a cura di Cornelio Galas
Fonte: XVI Circoscrizione Anpi provincia di Roma
di Augusto Pompeo
FORTE BRAVETTA 1932 – 1945
ricerche documentarie e bibliografiche: Luisa Severi e Dario Scatolini
Roma 2000
Le esecuzioni
Emesso il verdetto di condanna o decisa l’esecuzione il comando tedesco trasmette l’ordine scritto alle autorità italiane che trasferiscono i condannati al braccio italiano di Regina Coeli. Da qui vengono trasportati al forte dove vengono consegnati a un plotone di forze di sicurezza italiane (la PS, la PAI, la GdF, gli agenti di custodia); questo per una sorta di osservanza formale del comando della “città aperta”. A volte tuttavia i condannati arrivano a Forte Bravetta direttamente da via Tasso, senza passare per il carcere romano.
La sentenza o comunque l’ordine di fucilazione, di norma, è letta da un ufficiale tedesco; i condannati vengono “rigorosamente” fucilati alla schiena secondo “la tradizione italiana”. Quando non lo richiedano motivi di esemplarità le esecuzioni vengono tenute segrete. Sono i giornali clandestini a comunicare i nomi dei caduti.
Al Forte i condannati arrivano sullo stesso furgone che poi ripartirà per il Verano; fatti scendere, vengono condotti sul “terrapieno”. Se sono pochi si utilizza una sola sedia; se sono molti, le sedie sono due o tre e vengono fucilati sotto gli occhi dei compagni che attendono il loro turno con la vista di quelli che li hanno preceduti riversi nel fossato. A volte l’esecuzione avviene dopo molte ore dopo l’arrivo del furgone e i condannati restano in attesa che arrivi la conferma da via Tasso.
Si danno precise disposizioni anche per il seppellimento dei cadaveri: la sera prima dell’esecuzione la direzione del Verano viene invitata a preparare un certo numero di fosse comuni che vengono riempite dopo le esecuzioni. Le bare sono solitamente deposte a una profondità maggiore rispetto a quella del piano di tumulazione del cimitero e spesso prive di elementi di identificazione. Le operazioni si svolgono in gran fretta nel tentativo di non far trapelare i fatti troppo rapidamente. Ma le notizie delle fucilazioni si diffondono grazie agli impiegati del Comune di Roma che informano i parenti dei congiunti e le organizzazioni della Resistenza.
I primi caduti a Forte Bravetta dopo l’8 settembre e a seguito di un processo formalmente regolare, anche se sommario, sono condannati dal Tribunale militare italiano. Sono sei “saccheggiatori” appartenenti a una banda armata che ha tentato di forzare un magazzino di tessuti in via dei Gelsi fra la notte dell’8 e del 9 ottobre e ha avuto uno scontro a fuoco con la polizia. Nello stesso procedimento vengono emesse altre tredici condanne a pene varie, di cui una all’ergastolo.
Il 18 novembre viene condannato ancora dal Tmi Giuseppe Tirella che ha indossato abusivamente la divisa della milizia e ha partecipato di sua iniziativa ai rastrellamenti. Il sedicente “gerarca” viene arrestato il 7 ottobre per l’omicidio di una donna che si è opposta a un suo tentativo di “perquisizione”. Nello stesso processo viene condannato a 14 anni Umberto Celestini, ex commesso della Camera dei fasci e delle corporazioni, per concorso in omicidio.
Sono però già iniziate le esecuzioni ordinate dal comando tedesco: il 20 ottobre viene fucilato un contadino di Tivoli, Giacomo Proietti, trovato in possesso di armi e il 26 novembre Agostino Basili del nucleo di Mandela/Vicovaro.
Riccardo Di Giuseppe viene fucilato all’alba del 22 dicembre 1943. Il suo corpo, inizialmente sepolto al Verano, viene in seguito trasportato al cimitero di Vicovaro ove tuttora riposa. Lo stesso giorno viene fucilato Mario Carucci, di Bandiera Rossa.
Il 30 dicembre cadono Riziero Fantini, Italo Grimaldi e Antonio Feurra. L’Unità del 20 gennaio 1944 riporta la notizia. Sempre L’Unità, il 18 giugno 1944, riferisce che i corpi dei tre sono riconosciuti ed esumati in un campo femminile del Verano, riquadro 142, qualche metro sotto la linea di sepoltura. Come succederà in altri casi il luogo dove sono stati sepolti è stato scoperto di notte dagli altri militanti.
Il giorno dopo vengono fucilati il vicebrigadiere Antonio Pozzi e il carabiniere Raffaele Pinto. Condotti il 29 dicembre a Forte Bravetta, vengono riportati a Regina Coeli dopo qualche ora di attesa; si illudono che l’esecuzione sia annullata, ma il 31 vengono nuovamente consegnati al plotone d’esecuzione che, alle 9.40, esegue la sentenza.
Il 19 gennaio 1944 il Feldgericht della Piazza di Frosinone trasferisce a Roma Andrea Franceschetti, accusato di “violenza contro le forze armate germaniche”. La sentenza di morte è eseguita il giorno dopo da un plotone della GdF. Lo stesso giorno, alle 8.22 del mattino, viene fucilato Salvatore Petronari, del Pci, ritenuto responsabile di possesso illecito di munizioni. L’avvocatino, come lo chiamavano i suoi compagni per le sue capacità dialettiche, è un personaggio noto alle autorità di PS.
