio, Somadossi Raimondo, Somariva Luigi, Sottovia Felice, Francesco e Giovanni, Spagolle Eugenio, Stringari Romedio, Svaldi Giovanni, Tappainer, Tessari Antonio, Tomaselli Giovanni, Tommasi Simone, Torelli Giulio, Tranquillini Antonio, Trenti Giuseppe, Tusin Giovanni, Valentini Giovanni, Veli Pietro, Venturi Carlo, Vermidoro Alberto, Vianini Valeriano, Villinzon Giovanni, Zanetti, Zatelli Giuseppe, Zatta Giovanni e Luigi. La maggior parte di questi volontari sono della città di Trento; altri pochi della Val Lagarina e della Val Sugana. Erano sparsi in vari corpi, ma il maggior numero militava fra i cacciatori delle Alpi.

aassddccc

Fra questi volontari trentini furono feriti in combattimento il capitano Federico Martini di Trento, Domenico Benetti di Roncegno e Giovanni Villinzon di Rovereto; e rimase ucciso Giovanni Zatta di Trento.

La Legione trentina  (1848-49)

Assai più notevole che il ricordo delle singole prestazioni e dei singoli atti di valore dei trentini che combatterono nella Venezia, è per il suo significato, per le sue fortunose vicende, per il suo eroico epilogo, la storia della legione trentina, del battaglione bersaglieri tridentini che le si sostituì e del glorioso secondo battaglione dei bersaglieri Manara che cogli avanzi dei bersaglieri tridentini si portò a combattere a difesa di Roma.

rivoli

La formazione di una legione trentina era stata una idea meditata e maturata da Giacomo Marchetti. Non forse i suoi valligiani di Tione, di Bolbeno, di Preore, di Val Rendena avevano contribuito con tutte le forze che poteva dar loro l’esiguità del numero alla insana ma gloriosa impresa di Val di Sole ? Questi stessi militi emigrati e dispersi, e coloro che già s’erano uniti singolarmente alle truppe del Longhena, dell’Arcioni, del Manara per tentare la liberazione del loro paese, e quelli ancora che lavorando in Lombardia e in Piemonte avevano guadagnato, col pane per le loro famiglie, l’affetto per la patria, e infine i molti che si disponevano ad emigrare per unirsi all’impresa dei redentori, erano altrettanti elementi coi quali il Trentino avrebbe costituito un corpo disciplinato e scelto, tale insomma da mostrare all’ Italia la ferma volontà di collaborare nell’opera del riscatto.

Questo pensò il Marchetti e disse ai suoi amici Ducati e Danieli che erano con lui a Milano in quei giorni. E l’ idea, proposta al Governo provvisorio lombardo, ebbe, come vedemmo, favorevole accoglienza. Il Ministero della guerra si impegnò anzi (3 maggio) a fornire le armi e l’equipaggiamento dei volontari, ed assicurò loro l’ordinario trattamento militare.

MANARA

MANARA

Giacomo Marchetti intendeva fare di questa legione un corpo scelto sotto tutti i riguardi. I dolorosi fenomeni di insufficienza, di disorganizzazione e di indisciplina che gli erano apparsi nei corpi franchi lombardi durante i dieci giorni del suo governo provvisorio in Tione erano più che un ammonimento per lui. Egli non intendeva impressionare i concittadini della Lombardia coll’imponenza del numero, ma semplicemente disporne gli animi a favore della causa trentina coll’ordine, la disciplina, la buona condotta in città e al campo, che la legione avrebbe saputo dimostrare. Fin da principio aveva fissato il numero dei militi da arruolarsi a 150: ma questa cifra, come vedremo, fu superata di molto.

Comunque, il Marchetti, il Danieli e il Ducati non perdettero tempo e appena ottennero in via confidenziale l’autorizzazione del Governo milanese a costituire la legione, scrissero, stamparono e fecero affiggere per le vie di Milano e di Brescia il seguente manifesto:

“Ai Tirolesi italiani che dimorano nelle provincie della Lombardia.

Molti vostri fratelli, che presero parte attiva al movimento italiano, hanno dovuto abbandonare le proprie case e famiglie per non esporsi alla vendetta degli Austriaci. Trento si trova in istato d’assedio, e tutte le nostre valli, non eccettuate quelle, che per alcuni giorni godettero dell’Indipendenza, dopo la precipitosa ritirata dei corpi franchi, sono occupate da truppe austriache.

L’Austria cerca di spargere fra gli abitanti del Tirolo tedesco la persuasione, che per dovere e propria salvezza debbono guardare il confine della loro provincia, e si sforza di mettere in allarme la Germania ed in soggezione l’Italia gridando all’invasione del territorio federale germanico. Ma la benedizione, che Pio IX dirigeva a tutta l’Italia, fu data anche al Trentino; il magnanimo Re Carlo Alberto ed il Governo centrale di Lombardia ci danno parola, che non si terrà compiuta la guerra santa fintanto non sia redenta anche l’ Italia Tirolese.

Mostriamoci degni del promesso sostegno. Colle armi alla mano vogliamo rivedere le nostre case, e far sgombrare alfine la comune patria dal nemico, ed assicurarne l’indipendenza.

Si va a formare una legione tridentina, il cui scopo principale è di fiancheggiare ed assecondare le mosse delle truppe regolari, che saranno spedite in Tirolo, e quella legione s’ ingrosserà di mano in mano che si procede nelle nostre vallate.

Fratelli ! La Patria è in pericolo, all’armi ! accorrete tutti !

Il ruolo è aperto a Milano sul corso di Porta Nuova al numero 1492, a Brescia all’Albergo del Cappello.

IL COMITATO TRENTINO

Programma e proclama sono comunicati ai fratelli di Brescia, ove il 4 maggio il Ducati, il Marchetti e il Danieli si recano a fissare d’accordo cogli altri le modalità per l’arruolamento della legione.

Si delibera che il corpo debba risultare composto di volontari scelti, di conosciuta morale e di complessione robusta; che questi debbano impegnarsi al servizio fino al momento nel quale sia “cacciato dalla patria trentina il comune nemico ed assicuratane l’indipendenza col mezzo di presidi regolari” … salva al Comitato la facoltà “di sciogliere la legione in casi straordinari”. Il corpo degli ufficiali potrà costituirsi in consiglio di guerra per punire qualsiasi infrazione a tale promessa. Ad ogni volontario è assegnata una paga giornaliera di lire 1,70: 80 centesimi alla mano e 90 centesimi da impiegarsi nella spesa del rancio, che sarà consumato in comune.

Nessuna differenza di paga fra il primo degli ufficiali e l’ultimo dei gregari: a tutti lo stesso vitto e lo stesso soldo. All’armamento e al corredo dei militi il Comitato si riserva di provvedere, d’accordo coll’intendenza di guerra, colla miglior solerzia, ma intanto giudica opportuno di reclutarli senza indugio per avvezzarli alla disciplina militare ed insegnar loro un po’ di piazza d’armi e un po’ di bersaglio.

1848_erzherzog_johann_eroeffnet_den_reichstag

L’ ing. Virginio Meneghelli — lo stesso che abbiamo trovato a promuovere la spedizione di Val di Sole e poi a lanciare un vivace proclama ai lombardi — è incaricato dei primi arruolamenti insieme con Antonio Catoni di Trento: essi raccolgono a Milano il 6 maggio i primi trenta volontari, con 46 carabine rigate di Berna e conducono a Brescia il primo nucleo del nuovo corpo, che qui si ingrossa subito di altri dieci reclute. Sono spediti ad Edolo Leopoldo Martini e a Vestone il dott. Alfonso Ciolli per cercare nuovi coscritti fra i trentini che hanno passato il confine, e lo passeranno. Al Comitato di guerra di Brescia si chiedono i nomi dei trentini che hanno disertato dall’esercito austriaco e di quelli che hanno prestato servizio in altri corpi, per aggiungerli alla legione. La quale cosi si accresce a vista d’occhio: gli iscritti che il 7 maggio non sono che 43, divengono 59 il giorno 8, 110 il giorno 9, 143 il giorno 12, 161 il giorno 15, e son poco meno di duecento alla fine del mese.

Il Comitato di Milano stabilisce di ripartirli in tante squadre composte di 20 individui circa ciascuna agli ordini di un sottotenente.

Ma con che criterio nominare gli ufficiali e e i graduati ? A norma della loro condizione sociale o della loro capacità militare? Si contavano fra gli arruolati parecchi professionisti, impiegati e studenti, ma il mestiere delle armi era a tutti pressoché sconosciuto. Fu deciso dapprima di adottare il criterio più democratico: e cioè di far eleggere ufficiali e graduati dai soldati medesimi; ma poi gli ufficiali furono nominati dal Comitato (sezione militare) e solo i graduati vennero eletti dalla truppa. Per rinvigorire la legione con elementi esperti nelle armi fu deciso di ammettervi anche qualcuno che non fosse trentino, purché già istruito nel servizio militare.

PARIDE CIOLLI

PARIDE CIOLLI

Quanto agli incarichi speciali, il Comitato cercò di adattarli alle attitudini di ognuno: cosi al dott. Giacomo Marchetti, presidente del Comitato e continuamente in contatto col Governo di Milano, fu affidata l’organizzazione di tutti i preparativi; il dott. Martinelli e il dott. Degasperi furono preposti alla sorveglianza disciplinare del corpo, al meccanico Ferdinando Furlanelli di Trento e al dott. Paride Ciolli, data la loro pratica del servizio militare, toccò l’istruzione di piazza d’armi e quella del tiro; il Meneghelli e il Catoni dovettero pensare all’armamento, all’equipaggiamento e al munizionamento, coll’assistenza di Nepomuceno Bolognini; Pietro Serafini, l’ardito arruolatore giudicariese, ebbe mandato di provvedere il vitto e l’alloggio ai legionari; al Boni e al Colò, assistiti dal Martini, fu commessa la contabilità della legione; il Venini e Alfonso Ciolli tennero l’alta sorveglianza della truppa; don Giambattista Zanella, patriottico prete di Trento, fu incaricato di ravvivare e di approfondire nei militi il sentimento di patria, di provvedere alle loro pratiche religiose, di educarli alla disciplina e al dovere.

Da principio, in mancanza di caserma, ogni volontario era alloggiato individualmente; ciò non pertanto aveva l’obbligo di ritirarsi nella propria abitazione non più tardi delle otto pomeridiane e di alzarsi non più tardi delle cinque al mattino, di presentarsi a tutti gli appelli e di partecipare a tutte le istruzioni. Ben presto fu però provveduto un locale per uso di caserma.

1361964086448ernani1

Una questione molto discussa fu quella dell’uniforme. Era dapprima prevalsa l’idea di dare alla legione l’aspetto di un corpo alpino: giubba alla piemontese di fustagno con mostre verdi, cappello nero alla calabrese e calzoni di fustagno verde scuro filettati in rosso.

Questo modello fu poi modificato per togliere ai volontari trentini ogni apparenza che potesse avvicinarli ai tirolesi. I pantaloni, anziché in verde furono tagliati in una stoffa color grigio misto, con bande rosse, la tunica in panno turchino filettato di rosso, il copricapo fu foggiato alla bersagliera, con pennacchi di cappone o di crine di cavallo; bottoni inargentati, scarpe da montagna, ghette, una borsa di tela incerata a tracolla, una giberna, un corno per la polvere: ecco l’equipaggiamento del legionario trentino. Le tenute degli ufficiali erano tagliate in stoffa più fine, avevano una tunica più lunga con relative spalline e portavano distintivi in argento e piumetti più abbondanti sul cappello. Tale il corredo degli ufficiali e dei soldati: tale almeno in teoria; perché molti fecero parte della campagna col cappello alla borghese, altri non ebbero biancheria di ricambio, parecchi furono raggiunti dai loro rispettivi pantaloni all’accampamento del Caffaro.

