a cura di Cornelio Galas
La battaglia di Ovaro
Ad Ovaro, il 29 aprile si riunì il CLN della Val Degano per esaminare la situazione politico-militare e concordare l’atteggiamento da tenere nei confronti del Corpo speciale cosacco di cui era nota la decisione di ritirarsi in Carinzia puntando sul Passo Monte Croce Carnico, attraverso la Valle del But e la Val Degano.
Il generale clima euforico nell’imminenza della fine della guerra e della dura occupazione tedesca e cosacca in Carnia portò alla proposta di una parte del CLN di imporre con la forza la resa ai reparti cosacchi in ritirata lungo la Val Degano.
Il Commissario politico della Brg. “Garibaldi-Carnia”, comunista di elevata dirittura morale, Osvaldo Fabian, sostenuto dal rappresentante della Divisione Osoppo, si oppose nettamente alla proposta ritenendo assurda la pretesa di poter imporre con la forza la resa a migliaia di cosacchi armati, con le poche forze partigiane disponibili in zona.
Era tra l’altro necessario evitare ulteriori sofferenze alla popolazione, già provata da sette mesi di privazioni e di prevaricazioni.derivanti dall’occupazione dei collaborazionisti russi. In questo caso, argomentava Fabian, valeva il detto “a nemico che fugge, ponti d’oro”.
Non sarebbe stato saggio, infatti, provocare un avversario incattivito dal crollo delle sue illusioni e dalla prospettiva di un oscuro e minaccioso futuro. Le argomentazioni del Fabian ottennero l’approvazione della maggioranza ed i promotori dell’azione di forza si adeguarono.
Il giorno successivo, 30 aprile, si ebbe notizia dell’approntamento, a Tolmezzo e a Villa Santina di enormi colonne di cosacchi a cavallo, a piedi, di profughi civili su carrette, pronti a muovere verso il confine.
Anche grossi contingenti di truppe tedesche di stanza a Tolmezzo stavano muovendo verso la Carinzia. Il CLN era ora riunito in permanenza, dato il rapido succedersi degli eventi, presso il Municipio di Ovaro.
La mattina del 1 maggio, giunsero in questa sede presentandosi al CLN, molti affiliati della Divisione Osoppo, partigiani dell’ultima ora, che sfoggiavano “divise nuove fiammanti” secondo quanto riportato dal Fabian, con il fazzoletto verde al collo. Li accompagnavano numerosi civili mai visti prima in zona. In un clima confuso e concitato, i nuovi arrivati reclamarono la necessità della resa del presidio cosacco di Ovaro-Chialina e di iniziative militari contro le colonne cosacche in ripiegamento.
Essi affermarono di aver già intavolato trattative di resa con il presidio cosacco. Ben presto fecero prevalere la loro proposta affiancati dalla quella parte del CLN che già si era espressa due giorni prima a favore di un’azione di forza.
I nuovi arrivati osovani, erano l’espressione di un gruppo costituito da imprenditori e industriali carnici, e dalle loro maestranze, che intendevano riscattare, con improvvisate e improvvide iniziative militari, il periodo di prudente attendismo e di mancata o tiepida adesione al movimento partigiano dei mesi precedenti.
Questo gruppo, numeroso ed esagitato, riuscì quindi a imporre la propria soluzione, ribaltando quella più realistica ed economica adottata precedentemente per iniziativa del rappresentante del PCI e, al tempo stesso, Commissario garibaldino.
In pratica, il vecchio CLN fu esautorato e sostituito da un nuovo CLN dominato dagli estremisti osovani che estromise di fatto la fazione garibaldina, che era sempre stata pronta a usare la forza contro gli occupanti stranieri, ma che in questo caso era fermamente convinta che l’uso della forza sarebbe stato una follia, dal punto di vista militare e gravido di funeste conseguenze per la popolazione civile.
Il nuovo CLN mandò subito una staffetta a chiamare il reparto partigiano più vicino perchè si mettesse a disposizione del CLN per assumere la responsabilità dei prigionieri del presidio cosacco, una volta che questo si fosse arreso.
Il reparto convocato era il battaglione. garibaldino ”Leone-Nassivera” che però al momento disponeva solo di una ventina di uomini su un organico di circa cento. Il Comandante del battaglione, ignaro degli sviluppi in seno al CLN, ritenne di dover obbedire ad un organo che riteneva legittimo; l’ordine ricevuto parlava di presa in consegna di prigionieri cosacchi, non di una azione di forza contro truppe cosacche, azione che egli sapeva essere contraria agli intendimenti della Divisione Garibaldi.
Fu contemporaneamente invitato a presentarsi al CLN anche il Comandante del presidio cosacco Magg. Nasikov che giunse accompagnato da uomini armati; si trovarono così insieme, davanti al Municipio di Ovaro partigiani osovani, garibaldini e militari cosacchi, gli stessi che per sette mesi si erano duramente combattuti.
Alla riunione partecipò anche il Fabian, rappresentante del PCI cui il CLN ordinò di nascondere il fazzoletto rosso, di tenersi in disparte e di non intervenire per non irritare i parlamentari cosacchi che odiavano i garibaldini comunisti. Egli, quindi, dovette assistere alle trattative, impotente ad influire sul corso degli eventi ormai nelle mani della corrente osovana più oltranzista quanto irresponsabile.
A parte la velleitaria convinzione da parte degli osovani di dominare la situazione, nulla era pronto: non esisteva un piano di operazione militare, nessuna predisposizione tattica o logistica era stata attuata, pochi erano i partigiani di provata esperienza di lotta.