La fucilazione è ricordata da un volantino a firma “Federazione Comunista laziale“, datato 3 febbraio che i suoi autori non riescono a distribuire, in quanto la bozza viene rinvenuta il 3 febbraio durante una perquisizione della polizia nella tipografia di Carlo Fattori a S. Saba.
Il 31 gennaio viene effettuata una rappresaglia nei confronti di Giovanni Andreozzi, Mariano Buratti, Enrico De Simone, Augusto Latini, Vittorio Mallozzi, Paolo Renzi, Raffaele Riva, Franco Sardone, Renato Traversi, Mario Capecci, condannati “perché preparavano atti di sabotaggio contro le forze armate germaniche e capeggiavano altri attentati contro l’ordine pubblico della città di Roma”. I comunisti romani diffondono un volantino che ricordano il sacrificio di Vittorio Mallozzi.
Raffaele Riva, dei Cattolici comunisti si avvia tranquillamente al supplizio dopo aver rifiutato la benda e dopo aver fumato un’ultima sigaretta. La mattina del 2 febbraio avviene la fucilazione degli undici appartenenti alla formazione di “Bandiera Rossa”: Ettore Arena, Benvenuto Badiali, Branko Bitler, Ottavio Cirulli, Enzio Malatesta, Carlo Merli, Augusto Paroli, Gino Rossi, Guerrino Sbardella, Filiberto Zolito e Romolo Iacopini.
Il camion arriva sul luogo della fucilazione dopo aver sbagliato strada. Entrato nel forte si ferma dietro una cunetta con il motore acceso e i condannati vengono fatti scendere tre a tre: ogni esecuzione dura circa mezz’ora (il tempo occorrente per togliere le macchie di sangue dalle sedie e dal terreno).
La dura repressione di gennaio e febbraio non ferma l’azione partigiana che continua i suoi attacchi anche se le perdite, in tutte le formazioni, sono pesanti. Nel mese di marzo la situazione per la città si fa più dura: i rifornimenti alimentari arrivano a stento e in quantità insufficiente. A sostegno della battaglia che infuria a Cassino e sulla costa laziale gli Alleati bombardano frequentemente le zone periferiche causando, fra l’8 e il 18 marzo, oltre 2.000 morti e 8.000 feriti. Mentre il fronte si avvicina e all’interno della città l’opposizione non dà segni di cedimento, per disperdere quadri e militanti della Resistenza gli occupanti accentuano la loro attività repressiva che culmina con il massacro delle Fosse Ardeatine.
Il 4 marzo vengono fucilati Eugenio Messina e Antonio Lalli, ambedue del Pci. Il 5 marzo un gruppo di partigiani di Torpignattara in azione al Quarticciolo per distruggere la locale sede del fascio, si scontrano coi tedeschi, che lasciano un morto sul terreno. I tedeschi ordinano l’esecuzione di dieci indiziati che vengono fucilati due giorni dopo: Antonio Bussi, Concetto Fioravanti, Vincenzo Gentile, Giorgio Labò, Paul Lauffner, Francesco Lipartiti, Antonio Nardi, Mario Mechelli, Augusto Pasini, Guido Rattoppatore.
Augusto Pasini, del Fmcr, è un elemento di spicco della banda Buratti, paracadutista, abile nella raccolta delle armi. Guido Rattoppatore è sorpreso la mattina del 28 gennaio mentre, assieme all’altro gappista Umberto Scattoni (che verrà fucilato alle Cave Ardeatine), sta andando a via dei Crociferi, per mettere una bomba all’albergo Aquila d’Oro dove i fascisti della Muti hanno il loro comando.
I due gappisti fuggono lungo Corso Vittorio inseguiti dai tedeschi: ne nasce uno scontro a fuoco in cui Guido resta ferito a un braccio, un tedesco resta a terra morto, tre vengono feriti. I due partigiani vengono catturati solo dopo che Guido ha finito i colpi nella rivoltella. Il ritrovamento della sua salma è possibile grazie agli impiegati del Verano. Il corpo viene riconosciuto dal patrigno: ha i polsi legati sul dorso, il petto nudo e indossa ancora il cappotto che aveva al momento dell’arresto. Anche la salma di Giorgio Labò, arrestato il 1° febbraio, viene riconosciuta qualche giorno dopo.
I caduti di maggio e i martiri della vigilia
A maggio le condizioni della città appaiono disperate. Le forze tedesche sono impegnate nello scontro finale al vicino fronte e l’attesa dell’arrivo degli americani (che rappresenta la fine delle sofferenze) per la popolazione è forte.
Pietro Benedetti viene tradotto in questura e a Regina Coeli. Il 29 febbraio è condannato a 15 anni di reclusione. Subisce un secondo processo l’11 aprile e, dopo un’udienza di dieci minuti, viene condannato a morte. Benedetti viene anche portato a via Tasso, la sua firma su un muro è ancora lì a testimonianza; cade sugli spalti del Forte Bravetta, alle 8 del mattini, fucilato da un plotone di PS.
Il giorno scelto per la sua esecuzione, il 3 aprile, lunedì di Pasqua, don Morosini chiede e ottiene di poter celebrare la messa a Regina Coeli. Poi viene portato al Forte Bravetta, accompagnato da mons. Traglia: lì viene bendato e legato alla sedia. Quando arriva l’ordine, non tutti i militi della PAI se la sentono di sparargli: don Giuseppe cade ma è ancora vivo. Il comandante del plotone lo finisce con due colpi alla nuca.