Peraltro, tutto considerato, la legione tridentina entrava in campagna assai più in ordine dei corpi franchi che in aprile avevano invaso le Giudicarie; poteva anzi dirsi uno fra i corpi meglio reclutati e vestiti delle truppe irregolari destinate a guardia dei confini.

L’armamento non era però uguale per tutti: chi portava il moschetto e la sciabola, e chi la carabina con relativa baionetta. Gli ufficiali erano armati di squadrone e di pistola. La legione fu provvista anche d’un vecchio cannoncino, servito da due artiglieri.

Né quei buoni patrioti vollero partire senza un fiammante vessillo tricolore che significasse i loro sentimenti e le loro speranze: il drappo portava scritto da una parte a caratteri d’oro il motto: Religione e giustizia e sotto: Legione tridentina.

99eb197ff6611eccaffe912dd21c951e

Cosi vestiti ed armati, i bersaglieri trentini mancavano ancora di un comandante esperto che ne guidasse i movimenti. Quantunque molti di quegli improvvisati ufficiali si fossero già esposti al fuoco, ciò non bastava per confidar loro la direzione di una truppa con mansioni delicate come quelle di esplorazione e di fiancheggiamento. Antonio Gazzoletti che in quei giorni si era riunito agli amici di Lombardia, fu mandato (7-8 giugno) al campo piemontese insieme col Ducati per chiedere un comandante, e questo fu dato più tardi nella persona del capitano Peyrone del 4° reggimento fanteria, il quale raggiunse il 7 luglio al Caffaro la propria compagnia. Nel domandare un ufficiale piemontese come capo della legione i patrioti avevano voluto fare atto di omaggio a Carlo Alberto e porre i volontari trentini sotto i suoi auspici, per incitarlo ad intraprendere la divisata impresa d’invasione di quelle valli.

E che il momento di rientrare nelle loro case colle armi in pugno fosse finalmente giunto, poterono i trentini sperarlo, quando dopo alcuni giorni di incertezza sulla loro destinazione (non si sapeva ancora se la legione dovesse marciare verso il Caffaro o verso il Tonale) essi ricevettero l’ordine di far partire per Anfo la loro avanguardia. La quale, comandata dal sottotenente Nepomuceno Bolognini, mosse da Brescia la notte fra il 14 e il 15 giugno, salutata festosamente dai compagni ansiosi di presto raggiungerli.

AASVBN

Nel giubilo di quella sospirata partenza, partenti e salutanti certamente cantarono: e cantarono quell’inno marziale e dolce, semplice, commovente e solenne, che tutti oggi han dimenticato:

No per dio ché col servo Tirolo

Non vogliam più né lega né patto,

Più col nome di barbaro suolo

No per dio non ci udremo chiamar.

Giunta è l’ora del grande riscatto:

Sfiderem le fatiche e i perigli,

Che d’Italia siam liberi figli

Noi saprem colla spada provar.

Le trombe squillano,

Pronto è il fucile,

La patria misera

Ci chiama a sé;

Di Carlo Alberto

Seguiam le file:

Morte ai Tedeschi!

Evviva il Re!

Dove il vogliono i popoli e Dio

 Segnerem dell’Italia il confine,

Né piú i frutti del suolo natio

Cresceranno a straniero oppressor.

Belle figlie dell’Alpi trentine,

Per quel di che vicino si spera

Preparate la santa bandiera

E un sorriso gentile d’amor.

Le trombe squillano,

Pronto è il fucile,

La patria misera

Ci chiama a sé;

Di Carlo Alberto

Seguiam le file:

Morte ai Tedeschi !

Evviva il Re!

MUSICCC

MUS2

Istitutori della legione: Venini ing. Giuseppe, Marchetti dott. Giacomo, Danieli dott. Giovanni, ufficiale del genio Meneghelli ing. Virginio; cappellani: Zanella don G. Battista, Glisenti don Ludovico; medici chirurghi: Armani Francesco, Pagnoni Romedio; contabili: Boni dott. Alessandro, Colò dott. Vincenzo, Segalla dott. Luigi; Capitano N. N. [più tardi Peyrone Giacomo Giovanni]; Primo tenente Ciolli dott. Paride; sergente foriere Branca Luigi; magazziniere Veneri Leopoldo; alfiere Bonazza Beato; trombetti: Vedovelli Francesco, Tommasi Giuseppe, Marinolli Carlo; zappatori: Filosi Giambattista, Trolla Isidoro, Zanoni Giovanni e Giacomo ; cannonieri Bernardelli Bortolo e Flessati Pietro: conduttore dei furgoni Bonazza Luigi. — Prima squadra : sottotenente Degasperi Giovanni, sergente Martinelli Gian Andrea, caporali: AmIstadi Bernardo e Fava Giuseppe; gregari: Agosti Costantino, Albertini Paolo, Angeli Carlo, Caproni Pietro, Casna Giovanni, Chinetti Valentino, Cici Giacomo, Dalpiaz Bortolo, Gaggia Carlo, Marzadri Maurizio, Pedrotti Giovanni, Salvini Antonio, Sartori Giambattista, Tevini Celeste e Giuseppe, Todeschini Pietro, Zorzi Alessandro. Seconda squadra: sottotenente Martini Leopoldo, sergente Serafini Pietro, caporali Anselmi Giovanni e Cicolini Giovanni, gregari: Anselmi Pietro, Belli Pietro, Bonazza Giosuè, Cattarina Giovanni, Collini Bortolo, Daprà Giambattista, Franzoi Stefano, Garbaini Domenico, Giovanella Giovanni, Matelli Giovanni, Quarta Giambattista, Ruati Pietro, Salvagni Giacomo, Vedovelli Bortolo e Florindo, Zoanetti Pietro. — Terza squadra: sottotenente Lugo Antonio, sergente Pederzolli Bernardo, caporali Fedrizzi Luigi e Colotti Noè, gregari: Andreolli Paolo, Bella Giambattista, Bertolini Giovanni, Bleggi Carlo, Ciotti Giovanni, Clauser Pietro, Ferretti Giambattista, Filosi Francesco, Graziadei Daniele, Maja Giovanni, Monti Antonio e Luigi, Pizzini Pietro, Podetti Giuseppe, Prandini Giacomo, Raimondi Antonio, Scaja Giacomo. — Quarta squadra: sottotenente Catoni Antonio, sergente Serafini Antonio, caporali Morelli Giuseppe e Garbari Eliseo, gregari: Antonini Bortolo e Domenico, Baldracchi Pietro, Ballardini Pietro, Boninsegna Gerolamo, Busetti Valentino, Filosi Bortolo, Galante Pietro, Giuliani Teodoro, Glisenti Ottavio, Magagna Pietro, Manfredini Camillo, Poletti Pietro, Prandini Antonio, Remondini G. Battista, Zampedri Marco, Zanella Bortolo. — Quinta squadra: sottotenente Rinaldi Pietro, sergente Anselmi Luigi, caporali Sani Celso e Valentini Giacomo, gregari: Armani Daniele, Bella Giovanni, Baldracchi Bortolo, Bonapace Giuseppe, Brandoligio Pietro, Ghezzi Antonio e Giovanni Antonio, Martinelli Pietro, Mativi Matteo, Mazzoni Antonio, Negroboni Pietro, Passardi Giuseppe, Postingher Simone, Sterebele Giacomo, Stoll Giuseppe, Tornarolli Martino, Viviani Viano. — Sesta squadra : sottotenente Bolognini Nepomuceno, sergente Bolognini Celso, caporali Andreolli Luigi e Bond Simone, gregari: Amistadi Giovanni, Baldracchi Carlo, Boldrini G. Battista. Bonazza Martino, Franceschetti Giuseppe, Franzoi Filippo, Giacometti Giovanni, lob Giovanni. Mariani G. Battista, Oliana Gregorio, Righi Donato, Rosa Giacomo, Santolíni Bortolo, Stefani Giuseppe, Tavelli Giacomo, Tolettini Pietro, Vedovelli Felice. — Settima squadra: sottotenente Cardani Gioacchino, sergente Cova Giuseppe, caporali Galli Luigi e Greppi Luigi, gregari: Belloni Pietro, Brida Annibale, Coelli Gaspare, Comelli Alessandro, Corbella Gaetano, Franchini Pietro, Furlanelli Ferdinando, Galli Romeo, Marcionni Vincenzo, Medolago Guglielmo, Mojola Adamo, Pace Francesco, Papa Pietro, Rainoldi Francesco, Riva G. Battista, Rivolta Francesco. Sambuga Pietro. — Ottava squadra: sottotenente Battioli Paolo, sergente Scopoli Carlo, caporali Bigatti Carlo, e Girola Giuseppe, gregari: Andreolli Valeriano, Beltemacchí Carlo, Bevilacqua Achille, Biancardi Guglielmo, Bolognini Tertullíano, Bussi Antonio, Defederici Gaetano, Defrancesco Gregorio, Giorgi Antonio, Mazzi Giuseppe, Peduzzi Domenico, Risatti Saba, Viglezzi Pietro, Villa (due fratelli). — Nona squadra: Sottotenente Ciolli Cesare, sergente Peduzzi Giovanni, caporali Pontalti Simone e Galazzini Modesto, gregari: Bergna Carlo, Bertelli Pietro, Bodio Paolo, Capoferri Francesco, Cassoni Giacomo, Graffemberg Giovanni, Lazzarini Giovanni, Mora Pellegrino, Paisan Giuseppe, Pasquali Antonio, Passardi Francesco, Peretti Felice, Pivio Martino, Salvadorí Ferdinando, Scandolari Giuseppe, Simoni Giacomo, Vielmettí Bernardo. — Decima squadra: sottotenente N. N., sergente N. N., caporali N. N., gregari: Bruni Vitale, Bussola Serafino, Dalduca Gervaso, Falchi Ludovico, Fedrigoni Vincenzo, Festi Girolamo, Garganini Giuseppe, Gennarí Domenico, Grandi Carlo, Marchetti Fioravante, Parolini Cristoforo; Pedretti Giacomo, Quarta Martino, Rattini Giovanni, Righi Giuseppe, Tajanna Giuseppe, Tonini Domenico, Tranquillini Giuseppe. Oltre a questi si arruolarono, dal 17 giugno in poi: Marchetti Francesco, Siori Pietro, Antonini Domenico, Tonesi Angelo, Pernisi Felice, Festi Valentino, Baldi Massimo, Zenatti Angelo, Girardini Simone, Buffa Giovanni, Tabacchi Carlo e Tito, Zancani Camillo, Rinaldi Pietro, Defrancesco Virgilio, Rocchetti Francesco, Bertolini Giovanni, Scolari Giacomo, Zucchelli Iacopo, Santoni Giuseppe, Serafini Giulio, Bettinazzi Eligio, Fontana Ermenegildo, Broglia Antonio, Mastrello Girolamo, Ribello Luigi, Canazza Luigi, Gastaldo Francesco, Capello Agostino, Moggi Giuseppe, Piacenti Giuseppe, Bianchi Giambattista, Fava Domenico, Carli Luigi, Bertoli Francesco, Bonazza Ignazio, Filagrana Gerolamo, Baldessari Giuseppe, Veneri Leopoldo, Vedovelli Francesco, Bonazza Luigi, Peyrone Giacomo Giovanni (capitano della legione).