Questo nuovo CLN voleva la resa del presidio cosacco di Ovaro-Chialina e, in successione, lo scontro frontale con le colonne cosacche in arrivo da Tolmezzo e da Villa Santina. Alla richiesta di resa, il Comandante del presidio, sorridente ed affabile, non oppose un rifiuto, ma tergiversò con motivazioni pretestuose e dilatorie, evidentemente in attesa dell’arrivo delle colonne cosacche in marcia da Tolmezzo. La riunione si concluse nel pomeriggio con un nulla di fatto e fu aggiornata al giorno successivo.
Durante la notte il Fabian, che si era fermato a riposare in una casa di Chialina, venne svegliato da partigiani osovani che gli presentarono il Capitano georgiano Akaki il quale, con i suoi 30 uomini, intendeva schierarsi con i partigiani contro i tedeschi. Nella stessa notte, gli impazienti parlamentari osovani si erano presentati al distaccamento del presidio cosacco di Chialina, chiedendo la resa, ma furono accolti da raffiche di mitra.
Ritiratisi senza perdite, con il favore delle tenebre, addossarono al muro della caserma una forte carica esplosiva che fu fatta brillare all’alba. Era iniziata la battaglia di Ovaro. L’esplosione aveva determinato il crollo della palazzina e la morte di numerosi cosacchi e familiari colà alloggiati.
I partigiani osovani e il battaglione garibaldino, integrato dai georgiani, portavano a fondo l’attacco al distaccamento e malgrado la rabbiosa reazione dei superstiti cosacchi, ne ebbero ben presto ragione, catturando 150 cosacchi che furono trasferiti a Prato Carnico.
I partigiani, imbaldanziti dal successo ottenuto a Chialina, si portarono ad Ovaro e iniziarono l’attacco frontale al grosso del presidio cosacco asserragliato nell’albergo Martinis, e nell’attiguo municipio. Il combattimento si protrasse per alcune ore e la guarnigione cosacca stava per soccombere nei due edifici ormai in fiamme.
A questo punto, sopraggiunse la colonna cosacca in ritirata da Villa Santina. Dopo aver fissato l’avversario frontalmente, con il fuoco, il Comandante dell’avanguardia cosacca, attuò una manovra di avvolgimento disponendo che gli junker raggiungessero, senza farsi vedere, le alture sovrastanti Ovaro, e da lì investissero sul fianco e sul tergo i reparti partigiani impegnati nell’attacco al Municipio.
La sorpresa riuscì e la massa degli osovani, presa tra due fuochi, si dileguò lasciando soli i garibaldini e i georgiani. Esaurite le munizioni, anche questi dovettero disimpegnarsi e disperdersi, mentre i cosacchi, padroni del paese, sparavano indiscriminata mente contro le abitazioni e i rari civili che si erano avventurati fuori dalle case.
Fu ucciso anche il parroco di Ovaro, accorso per somministrare l’estrema unzione ai civili morti o moribondi. In totale vi furono ventisei morti tra la popolazione, cui si aggiunsero tre partigiani e otto georgiani. Alla vista dei caduti georgiani, i cosacchi infuriati infierirono sui loro corpi che disposero, su una piazzetta dietro al Municipio, in modo tale che formassero una stella a cinque punte. La battaglia di Ovaro, alle 1600 del 2 maggio, era quindi conclusa.
Esiste anche un resoconto della battaglia di Ovaro, fatto da Mario Candotti, Comandante della Divisione Garibaldi-Carnia, che la notte tra il 1 e il 2 maggio, avvertita la forte esplosione verso Ovaro e la successiva sparatoria, si era portato con alcuni partigiani a Muina, sulla riva destra del Torrente Degano – sul versante della valle opposto quindi a quello di Ovaro – ove scorse nell’oscurità, la lunga colonna di cosacchi ferma due km. a sud di Ovaro.
Egli era allarmato da quello che appariva essere un attacco in atto da parte partigiana contro i cosacchi del presidio di Ovaro. Se così era, era stata presa una iniziativa contraria alla decisione, concordata in ambito CLN e sostenuta dai Comandanti delle formazioni partigiane garibaldine e da autorevoli rappresentanti di quelle osovane, di permettere il deflusso dei cosacchi verso l’Austria o, se esistevano le condizioni, di intavolare trattative per la loro resa, senza mai giungere però ad una rottura e soprattutto senza mai impegnarsi in un attacco frontale che avrebbe visto sicuramente perdenti i partigiani, molto meno numerosi e poco armati.
Approfittando dell’oscurità, il Candotti si portò con i suoi pochi partigiani a Mione, posto sulla riva destra del Torrente Degano, opposta a quella sulla quale si trovava l’abitato di Ovaro, in posizione dominante, per rendersi conto di quanto stava accadendo. Egli sperava di trovare in una casa del paese armi pesanti a lunga gittata, precedentemente nascoste, per poter eventualmente intervenire dalla sua posizione sopraelevata, ma non trovò nulla perchè, evidentemente, i partigiani impegnati ad Ovaro le avevano sottratte nottetempo.
Candotti dovette quindi assistere impotente agli sviluppi del combattimento che si andava sempre più intensificando. Vide così sopraggiungere forti contingenti di cosacchi staccatisi dalla colonna in sosta, e la loro manovra sul fianco che sorprese i partigiani e li costrinse alla fuga.