I tedeschi poi impediscono a chiunque di accompagnare il feretro: monsignor Traglia lo segue però a distanza fino al Verano, dove il sacerdote viene tumulato in un’oscura tomba davanti all’ingresso principale. Il cardinale ne terrà a mentre l’ubicazione, per poi rivelarla a Liberazione avvenuta. La Repubblica concederà a don Giuseppe Morosini la medaglia d’oro al valor militare.
Il 3 maggio 1944 viene fucilato Tigrino Sabatini, nome di battaglia Badengo, operaio della Snia Viscosa di Roma, nativo di Abbadia S. Salvatore. L’8 settembre è inquadrato nella banda Pepe che per dodici ore riesce a tenere impegnati nuclei di paracadutisti tedeschi alle porte di Roma. Operaio alla Breda, diventa caposettore nella II zona a Torpignattara. Viene processato dal Feldgericht il 22 febbraio e condannato a morte il 14 aprile
L’8 maggio 1944 vengono fucilati Salvatore Fagiolo e Virgilio Tagliaferri che giungono sul terrapieno con storie e scelte del tutto diverse. Salvatore Fagiolo opera nella banda Castelli Romani. Viene arrestato dal Comando Militare Tedesco di Castel Gandolfo l’8 gennaio, perché un militare tedesco lo riconosce come appartenente ad un gruppo che, qualche giorno prima, lo ha fermato e minacciato con una pistola. Viene trasferito a Regina Coeli e processato. La sentenza viene emessa il 14 aprile.
Virgilio Tagliaferri è un collaboratore dei tedeschi. Trovatosi assieme a due soldati tedeschi nella casa di un vicino, uccide uno dei due in collaborazione con l’altro. Viene condannato assieme al suo complice. Secondo i rapporti di polizia i due volevano impedire che il compagno continuasse a violentare una donna che abitava in quella casa. La sentenza è del 18 aprile.
La lapide di Forte Bravetta, alla data 6 maggio 1944, riporta due nomi appartenenti a due partigiani poi riconosciuti come appartenenti a Bandiera Rossa: i fratelli Antonio e Michele Addario, nati ad Andria in provincia di Bari, rispettivamente il 20 settembre 1920 e il 6 giugno 1924. Diverse fonti riferiscono che la morte dei due militanti di Bandiera Rossa avvenne fra il 29 e il 30 aprile non a Forte Bravetta ma sulla via Prenestina.
Il 24 maggio vengono fucilati gli appartenenti al “Gruppo Vassalli”. Corrado Vinci elettromeccanico, siciliano, rappresentante socialista nel Cln della zona Monte Mario, Ottavia, Campagnano è collegato con il gruppo, con l’incarico di osservare ed annotare i movimenti di truppe tedesche nella sua zona fin dal 1943. Salvatore Grasso, anche lui siciliano, è ufficiale dell’esercito. Pietro Bergamini, napoletano è radiotelegrafista. Arrestati, vengono portati a Regina Coeli. Tutti vengono più volte interrogati e torturati in via Tasso.
I cinque uomini sono fucilati quasi certamente da un plotone della GdF. Le salme vengono riesumate il mese successivo e definitivamente sepolte al Verano: i corpi vengono trovati con le mani legate da corde come al momento dell’esecuzione. Fabrizio Vassalli sarà insignito di Medaglia d’oro della Resistenza.
Il 30 maggio viene eseguita l’unica esecuzione effettuata non a Forte Bravetta, ma a Piazza di Siena, nei confronti di Alberto Coppola, uno sfollato da Napoli accusato di aver fatto commercio clandestino di 32 quintali di zucchero destinati alla fabbricazione di medicinali e di averne fatto frittelle da vendere tramite i suoi 9 figli. La stessa sentenza condanna a pene detentive alcuni commercianti complici di Coppola. Il tribunale che ha emesso la sentenza è il ricostituito Tsds (sezione regionale).
Poche ore prima della liberazione della città, il 3 giugno, viene effettuata l’ultima fucilazione a Forte Bravetta di uomini della Resistenza: Fortunato Caccamo, Mario de Martis, Giovanni Lupis, Guido Orlanducci, Emilio Scaglia e Costanzo Ebat, tutti arrestati tra il marzo e l’aprile a seguito di una delazione. Condotti a Via Tasso poi a Regina Coeli, vengono processati il 9 maggio e condannati a morte: sono ricordati come i “martiri della vigilia”.
Mentre il camion arriva al forte un aereo alleato mitraglia l’edificio. Il solito stuolo di ufficiali e magistrati si disperde per un po’ di tempo; Ebat si divincola e tenta di fuggire, ma viene ripreso. La scarica è disordinata, solo Ebat muore all’istante, gli altri sono finiti a colpi di pistola da un ufficiale. Subito dopo aver sparato, il plotone della PAI sale su un camion e fugge in fretta al Nord. L’ufficiale tedesco è scappato prima, dopo aver letto frettolosamente la sentenza, senza curarsi di assistere all’esecuzione.
Fortunato Caccamo, nome di battaglia “Tito”, carabiniere di S. Gregorio (Reggio Calabria), dopo l’8 settembre partecipa alla difesa di Roma; il 10 ottobre, giorno in cui l’Arma viene sciolta, fugge e si unisce alla formazione comandata dal generale Filippo Caruso. Svolge diverse azioni nella zona dei Monti Albani e a Palestrina tiene il collegamento tra la sua formazione e quella comandata dai maggiori Dessy e Ebat. Catturato a Roma a seguito di una delazione in p.zza Bologna il 7 aprile, dopo circa un mese di permanenza a via Tasso viene trasferito a Regina Coeli.