La legione era arrivata in quei giorni alla forza di. 237 uomini. Di quelli che allora e anche più tardi vi parteciparono (in numero di 270) 220 erano trentini e 50 di altre provincie italiane. Fra i trentini 63 appartenevano alla valle del Chiese, 42 all’alta valle del Sarca (compresa la Val Rendena e il distretto di Stenico), 32 alla valle di Sole, 23 alla città di Trento ed immediate vicinanze, 14 alla bassa valle del Sarca, 10 alla valle di Non, 10 alla Val Sugana e Val di Primiero, 9 alla Val Lagarina (compreso  Brentonico), 6 alla val di Ledro, 3 all’alta valle d’Avisio, (Fiemme e Fassa), 8 a località non determinate.

Battaglia_della_Sforzesca_di_Fattori

Il più gran contingente dei legionari era dato dal popolo delle campagne: il che torna a sommo onore del patriottismo di quel paese, ove si pensi che la rivoluzione italiana fu quasi esclusivamente opera delle classi cittadine e borghesi. Dei 220 legionari trentini ben 108 erano reclutati tra i lavoratori dei campi (molti dei quali — circa 35 — esercitavano l’ inverno il mestiere di segantini in Piemonte e in Lombardia); altri 36 erano operai, 30 fra professionisti, possidenti, preti e studenti, 10 negozianti, 3 domestici, 8 impiegati dell’Austria, 10 di occupazione non precisata; 15 si erano arruolati dopo aver disertato la bandiera austriaca.

Il sottotenente Nepomuceno Bolognini era stato spedito prima degli altri al Caffaro con 20 uomini già armati presi da varie squadre, per poter fornire al quartier generale del Durando uomini pratici dei luoghi per le ricognizioni. Il Bolognini, accompagnato dal Venini, si fermò in Anfo, ove era alloggiato il generale Durando col suo stato maggiore.

Non appena giunte le armi e le tuniche ordinate, ossia il 22 giugno, partono da Brescia altri 135 uomini, diretti a Preseglie e ad Idro agli ordini del primo tenente Paride Ciolli; 58 uomini partono ancora il primo luglio; infine gli ultimi 17, agli ordini del tenente Rocchetti, lasciano la caserma di Brescia il giorno 8 dello stesso mese. Al Caffaro la legione è così distribuita: il grosso della sua forza (da 130 a 140 uomini) è collocato sul monte Stino presso Hano, ad oriente del lago Idro, mentre un reparto di circa 80 uomini, guidato dal Rocchetti, è distaccato a Sant’Antonio ad occidente del lago, in vicinanza della legione polacca.

caffaro3

I militi trentini, giunti al Caffaro dopo un mese e mezzo d’impaziente attesa a Brescia, si illudono di potere alla fine prestare utilmente la loro opera a pro della patria: sperano imminente l’avanzata delle truppe del Durando e vedono già vicino il momento di raggiungere il loro paese redento. Ma l’attesa che era già stata cosi impaziente a Brescia, diviene atroce tortura quando essi vedono disegnarsi sul cielo le loro amate montagne, e debbono rassegnarsi a coadiuvare le altre truppe in quel passivo compito di osservazione del confine, nel quale da ben due mesi si esauriva l’abnegazione dei volontari. Passano i giorni, passano le settimane, e la situazione non muta.

Solo il distaccamento di Sant’Antonio verso i primi di luglio è unito ai volontari del Manara e ai polacchi per una ricognizione fino al ponte Dazio; ma le truppe austriache accampate a Storo e a Condino non accettano battaglia. Di quando in quando qualche legionario in abito da contadino è spedito nelle valli in cerca di notizie: il che sembra scarsa soddisfazione ai nostri volontari i quali si sono organizzati come truppa mobile per il servizio di esplorazione in un movimento offensivo.

Fin dal 27 giugno, ricevendo l’ordine di occupare il Monte Stino e di restare a guardia di quella posizione, il primo tenente Paride Ciolli aveva in forma rispettosa, a nome di tutti gli ufficiali, protestato presso il comando. Ma questa protesta non ebbe effetto e il capitano Peyrone, arrivato a sua volta il 7 luglio a Monte Stino ed assunto il comando della legione, non poté avere per la sua truppa destinazione migliore.

Ciò nonostante le file della legione si addensano di reclute sempre nuove accorse dal Trentino: la voce che l’Austria stia per aggravare gli obblighi di leva, la fama stessa del nuovo corpo regionale pervenuta a Trento e nelle valli, induce molti giovani a passare il confine e ad arruolarsi. Alla fine di luglio la legione ha una forza di circa 250 uomini, ed è divisa in due compagnie, comandata ciascuna da un tenente (Paride Ciolli e Rocchetti).

Del resto, il corpo di osservazione del generale Durando si è andato accrescendo di continuo, e ha raggiunto in luglio una forza di tre o quattro mila uomini. Verso la metà del mese gli austriaci si ritirano, abbandonando Darzo, Storo e parte della val di Ledro. Sembra questo ai volontari il momento opportuno per avanzare: ma il generale Durando, venuto a sapere che a questa ritirata apparente corrisponde una concentrazione delle forze austriache in Val d’Adige per appoggiare le mosse dell’esercito principale, non ritiene prudente di abbandonare il contatto colle truppe di Carlo Alberto e di avventurarsi fra quelle gole.

schleswig-holstein-1864-granger

Segui infatti l’ urto temuto: il 26 luglio fra i volontari del Caffaro si sparse la triste novella della sconfitta di Custoza e poi quella della ritirata di Carlo Alberto. In tali frangenti il Governo di Milano e il quartier generale sardo ordinavano al Durando di scendere dal Caffaro a proteggere Brescia, mentre un corpo nemico intraprendeva l’assedio di Peschiera ancora occupata dai nostri.

In esecuzione di questo comando il generale col grosso delle truppe si ritira fra Salò, Vobarno, Brozza e Nozza: posizione che gli permette di tenersi in comunicazione colla Rocca d’Anfo (nella quale ha lasciato un presidio), con Brescia e colle truppe assediate in Peschiera; e gli lascia al tempo stesso una via libera di ritirata nel Piemonte o nella Svizzera. La legione trentina staziona col grosso fra Vestone e Vobarno e qui rimane in attesa degli eventi fino al 7 agosto. Quel giorno ha luogo a Lonato uno scontro fra i volontari del Manara, del Borra e del Kamienski e l’ala destra dell’esercito austriaco, ma la legione trentina non vi partecipa.

GENERALE GIACOMO DURANDO

GENERALE GIACOMO DURANDO

La notizia della resa di Milano riduce i volontari al colmo dello sconforto e dell’avvilimento. Ormai non v’ha più scampo che in una ritirata onorevole oltre il Ticino o nel territorio elvetico. Senonché le truppe austriache in marcia verso il confine piemontese sembrano averla definitivamente tagliata. Il Durando tuttavia non si perde d’animo: il giorno 11 muove verso Brescia, e il 13 verso Bergamo. Qui l’avanguardia dei volontari, agli ordini del Manara e del Borra, giunge ad occupare la città alta prima dell’arrivo degli austriaci, il che permette al Durando di ottenere dal loro comandante Schwarzenberg onorevoli condizioni di ritirata.

Fra i deliranti applausi della popolazione bergamasca ripartono i volontari trentini colle truppe lombarde il 14 mattina. Arrivano la sera di quel giorno a Merate, il giorno seguente a Monza, donde il 17 riprendono la marcia per Lagnano, Gallarate e Sesto Calende. La sera del 19 le truppe del generale Durando, e con esse la legione trentina, attraversarono il Ticino e il giorno seguente si riunirono in Oleggio ponendo termine a quasi un mese di peripezie e di ansie continue.

Il 23 agosto col resto delle milizie la legione entrava in Novara, ove tra la fine d’agosto e il settembre, avuta notizia dell’amnistia concessa dall’Imperatore Ferdinando, in gran numero i volontari si congedavano per far ritorno alle loro case.

Vari trentini però rimanevano in Piemonte ad attendere tempi migliori, e costoro riuniti ad altri compatrioti prima appartenenti a differenti colonne di volontari e a vari che per ragioni economiche e politiche erano emigrati dai loro paesi, costituivano il primo nucleo del settimo battaglione bersaglieri che durante l’armistizio era organizzato come parte integrante della divisione lombarda.

Quel battaglione si chiamò appunto il battaglione dei bersaglieri tridentini, non perché fosse composto interamente di trentini, ma perché esso discendeva direttamente dalla legione trentina, perché trentino era il pugno di uomini intorno al quale si venne costituendo, perché trentini erano buona parte degli ufficiali e dei graduati.

colll

Al 15 settembre la legione trentina si trova, in seguito ai congedi, ridotta a 66 uomini, nei giorni successivi a una forza anche più esigua. Un decreto in data 8 settembre 1848 ricostituisce i corpi volontari su nuove basi ed organizza una divisione lombarda della quale fa parte anche il costituendo battaglione dei bersaglieri tridentini. Questo battaglione, del quale è nominato maggiore il Venini; e cioè uno degli organizzatori della legione trentina, non comprende in origine che una compagnia di un centinaio di uomini comandati dal Venini e da ufficiali della vecchia legione (Bolognini, Colò, Battioli, Rocchetti, Sardagna).

BOLOGNINI

BOLOGNINI

Ma verso la fine di dicembre, prevedendosi vicina la guerra, il corpo si arricchisce di nuovi ufficiali e di nuove reclute prese da vari corpi o arruolate di fresco: i bersaglieri trentini (che formano un corpo misto colla guardia nazionale mobile bergamasca) e che frattanto si vengono istruendo alla disciplina e al tiro al bersaglio, sono già 145 il 4 gennaio, 220 il 9 gennaio, 256 il 14 dello stesso mese. Il nuovo battaglione adotta una uniforme simile a quella dei bersaglieri piemontesi ma (almeno fino alla riapertura delle ostilità) conserva ancora la denominazione di legione trentina accanto a quella di battaglione bersaglieri trentini, e fors’anche mantiene l’antica bandiera della Legione.

Il 20 marzo il corpo si scinde di nuovo in due compagnie, che si denominano 25^ e 26^ compagnia bersaglieri: esse hanno in complesso una forza di 450 uomini, dei quali circa cento trentini. Erano certamente trentini i seguenti : maggiore Giuseppe Venini (nato a Milano, ma residente a Tione), cappellano Glisenti don Ludovico, tenente quartiermastro Colò dott. Vincenzo, sottotenenti: Rocchetti Francesco, Sardagna Giambattista, Martini Leopoldo, Bolognini Nepomuceno ; furier maggiore Serafini Antonio; sergenti : Martinelli Andrea, Anselmi Luigi, Gezzi Camillo e Dionigio, Mezzena Angelo, Callovini Alessandro ; caporali: Demattedi Francesco, Vallandro Giuseppe, Rattini Giovanni, Zorzi Antonio, Pontalti Simone: caporal trombettiere Rosa Gerolamo ; sottocaporali De Federici Gaetano, Gezzi Socrate ; soldati: Baroncini Faustino, Bassetti Domenico, Bianchi Ciro, Bonelli Angelo, Bugoloni Isidoro, Canins Lodovico, Caproni Pietro, Colò Celestino, De Federici Gaetano, Delana Giovanni, Festi Agostino, Festi Valentino, Giacomini Lorenzo, Gioppi Giuseppe, Giorgi Carlo, Girardini Simone, Herter Carlo, Malacarne Serafino, Marinolli Carlo, Moia Francesco, Motter Valentino, Muller Carlo, Negri Ermete e Edoardo, Olivieri Giuseppe, Oss Pietro, Paini Agostino, Parolari Luigi, Pasini Andrea, Pedretti Giacomo e Stefano, Pivio Martino, Raiffler Giovanni, Sartori Luigi, Siori Pietro, Sterchele Giacomo, Stolti Giuseppe, Tassainer Cristiano, Tenni Giacomo, Togni Mosè e Simone, Tommasi Giovanni, Torresani Giuseppe, Triangi Giuseppe, Varesco Francesco, Vedovelli Bortolo, Vescovi Pietro, Vielmetti Bernardo, Zamboni Battista, Zanella Bortolo, Zorzi Alessandro. Ma oltre ai già elencati, molti altri lasciano sospettare la loro nascita trentina, la quale non è facile ad accertarsi, poiché il ruolo del battaglione, dal quale togliamo questi nomi, non contiene l’indicazione della patria dei militari.