Il giorno successivo, 3 maggio, ebbe luogo un incontro tra i rappresentanti osovani e garibaldini per chiarire le responsabilità dell’accaduto. Fu accertato che l’iniziativa dell’attacco frontale era stata presa da partigiani osovani e da gruppi di civili di Ovaro; a loro si era successivamente unito il battaglione garibaldino “Leone Nassivera” nel generoso tentativo di aiutare gli osovani ad avere ragione del presidio di Ovaro.
Nelle primissime ore del 2 maggio, mentre la colonna dei cosacchi e profughi in ritirata era ferma lungo la strada in attesa che fosse eliminata la resistenza dei partigiani ad Ovaro, era stato ucciso a metà strada tra Villa Santina ed Ovaro, un vecchio Generale cosacco in uniforme che, sceso dalla vettura, procedeva a piedi accompagnato da una donna; era stato probabilmente vittima di un colpo d’arma da fuoco sparato da un partigiano isolato nascosto nei boschi a lato della strada.
Si trattava del Generale D’jakonov, vecchio combattente con le Armate Bianche che si era unito all’Armata cosacca di Krassnov senza tuttavia ricoprire alcuna funzione. Il cadavere del Generale, tolti i documenti di identificazione, fu posto temporaneamente al lato della strada e ricoperto da un telo.
Il Comando cosacco di Villa Santina, non ancora partito, prese contatto con il locale CLN perchè fosse data sepoltura al vecchio Generale. Il giorno 3 maggio, la salma, fu trasferita da un gruppo di cosacchi a cavallo presso un magazzino di Villa Santina già usato per i riti ortodossi durante l’occupazione.
Secondo il diario storico della Divisione partigiana Garibaldi-Carnia, si trattava del Generale Krassnov, ma non era vero. L’equivoco era nato dal fatto che, sulla salma rivestita dell’uniforme di cosacco del Don abbandonata nel magazzino, assieme alla sciabola, fu successivamente rinvenuto un orologio d’oro con la dedica al Gen. Krassnov all’interno del coperchio.
La salma venne tumulata nel cimitero di Villa Santina e, nel 1957, traslata al Cimitero militare tedesco di Costermano sul Garda. Secondo la versione formulata da Claudio Magris, sulla base di voci raccolte negli anni ‘80 tra i cosacchi della comunità di Monaco (D), il Generale D’jakonov sarebbe stato fatto uccidere da Domanov che voleva eliminare uno scomodo testimone, uno che sapeva tutto sulla misteriosa morte del Col. atamano Pavlov, avvenuta in Bielorussia il 17 giugno 1944 (vedi Cap. III). Si sarebbe servito, ancora una volta, del fedele esaul Razilov e di sua moglie disponendo che essi accompagnassero il vecchio Generale durante la ritirata.
Nel frattempo, una volta soppressa la resistenza ad Ovaro, la colonna di cosacchi e di profughi riprese la marcia verso Paluzza attraverso la Valcalda, sotto una pioggia incessante frammista a neve.
I massacri di Avasinis
Il 1 maggio, una colonna di 200-300 tedeschi, nel quadro della ritirata generale verso il confine carinziano, mosse da Spilimbergo verso Tolmezzo, attraverso Cavazzo Carnico, ove raccolse anche molti profughi cosacchi che intendevano congiungersi al Corpo speciale cosacco in procinto di lasciare la Carnia.
La colonna fu fatta segno a colpi di arma da fuoco da parte di partigiani, i tedeschi prelevarono alcuni ostaggi che fecero camminare in testa alla colonna.
Il giorno successivo, 2 maggio, percorsero lo stesso itinerario altri 250 Waffen SS Karstjäger (sloveni, istriani, altoatesini, friulani). Giunti all’altezza di Avasinis, dalle alture circostanti partirono colpi di arma da fuoco che provocarono alcune perdite.
Per rappresaglia, furono uccisi 65 civili locali. La reazione partigiana non si fece attendere. 100-150 cosacchi, che si erano arresi il 25 aprile ai quali era stata garantita l’incolumità, vennero invece eliminati. Per la verità ne uccisero meno della metà perchè 80 erano già stati fucilati prima della rappresaglia tedesca, ad Avasinis, del 2 maggio.
Un partigiano, la cui madre era stata tra le vittime della rappresaglia tedesca del 2 maggio, prelevò quattro profughi cosacchi padre, madre e due figli piccoli, che avevano trovato rifugio presso una famiglia locale, e li eliminò dopo aver fatto scavare la fossa ai due genitori. Altre uccisioni di cosacchi avvennero nei dintorni di Avasinis; nel dopoguerra, dalle alture che sovrastano Avasinis ed Alesso, furono portati a valle i resti di 110 cosacchi.
Il ripiegamento verso la Carinzia
Il 2 maggio i collegamenti tra i due gruppi cosacchi di retroguardia, a Gemona e a Tolmezzo, furono interrotti. Il 4 maggio, il forte presidio cosacco di Gemona, che aveva protetto il deflusso delle unità cosacche verso la zona di ammassamento di Tolmezzo, preso atto dell’impossibilità di raggiungere il Corpo speciale cosacco, in gran parte già in procinto di superare il confine austriaco, si arrese alle truppe inglesi.
E’ ignota la loro sorte come quella degli altri cosacco-caucasici, parecchie centinaia, presenti alla fine di aprile nella pianura friulana, che non riuscirono a ricongiungersi con il grosso del Corpo speciale cosacco di Domanov in marcia verso l’Austria.