Costanzo Ebat, 33 anni, tenente colonnello d’artiglieria, livornese, ha partecipato alla guerra d’Etiopia col grado di capitano. Nell’autunno del 1943 entra a far parte della banda Napoli operante a Roma e nel Lazio, con compiti di rilevamento dell’organizzazione difensiva tedesca, particolarmente per la zona di Civitavecchia, poi nella banda Billi. Con il colonnello Salvati entra a far parte del Fmcr nel gennaio 1944 e assume il comando di una banda che fa parte del gruppo Dessy. Il 6 marzo, allontanatosi Dessy, prende il comando dell’intero gruppo. Viene arrestato il 30 marzo, con 19 compagni.
Al momento dell’arresto riesce a far sparire alcuni rotoli di carta sottile su cui sono tracciati piani e disposizioni di grande importanza militare. Resta per 35 giorni in via Tasso. Nel rapporto medico stilato nel pronto soccorso del terzo braccio di Regina Coeli, Ebat risulta affetto da “enterocolite amebica”. In realtà ha la schiena livida per le frustate, ha tre costole rotte ed emorragie interne. Già decorato durante la seconda guerra mondiale, viene insignito di medaglia d’oro per la Resistenza.
Giovanni Lupis, guardia di PS, è di Reggio Calabria. Mario De Martis, di Sassari, studente in legge è in servizio di leva dal 1942 come tenente pilota. L’8 settembre presso Grosseto viene fatto prigioniero dai tedeschi. Fugge e arriva a Roma, dove conosce il maggiore Dessy, anch’egli sardo, ed entra a far parte quale aiutante maggiore del battaglione Hazon, inquadrato nella banda clandestina Napoli del Fmcr. Il 23 aprile viene trasferito a Regina Coeli e il 9 maggio viene processato.
Guido Orlanducci, napoletano, è sergente maggiore dell’esercito. Emilio Scaglia, guardia di PS, novarese il 10 ottobre 1943 si unisce alla banda Napoli, al comando del colonnello Salinari, dove svolge compiti di collegamento. Viene arrestato il 28 marzo in p.zza Esedra a Roma dalle SS, mentre è in attesa di un contatto con altri partigiani. E’ medaglia d’argento al valore militare.
Processi e rappresaglie
Nei nove mesi di occupazione le fucilazioni risultano 75 di cui 7 ordinate dal Tmi (sei il 10 ottobre 1943 e una il 18 novembre 1943), 1 ordinata dal Tsds sez. regionale (il 30 maggio 1944) e 66 su ordine del comando tedesco (per tutti e nove mesi di occupazione).
Le 66 condanne ordinate dal comando tedesco risultano eseguite:
10 nel 1943; (1 in ottobre, 2 in novembre, 7 in dicembre)
56 nel 1944; (13 in gennaio, 11 in febbraio, 13 in marzo, 5 in aprile, 9 in maggio, 5 in giugno).
Per tentare di comprendere l’uso che della pena capitale fanno gli occupanti nella lotta in corso è necessario considerare i seguenti elementi:
a) il numero delle condanne è più alto nei primi tre mesi del 1944 quando la lotta partigiana è aspra e decisa e infuria lungo la linea del fronte Anzio–Cassino una battaglia decisiva fra gli eserciti regolari per il controllo e l’accesso a Roma
b) tre di queste esecuzioni sono “collettive” (vengono fucilate per una stessa accusa dieci o undici persone), una in gennaio, una in febbraio e una in marzo
c) le esecuzioni non avvengono sempre dopo un processo formale per quanto rapido; spesso gli ordini vengono direttamente emessi dalle autorità di polizia
d) in ogni caso lo sbarco di Anzio rappresenta un momento fondamentale per l’intensificarsi della lotta armata e l’inasprirsi della repressione
e) a Forte Bravetta cadono rappresentanti di tutte le formazioni partigiane e in alcuni casi le singole organizzazioni vengono colpite nel momento in cui la loro azione appare più efficace
Terminata l’inchiesta di polizia (a via Tasso, a via Tasso e a Regina Coeli e negli altri luoghi di detenzione) vengono consegnati al plotone di esecuzione gli oppositori che le autorità tedesche hanno definito “meritevoli di morte”.
Il processo, quando avviene, è comunque rapido. In una lettera scritta alla moglie da Regina Coeli il condannato Pietro Benedetti racconta il secondo procedimento cui è sottoposto:
Alle dieci sono stato introdotto nell’aula dove il Tribunale era già riunito. I suoi membri non erano più quelli del 29 febbraio: all’infuori di un ufficiale che in quella occasione fungeva da Presidente ed ora da Pubblico Ministero. Mi viene detto che la sentenza del 29 febbraio era stata sospesa e avrei dovuto essere processato di nuovo.
Si dà lettura del verbale del primo processo, in tedesco sempre; alla fine l’interprete mi domanda se ho qualche cosa da aggiungere alle mie dichiarazioni di allora. Alla mia risposta negativa il Pubblico Ministero fa la sua requisitoria che conclude con la richiesta della pena di morte, come mi comunica l’interprete. Vengo condotto fuori per qualche minuto e subito richiamato nell’aula dove viene letta la sentenza che conferma la richiesta del P.M.
Subiscono quasi certamente un processo i due carabinieri Raffaele Pinto e Antonio Pozzi con condanna emessa l’8 dicembre.