Ecco in ogni modo, un elenco di volontari che, dal loro cognome, possono essere ritenuti, con qualche probabilità, trentini: Albertini Angelo, Barbi Giovanni, Bassani Angelo, Battaglia Pietro, Giovanni e Giambattista, Beffa Carlo, Beltrami Giacomo, Benoni Gaetano, Bergamini, Giuseppe, Berti Giovanni, Bertolini Carlo, Bini Giovanni Caprini (o Caproni) Pietro, Carelli Domenico, Chiesa Giovanni, Comboni Bortolo, Danielli Livio, Dematteci Francesco, (caporale), Duca Pietro, Fanti Antonio, Ferrari Ferdinando, Ferri Carlo, Franchi Pietro, Gamba Luigi, Giorgi Carlo, Giudici Francesco, Grandi Antonio (sergente), Haher Giovanni, Linger Giacomo, Longhi Enrico, Lorenzini Giuseppe, Manenti Giuseppe, Mantovani Francesco, Marchiori Giovanni, Marconi Salvatore, Martinelli Angelo e Gaetano, Mattei Benedetto (furiere), Miller Sebastiano, Molinari Gaetano, Mora Edoardo, Nani Anselmo, Nogara Giovanni, Oliva Luigi, Olivieri Giulio (sergente), Pagani Fermo, Palla Giovanni, Piazza Giuseppe, Polini Agostino, Polli Achille, Porta Giuseppe, Pozzi Giosuè, Ricci Angelo, Riva Angelo, Romani Luigi (sergente), Rossi Giuseppe, Sala Giovanni, Luigi e Nabore, Salvetti Giuseppe, Sidoli Giovanni (caporale), Speranza Marco, Strada Luigi (sergente), Taborelli (o Tabarelli) Giambattista, Tommasi Gaetano, Tosetti Pietro, Volpi Cesare (caporale), Zanetti Giovanni, Zanini Achille.

GIROLAMO RAMORINO

GIROLAMO RAMORINO

Al riaprirsi della guerra la divisione lombarda, e con questa il battaglione bersaglieri tridentini, si trova intorno ad Alessandria. Il battaglione partecipa, agli ordini del generale Ramorino, a quegli infelici movimenti della divisione che dovevano dar luogo all’ insuccesso di Mezzana Corte e poi alla subitanea e irreparabile catastrofe di Novara. Però il corpo non intervenne nel combattimento della Cava (20 marzo), ove il battaglione Manara fu votato a un inutile sacrificio. I bersaglieri trentini erano destinati ad attendere il Manara e i bersaglieri studenti sulla riva destra del Po, ma arrivarono qui da Casteggio soltanto alle 7 e tre quarti della sera del 20, troppo tardi cioè per poter spiegare un’azione qualsiasi.

Il 23 marzo l’esercito piemontese era completamente sconfitto a Novara e la divisione lombarda, della quale il 21 aveva ottenuto il comando il generale Fanti, era costretta a ripiegare. Il 24 marzo infatti la divisione muove verso Casteggio, Voghera e Tortona, mentre una compagnia di bersaglieri trentini è lasciata col maggiore Venini e con 20 cavalleggeri di guardia al ponte di Mezzana Corte per proteggere le spalle della divisione lombarda contro un possibile attacco, e un’altra è mandata a Casteggio. Della compagnia distaccata presso il fiume, una squadra di 20 uomini è inviata con un picchetto di zappatori a distruggere i ponti di Rea e di Bastida. Il battaglione è poi spedito a Valenza, mentre la divisione prosegue nella marcia di ritirata.

Giunge frattanto la notizia dell’abdicazione di Carlo Alberto e della sospensione della guerra: i volontari lombardi, temendo di rimanere alla mercé dell’Austria, e non facendo grande affidamento sulla promessa d’amnistia data da questa, chiedono dal Governo piemontese un tacito assenso di sconfinare: e il Governo, nel timore che i volontari possano recarsi a Genova ad aiutare l’insurrezione colà scoppiata, non ha difficoltà ad aderire.

I bersaglieri trentini, seguendo l’ordine di marcia della divisione, arrivano il 28 marzo da Valenza a Sale, il 29 a Ponte Curone, il 1° aprile a Rivanazzano, il 2 a Varzi e il 3 a Bobbio. Il tragitto si compie in mezzo a difficoltà inaudite: i volontari, sprovvisti di viveri e d’indumenti, flagellati dalla pioggia e dalla neve, sono decimati dalla stanchezza, dalle malattie, dalle numerose diserzioni.

9266467

A Bobbio, come era convenuto col governo piemontese, la divisione è dichiarata ufficialmente sciolta, ma i vari reparti che la compongono passano l’Appennino e sono distribuiti sulla spiaggia del Tirreno, da Santa Margherita a Lerici: il battaglione bersaglieri tridentini, il 22° reggimento fanteria e i cavalleggeri si fissano per qualche giorno alla Spezia, in attesa di poter portare il soccorso delle loro armi alla Toscana o a Roma.

Dopo circa due settimane di aspettativa (i militi erano soddisfatti di paga dal Piemonte per un mese) giungeva finalmente alla Spezia l’ufficiale Caloandro Baroni con quattro brigantini procuratigli a Livorno dal Lemmi, inviato della repubblica romana. Su questi brigantini salpano infatti per le spiagge del Lazio, il 24 aprile, muniti di mezzi pecuniari e di regolari passaporti dal Governo sardo, i tridentini col terzo battaglione del 22° reggimento. Ma giunta la spedizione di fronte a Livorno, il comandante di una nave da guerra francese ancorata in quel porto, allegando falsamente di agire per conto dei governi sardo e toscano, oltreché della repubblica francese, intimava ai volontari di fermarsi e li riconduceva in Liguria.

Senonché due dei quattro brigantini, passati davanti a Livorno una mezz’ora prima degli altri, riuscirono col favore della notte e del maltempo a sfuggire a quella strana persecuzione: ed essi avevano a bordo appunto il battaglione bersaglieri tridentini e la 10^ compagnia del 22° reggimento.

Questi reparti poterono sbarcare due giorni dopo a Orbetello, quindi recarsi a Viterbo e di qui, sotto la guida del capitano Caloandro Baroni, che da Roma si era recato ad incontrarli, penetrare nell’eterna città l’8 maggio.

E con ciò finisce la storia del battaglione bersaglieri tridentini. Il 12 maggio i suoi avanzi (circa 250 uomini) e la 10^ compagnia del 22° reggimento (cui s’aggiungono poi gli studenti napoletani) sono destinati a formare un nuovo battaglione, ossia il secondo del reggimento bersaglieri lombardi, agli ordini del capitano Baroni, promosso maggiore, e del colonnello Luciano Manara.

I superstiti del battaglione tridentino formano la 5^ e la 6 compagnia del reggimento: in queste compagnie non sono rimasti che 60 trentini circa, in buona parte graduati.

Anselmi Luigi (sergente) di Fondo, Bassetti Domenico di Lasino, Bertelli Pietro di Preore, Bonelli Angelo, Bugoloni Isidoro di Tenno, Calovini Alessandro, Coelli Gaspare di Malé, Collini Bortolo (sergente) di Val Rendena, Dalduca Gervaso di Tione, De Federici Gaetano di Lodrone, Delana Giovanni delle Giudicarie, Erter (o Herter) Carlo di Valle di Non, Festi Agostino di Rovereto, Festi Valentino di Bolbeno, Gezzi Camillo (sergente) di Trento, Gezzi Dionigi (sergente) di Trento, Gezzi Socrate (furiere) di Trento, Giacomini Lorenzo, Gioppi Giuseppe della bassa Val Sarca, Lorenzini Giuseppe di Chizzola, Marinolli Carlo di Dimaro, Mezzena Luigi (sergente) di Val di Sole, Moja Francesco, Motter Valentino di Pergine, Negri Ermete di Calavino, Negri Edoardo di Calavino, Olivieri Giuseppe di Trento, Oss Pietro di Zavà (Pergine), Parolari Luigi, Pasini Andrea, Pegolotti Agostino di Cogolo, Pivio Martino di Strigno, Ratini Giovanni di Canal San Bovo (caporale), Rosa Giacomo di Condino, Rota Carlo di Trento (della 7a compagnia), Sartori Luigi, Serafini Antonio (furier maggiore) di Preore, Siori Pietro di Bolbeno, Sterchele Giacomo di Casolto di Levico, Tassainer Cristiano di Palù, Tommasi Giuseppe di Tione, Triangi conte Giuseppe di Trento, Togni Simone, Vallandro Giuseppe (sergente), Vedovelli Bortolo di Val Giudicarie, Zanella Bortolo di Arnago, Zorzi Alessandro di Rumo.

Ai nomi segnati potrebbero aggiungersene forse altri, ma i ruoli del battaglione sono pieni di errori di ortografia, e per giunta non portano il luogo di nascita dei singoli volontari. Ecco, comunque, qualche altro volontario che con probabilità si può ritenere trentino : Albertini Angelo, Baroncini Faustino, Bassani Alessandro, Beltrami Giacomo, Benoni Gaetano, Berti Giovanni, Bini Giovanni, Chiesa Giovanni, Comboni Bortolo, Danielli Clelío (o Livio) Demateli Francesco, Ferri Carlo, Franchi Prosdocimo (o Pietro), Gamba Antonio (o Luigi), Giorgi Carlo, Giudici Francesco, Grandi Antonio (sergente), Linger Giacomo, Longhi Enrico, Lorenzini Giuseppe, Manenti Giuseppe, Mantovani Francesco e Gaetano, Marconi Salvatore, Molinari Gaetano, Nogara Giovanni, Pagani Fermo, Palla Giovanni, Polli Bernardo, Porta Giuseppe, Rainik Daniele, Romano Luigi (sergente), Rossi Giuseppe, Sala Luigi e Giovanni (o Giuseppe), Taborelli (o Tabarelli) Giambattista, Tommasi Gaetano, Volpi Cesare.

Seguiamo brevemente le vicende delle due compagnie. Il 13 maggio, il reggimento Manara si recava ad occupare gli avamposti di Monte Mario. La 5^ e la 6^ compagnia erano spedite in ricognizione lungo la strada che conduce al fosso d’Acqua Traversa, ove scambiavano le prime fucilate coi francesi.