Finiti i combattimenti ad Ovaro, la colonna cosacco-caucasica in ritirata dovette attendere ancora qualche ora prima di riprendere il movimento. Fu necessario infatti riorganizzare il reparto del presidio che aveva sostenuto l’attacco dei partigiani, prestare le prime cure ai feriti e caricarli sulle carrette o sugli autoveicoli, recuperare i morti portandoli al seguito o affidandoli alla pietà dei locali. Mancavano molti cavalli, rimasti uccisi nella sparatoria o sottratti dai partigiani.
Il movimento verso la Valcalda potè essere ripreso solo la sera sotto una continua pioggia che ben presto si tramutò in neve e ghiaccio. La colonna fu organizzata in scaglioni di marcia, intervallati l’un l’altro, ciascuno dei quali era costituito da pattuglie a cavallo in testa seguite da cosacchi appiedati e carriaggi con i profughi. Altri armati a cavallo erano in coda.
La lunga colonna marciò tutta la notte raggiungendo il mattino successivo Paluzza, nella Valle del But e puntando poi verso Timau, ai piedi del Passo di Monte Croce Carnico.
La sera del 2 maggio, anche il Gen. Krassnov con il suo seguito e il locale presidio aveva lasciato Villa Santina inserendosi nella lunga colonna che si snodava lungo la Val Degano. Il 3 maggio, Krassnov raggiunse Paluzza ove sostò per l’intera giornata, perchè la bufera di neve, che imperversava sul Passo di Monte Croce Carnico nella notte tra il 2 e il 3 maggio, aveva provocato l’arresto della colonna di testa impossibilitata a proseguire e, quindi, anche delle colonne che seguivano.
Sul versante austriaco, le SS, che presidiavano il Passo di Monte Croce Carnico, avevano predisposto l’interruzione del Passo e della strada sul versante austriaco a sostegno e ad integrazione di una linea di difesa lungo le Alpi Carniche per arrestare l’avanzata alleata.
Alcuni esponenti della popolazione di Kötschach-Mauthen riuscirono a convincere il Capo di Stato Maggiore della Divisione Waffen SS responsabile dell’area, a desistere dal procedere al brillamento delle cariche esplosive. Secondo altra fonte, è confermata la minacciata interruzione del Passo di Monte Croce Carnico e della strada sul versante austriaco da parte delle SS ma sarebbero stati i cosacchi a risolvere con un colpo di mano la situazione, disarmando le SS a guardia del valico e provvedendo a disattivare le cariche esplosive.
Nella notte tra il 2 e il 3 maggio, a causa del freddo e della tormenta di neve, molti cosacchi morirono, i più deboli di stenti, altri trascinati nei precipizi dai cavalli imbizzarriti. Un ufficiale tedesco si suicidò. Il parroco, don Vico Morassi, promise di dare cristiana sepoltura ai cosacchi morti, nel locale cimitero. Un Colonnello tedesco offrì in ricompensa al parroco la somma di un milione di lire che furono depositate presso la Curia vescovile di Udine e che servirono poi per l’erezione dell’attuale chiesa.
Secondo la credenza popolare locale furono i cosacchi a donare la somma, tratta dalla cassa del Corpo, somma che doveva essere finalizzata alla costruzione, appunto di una chiesa che ricordasse il loro passaggio.
Ristabilita l’agibilità del valico, l’avanguardia cosacca entrò in territorio austriaco nel pomeriggio del 3 maggio. Preannunziato da una colonna di truppe tedesche ritiratasi qualche giorno prima, il passaggio delle colonne cosacche sul Passo durò tre giorni e due notti concludendosi il 6 maggio.
La massa di cosacchi e caucasici che raggiunsero la Carinzia, fu valutata da fonti austriache in 40.000 unità. Si tratterebbe di una stima per eccesso perchè sul Passo di Monte Croce Carnico, mescolati ai cosacco-caucasici, vi erano anche diverse migliaia di profughi baltici, polacchi, prussiani, affluiti in Carnia nel marzo 1945, a seguito dell’avanzata dell’Armata Rossa.
C’erano anche truppe della Wehrmacht e delle SS. Il 4 maggio, anche Krassnov e il suo seguito potevano superare il confine e raggiungere, a tarda notte, l’abitato di Kötschach-Mauthen, vallata del Gail.
Il 4 maggio, anche il Gruppenfuehrer Odilo Globovnik era comparso, per altra via, a Kötschach per rassicurare la popolazione residente sulle possibilità di difesa del ridotto alpino annunciando l’arrivo di forti unità tedesche che avrebbero costituito una linea di difesa sulle Alpi Carniche, per fermare l’avanzata degli anglo-americani.
I cosacchi intendevano proseguire per Villach, lungo la valle del Gail, ma a seguito di discussioni con ufficiali tedeschi e autorità locali, essi furono convinti a dirigersi nella Valle della Drava, distante 15 km. ove si sarebbero insediati nell’area di Lienz e di Oberdrauburg…
Ultimo a raggiungere l’Austria fu l’atamano Generale Domanov con il forte presidio di Tolmezzo che aveva lasciato la città la sera del 5 maggio.
Il giorno 7 maggio, le avanguardie inglesi, provenienti da Paluzza, superarono il confine e raggiunsero Kötschach-Mauthen, già sgomberata dal Corpo speciale cosacco.
Il giorno successivo, 8 maggio, una piccola delegazione cosacca ritornò a Tolmezzo su una autovettura che inalberava una bandiera bianca e si presentò al Comandante della 78a Divisione britannica, Robert Arbuthnott, inquadrata nel V CA, offrendo la resa senza condizioni del Corpo speciale cosacco. Fu stabilito che il giorno successivo, il Gen, Geoffrey Musson, Comandante della 36a Brigata di fanteria sarebbe venuto a Lienz per ricevere dal Gen Domanov la resa formale dei cosacchi.