Contro Bandiera Rossa viene celebrato il primo grande processo contro la Resistenza romana. Si svolge il 28 gennaio nella sede dell’albergo Flora in via Veneto. La giuria, presieduta dal consigliere del tribunale di Guerra dell’Aeronautica Dr.Winden, è composta dal tenente colonnello Alberti, comandante dello Stato Maggiore di Roma, dal sottotenente Kausch, del IV reggimento corazzato Herman Goering, dal consigliere del Tribunale di guerra dell’Aeronautica Grischat. Il cancelliere è il caporalmaggiore Fritzsch.
Gli imputati vengono trasportati in udienza in taxi, quando è ancora notte. La sentenza è una delle poche sentenze del tribunale tedesco pervenute.
La “confessione completa e degna di fede da parte degli imputati” permette agli inquirenti di accertare che il Mcd’I si propone di creare un’organizzazione armata e di metterla in collegamento con altre bande per aggredire le truppe tedesche. Agli imputati non vengono contestate azioni armate: per emettere la condanna è sufficiente che gli indiziati abbiano raccolto e trasportato armi o che siano a conoscenza delle finalità dell’organizzazione di cui facevano parte. Altri cinque imputati sono condannati a pene detentive da scontarsi in Germania, tra i cinque e i quindici anni, per favoreggiamento del nemico e diffusione di giornali anti-tedeschi.
Il 22 febbraio ha luogo il processo contro don Giuseppe Morosini e Marcello Bucchi che si scagionano a vicenda: ognuno cerca di addossarsi i reati contestati all’altro.
Don Morosini condotto a via Lucullo, sede del Tribunale di Guerra Tedesco, viene accusato di traffico di armi per i partigiani e di spionaggio per gli Alleati. Viene poi trasferito a Regina Coeli, nel III braccio, cella 382. Dal carcere della Lungara viene spesso portato nuovamente a Via Lucullo, all’hotel Flora o negli uffici della Gestapo, al Viminale, dove subisce interrogatori lunghi ed estenuanti il 9 gennaio, il 22 e il 29 febbraio e il 13 marzo. Le SS, in particolare, vogliono il nome del militare tedesco (un capitano austriaco addetto all’ufficio operazioni della Wehrmacht) che circa un mese prima ha consegnato al sacerdote una copia del piano di schieramento delle forze tedesche davanti a Cassino che lo stesso Morosini ha inviato al Comando alleato. I tedeschi lo blandiscono, lo minacciano, lo percuotono, ma don Giuseppe non parla.
Il difensore chiede per l’imputato una perizia psichiatrica. La perizia lo dichiara sano.
Don Giuseppe viene condannato a morte, Bucchi a dieci anni di carcere duro in Germania (che non sconterà, in quanto verrà fucilato alle Fosse Ardeatine). La Santa Sede interviene invano per impedire l’esecuzione. A via Tasso divide la stessa cella di Sandro Pertini.
Il 27 aprile vengono processati Piero Bergamini, Salvatore Grasso, Fabrizio Vassalli, Corrado Vinci, Giordano Bruno Ferrari, Amelia Vitucci, moglie di Vassalli, Jolanda Gatti, moglie di Vinci (allora incinta di sette mesi) e Bice Bertini. Il 17 maggio Vassalli viene trasferito nel reparto italiano di Regina Coeli. Negli interrogatori subiti nei due mesi di prigionia mantiene il più assoluto silenzio; le SS, però, riescono a farlo parlare con l’inganno presentandogli in un colloquio il giudice istruttore per un avvocato inviato dalla famiglia.
Gli inquirenti accertano che il gruppo Vassalli fa riferimento al capitano Fulvio Mosconi, comandante della banda omonima. Gli incontri sono avvenuti nella casa di Giordano Bruno Ferrari, in via T. Campanella, o in quella di Vassalli, in Via Massimo 13. Bice Bertini raccoglieva i biglietti lasciati dai componenti del gruppo per stendere delle relazioni dattiloscritte che restituiva al Vassalli che, con Mosconi, provvedeva a trasmettere le informazioni agli alleati.
Il collegio giudicante è presieduto dal Consigliere del Tribunale di Guerra Reineke, dai tenenti delle SS Jentsch e Knaub, dal consigliere Plate per la pubblica accusa, dai graduati Stolz e Gyorgyfalvay in veste di cancellieri. Gli imputati sono condannati a morte per spionaggio; Vassalli e Vinci anche per possesso di apparecchio radiotrasmittente. Le donne verranno graziate.
Anche se la questione appare tutt’altro che agevole si tenta, in questa sede, di capire in quali circostanze gli occupanti decidano di formalizzare le condanne con un procedimento giudiziario e in quali casi scelgano l’esecuzione “sul campo”. Secondo la prassi più che il diritto militare di guerra si sottopongono a procedimento i reati connessi alla lotta armata condotta contro l’esercito occupante (possesso di armi, appartenenza a un’organizzazione clandestina, raccolta e invio di informazioni di carattere militare) senza che sia stato necessariamente accertato l’uso di armi da parte dell’imputato e questo è il caso di Pietro Benedetti, di don Giuseppe Morosini, dei componenti del gruppo Vassalli e degli undici di Bandiera Rossa. Si puniscono invece con l’esecuzione diretta le azioni condotte “armi in pugno” contro le truppe di occupazione.
Il giorno stesso della fucilazione di Pinto e Pozzi cadono, forse dopo un processo, i comunisti di Montesacro Riziero Fantini, Italo Grimaldi e Antonio Feurra. La notizia è riportata dal Messaggero con una formula molto simile a quella che verrà usata per l’eccidio delle Fosse Ardeatine: Tre fucilazioni per atti di violenza contro le forze armate germaniche [..] La condanna è stata eseguita ieri (Il Messaggero 1 gennaio 1944).