Bataille_de_Neerwinden_(1793)

Pochi giorni dopo entrambe partecipavano col proprio reggimento alla spedizione contro i napoletani, ed arrivavano in tempo, sul fare della sera del 19 maggio, a prender parte all’assalto di Velletri: di qui, coll’avanguardia di Garibaldi, marciavano verso Frosinone contro le truppe del generale Zucchi. All’attacco di Rocca d’ Arce (27 maggio), nel quale intervengono dopo una lunga e faticosa marcia notturna, i bersaglieri tridentini sono posti in riserva sul piazzale sottostante alla città: avvenuta la presa di quella località, in seguito a notizie allarmanti giunte da Roma, retrocedono nella notte stessa sino a Ripi, e poi a Frosinone e ad Anagni, rientrando a Roma il 1° giugno.

Importantissima la missione della ex-legione trentina nella battaglia di San Pancrazio, il 3 giugno. Intanto che il Manara coi suoi valorosi compagni combatte da eroe al casino dei Quattro Venti, la 5^ e la 6^ compagnia, agli ordini dei capitani Luigi e Pietro Strambio e degli ufficiali Bondurri, Fernelli e Zambelli, sono inviate col loro maggiore verso la chiesa di San Pancrazio, ad occupare i vigneti all’esterno della via di circonvallazione. I bersaglieri avanzano verso quella posizione, noncuranti del fuoco del nemico; alcuni di essi, fra i quali il capitano Pietro Strambio, cadono feriti.

Nel pomeriggio, mentre il Manara esce dal Vascello per investire la villa Valentini, la 6a e la 7a bersaglieri, risalita la via Vitellia fino al cancello chiuso di Villa Corsini, vi danno la scalata, e la 5^ dalla casa ove è ora l’osteria di Scarpone, impegna il fuoco contro la villa; ma l’eroico sforzo s’infrange contro la resistenza dei francesi.

STRAMBIO

STRAMBIO

La sera del 29 giugno la 5^ e 6^ compagnia col capitano Luigi Strambio e gli ufficiali Zambelli, Bondurri, Galavrini, Vergani e Lorusso sono poste a guardia del tamburo all’entrata della strada che dal viale di villa Spada traversa il recinto Aureliano. Qui si sostengono con grande valore contro il fuoco del nemico: obbligati ad abbandonare il tamburo, oppongono ancora una accanita resistenza alla cinta aureliana, lasciando sulla strada numerosi morti e feriti: di qui sono di nuovo obbligate a spostarsi verso il casino Savorelli, ove si concentrano i bersaglieri con altre truppe della repubblica. Anche in questa giornata le milizie francesi, superiori di numero, hanno il sopravvento, e l’eroe Manara sacrifica inutilmente la sua vita preziosa per la morente repubblica romana.

Il 2 luglio, tributati gli estremi onori alla salma del loro eroico colonnello, i bersaglieri lombardi ritornavano, colla morte nell’anima, al loro quartiere di Santa Francesca Romana, ove il maggiore Baroni dichiarava sciolto il corpo. Però alcuni di essi, fra cui qualche trentino, decidevano di seguire Garibaldi nella sua arditissima ritirata. E infatti fra i 162 che furono fatti prigionieri dall’i. r. nave austriaca ” Oreste„ il 3 agosto, presso la punta di Goro, e poi tradotti a Pola — e cioè fra gli ultimi fedeli compagni di Garibaldi — troviamo ancora i nomi di sette trentini: tenace omaggio di quell’estremo lembo d’ Italia alle supreme idealità patrie. Sarebbero : Cosna Daspro (Coelli Gaspare), Ratini Giovanni, Palando (ossia Vallandro) Giuseppe di Trento, Sterka (ossia Sterchele) Giacomo di Trento, Sesti (Festi) Agostino di Rovereto, Briga Francesco di Trento e Bicio Domenico di Trento.

MANARA

MANARA

Altri trentini, oltre a quelli sopra indicati, militarono nel 1849 fra i difensori della repubblica romana, ma non li abbiamo trovati nel secondo battaglione dei bersaglieri Manara. Fra questi Bevilacqua Achille, Cavoli Pietro, Briga Francesco e Bicío Domenico di Trento, Casanova don Pietro di Pelo, Marzari ing. Carlo di Vigolo Vattaro e Scordovi Luigi ; ma più illustri di tutti i fratelli Narciso e Pilade Bronzetti, i quali si segnalarono in questa campagna con atti di sommo valore. Narciso Bronzetti comandava la quarta compagnia del primo battaglione di Manara.

Vari fra i militi trentini rimasero feriti nelle sanguinose battaglie del 3 e del 30 giugno: morirono, fra gli altri, Negri Edoardo, Mattedi Francesco e Bertelli Pietro. Morì quasi certamente anche Pietro Siori, ucciso mentre si trovava in sentinella.

La repressa individualità dei Trentina (1849-1859)

Un triplice servaggio aveva pesato sul Trentino prima della rivoluzione del quarantotto. Animato dalla fede e dal coraggio di quell’anno eroico, esso balzò dal forzato sonno secolare e tutte e tre le catene volle spezzare in un colpo. A Brescia e a Milano sperò di sciogliersi dal ceppo austriaco; a Francoforte dal ceppo germanico; a Vienna e a Kremsier dal ceppo tirolese. Ma i tre vincoli erano fra loro quasi indissolubilmente congiunti e confusi, e assai più tenaci che non apparisse. Restando l’ uno, e cioè la dominazione austriaca, gli altri dovevano permanere ed esser ribaditi come coordinati e subordinati ai fini del primo.

E dopo lo sforzo titanico, il povero paese alpino ricadeva avvilito, esausto sotto il peso delle proprie catene, privo di speranze in un avvenire migliore. Oltreché delle ripulse germaniche ed austriache, si erano infatti i patrioti trentini dovuti accorgere dell’isolamento nel quale erano lasciati dai loro fratelli italiani, incapaci di comprendere la loro triste situazione politica come di osare a loro vantaggio contro la diplomazia europea.

Eppure, dal crogiuolo infocato dell’anno rivoluzionario la psicologia collettiva del popolo trentino aveva tratto elementi preziosissimi. Le nuove idee di libertà e di patria che nel periodo della Restaurazione erano riuscite a introdursi in quel chiuso ridotto attraverso a pochi e angusti spiragli, si aprirono nella bufera un’ampia via, rinnovarono l’ambiente.

TRENTO AI PRIMI DELL'OTTOCENTO

TRENTO AI PRIMI DELL’OTTOCENTO

Il Trentino che prima aveva vissuto senza quasi accorgersi di ciò che in Italia e in tutta Europa si andava maturando, il Trentino che non aveva ancor cospirato, che non si era ancor battuto per la causa italiana, si trovò irresistibilmente trascinato e travolto nella mischia quarantottesca. Gli obblighi di leva verso l’Austria non impedirono che quattrocento volontari corressero per battersi in Lombardia e in Piemonte e unissero i loro petti a quelli dei difensori di Venezia e di Roma: queste ultime due faci accese al ripiombare della reazione li attrassero a sé col fascino potente che ha un santo ideale disperato. Battuti, sfiniti, quasi annichiliti, quei volontari ritornavano per grazia imperiale ai loro paesi; vi ritornavano collo schianto che lasciano nell’anima le ultime speranze svanite; ma sul campo e fra le barricate si erano nutriti e inebriati di amore per la patria e di odio per lo straniero, avevano cantato quest’amore e quest’odio a squarciagola, si erano educati a trattar da nemico chiunque ostacolasse le sante aspirazioni nazionali.

Questi erano i sentimenti che i volontari e i profughi, pur nell’avvilimento, riportavano nelle loro valli: i sentimenti ai quali il quarantotto aveva dato d’improvviso la sveglia. E dove il terreno era meglio preparato a riceverli, quei sentimenti si diffusero.

Ma v’ha di più. Negli anni anteriori alla Rivoluzione, il Trentino, sebbene ridotto alla più completa immobilità intellettuale e morale dal regime del Metternich, sebbene angariato dal governo provinciale di Innsbruck, non aveva subito persecuzioni politiche. Come vedemmo, anche quei pochi che furono accusati di cospirare, poterono facilmente essere prosciolti. L’Austria, per quanto rigida e intransigente nei suoi sistemi di governo, non aveva avuto occasione di acquistarsi, con inquisizioni e con processi, quei titoli speciali di odiosità dei quali aveva raccolto un’abbondante messe nel Lombardo-Veneto.

Per conseguenza l’opinione pubblica, all’aprirsi della rivoluzione, era a Rovereto e a Trento alquanto più mite verso l’Austria di quel che non fosse a Milano e Venezia: tanto che una parte dei cittadini poté credere, nella primavera del 1848, alla costituzione largita dall’ Imperatore, e rallegrarsene sinceramente.

ZOBEL

ZOBEL

Ma gli arresti, le deportazioni, i processi, gli stati d’assedio, le violenze sanguinarie delle truppe austriache e lo speciale accanimento posto dal nuovo governo “costituzionale„ nel combattere le aspirazioni nazionali anche legalitarie del paese, inasprirono gli animi dei cittadini, specie nelle città e fra la borghesia, e prepararono nel Trentino uno stato d’animo simile a quello che sembrava aver caratterizzato il Lombardo-Veneto. Anzi, se gli Zobel e i Welden avessero saputo tenere verso il paese un atteggiamento meno inesorabile, se non si fossero alienati i trentini con arresti e persecuzioni spesso ingiustificate e colle barbariche fucilazioni dei volontari italiani, forse non sarebbe stato cosi confortevolmente elevato il numero dei patrioti che emigrarono dal loro paese coli’ idea fissa di tornare a conquistarlo colle armi in pugno. Erano impressioni, risentimenti, ricordi che si manifestavano allora più vivamente che mai, e che dovevano prolungarsi anche fra gli sconforti del domani.

IL MARESCIALLO WELDEN

IL MARESCIALLO WELDEN

La breve parentesi costituzionale strappata a forza dai rivoluzionari di Vienna giovò pur essa a dare una coscienza politica e nazionale alla regione. I Municipi di Trento e di Rovereto, dimenticate le antiche gelosie di campanile, si riunirono in un medesimo intento per vegliare sull’opinione pubblica del paese e dirigerla nei suoi movimenti legali: e questa direzione portò a manifestazioni unanimi o quasi unanimi di pensieri e di ideali.

La mirabile solidarietà che regnò sempre fra i deputati all’assemblea di Francoforte come fra quelli inviati al Parlamento di Vienna, e l’accordo che si raggiunse fra loro anche quando qualche divergenza sembrò manifestarsi in sul principio della loro azione, fu per il paese un mirabile esempio di armonia e di disciplina. La relativa libertà di discutere, di proporre reclami, di stampare articoli e memorie permise un pubblico scambio di idee almeno sui più urgenti bisogni della regione, definì meglio certi indirizzi di pensiero e di sentimento che prima avevano dovuto nascondersi per sfuggire alla persecuzione politica, dette modo ai cittadini di conoscere la loro patria, produsse un affiatamento via via maggiore delle valli trentine fra loro e colla loro capitale: da Storo a Primiero, da Ala a Malé e a Vigo di Fassa, tutte quelle popolazioni pur variabili di dialetti e di costumi, pur povere di comunicazioni e di collegamenti, si sentirono insieme avvinte da un affetto quasi famigliare. Fu in altri termini data al Trentino la coscienza nazionale, ed entro a questa, la coscienza della propria individualità politica e morale.