Il Gen. Arbuthnott intrattenne amabilmente gli ufficiali cosacchi e dispose che essi fossero accompagnati da una scorta inglese sino al Passo di Monte Croce Carnico. Il giorno 9 il Gen. B. Musson venne a Lienz ove incontrò il Gen. Domanov dal quale accettò la resa. del Corpo speciale cosacco.
Contemporaneamente, si arrese anche la Divisione caucasica del Gen. Sultan Ghirey. Il giorno 10 maggio, anche la Riserva del Corpo speciale cosacco, comandata dal Gen. Shkurò, che per prima aveva raggiunto Klagenfurt a metà aprile, si arrese e fu trasferita il 17 maggio a Lienz con il resto del Corpo.
I cosacchi furono sistemati nell’area di Lienz, e lungo la Drava, fino quasi a Oberdrauburg, mentre i caucasici del Gen. Sultan Ghirey furono insediati tra Oberdrauburg a Dêllach, sempre lungo la Drava.
Le altre Grandi Unità russe collaborazioniste
Per completezza di esposizione si accenna brevemente alla sorte delle altre Grandi Unità collaborazioniste russe alla resa della Germania.
ROA
L’Esercito Russo di Liberazione (ROA), organizzato nel novembre 1944 dal Gen. Vlasov, costituito da due Divisioni comandate da ufficiali russi, ebbe il battesimo del fuoco combattendo nell’aprile 1945 sull’Oder contro l’Armata Rossa ove subì molte perdite.
Dopo il suicidio di Hitler, 30 aprile 1945, il Gen. Vlasov si sentì libero da ogni vincolo con la dirigenza nazista e ordinò ad una delle sue due Divisioni di portarsi a Praga e di dare man forte agli insorti di quella città contro le Waffen SS che la presidiavano.
La 1a Divisione russa, forte di 22.000 uomini, il 5 maggio 1945 entrò a Praga, attaccò le SS tedesche che tentavano di reprimere l’insurrezione popolare e liberò la città. Gli insorti non furono grati agli ex collaborazionisti russi dell’aiuto prestato e li invitarono invece ad arrendersi all’Armata Rossa.
L’8 maggio, la Divisione evacuò Praga – ove solo dopo giunse l’Armata Rossa – e si diresse ad ovest per poter arrendersi agli americani, Il Cte della Divisione e gran parte dell’unità furono invece raggiunti dalle avanguardie sovietiche, il 12 maggio, e fatti prigionieri.
Vlasov si arrese alle forze americane, ma il 12 maggio 1945, durante il trasferimento del prigioniero, su un mezzo Usa, presso il vicino accampamen to della predetta 1a Divisione per concertare la sua resa agli americani, il convoglio fu intercettato da una pattuglia sovietica che catturò il Generale senza che gli americani presenti interferissero.
Fu subito trasferito a Mosca. Pare che gli americani cui si era inizialmente arreso gli avessero offerto una via di fuga verso le retrovie, ma egli non aveva voluto coglierla. Disilluso, distrutto, egli si avviò dignitosamente incontro al suo destino, assieme a molti dei suoi soldati. La 2a Divisione della ROA riuscì invece ad arrendersi alle truppe americane Usa, ma la maggior parte del personale fu successivamente consegnata ai sovietici.
XV Corpo cosacco di cavalleria
Si trattava di circa 20.000 uomini, inquadrati principalmente da ufficiali tedeschi e comandato dal Gen. von Pannwitz. Era inquadrato nella Wehrmacht, Alla resa della Germania, il 9 maggio 1945 ripiegò dalla Jugoslavia dirigendosi verso la Carinzia, respingendo qualsiasi richiesta di resa da parte delle forze di Tito.
Superato il confine, si arrese agli inglesi (11 maggio) insediandosi qualche giorno dopo, il 17 maggio, nell’area di Möbling-Mühlen, a nord di Klagenfurt, controllata dalla 6a Divisione corazzata inglese. Da questo momento, il destino del XV Corpo cosacco di cavalleria seguì quello dell Corpo speciale cosacco di Krassnov.
Russkii Corpus
Nel novembre 1920, una consistente formazione militare zarista parte dell’Armata Bianca di Wragnel, con al seguito migliaia di profughi civili anti comunisti, guidata dal Col. zarista Anatoly Ivanovich Rogozhin, era stata evacuata a Lemnos e successivamente aveva trovato accoglienza a Belgrado.
Re Alessandro I aveva accolto con favore profughi e militari russi ed aveva autorizzato Rogozhin a mantenere in vita, a ranghi ridotti, la sua formazione militare costituita da due Divisioni. Lo aveva autorizzato anche a organizzare un’Accademia Militare, a Belgrado, per la creazione dei Quadri russi.
Nella primavera del 1941, all’atto dell’invasione tedesca della Jugoslavia, i Comandanti Russi Bianchi delle unità paramilitari russe, tra cui Rogozhin che comandava una Divisione cosacca, avevano proposto a Re Pietro di affiancare queste unità di emigrati russi all’esercito jugoslavo contro l’invasore tedesco. Tuttavia, la fulminea avanzata tedesca e il collasso della Jugoslavia avevano impedito qualsiasi sviluppo della proposta. Successivamente, la guerriglia organizzata dai comunisti di Tito, contro l’occupazione tedesco-italiana in Jugoslavia, si era estesa con continui attentati a tutti i collaborazionisti ma soprattutto agli anticomunisti tra cui, appunto, la comunità russa emigrata in Jugoslavia.