Quando i tre militanti comunisti vengono arrestati, il 20 dicembre, a Montesacro l’attività clandestina è molto intensa e la fucilazione dei tre, presentata dalla stampa ufficiale come risposta “sul campo” ad azioni armate è in realtà il primo colpo di un attacco alla Resistenza in un quartiere difficile che culminerà con il rastrellamento del febbraio successivo (e la nota del Messaggero vuole essere un monito rivolto alla popolazione).
Lo stesso giornale comunica la fucilazione avvenuta il 31 dicembre “10 condanne a morte di sabotatori e attentatori”,; E’ stata eseguita ieri la condanna a morte delle seguenti persone: […] (Il Messaggero, 1 febbraio 1944)
e quella del 7 marzo: “Dieci condanne a morte per atti di violenza”[..] La condanna è stata eseguita ieri (Il Messaggero, 9 marzo 1944).
Le fucilazioni del 31 gennaio e del 7 marzo seguono l’uccisione di un soldato tedesco e i condannati, scelti con cura fra gli elementi arrestati e sottoposti a inchiesta di polizia nelle settimane precedenti, appartengono un po’ a tutte le formazioni partigiane (anche se prevalgono i rappresentanti del Pci e del Pd’A).
Considerando l’arco di tempo in cui avvengono queste tre fucilazioni “esemplari” (1 gennaio– 7 marzo) e includendo anche il “grande” processo all’intera organizzazione di Bandiera Rossa che termina con l’esecuzione “collettiva” del 2 febbraio, appare evidente che, a prescindere dalla forma (con o senza processo, con o senza notificazione ufficiale, soprattutto in presenza o meno di soldati tedeschi uccisi), le esecuzioni obbediscono a un’unica logica repressiva che coincide con l’intensificarsi della lotta partigiana e che culmina alla fine di marzo.
E infine – va ribadito – la repressione colpisce le forze della Resistenza quando queste sono particolarmente attive ( il Pci di Montesacro in gennaio, Bandiera Rossa in febbraio, il Pd’A e il Pci in marzo- anche se non mancano caduti di altre formazioni) e quando infuria la battaglia lungo la linea Anzio–Cassino con esiti sempre più incerti per le truppe tedesche.
L’inchiesta di polizia e la permanenza degli oppositori catturati a via Tasso e negli altri luoghi di detenzione rappresentano il momento preparatorio e fondamentale nella strategia degli occupanti. La fucilazione a Forte Bravetta è la soluzione finale: molti degli arrestati dello stesso periodo verranno processati nei mesi successivi o verranno trucidati alle Fosse Ardeatine (fra questi gli esponenti del Pd’A rastrellati a Montesacro scampati a Forte Bravetta).
Scrive Alessandro Portelli:
[…] le Fosse Ardeatine non furono l’unica, e nemmeno l’unica strage perpetrata dai nazisti nella città di Roma, ma furono precedute e seguite dai settantadue fucilati a Forte Bravetta, dai dieci fucilati a Pietralata il 23 ottobre, dalle dieci donne uccise a Ostiense per aver assalito un forno, dai quattordici massacrati alla Storta sulla via della fuga il 4 giugno, senza che fosse avvenuto a “giustificarli” nessun attentato partigiano.[..]
Dal mese di aprile le esecuzioni sono meno frequenti e anche la lotta armata diminuisce d’intensità, soprattutto cade definitivamente l’ipotesi, sempre inseguita dalle forze della Resistenza dallo sbarco di Anzio in poi, di un’insurrezione. Nell’ultimo periodo gli occupanti non avvertono il bisogno di ricorrere a fucilazioni “esemplari” e le condanne eseguite (quelle riguardanti Benedetti, don Morosini, il gruppo Vassalli e i “martiri delle vigilia”) sono precedute da procedimenti giudiziari formalmente regolari che intendono punire fatti specifici.
Ma l’opposizione politica e armata, pur senza la prospettiva dell’insurrezione, continua e soprattutto, mentre la situazione al vicino fronte si evolve favorevolmente per gli anglo–americani, appaiono efficaci e decisive le operazioni di “Intelligence” che molti gruppi svolgono, in particolare il Fmcr, nei confronti del quale, in questa fase dello scontro, si rivolge la repressione.
Processi ai fascisti e ai collaborazionisti
La mattina del 4 giugno, mentre i primi contingenti alleati entrano in Roma attraverso le vie Casilina e Appia, il questore Pietro Caruso fugge dall’hotel Plaza, dove risiede.
Non è il solo a cercare la fuga: da tutte le parti della città partono colonne di automezzi dirette al Nord. Fugge Pietro Koch e le SS lasciano via Tasso con alla testa Dollman e Kappler dopo aver bruciato il loro archivio. I tedeschi durante la ritirata lasciano un’ultima scia di sangue, alla Storta dove fucilano tredici prigionieri fra cui l’esponente socialista Bruno Buozzi e un prigioniero britannico di cui non è pervenuto il nome.
La colonna su cui viaggia Caruso, alla guida di un’Alfa Romeo, prende la via Aurelia in direzione di Ladispoli. A causa dei continui mitragliamenti l’Alfa perde contatto con la colonna all’altezza del lago di Bracciano dove, per sottrarsi a un mitragliamento, finisce fuori strada e si schianta contro un albero.
Un’ambulanza tedesca porta Caruso ferito all’ospedale di Viterbo dove viene operato. Dopo l’intervento i tedeschi hanno ormai abbandonato la zona che viene rapidamente occupata dalle forze partigiane: il questore viene riconosciuto, arrestato e portato a Roma.
Nei confronti dell’ormai ex questore è stato spiccato un mandato di cattura dall’Alta corte per la punizione dei crimini commessi dal Fascismo, un tribunale emanazione di un organo istituito dal governo Badoglio fin dal 1943: l’Alto Commissariato per la punizione dei crimini commessi dal fascismo. Non è questa la sede per illustrare le funzioni e i risultati conseguiti da questi organi non tanto per punire penalmente i fascisti responsabili di azione criminose, quanto per procedere a un’efficace “epurazione” dai pubblici servizi degli elementi compromessi con il regime fascista.
Nel periodo che ci interessa, a Roma, gli organi giudicanti sottoposero a procedimento e condannarono a morte cinque collaborazionisti accusati di reati particolarmente odiosi e indicati dai parenti delle loro vittime come responsabili diretti di quelli e di altri crimini.
Il processo contro Pietro Caruso inizia il 18 settembre al Palazzo di Giustizia in un’atmosfera di grande tensione: l’edificio è gremito di donne vestite di nero, parenti delle vittime delle Ardeatine e di persone uccise o torturate durante i nove mesi di occupazione. Le forze dell’ordine riescono a tenere Caruso, terrorizzato, lontano dalla folla minacciosa che ne chiede la consegna e non proteggono Donato Carretta, già direttore di Regina Coeli durante l’occupazione, convocato per deporre contro l’ex questore. Su Carretta si sfoga la rabbia di centinaia di persone che lo prendono, lo percuotono, lo trascinano in strada e, dopo interminabili minuti, lo gettano nel Tevere e lo uccidono.
Assieme a Caruso è imputato anche il segretario di questi, Roberto Occhetto che viene condannato a trent’anni di reclusione. Caruso viene invece condannato a morte. Alle 14 del 22 settembre Caruso arriva a Forte Bravetta. Con l’aiuto del sacerdote che lo ha accompagnato in silenzio durante il viaggio, scende dal camion, si fa porgere le grucce e si avvia verso la sedia, davanti il terrapieno. Mentre il plotone si dispone Caruso grida: “Viva l’Italia! mirate bene”, poi parte la scarica che lo colpisce alla testa.
Il 4 giugno Pietro Koch riesce invece a fuggire al Nord con i suoi collaboratori. Per la fretta di scappare dalla capitale la banda Koch abbandona le sue camere di sicurezza ancora attrezzate. Nella pensione Jaccarino vengono trovate le sbarre e le funi usate per appendere i prigionieri a mezz’aria e le tenaglie che venivano usate sui corpi dei prigionieri; nella pensione Oltremare invece sono visibili le macchie di sangue sui pavimenti e sulle pareti.
Koch si stabilisce a Milano, in una villetta in via Uccello, nella zona di S. Siro. Entra in contatto col capitano Saeweke delle SS e riorganizza la sua squadra speciale. Il fatto che la villetta di via Uccello venga immediatamente ribattezzata “Villa Triste”, lascia chiaramente intuire i metodi adottati. Il disordine istituzionale, nell’Italia della Rsi, si accentua con l’avvicinarsi delle truppe alleate. I conflitti e le rivalità che dividono le diverse polizie italiane e tedesche determinano lo scioglimento della banda Koch e l’arresto dei suoi componenti. Lo stesso Koch, fra le proteste dei comandanti tedeschi viene rinchiuso a S. Vittore alla fine del 1944. Ma è ormai la fine per la Rsi, per l’occupazione tedesca e per il regime fascista.
Il 25 aprile, nella confusione del momento, Koch esce dal carcere milanese, si taglia i baffi e si schiarisce i capelli. Riesce a eludere i numerosi posti di guardia istituiti dai partigiani e sembra volersi dirigere verso la Svizzera ma cambia idea: si dirige verso Firenze per rivedere la sua compagna, Tamara Cerri, e la madre. A Firenze però si costituisce dopo aver appreso che tanto la madre che Tamara sono in carcere. E’ il 1° giugno 1945: viene immediatamente trasferito a Roma e messo in isolamento
L’istruttoria viene chiusa in due giorni; il rinvio a giudizio viene formalizzato con l’accusa di collaborazionismo. La difesa viene assunta dall’avvocato antifascista Federico Comandini. Il processo inizia la mattina del 4 giugno. Interrogato, Koch dirà di aver svolto normali operazioni di polizia, di non aver mai ordinato torture, di non aver dato alcun contributo al massacro delle Fosse Ardeatine.
Si susseguono le testimonianze a suo carico. Quando vengono ricordate le più crudeli operazioni del suo reparto, risponde di avere, in un certo senso, protetto la popolazione romana dalle rappresaglie tedesche. Tenta di mostrarsi moralizzatore, riferendosi ai loschi traffici delle altre polizie su cui aveva indagato e che lo avevano portato all’arresto a Milano.
La requisitoria del PM è breve e secca: si conclude con la richiesta della pena di morte. La difesa di Comandini è abile: vuole distruggere “il mito Koch”, mostrarlo come un prodotto del clima fascista, “un fungo velenoso”. La corte si ritira: tre ore e mezzo dopo lo condanna a morte.
Il 5 giugno 1945 alle 14.10 il furgone carcerario entra nel Forte seguito da un secondo furgone con a bordo i 17 agenti metropolitani che compongono il plotone d’esecuzione. Alle 14.21 viene fucilato.
Armando Testorio e Franco Sabelli vengono arrestati a Tivoli, processati dal Tribunale militare e fucilati il 26 giugno 1945, alle ore 18.21. Due fotografie, scattate in sequenza, fissano gli ultimi istanti di vita dei condannati.
La prima ritrae il plotone schierato con le armi puntate verso la schiena dei due legati a due sedie posta l’una accanto all’altra, ma con il braccio destro libero e teso in avanti nel saluto fascista, la seconda, scattata subito dopo la scarica di fucileria, coglie Testorio piegato in avanti e ancora fissato alla sedia, mentre Sabelli appare riverso sul terreno. I soldati indossano le uniformi in dotazione del ricostituito esercito regio dopo l’8 settembre 1943, fornite dalle Forze armate britanniche, riconoscibili dai caratteristici elmetti.
I due, prima dell’esecuzione, ricevono i conforti religiosi, Testorio spontaneamente, Sabelli su invito del sacerdote.
La lapide di Forte Bravetta
Il 13 e il 14 giugno 1944 il quotidiano Il Popolo pubblicò i nomi dei caduti di Forte Bravetta servendosi, presumibilmente, dei registri del Verano. L’elenco pubblicato presentava diversi errori. Successivamente le associazioni partigiane che fecero erigere la lapide che ancora oggi si trova all’interno del Forte, su indicazione di parenti e di amici, eliminarono alcuni errori, ma non tutti.
La lapide che vuole ricordare i caduti della Resistenza romana presenta i nomi di Antonio e Michele Addario che furono fucilati “sul posto”, in via Prenestina, di Francesco Vigilante che, come si è visto, venne fucilato prima dell’8 settembre, di Giuseppe Tirella e di Virgilio Tagliaferri, che vennero condannati per reati comuni. Branko Bitler, partigiano di “Bandiera Rossa”, infine, viene citato una seconda volta con il nome di Branzo Walter.
Il caso di Francesco Vigilante, strana spia, coinvolto forse suo malgrado in una vicenda più grande di lui, fa pensare che la Storia è fatta di tante storie, spesso drammatiche, vissute da personaggi non sempre consapevoli del ruolo che sono chiamati a ricoprire in un momento particolare della loro esistenza, come l’omino di Tempi Moderni che, mosso unicamente dalla sua antica fame, si trova alla testa di un’imponente manifestazione di lavoratori.
E il sedicente ufficiale/medico napoletano non è stato il solo: in una lunga sequenza sul terrapieno sono caduti combattenti perfettamente coscienti del loro sacrificio e dei valori di cui si sono fatti testimoni – e sono tanti, come si è detto, la maggioranza -, ma oltre a questi le scariche di fucileria hanno colpito altri con personalità e storie individuali del tutto diverse.
Finirono infatti i loro giorni sul terrapieno del Forte anarchici veri e presunti che avevano progettato attentati a Mussolini, agenti segreti al servizio delle nazioni in guerra con l’Italia, combattenti e oppositori politici della Resistenza italiana e jugoslava, rapinatori, “borsari neri” e, infine, fascisti. Un’altra riflessione: alcuni di quei condannati avevano commesso reati per i quali il codice penale in vigore attualmente nel nostro paese prevede pene molto severe, ma non la pena di morte, che la Costituzione repubblicana ha cancellato dal nostro ordinamento.
Forte Bravetta, pertanto, luogo-simbolo della Resistenza e dell’opposizione al fascismo e al nazismo deve diventare anche il luogo-simbolo dell’abolizione della pena capitale: istituto arcaico, barbaro e privo ormai di ogni fondamento giuridico, che pure viene ancora oggi applicato in molti paesi, alcuni dei quali molto vicini al nostro per tradizionali vincoli di amicizia.
Le fonti documentarie
Le notizie utilizzate per questo lavoro sono state ricavate dalla lettura di documenti conservati nei seguenti archivi:
Archivio centrale dello stato, Tribunale speciale per la difesa dello stato
Contiene i fascicoli processuali dei condannati a morte fino all’8 settembre 1943.
E’ fornito di un inventario analitico che consente, partendo dal nome e dalla data di condanna, di ritrovare il fascicolo corrispondente.
Archivio centrale dello stato, Ministero di Grazie e giustizia, Div. VI, Istituti di prevenzione e pena
Conserva i fascicoli personali di tutti i detenuti politici fino all’8 settembre 1943, con inventario analitico e repertorio alfabetico
Archivio centrale dello stato, Casellario politico centrale
Contiene i fascicoli nominativi di tutte le persone sottoposte a controllo di polizia fino all’8 settembre 1943
Archivio centrale dello stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza Rsi Chierici 1943-1945
La busta n.70 (mattinali) contiene comunicazioni della Questura di Roma sulle fucilazioni avvenute a Roma durante l’occupazione tedesca
Archivio di stato di Roma, Regina Coeli-Detenuti politici
Conserva i fascicoli carcerari con la scheda biografica di ogni condannato per motivi politici dal 1938 fino al 1945, con le relazioni sull’avvenuta esecuzione per i condannati a morte.
Con inventario analitico e repertorio alfabetico.
Per quanto riguarda, poi, i particolari e le circostanze delle esecuzioni avvenute durante i nove mesi di occupazione del Lazio e il contesto in cui queste maturarono, si rinvia alla ricca bibliografia sull’argomento indicata in M. L. Autilia, M. De Nicolò, M. GALLORO, Roma e Lazio 1930-1950. Guida per le ricerche, a cura di A. PARISELLA, Milano, 1994, Franco Angeli editore, in particolare alle pp. 383-393.