Trentino_Europa5_PP_PP.1238744309

È infatti nel 1848, e non prima del 1848 che vediamo comparire quasi come parola d’ordine fra i patrioti, come segnacolo di battaglia, come espressione riassuntiva di tutte le aspirazioni della regione, la denominazione di Trentino. Non era questa una parola nuova coniata per le esigenze politiche di quell’anno. Il termine Trentino, sebbene raramente, era stato usato da vari scrittori del secolo decimottavo e anche del decimosettimo. Il Faini verso il 1670, il Verci, il Pincio, il Chiusole, il Cresseri, il Gnesotti, il Baroni, il Senter ed altri cronisti e geografi del settecento si servirono di quest’espressione per designare con un breve nome sintetico il paese montuoso intorno a Trento.

Di popolazioni trentine e di provincia trentina, intendendo con ciò tutte le popolazioni e le terre abusivamente qualificate per tirolesi, parlarono il Vannetti, e con lui il Rosmini ed altri scrittori che alla fine del secolo decimottavo vollero rivendicare l’ italianità della loro terra. Comunque però, il titolo di Trentino era allora fuori dell’ uso comune, perché non coincidente colla condizione politica di quei tempi. Infatti quel territorio che oggi diciamo Trentino comprendeva, oltre al principato vescovile di Trento, alcune zone piuttosto estese di territorio, dipendenti direttamente dalla casa d’Absburgo e dette i confini italiani (Rovereto, Arco, Folgaria, Calliano, Levico, Borgo, Strigno, Tesino, Primiero, Ampezzo, Lavis, Fondo, Rabbi, ecc.) mentre il principato abbracciava anche qualche terra tedesca. Lo stesso Turrini, nel proporre l’annessione del suo paese alla repubblica italiana (1802), non. aveva parlato di Trentino, ma di Tirolo meridionale.

FRANCESCO VIGILIO BARBACOVI

FRANCESCO VIGILIO BARBACOVI

Usarono invece quella espressione il Barbacovi e il Giovanelli, quando nel 1810 ringraziarono pubblicamente Napoleone per aver unito i destini della propria regione a quella della gran patria italiana. E pur negli anni della Restaurazione questi stessi autori ed altri fanno uso di una tale denominazione, ma l’adoperano come variante letteraria più che come bandiera di battaglia. Tanto che all’aprirsi della rivoluzione e della guerra nel 1848, i patrioti più fervidi battezzano il loro paese per Tirolo italiano, Tirolo meridionale, Italia tirolese.

Primi a respingere questo nome sono, come vedemmo, i profughi trentini di Brescia nel loro manifesto del 4 maggio 1848; e da allora in poi essi cercano ogni occasione per togliersi di dosso quell’appellativo:

Più col nome di barbaro suolo

No per dio non ci udremo chiamar!

In sul principio, per dar rilievo alla distinzione, i patrioti si contentano degli aggettivi trentino e tridentini in contrapposto a tirolesi; ma poi l’espressione di Trentino come denominazione regionale trionfa, e in un breve articolo comparso sull’Avvenire d’Italia nell’estate del 1848, ed evidentemente dovuto alla penna di Antonio Gazzoletti, sotto il titolo “Poche cose del Trentino”, il nome Trentino si trova ripetuto ben quattordici volte, quasi allo scopo di imprimerlo saldamente nella memoria dei lettori.

E dopo il ’48, la parola restò, ed andò vittoriosamente sostituendosi, prima fra i trentini, poi fra gli italiani d’altre terre, e infine fra gli stessi tedeschi al titolo ambiguo di Tirolo meridionale e alla locuzione, in sé stessa contraddittoria, di Tirolo italiano. Il nome divenne anzi l’espressione più sintetica della italianità e della coscienza italiana del Paese, il motto monoverbo di tutte le aspirazioni nazionali, la parola d’ordine e di riconoscimento fra i patrioti, la protesta continuata contro tutte le oppressioni e le angherie tirolesi, austriache e germaniche, il giuramento di fedeltà e di affetto all’ Italia: un suono fatto speranza e anima, un segno fatto idolo e ideale.

GIOVANNI A PRATO

GIOVANNI A PRATO

L’Austria, che subito ha compreso il significato e la portata di quel nome, non appena ha potuto metter nel dimenticatoio la costituzione largita nel 1849, si affretta a proscriverlo. Giovanni a Prato fonda a Trento, il 2 maggio 1850, un foglio bisettimanale intitolato Il Giornale del Trentino. Il governo accusa quel giornale di separatismo e lo perseguita in tutti i modi, finché, dopo pochi mesi di vita, esso si trova costretto a sospendere le pubblicazioni. Nel 1856 il botanico Ambrosi si propone di pubblicare la sua Flora del Trentino, ma la censura austriaca (che nel 1862 aveva pur permesso la stampa della Statistica del Trentino di Agostino Perini) gli minaccia di sequestrare il libro, qualora non lo ribattezzi col titolo di Flora del Tirolo meridionale.

IL BOTANICO AMBROSI

IL BOTANICO AMBROSI

Come vedemmo, il 1848 non era riuscito a rompere quell’isolamento artificioso nel quale il Trentino era stato relegato dai trattati del 1815. Le truppe sarde avevano, per ordine dei loro capi, dovuto rispettare il vietato confine; persino il governo lombardo si era imposto un riguardoso riserbo. Ma la propaganda dei profughi aveva certamente giovato a porne in luce le condizioni e a metterlo nel programma degli uomini di azione. Garibaldi aveva dato ascolto con interesse alle esortazioni mossegli dagli emigrati in Milano, e questa prima spinta a quel cuore magnanimo non doveva rimaner senza effetto per l’avvenire.

Lo stesso Mazzini, come appare dai suoi articoli pubblicati su L’Italia del Popolo nel luglio del 1848, aveva fatto entrare il Trentino nei suoi piani d’azione: egli voleva — secondo un concetto che meglio avrebbe sviluppato quindici anni dopo — dirigere bande di volontari guidate da condottieri di fiducia verso l’Alto Adige e l’Isonzo, suscitando fra i monti l’insurrezione per tagliare la ritirata all’esercito austriaco; e dopo la battaglia di Custoza invocava ancora un ultimo unanime sforzo attraverso le Alpi, con ventimila volontari i quali, evitando il quadrilatero, avrebbero dovuto aprirsi la via verso il Veneto e piombare alle spalle del nemico.

GARIBALDI

GARIBALDI

Dunque, se il Trentino seguitava a rimanere, anche dopo il 1848, legalmente appartato dal Lombardo-Veneto, aveva però potuto stringere in quell’anno dei potenti legami morali; le conoscenze, le simpatie, le amicizie che i fuorusciti si erano procurate a Milano, a Brescia, a Padova e a Venezia, in breve tempo cementate e consolidate al fuoco della passione patriottica, avevano richiamato sulle sorti del Trentino un interesse più vivo, destinato a non spegnersi.

Certo, se la condotta di Pio IX fosse stata diversa, se a un certo punto non fosse accorso pavidamente a soffocare l’incendio che egli stesso aveva attizzato, le vicende del Risorgimento italiano avrebbero trovato poi un appoggio più fervido anche in quelle plebi rurali sulle quali tanto poteva e può l’influenza del clero. E il clero trentino aveva in buona parte accolto con favore le idee liberali e nazionali bandite dal pontefice, e molti preti di campagna se n’erano fatti a loro volta banditori fra i loro fedeli contadini. Ora il contrasto che si manifestò dopo l’allocuzione del 29 aprile, e più ancora dopo i fatti della repubblica romana fra i propositi e gli atti reazionari del Vaticano e gli ideali dei patrioti, se tolse all’Italia per sempre il pericolo di una confederazione clericale, certo portò un raffreddamento e quasi un’ostilità in quella parte della popolazione che era maggiormente soggetta all’ influenza del clero.

I valligiani del Trentino, dato il numero relativamente considerevole dei preti e dei frati sparsi nel suo territorio, dato il numero relativamente esiguo delle famiglie borghesi, date altre ragioni demografiche e tradizionali di non lieve importanza, si trovavano assai esposti a subire tali influenze.

Chiesa_Collegiata_di_S._Maria_Assunta_-_Arco_-_Organ_loft_parapet

Comunque, non mancarono nemmeno nel Trentino coraggiosi sacerdoti che seppero, anche in tempi assai difficili come erano quelli che seguirono la rivoluzione del ’48, tener testa alla bufera reazionaria in nome dei loro principi liberali e nazionali. Le persecuzioni inflitte ad alcuni fra essi servirono anzi di occasione e di pretesto alle manifestazioni dei patrioti trentini in quel triste decennio.

Il barone Giovanni a Prato, capo della deputazione trentina a Francoforte e a Vienna fra il 1848 e il 1849, era dopo quasi un anno dallo scioglimento della Costituente austriaca, colpito da una meditata misura di reazione. Il luogotenente del Tirolo, in data 14 febbraio 1850, comunicava al vescovo di Trento quanto segue:

“Il ministero del Culto ed istruzione manifestò con decreto dei 5 corrente no. 6013, che non potendosi più a lungo affidare l’importante influsso della coltura della gioventù nel posto di catechista al prete secolare e professore di religione a Roveredo Baron Giovanni a Prato a motivo del suo contegno durante gli avvenimenti dell’ottobre 1848,1 egli è a destituirsi dal suo uffizio, ma in considerazione dei suoi lunghi servigi, gli verrà pagato il suo normale salario ancora per un anno”.

A questa sentenza non sappiamo se abbia risposto il Prato; certo è che per lui risposero i suoi elettori, presentandogli in segno di omaggio un ricco vaso d’argento con una pubblica lettera concepita in questi termini:

“Le zelo con cui propugnaste in tempi difficili la causa del nostro paese nelle assemblee costituenti di Francoforte e Cremsiero; le vicissitudini che avete dovuto incontrare per la Imperterrita difesa dei nostri diritti; la pienezza di luce che voi avete sparsa sulla questione vitale dell’autonomia della nostra provincia: sono meriti tali che vi avvincono la gratitudine e la venerazione di tutti i buoni cittadini e specialmente dei nostri amici ed elettori. Noi, attendendo dall’ infallibile sentenza dell’ istoria il luminoso giudizio dei meriti vostri, abbiamo voluto in anticipazione presentarvi almeno una ben tenue memoria di un vaso d’argento, la quale, facendo palese la nostra riconoscenza, rimanga a Voi come attestato della generale soddisfazione, che le azioni vostre parlamentarie e civili hanno da per tutto incontrate”.

TOMMASO GAR

TOMMASO GAR

Ben di peggio era accaduto ad un altro patriota che, come il Prato, aveva rappresentato appunto la città di Rovereto all’assemblea di Francoforte: ad Antonio Gazzoletti. Nella primavera del 1849, mentre l’Austria nuovamente vittoriosa dell’esercito sardo attendeva a spegnere gli ultimi fuochi gloriosi della rivoluzione italiana, Antonio Gazzoletti, reduce dalle animose proteste di Francoforte, scendeva nella penisola per farvi ricerche di un suo fratello e quindi ritornare a Trieste, che aveva abbandonato l’anno antecedente.

Trovò infatti il fratello alla Spezia e si pose poi in viaggio per Trieste: senonché il generale Wimpfen, temendo che il viaggio del Gazzoletti in Italia avesse intenti politici, al suo giungere in Padova nella seconda metà di maggio, lo faceva chiudere nelle carceri di San Marco. E nel buio delle prigioni egli componeva versi improntati alla più dignitosa fierezza e al più caldo patriottismo:

Su, traetemi fuor da questa rócca

Fate il trino spianar ferro tonante

Contro il mio petto intemerato e mesto:

Io, con l’Italia e un altro nome in bocca,

Cadrò prono una volta a voi dinante

Primo mio, solo, atto d’omaggio, questo !