Il Col. Rogozhin aveva pertanto chiesto alle autorità tedesche di potersi armare e difendere. Era nato così il Russkii Corpus, comandato dal Gen. Felix Steifon, con la clausola, accettata dalle autorità tedesche, che l’Unità sarebbe stata impiegata solo in funzione anti-comunista e mai schierata contro le truppe Alleate.
Conseguentemente, il Russkii Corpus era stato impiegato in Jugoslavia, a presidiare e a difendere obiettivi sensibili contro sabotaggi ed attacchi delle formazioni di Tito. Nel maggio 1945, dei 12.000 effettivi nel giugno 1944, dopo aver sostenuto violenti combattimenti con le formazioni comuniste del Maresciallo Tito, ne rimanevano solo 3.500.
Morto il Gen. Steifon, gli subentrò il Col. Rogozhin. L’8 maggio, con la resa della Germania, Rogozhin, che era con le sue truppe in Slovenia, decise di ritirarsi in Carinzia e di arrendersi al V CA inglese. Con il suo Corpus, si trasferirono tre reggimenti serbi monarchici ed un Reggimento russo appartenente alla ROA del Gen. Vlasov. Il Corpus si stabilì a Viktring, a sud di Klagenfurt, poi a Klein St Veit. Non fu consegnato ai sovietici, in Carinzia, come i cosacchi.. E’ possibile che sia stato trasferito in Italia, con la Divisione ucraina e qui si perdono le sue tracce.
Nel maggio 1947, circa 1.000 russi si trovavano ancora nei campi di Pisa e Riccione. Non è escluso che si trattasse di uomini del Russkii Corpus; 255 di questi, cittadini sovietici, furono trasferiti a St. Valentin (Linz) nel maggio 1947 ed ivi consegnati alle Autorità militari sovietiche.
14 Waffen Grenadier Division der SS Galizische (Divisione ucraina)
In Austria finì anche la Divisione collaborazionista ucraina, il cui nome ufficiale era 14 Waffen Grenadier Division der SS “Galizische”. La Divisione, il 10 maggio, a guerra finita, stava ancora combattendo contro le truppe sovietiche sul fronte orientale, cui rifiutò di arrendersi. Ripiegata in Carinzia, si arrese al V CA inglese e fu insediata a Spittal.
Da qui, intorno al 25 maggio fu trasferita in Italia, a Rimini e poi a Cesenatico ove rimase fino al 1947 quando ottenne di non essere rimpatriata in Urss e fu accolta in parte nel Regno Unito, in parte in Canada.
Legione georgiana
Ignoto è il destino della Legione georgiana dopo il 2 maggio 1945. Essa era passata ai partigiani della 5a Divisione Osoppo il 29 aprile e il 2 maggio aveva partecipato ai combattimenti di Osoppo contro i cosacchi. Anche delle altre consistenti truppe georgiane presenti a Forni Avoltri agli inizi di maggio, probabilmente giunte in Carnia nel mese di aprile, comandate da una giovane principessa, e arresesi alla 36a Brigata inglese del Gen. Musson la notte tra l’8 e il 9 maggio, si ignora il destino.
Nessun documento accenna alla loro presenza in Austria e non potevano certo essersi mescolate nelle file cosacche, dopo il tradimento perpetrato dalla Legione georgiana nei loro confronti. Voci raccolte a Vigo di Cadore, non corroborate da prove documentarie, parlano di un gruppo di principi e principesse georgiani presenti in quel paese dal 6 al 10 maggio, nelle mani delle truppe americane che poi lo avrebbero trasferito altrove. E’ probabile che le truppe georgiane siano state trasferite nei campi di prigionia di Cesenatico o Rimini.
Il forzato rimpatrio dei cosacco-caucasici
(28 Maggio – 15 Giugno 1945)
La politica del Governo sovietico nei confronti dei prigionieri russi catturati dai tedeschi
Alla fine di maggio 1944, pochi giorni prima della sbarco alleato in Normandia, i servizi di informazione anglo-americani riferirono al Comandante Supremo, Gen. Eisenhower che formazioni di russi in uniforme tedesca erano presenti in Francia, inserite nel dispositivo difensivo tedesco sul Vallo Atlantico.
Non si trattava di entità trascurabili. Gli organi dell’”intelligence” stimavano che in maggio il totale dei russi in uniforme tedesca ammontasse a 470.000 uomini. Un numero assai rilevante e gli stupiti anglo-americani dovevano prendere atto nei mesi successivi che i combattenti russi inquadrati nella Wehrmacht o agli ordini dei tedeschi, su tutti i fronti erano poco meno di 1.000.000.
Una cifra enorme che non trovava riscontro nella Storia russa o in quella di altra Potenza europea. Nella I Guerra Mondiale, i russi catturati dagli Imperi Centrali erano stati 2.417.000 e solo 2.000 nazionalisti ucraini avevano disertato e/o fatto causa comune con gli invasori tedeschi, malgrado l’intensa propaganda e le blandizie della Germania e le istigazioni dei bolscevici che si opponevano alla guerra.
Nella II Guerra Mondiale, i russi catturati dai tedeschi furono circa 5.750.000 e di questi, quasi un milione collaborava allo sforzo militare tedesco, volontariamente o coattivamente.
I motivi di questo enorme scarto tra l’esperienza russa della I Guerra Mondiale e quella della II Guerra Mondiale sono più d’uno. Il Governo bolscevico, sin dalla sua presa di potere, ottobre 1917, si era rifiutato di ratificare la Convenzione dell’Aia del 1907 sul trattamento dei prigionieri di guerra nè l’Urss ratificò la successiva Convenzione di Ginevra del 1929 sullo stesso argomento.
All’inizio dell’attacco nazista all’Urss (giugno 1941), la Germania aveva proposto al Governo sovietico, per il tramite della Croce Rossa Internazionale (C.R.I.), di applicare ai rispettivi prigionieri il trattamento previsto dalla Convenzione di Ginevra; aveva altresì provveduto all’invio unilaterale delle liste aggiornate dei soldati dell’Armata Rossa catturati.
I sovietici non contraccambiarono e, nel settembre 1941, la Croce Rossa Tedesca cessò l’invio delle liste. Quella parte della Dirigenza nazista che favoriva un corretto trattamento dei prigionieri di guerra perse allora ogni influenza e il regime cui vennero sottoposti i prigionieri russi si inasprì raggiungendo livelli di estrema durezza. Su 5.750.000 prigionieri, alla fine della guerra ben 2.700.000 erano morti di stenti e di inedia.
Non sorprende pertanto il fatto che molti prigionieri, pur fedeli al regime sovietico, accettassero l’offerta tedesca di arruolarsi nei battaglioni di lavoro, nel quadro di una economia di guerra: fabbriche di materiale bellico, apprestamenti difensivi, mantenimento della viabilità etc..
Il trattamento loro riservato era di poco superiore di quello riservato ai prigionieri, ma sufficiente a garantire più elevate probabilità di sopravvivenza.
Altri risposero volentieri agli appelli di arruolamento nelle forze combattenti della Wehrmacht per ragioni ideologiche, perchè avversi da sempre al regime comunista o, più specificatamente, al dispotismo del regime staliniano. Vi furono anche reparti che disertarono e passarono direttamente nelle file della Wehrmacht senza nemmeno transitare per i campi di prigionia.
Fu questo il caso, per esempio, del Magg. Ivan Koninov che il 22 agosto 1941, in Bielorussia, si presentò al Gen. di CA von Schenckendorff con tutto il suo 435° Reggimento cosacco, inquadrato nell’Armata Rossa, e si offrì di combattere il regime comunista a fianco dei tedeschi.
Per completare il quadro, è utile precisare che ai collaborazionisti coatti o volontari tratti dai prigionieri di guerra, si aggiunsero poi decine di migliaia di ucraini, cosacchi, azeri, ceceni, armeni, georgiani tutti uniti nell’insofferenza al centralismo di Mosca e al regime comunista che aveva mortificato la loro identità culturale e annullato i privilegi di cui avevano goduto prima della Rivoluzione Russa.
Tutti questi accolsero con favore l’arrivo dei conquistatori tedeschi illudendosi che la sconfitta dell’Urss avrebbe significato l’indipendenza di quel mosaico di nazionalità che costituivano, appunto, la fascia meridionale dell’Urss.
Ufficiali tedeschi intelligenti, come l’allora Col. di cavalleria von Pannwitz, che nell’estate del 1942 erano penetrati con il Gruppo d’Armate von Kleist, lungo il settore meridionale del fronte, fino al Caucaso, avevano sfruttato abilmente questo stato d’animo arruolando migliaia di soldati locali, specie cosacchi .
Con la sconfitta di Stalingrado (febbraio 1943) e la riconquista da parte dell’Armata Rossa dei territori perduti, vi fu una vera e propria migrazione di decine di migliaia di civili verso Ovest che fuggivano le inevitabili ritorsioni staliniane nei confronti dei collaborazionisti o ritenuti tali.
Per Stalin, infatti, tutte le popolazioni dei territori occupati dai tedeschi erano sospette di collaborazionismo ed, in ogni caso, esse erano sfuggite, per un periodo più o meno lungo, al rigido controllo ideologico del regime staliniano ed esposte, invece, alla contaminazione di idee, abitudini, comportamenti di truppe non comuniste: tedesche, italiane, ungheresi, rumene, bulgare, belghe, spagnole, scandinave etc; erano quindi suscettibili di provvedimenti correttivi, di un periodo purificatorio, lustrale, di rieducazione presso campi di lavoro in Siberia.
Eisenhower, quindi, nell’imminenza dello sbarco anglo-americano in Norman dia, conscio della presenza di rilevanti unità russe sul Vallo Atlantico e allo scopo di indebolire la capacità difensiva dello schieramento tedesco sulla costa atlantica, aveva pensato di rivolgere un appello a questi russi chiedendo loro di ribellarsi ai Comandi tedeschi e di schierarsi con le truppe alleate.
L’appello, egli argomentava, sarebbe stato efficace solo se si fosse concluso con la promessa di non punibilità dei collaborazionisti. La promessa doveva naturalmente essere avvallata dal Governo sovietico e, perciò, il 28 maggio 1944, Eisenhower si rivolse in questo senso alle autorità di Mosca, tramite il Foreign Office inglese.
Molotov però oppose un netto diniego affermando che il numero dei russi collaborazionisti era insignificante e quindi non meritevole di un impegno politicamente rilevante, da parte dell’Urss, come quello proposto.
Il Governo sovietico, in sostanza, continuava nella sua politica, da tempo adottata al riguardo, intesa a negare o a minimizzare la presenza di russi collaborazionisti dei tedeschi. Ammettere che ve ne fossero, e in così grande numero, sarebbe stato estremamente imbarazzante, perchè solo l’Urss sembrava avere propri cittadini che, volontariamente o coattamente, collaboravano con i tedeschi indossandone l’uniforme.
D’altra parte il Governo sovietico non aveva torto quando affermava che non esistevano prigionieri russi. Il suo punto di vista era infatti il seguente: “Il soldato russo combatte fino all’estremo sacrificio. Se sceglie di arrendersi, egli si esclude automaticamente dalla comunità russa”.
In breve, mentre gli anglo-americani consideravano traditore un loro soldato catturato dai tedeschi, solo se e quando avesse scelto di indossarne l’uniforme e combattere al loro fianco, il Governo sovietico considerava invece traditori i russi caduti prigionieri, per il solo fatto di aver preferito la cattura alla morte sul campo. Chi poi avesse collaborato con i tedeschi era doppiamente traditore.
Il 17 giugno 1944, c’erano già molti prigionieri russi in uniforme tedesca in Inghilterra, nella proporzione di uno su dieci, la maggior parte dei quali non voleva ritornare nell’Urss, e il Governo inglese ne diede notizia alle autorità sovietiche che per due mesi non risposero.
Alla fine del mese di agosto, l’Ambasciatore sovietico a Londra chiese che gli inglesi provvedessero con mezzi propri al rimpatrio dei prigionieri, i quali nel frattempo erano cresciuti di numero e in parte erano stati trasferiti in Canada.
Il confronto non era soltanto quello tra gli inglesi e i sovietici, ma anche quello interno al Governo inglese. C’era infatti una corrente di pensiero prevalente presso il Foreign Office che sosteneva la necessità di aderire senza riserve alle richieste sovietiche e quindi al ritorno, anche forzato, dei russi nell’Urss.
Altri rappresentanti del Governo, erano contrari a un rimpatrio generalizzato che non tenesse conto dei motivi e delle circostanze che avevano indotto questi russi a collaborare con il nemico e ignorasse i diritti di coloro che rifiutavano il ritorno in patria.
Era probabile, infatti, che questi, al loro ritorno in patria, sarebbero stati fucilati. C’era un’altra considerazione da tener presente; questi russi erano stati catturati in uniforme tedesca e quindi la loro consegna ai sovietici avrebbe potuto comportare ritorsioni tedesche sui prigionieri anglo–americani in Germania.
Prevalse il parere del Foreign Office che non voleva mettere a repentaglio le relazioni con l’Urss, in una fase delicata della guerra ormai avviata a positiva conclusione, ma non ancora vinta. I motivi addotti dal Ministro del Foreign Office, Eden, per una soluzione che non urtasse la suscettibilità di uno scomodo ma essenziale alleato, avevano un fondamento pratico:
- l’Inghilterra era stata guardata dal Governo sovietico con sospetto sin dal 1918 per essersi essa apertamente schierata con le Armate Bianche sostenendole attivamente dal punto di vista militare e logistico; Tredici anni più tardi, nel 1931, Churchill allora membro conservatore della Camera dei Comuni aveva pronunciato un discorso in cui denunciava le brutalità del regime staliniano con specifico riferimento ai milioni di cittadini sovietici trasferiti nei campi di lavoro forzato o Gulag. In quella occasione, Churchill aveva detto di tale regime: “[…] Difficilmente si troverebbe l’uguale nel tenebroso e malinconico campionario dei crimini umani.”. Quel giudizio non era certamente sfuggito ai dirigenti sovietici e chi lo aveva pronunciato era ora il Primo Ministro del Governo di Sua Maestà britannica;
- c’erano in Germania circa 40.000 prigionieri inglesi e 70.000 americani che i tedeschi avevano trasferito in campi di prigionia situati ai confini orientali. Era chiaro che quei prigionieri sarebbero stati liberati dall’Armata Rossa e si temeva che il loro sollecito ritorno in patria sarebbe dipeso dal contestuale rimpatrio dei russi catturati in Occidente;
- erano tante le questioni aperte relative al futuro assetto europeo, per esempio la questione polacca. Era quindi opportuno non opporsi ai desideri di questo essenziale alleato che già si profilava come una difficile controparte. Si voleva anche convincere l’Urss a dichiarare guerra al Giappone;
- erano ben noti in Inghilterra la diffidenza di Stalin nei confronti degli anglo- americani e il suo ossessivo sospetto che, una volta sconfitta la Germania, essi potessero attaccare l’Urss per abbattere il pericolo comunista. Non restituire i russi catturati che si opponevano al rimpatrio perchè contrari al regime stalinista avrebbe alimentato tale sospetto.
Fu quindi assicurata, di massima, la disponibilità britannica ad accedere alle richieste sovietiche di rimpatrio dei russi giunti in Inghilterra. Furono anche concordati i porti di arrivo, Mursmansk per la rotta artica, Odessa per la rotta Mediterranea. L’effettivo rientro dipendeva dalla disponibilità di naviglio subordina ta alle prioritarie esigenze belliche.
Anche il Governo americano dovette adeguarsi alla politica inglese, ma lo fece con una differenza: gli Usa avrebbero rimpatriato i soldati catturati in uniforme tedesca che avessero dichiarato di essere cittadini sovietici. Tutti coloro che avessero detto di essere cittadini tedeschi, anche se in realtà russi, avrebbero avuto il trattamento previsto dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra e non sarebbero stati rimpatriati.