Alla fine di luglio, mancando prove a suo carico, il Gazzoletti fu mandato sotto custodia a Trieste per essere sottoposto ad un nuovo processo. Qui, fin dal 12 luglio era egli stato sospeso dall’esercizio dell’avvocatura: e solo il 10 novembre 1849, in seguito ad una domanda di quindici avvocati di Trieste, fu ripristinato nelle sue funzioni. Non si interrompeva però la procedura penale iniziata a suo carico, e solo si chiudeva, per insufficienza di indizi, con una semplice censura. Questa era motivata dal fatto che il Gazzoletti era partito, il 17 aprile 1848, da Trieste, senza il permesso del Tribunale e non vi era poi ritornato direttamente allorquando, nell’aprile 1849, erano stati richiamati i deputati austriaci dalla dieta germanica in Francoforte sul Meno.

IL GENERALE WIMPFEN

IL GENERALE WIMPFEN

Ma neanche i famosi processi di Mantova dovevano andare esenti da qualche vittima trentina. Come narra il Luzio, il processo per la congiura Tazzoli volgeva al suo termine (già a Belfiore s’erano drizzati cinque patiboli), quando, il 10 dicembre 1852 entrava nel castello di Mantova Igino Sartena, scrittore, di Predazzo (valle di Fiemme). Da Parigi, ove attendeva ai suoi studi, era venuto in Italia collo scopo — sembra — di vendicare il primo eccidio di Belfiore nel sangue del vecchio Radetzky. Ma non appena passato il confine di Lombardia, Igino fu arrestato dalla polizia austriaca e tradotto nel Castello Sforzesco di Milano. Qui, disperando della sua sorte, tentò di appiccarsi, ma la corda alla quale si era appeso si ruppe. Allora fu trasportato a Mantova. Gli avevano trovato indosso varie lettere compromettenti, ma egli si era sempre mantenuto sulla negativa.

Per indurlo a parlare il Kraus lo rinchiuse col Castellazzo che riuscì, a quel che pare, ad estorcergli gravi confessioni, da lui rivelate in un importante costituto. Secondo la delazione del Castellazzo, Igino Sartena era stato incaricato a Parigi — ove era in costanti rapporti colla scrittrice Clémence Robert e coi fratelli La Grange, noti cospiratori — di far propaganda in Lombardia, e specialmente nel Trentino, per la costituzione di una società segreta “organizzata per decadi con niun altro contrassegno che un ammiccare degli occhi e nessun’altra istruzione che tenersi pronti e provveduti di armi per insorgere al primo segnale dato da chi ne fosse incaricato dall’autorità organizzatrice centrale”.

Ben presto fu coinvolto con lui nell’accusa di alto tradimento, come presunto complice, il fratello Giuseppe, impiegato ferroviario a Padova, il quale fu catturato l’11 giugno 1853. Il processo si trascinò per due lunghi anni.

Sciolta nel 1854 la corte marziale, i giudici della corte speciale che si sostituirono al Kraus non trovarono elementi di prova sufficienti nella deposizione del Castellazzo e assolsero i due fratelli Sartena. Per i patimenti sofferti nelle carceri di Mantova erano stati colpiti da malattia e trasportati all’ospedale. Dopo la liberazione Igino si riebbe, ma Giuseppe, a quel che dice il Luzio, in causa delle sevizie partite, smarri la ragione.

Anche più pietosa è la sorte del medico Giuseppe Clementi di Lavis (val d’Adige) e di sua sorella Elisabetta. Il Clementi, a quanto sembra, era già stato prigioniero politico dell’Austria nel 1848: arrestato a Trento per ordine dello Zobel era stato unito agli ostaggi lombardi e con questi tradotto a Kufstein, ove fu scarcerato più tardi dei suoi compagni.

Livorno_Forte_San_Pietro_(XIX_Century)

Nel 1853 fu accusato di aver dato ricetto ai compagni di Pier Fortunato Calvi, eroe della difesa di Venezia nel 1848, il quale, come è noto, era stato catturato a Cogolo nel Trentino il 17 settembre sotto l’imputazione di aver tentato promuovere una insurrezione di bande armate nel Cadore. Giuseppe Clementi fu tradotto nelle carceri di Mantova, mentre sua sorella Elisabetta rimase qualche tempo in stato d’arresto, sotto la stessa accusa, al proprio paese. Il Clementi fu poi riconosciuto come innocente; ma il giorno stesso nel quale la Corte di giustizia scopriva l’insussistenza dell’accusa e disponeva per la sua scarcerazione (2 ottobre 1855), egli moriva.

L’orribile prigionia aveva determinato una violenta emorragia polmonare, in seguito alla quale lo si era trasportato, poco prima, nell’ospedale civile di Mantova, ma troppo tardi! La sorella Elisabetta, che si era sottoposta ai più gravi sacrifici per aiutare il fratello in carcere, rimase in tal modo priva di ogni appoggio: un secondo suo fratello, a quanto ella stessa disperatamente scriveva, aveva dovuto trovare uno scampo nell’esilio!

ANTONIO SALVOTTI

Altro prigioniero politico trentino del tempo è Scipione Salvotti, figlio di quello stesso terribile inquisitore che tanti prigionieri politici aveva saputo catturare e torturare. Nel 1853, in età, quasi infantile, egli è arrestato a Vienna nella stessa casa paterna, per avere voluto fondare una società segreta intitolata Il Santo Sinodo e mirante a far dell’Italia una repubblica. Il processo, sebbene avesse assodato trattarsi di una congiura fanciullesca, terminò con sentenza di morte, poi commutata in condanna di dodici anni di carcere duro, in vista dei meriti paterni. Scipio Salvotti rimase nelle carceri di Theresienstadt — ove ebbe a compagno anche il dott. Pastro — dal luglio 1853 al 19 settembre 1855: quando l’Imperatore lo graziò, a patto per altro che si lasciasse scortare difilato al confine per recarsi all’estero, nel luogo di residenza fissatogli dal padre, e che non osasse rimetter piede poi negli stati austriaci, senza il permesso sovrano.

Così appunto una famiglia, più che nota, famosa, e tristamente famosa pel suo attaccamento alla dinastia, rovesciava improvvisamente le proprie tradizioni; ma, soprattutto, erano i tempi che mutavano. La scossa che il vecchio Salvotti dovette subire nel suo amor proprio di zelante servitore dell’Austria al colpo di fulmine piombato sulla sua casa, dovette esser pari al giubilo col quale i patrioti, pur commiserando il prigioniero, dovettero constatare questo tipico indizio delle tendenze della gioventù novella.

I patrioti, in quegli anni, tacevano e subivano, ma non senza che qualche manifestazione rompesse la tetra monotonia dei tempi ed avvertisse l’Austria dei sentimenti dei suoi sudditi italiani. Alla morte del barone Gian Pietro Cavalcabò di Sacco, già presidente della Corte di giustizia nel dipartimento dell’Alto Adige del regno d’Italia, si celebrarono a Trento (1850) funerali di una grandiosità mai vista: una folla di popolo fece corteo alla bara, due discorsi funebri — cerimonia affatto inusata — furono pronunciati in suo onore. Con questa dimostrazione intendeva la cittadinanza di rendere omaggio al rappresentante di un momento storico che aveva riunito le sorti del Trentino a quelle della patria italiana.

ANTONIO ROSMINI

ANTONIO ROSMINI

Appresa nel 1855 la notizia della morte avvenuta a Stresa di Antonio Rosmini, i suoi concittadini di Rovereto gli preparano solenni esequie e deliberano di onorarne la memoria con un monumento. Le persecuzioni a cui le sue dottrine filosofiche lo avevano esposto nel Vaticano e in tutto il mondo clericale, e più ancora la parte cospicua che quel trentino aveva rappresentato nelle trattative diplomatiche del Piemonte colla Santa Sede per la cacciata dello straniero e la sistemazione delle cose italiane (autunno 1848) ne rendevano particolarmente cara la memoria ai suoi roveretani, La sottoscrizione per il monumento ad Antonio Rosmini raggiunse 14.000 corone in due anni; il monumento fu poi innalzato nel 1879.

Intanto venivano sorgendo nel paese le prime società di mutuo soccorso, le quali si davano pubblicamente lo scopo di riunire i cittadini e specialmente i popolani per un reciproco aiuto nelle tristi circostanze della vita, ma nascostamente si proponevano di tener viva fra i loro aderenti l’idea nazionale e di educarli a preparare migliori destini alla patria. Al principio del 1851 si costituiva in Riva la prima società di mutuo soccorso, nel 1853 ne sorgeva un’altra ad Arco, nel 1854 una terza a Rovereto. Erano questi i piccoli sfoghi

Del resto la compressione politica, amministrativa, intellettuale era ritornata a un grado d’ intensità, uguale, fors’anche maggiore che nel periodo antecedente al 1848. Ma quando ai trentini si offri l’occasione di protestare, essi protestarono.

Non mancò l’appiglio a nuove dimostrazioni di ostilità contro il nesso federale germanico che il Trentino dovette continuare a subire dopo il 1849. Nel 1851, mentre fra gli stati tedeschi si trattava per un nuovo ordinamento della Confederazione, il Municipio di Rovereto dichiarò pubblicamente intollerabile l’unione del Trentino alla Confederazione e alla lega doganale alemanna.

La fusione del Trentino col Tirolo era mantenuta con inflessibile rigore, sebbene nel 1849 fossero state erette a provincie, a riconoscimento dei loro postulati, la Slesia, la Bucovina, la Carinzia, il Salisburghese, prima aggregate rispettivamente alla Moravia, alla Galizia, alla Carniola, all’Austria superiore. Ciò nonostante i comuni trentini rimasero fermi nell’opporsi, in ogni contingenza, a qualsiasi comunione di rapporti col Tirolo. Nel 1849 si riunisce ad Innsbruck un comitato provvisorio di sette membri per elaborare un nuovo ordinamento della provincia in conformità alla costituzione del marzo di quell’anno, ma i trentini non partecipano ai lavori del Comitato.

Nel 1850 è istituito, ancora ad Innsbruck, un consiglio scolastico provinciale composto di quattro membri tedeschi e di un solo membro italiano: le rappresentanze comunali del Trentino protestano contro questa iniqua disparità di trattamento che espone l’ italianità della coltura del Trentino a nuovi affronti; e chiedono al Governo di distaccare almeno una sezione del consiglio provinciale scolastico a Trento, con giurisdizione sui comuni di lingua italiana. Da Vienna l’istanza è respinta.

Più alte suonano le lagnanza quando i municipi del Trentino sono invitati ad eleggere loro delegati per la riorganizzazione del corpo dei volontari provinciali. A dir vero, tale invito fu spedito quando una commissione ad Innsbruck aveva già fissate le basi dell’ordinamento della difesa del paese, per modo che i rappresentanti del Trentino avrebbero dovuto passare il Brennero semplicemente per metter lo spolvero alle decisioni dei loro colleghi del Tirolo. Si trattava pertanto di una imposizione mascherata sotto la forma di un riguardo: ciò che i trentini non si peritarono di rinfacciare apertamente ai loro governanti. I Comuni delle Giudicarie, nel loro vibrato appello al Capitano di Tione, dichiaravano addirittura oltraggioso l’invito e soggiungevano:

“Sebbene succeda a malincuore basti che il nostro paese si assoggetti alle imposizioni sempre crescenti colle quali si continua ad aggravarlo con un tratto di penna per sopperire ad esigenze che ora non ‘ giova analizzare.

Quando avessimo a difendere le nostre valli, i nostri tetti ce lo dirà il nostro sentimento nei casi opportuni. Abbiamo avuto campo di vedere, non è molto, cosa sieno i difensori organizzati del Tirolo tedesco, e mentisce colui che voglia far credere, aver essi destato fuori della loro patria solo tolleranza, meno poi edificazione ed entusiasmo, e portato vantaggio al paese. Reminiscenze di questi difensori possono raccogliersi in ogni angolo di questa italiana parte del dominio, e sono tutt’altro che aggradevoli”.

E sotto:

“Ognuno sa in quale stretta relazione stiano gli abitanti delle Giudicarie coi vari paesi del Lombardo-Veneto, donde ritirano le granaglie per il bisogno di due terzi dell’anno, dove smerciano il loro legname ed i latticini, dove moltissime famiglie acquistano un secondo domicilio …  Non voglia illudersi il Governo e spinga la vista alle conseguenze inevitabili di questo fatto, che nel 1848 erano risguardate e trattate come pretesti ed effetti meditati di rivolta”.

E sotto ancora:

“Né questa mancante disposizione ad un generale armamento potrà essere forzata colla minaccia di dover portare un carico in confronto piè gravoso di coscrizione militare”.

I Ed infatti gli obblighi di coscrizione furono aggravati pel Trentino in confronto del Tirolo, in considerazione dei volontari che questo offriva e quello rifiutava.

La petizione terminava colla domanda di una dieta autonoma e dichiarava di protestare in precedenza contro ogni disposizione che la Commissione per la difesa del paese fosse per prendere riguardo agli italiani.

FRANCESCO GIUSEPPE

FRANCESCO GIUSEPPE

Né il tenore dei reclami spediti dai rimanenti distretti del Trentino era da questo discorde. Ad un’altra commissione, istituita ad Innsbruck per regolare i tributi fondiari, è opposto un uguale rifiuto d’intervento. E quando Francesco Giuseppe, il 18-19 settembre 1851, visita la città di Riva, una commissione di rappresentanti dei vari municipi della regione si presenta a lui per chiedergli la separazione dal Tirolo e l’annessione al Lombardo-Veneto.

Ad onta di siffatte rimostranze, il regime reazionario si va aggravando dal 1850 in poi. Il 6 luglio 1851 esce una patente la quale restringe notevolmente la libertà della stampa: il Luogotenente della provincia è autorizzato a sospendere per tre mesi i giornali che crede nocivi e al potere centrale è data facoltà di sopprimerli persino, quando li trovi ostili alla politica del Governo.

Il 31 dicembre 1851 è addirittura abrogata la costituzione del 1849; è tolta ogni pubblicità ai dibattimenti giudiziari, ristabilito il principio inquisitorio, mescolato di nuovo l’ordinamento della polizia con quello della giustizia, soppresso il senato d’appello a Trento, aboliti i giurati, limitata la eleggibilità dei capi-comune, sottratto il capitano circolare di stanza a Trento e sostituito con un consigliere aulico dipendente dalla luogotenenza di Innsbruck, proibite le associazioni politiche.

Il partito liberale è cosi ridotto al silenzio; financo ai municipi si nega il diritto di scegliere il podestà che desiderano. Nel 1852 la rappresentanza comunale di Trento elegge a proprio podestà il dott. Pietro Bernadelli, ma l’Austria lo rifiuta e manda a reggere il municipio un suo commissario, e cioè il conte Antonio Arz (1852-54), al quale succede un altro rappresentante del Governo, Giuseppe della Rosa di Pergine. Solo nel 1857, dopo cinque anni, può la città di Trento eleggersi di nuovo un proprio capo nella persona del conte Gaetano Manci, un esimio fautore della causa italiana.

La reazione politica si manifesta nelle forme odiose: ai giovani in odore di sovversivismo si proibisce persino l’esercizio di una libera professione. Iacopo Baisini, il futuro autore del libro “Il Trentino dinanzi all’Europa”, riceve in data 2 febbraio 1855, dal Tribunale circolare di Trento, il rigetto della istanza presentata per ottenere la iscrizione nella lista dei difensori per le cause penali “giacché a mente del § 214 Reg. di proc. pen. sono da ammettersi nella lista dei difensori solo individui senza eccezione, e giacché il signor supplicante, per le informazioni ritirate dalla Corte superiore, in linea politica non è scevro di sospetti”. Nepomuceno Bolognini, altro benemerito patriota, praticante di avvocatura presso l’avv. Angelo Ducati è verso quello stesso tempo dall’autorità politica chiaramente avvertito essergli inutile tentar la prova degli esami di Stato: ciò non gli sarebbe poi concesso di aprir studio legale”.

Alla reazione politica fa riscontro in quegli anni una dolorosa crisi economica. Nel 1850 la peronospera intristisce quasi tutte le plaghe viticole del paese, e il flagello si aggrava negli anni successivi. Nel ’50, nel ’51 e nel ’55 il Trentino è desolato dalle inondazioni; nel ’55 il colèra colpisce migliaia di cittadini. I danni che gli eventi recano alla pubblica economia, reca il Governo alla pubblica istruzione coi suoi sistemi retrivi d’insegnamento.

Le scuole sono in quel tempo rigidamente improntate ai principi di intransigenza dominanti: le nozioni di letteratura italiana ridotte al minimo possibile, l’educazione informata al più rigido clericalismo, ogni lettura che si scosti dai programmi scolastici ufficiali e che esca dalla direttiva segnata dai metodi di governo in vigore, draconianamente punita.

scuola

“Il 12 dicembre dell’anno 1858, nella chiesa dell’ i. r. ginnasio dei padri benedettini a Merano nel Tirolo, s’impartiva la prima comunione ai ragazzetti delle prime classi; e gli studenti del ginnasio superiore assistevano, in fondo alla chiesa, alla sacra funzione. Era fra costoro un giovane miope all’estremo, e cogli occhiali leggeva attentamente in un libro. Un frate professore che gli stava di dietro, il padre Aporta, s’ insospettì di quella cosi attenta lettura; aguzzò lo sguardo, comprese, vide … e con un lesto colpo di mano levò il libro al giovanotto. Erano. le poesie di Giuseppe Giusti, e quel giovane era Oreste Barater, che si chiamò poi Oreste Baratieri. Il giorno seguente si radunò il consiglio dei professori, ed il Barater venne, a voti unanimi, espulso dal ginnasio„.

Cosi il Brentari, il quale aggiunge che il Baratieri, per sottrarsi all’ira del padre, pensò di fuggire, ma ben presto tornò al tetto famigliare. Questo piccolo episodio occorso ad un uomo, che nell’aurora dei suoi entusiasmi patriottici certo non immaginava di morire di crepacuore per una terribile sventura che in lui colpirebbe l’Italia, è tale da darci un’idea della vita del tempo. Un gran numero di trentini studiava prima del 1860 nel ginnasio di Merano ; e qui si accendevano frequenti dispute e risse fra studenti italiani e tedeschi per il risentimento reciproco che l’eco degli eventi del 1848-49 aveva lasciato in quei giovani cuori.

La disciplina nelle scuole del Trentino era in tutto simile, e similmente da parte dei ragazzi più svegli vi si agitava la propaganda d’italianità, e similmente vi imperversavano i rimbrotti, le sospensioni e le espulsioni.

L’ Università di Padova, alla quale in gran parte erano avviati gli studenti, restava come già prima del 1848, un utile luogo di riunione e un proficuo mezzo di intesa per i giovani. Vari trentini, fra i quali Filippo Manci, si distinguevano nelle frequenti dimostrazioni politiche che vi si improvvisavano, specialmente fra il ’58 e il principio del ’59.  Peraltro i giovani patrioti non limitavano la loro azione all’ambiente universitario. Il famoso prestito nazionale di Giuseppe Mazzini trovò anche nel Trentino una diffusione per mezzo di fidi agenti scelti fra professionisti e studenti, la Società nazionale del La Farina vi reclutò 37 soci, oltre ad un membro fondatore.

E quando nel 1857 la Gazzetta del Popolo di Torino, ad esortazione di Cavour, aprì una sottoscrizione per offrire al Governo cento cannoni per l’armamento delle fortificazioni di Alessandria, anche nelle città e nelle vallate del Trentino furono raccolte oblazioni. L’offerta, di un migliaio di lire circa, fu consegnata il 31 marzo 1858 da Luigi Alfonso Girardi alla tesoreria della città di Torino e riuscì cosi bene accetta, che uno dei cannoni costruiti fu battezzato col nome di Trento.

CAVOUR

CAVOUR

Non era mancata una rappresentanza del Trentino neppure nella spedizione di Crimea: vi aveva sacrificato la vita Bortolo Vicentini di Ala, e vi avevano partecipato pure Giacomo e Giuseppe Peretti di Mori e quel Leopoldo Martini di Pergine che come ufficiale di contabilità aveva fatto parte della compagnia giudicariese nella spedizione di Val di Sole e che poi col grado di sottotenente aveva servito nella legione trentina e nel battaglione bersaglieri tridentini.

Del resto, prima ancora che scoppiasse la guerra del 1859, vari trentini si erano recati oltre il Ticino a portarvi l’espressione delle loro speranze. Giovanni Prati, bandito dalla Toscana il 14 dicembre 1848 in seguito alle sue invettive contro il governo di Domenico Guerrazzi, elesse il Piemonte a sua novella patria, e a Torino compose i suoi più ispirati versi patriottici, accompagnando le speranze del giovane Stato subalpino e della Nazione con canti, che sembravano ed erano inni profetici. Egli vedeva in Vittorio Emanuele il nuovo eccelso campione della libertà, come aveva salutato in Carlo Alberto il loricato arcangelo d’ Italia:

“Vittorio! Vittorio! Tu, giovane Anteo,

 Per questa dolente, nel fiero torneo

La lancia suprema sei nato a spezzar!”

Non eguale fiducia nutriva il Prati nel conte di Cavour, del quale non seppe misurare (e per un contemporaneo non era grave torto) la gigantesca figura. In buone relazioni di amicizia col grande statista era invece Antonio Rosmìni, il filosofo roveretano, che dal suo romitaggio di Stresa, negli anni che precedettero la sua morte, molto meditò e sperò nelle sorti della patria.

Nel 1856 emigrò in Piemonte il Gazzoletti: l’Austria, con mille angherie, gli aveva reso impossibile la vita a Trieste. A Torino Antonio Gazzoletti si dedicò al giornalismo, e dapprima collaborò nell’ Indipendente e poi, in seguito ad aiuti dello stesso conte di Cavour, fondò li Patriota, pur continuando a pubblicare scritti lirici, drammatici, politici e storici.  A lui si rivolgevano tutti i trentini che prima della guerra accorrevano a Torino, ed egli divenne cosi il vero duce della emigrazione e il più attivo propagandista della causa del suo paese nei circoli politici subalpini.

Lo scoppio delle ostilità fra Austria e Piemonte era ormai imminente; e se il conte Camillo di Cavour seppe spendere tutte le energie del suo carattere d’acciaio per provocare quell’urto provvidenziale, i patrioti d’Italia, e i trentini fra questi, non meno di lui agognarono la grande partita dalla quale si ripromettevano la redenzione.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento