a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Artigliere alpino Clemente Buratti
Comando Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Oramai ero all’estremo delle mie forze essendo congelato ai piedi da 16 giorni, e per paura di perdere contatto con il mio reparto cercavo di stare sempre coi primi. Arrivati in prossimità del paese ci siamo fermati perché i battaglioni alpini trovavano forte resistenza da parte dei russi, ero vicino in quel momento al caporal maggiore Facoetti del mio stesso reggimento che mi stava dicendo che se rimanevo con lui mi avrebbe portato in Italia, quando in quel momento spuntarono due “Rata” russi mitragliando e spezzonando la colonna; ci siamo buttati per terra; io sentii la neve sul collo per i colpi che mi passavano vicino; tutto passato; chiamai il Facoetti ma non poteva rispondere perché una raffica l’aveva colpito, allora chiamai il cappellano.
Durante la sosta mi trovavo vicino al generale Reverberi (e un gruppo di ufficiali); il quale disse, se prima di sera non riusciamo a sfondare tutti questi uomini e noi compresi non potremmo resistere al tremendo freddo della notte, dobbiamo passare a tutti i costi. Da ordine agli ufficiali di radunare uomini, il più possibile, che siano in grado di combattere; i congelati avevano ricevuto l’ordine di recuperare i muli e portarli in paese il numero più possibile alle loro capacità, al sottoscritto toccò 3 muli dove con una funicella li legai. Quando il generale saltò sulla autoblinda tedesca e gridò “Tridentina avanti!”, io mi feci aiutare da un alpino a salire in groppa al mulo e seguii la colonna, senza pensare che così in alto sarei stato un facile bersaglio per i russi; ma non avevo nessuna alternativa di salvezza.
Durante la discesa un alpino ferito ad una gamba mi fermò perché anche lui voleva salire sul mulo che avevo dietro; non parlai, mi fermai; lui saltò sul mulo, pochi metri più avanti sentii arrivare un colpo (penso di mortaio); mi allungai abbracciando il collo del mulo per non essere colpito; dopo mi voltai; non vidi più né l’alpino né i muli: erano stati colpiti in pieno. Arrivato in paese mi feci aiutare da un alpino a scendere, questo alpino stava piangendo perché il suo colonnello era morto poi andai in cerca del mio reparto. Non potrò mai dimenticare quel giorno anche se campassi 100 anni. Io ho scritto come ho vissuta quella tremenda giornata a Nikolajewka.
Artigliere alpino Vincenzo Nodari
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Il 18 gennaio nel pomeriggio tardi, a Opyt: “Torneremo ancora in Italia signor tenente? mi pare che la situazione si fa spessa, ieri a Belogorje prima di lasciare la linea si diceva che ci saremmo attestati qui anche con il rinforzo di una divisione corazzata tedesca, adesso i tedeschi non si vedono, a Podgornoje han tagliato la corda facendo saltare la ferrovia; così siamo a piedi coi soli muli e senza biada per di più… gli autocarri Bianchi Miles del Reparto M. V. che lei aveva portato dall’Italia, sono rimasti a Podgornoje senza nafta e con un colpo di pistola sparato nel serbatoio… ah… la va mal… la va mal sciur tenent!”.
“Animo animo Nodari; in qualche maniera usciremo, è vero che siamo accerchiati dai russi, lo vedi dagli incendi lontano all’orizzonte che si son chiusi ad anello alle nostre spalle; però bisogna voler uscire a ogni costo, guai perdersi d’animo, qui ho scovato delle granate a pallette, le voglio caricare a qualunque costo, avremo delle azioni ravvicinate, degli agguati da stroncare senza misericordia… vieni vieni, vado a dar un occhio allo scaglione munizioni e alle salmerie.”
Adesso sono tutte riunite le slitte porta munizioni e quelle delle salmerie; ci sono due slitte preparate qui dal maresciallo La Rosa, cariche di vacche squartate dure come la pietra, gelate; c’è una slitta con un po’ di corredo e cassette degli ufficiali della batteria. Capi squadra, serventi, conducenti si dan da fare, pungolati dal mio tenente, per sistemare alla meglio i carichi e portare più munizioni che sia possibile, ma alla fine avanzano ancora una
trentina di cassette di granate a pallette: tre colpi l’una, trenta chili ognuna… “Via le mucche, ragazzi, e su le munizioni!” grida il tenente. Nessuno fiata e nessuno si muove.
“Ho detto giù le vacche… con le munizioni potremo ancora procurarci qualcosa da mettere sotto i denti, le granate a pallette ci saranno indispensabili colla naja che ci attende… e non credo che potremo difenderci con le corna delle mucche!” Scena muta come prima, con la pancia mezza vuota e il freddo cane che fa, è piuttosto difficile ragionare con una certa logica.
I soldati sono paonazzi, le barbe imperlate di ghiaccioli, la grinta dura. Brontolano come solo san fare i bergamaschi, uno salta su a dire: “Tenente Capriata, se c’è da morire… io penso che è meglio con la pancia piena”. Un attimo di ilarità, ne approfitta il tenente: “Nodari” mi dice, “fai venire avanti la slitta bagaglio ufficiali, là sul bordo della scarpata… fate volare giù tutto!”. Eseguo. I soldati osservano la scena imbarazzati.
“Ecco ragazzi” dice allora il tenente; “gli ufficiali danno l’esempio, ci siamo liberati di tutto, il momento è tremendamente difficile, siamo come quei naufraghi che devono liberarsi di tutto pure di stare a galla. Via le mucche, e vi prometto di riportarvi a casa come a molte delle vostre madri promisi prima di lasciare l’Italia! Vi chiedo le munizioni al posto dei viveri…” “Forse “I gà resù” “l tenent…” brontola qualcuno. A malincuore le due slitte incriminate vengono portate avanti… scaricate della carne, caricate col ferro… che brutto cambio… che porca naja!
Quella sera la 33ª Batteria Gruppo Bergamo avrà l’ultimo miglioramento rancio… e avrà anche e soprattutto novanta colpi in più per Arnautowo! Nikolajewka, 26 gennaio 1943, ore 15 circa. Da Arnautowo, dopo cinque ore di marcia, arrivo in vista di Nikolajewka con la colonna dei feriti della 33ª Batteria, Gruppo Bergamo. Sono circa una trentina tra cui tutti gli ufficiali meno il sottotenente Alberto Bughi che gli è andata bene nell’inferno di Arnautowo.
C’è con me anche l’attendente del tenente Ferruccio Panazza di Brescia, Alfredo Marcolungo di Brognoligo Costalunga (Verona), i due fratelli Seghezzi, Olivo e Orlando di Premolo (Bergamo) che fanno i conducenti alla slitta con su gli ufficiali e qualcun altro. I feriti si lamentano e alcuni delirano, le slitte che sobbalzano sulla neve gelata a ogni passo sono un continuo tormento perché lacerano le carni, fanno sanguinare le ferite, le schegge si muovono e danno stilettate continue.
Medicati alla bell’e meglio dai tenenti medici Capacci e Malossini durante la battaglia, adesso bisognerebbe medicarli ancora ma non abbiamo più niente; il tenente Franco Fiocca di Milano sputa sangue per una brutta ferita alla bocca; però si da da fare perché occorre in salita spingere le slitte e in discesa tenerle… fare la ritenuta come si diceva quando fare la naja da permanente era come uno sport; qui invece è una tragedia!’
Andiamo a cercare un po’ d’acqua, i feriti mangiano la neve ed è da ieri che nessuno mette più qualcosa sotto i denti, rincuoro qualcuno, il caporal maggiore Rocco Ruggeri di Ranzanico (Bergamo), capo pezzo del primo pezzo, è sulla slitta assieme al suo puntatore Giovanni Tirinzoni di Talamona (Sondrio); soffrono molto e sono i feriti del primo colpo di mortaio arrivato sulla linea pezzi, purtroppo questa slitta la perderemo più avanti, di notte, nonostante anche le ricerche fatte dal tenente Teresio Olivelli, che avremo poi volontario a capo dei feriti della 33ª Batteria, il quale percorrerà a ritroso, da solo, col buio, alcuni chilometri.
Mandiamo slitte e muli in una selletta sperando siano un po’ defilati perché si spara da tutti gli angoli e arrivano colpi da tutte le parti! Due chilometri più avanti e più in basso ci dev’essere una linea di sbarramento e vedo gli alpini andare all’attacco; la città è oltre questa linea ma non si passa se non si sfonda, ed è quasi sera, non so come sarà questa notte, con quaranta sotto zero i feriti ci moriranno tutti. E noi? Da tutte le parti arrivano alpini ufficiali e graduati che gridano: o sfondiamo qui o non torna più nessuno a casa! Gli sbandati che han perso o avuto distrutto il reparto si uniscono alle compagnie e si preparano all’attacco, si provano le armi gelate, si distribuiscono bombe a mano, qualcuno impreca ma tutti sono decisi a vendere cara la pelle e così lo sono anch’io.
A un tratto arriva una “cicogna” tedesca e si posa vicino a noi; corro a vedere; scende un tedesco che parla col generale Reverberi; qualcuno traduce: se riuscite a sfondare su Nikolajewka siete salvi, oltre non c’è quasi più nessuna forza russa. Dicono anche che avrebbe invitato il generale a salire sull’aereo per portarsi più avanti ma lui avrebbe risposto che vuol rimanere coi suoi alpini.
Fanno poi salire sulla “cicogna” il tenente colonnello Severino Pruneri del comando della Tridentina ferito, lo riconosco perché era un amico del mio tenente. Parte la “cicogna” e arrivano come saette tre caccia russi che ci mitragliano per alcuni minuti, intanto la “cicogna” si allontana oltre la città ma gli aerei russi l’hanno vista e a un certo punto la inseguono, a due chilometri circa da noi al di là di Nikolajewka la raggiungono e vediamo una scia di fumo.
Intanto il tempo passa ma la città davanti a noi è sempre in mano al nemico, il sole sta tramontando, una sferza di gelo ci avvolge tutti. Altri feriti e altri morti cadono attorno a noi, è una cosa terribile! Su un mezzo cingolato tedesco sale il generale Reverberi e tiene un rapporto ai comandanti di reparto presenti: la situazione è grave e tutti debbono dare tutto per risolverla, quanti colpi dispongono ancora le Batterie del Gruppo Bergamo? la risposta è “trentotto colpi”. Il Gruppo Valcamonica invece è ancora intatto e cannoneggia obbiettivi oltre la ferrovia. Il generale finisce il rapporto incitando tutti all’attacco con le parole che bene mi suonano all’orecchio ancora: “Alpini avanti!” “Forza, Tridentina!” “Avanti, ragazzi, avanti per Dio!”.
Le batterie sparano serrate e vedo tutta la massa degli uomini buttarsi giù, dalla discesa verso la linea della ferrovia. Sono migliaia di uomini che si lanciano all’attacco… partiremo anche noi con i feriti assieme a tutti, restare lì sarebbe pericoloso, potremmo rimanere tagliati fuori! Mi passano avanti gruppi di uomini che gridano come disperati: all’attacco, all’attacco e corrono giù verso la linea; slitte stracariche di feriti di altri reparti sono incerte se portarsi avanti o aspettare, vado dal mio tenente: “Se la sente di far andare giù anche noi?” “Nodari… noi non andremo più all’inferno… ci siamo già… appena vediamo superare il terrapieno ci buttiamo…”.
Mi do da fare con Marcolungo e con i conducenti a controllare i finimenti mulislitte, una decina in tutto, la cinghia del pettorale, la braca, il nodo alla mulattiera che ferma il basto con il sottopancia, i tiranti alle slitte. Pare tutto abbastanza in ordine, innesto la baionetta in canna anche per punzonare i muli che non si fermino o spavèntino, il tenente mi da tre bombe a mano e lo vedo che carica la pistola ma non può muoversi, le gambe sono scure di sangue che gli è uscito da non si sa quante ferite, in quel preciso momento mi viene alla mente quello che mi raccomandarono sua mamma e sua zia Lina a Gandino prima di partire (“se gli capitasse qualche cosa al nostro Peppino, mi raccomando… non abbandonarlo… riportacelo a casa…”); “Sciur Capriata… adès a “nva in Italia, “ha tègne frane a la siila, da rùinà mia già”.
Uno scossone ai muli e tutti partiamo giù verso Nikolajewka, i muli al galoppo e noi di corsa; mano a mano scendiamo si fanno più numerosi i colpi di mortaio in arrivo, vedo muli e slitte colpite in pieno saltare per aria vicino a noi, il terreno è cosparso di morti, feriti che invocano di essere trasportati… Come ci si può fermare a soccorrerli? I fratelli Seghezzi non mollano i muli perché non sbandino e rovescino i feriti giù dalla slitta, a un certo punto un colpo arrivato troppo vicino mi butta a terra; mi rialzo come una molla; mi
tocco, non sono ferito, giù di corsa col fiato in gola ancora, facciamo così più di mille metri certamente fino che arriviamo al terrapieno della ferrovia, gli alpini sono già oltre, lo superiamo anche noi su per una scarpata tirando i muli per la cavezza e spingendo le slitte, finalmente siamo al di là; ci buttiamo per una strada tra isbe e case e corriamo ancora per lasciarci dietro quell’inferno dove ancora si combatte e si spara tra le case; attraversiamo la città, siamo in salvo.
“Dio sia lodato!” “Grazie Signur, ma cosa mai fac nóter da es ridoc in chesto stato?” Cosa ne è mai della Tridentina? Un lungo sentiero di trecento chilometri, dalla linea del Don a qui, lungo il quale lasciammo a segnavia la nostra penna nera. Ma chi metterà una picca su quei tumuli, una croce che ricordi almeno il loro e il nostro sacrificio?
Sergente Carlo Frigerio
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Alle 4 del 19 gennaio comincia l’azione. Il Battaglione Verona muove all’attacco di Postojalyi con azione coraggiosa, appoggiato dal fuoco delle batterie del nostro gruppo. Quando sembra che il paese possa essere occupato dagli alpini, i russi partono al contrattacco e gli alpini, a corto di munizioni, devono ripiegare. Attacchi a più riprese per tutta la giornata finché le prime ombre della sera trovano i russi ancora saldamente in possesso del paese. Si rinvia l’azione al giorno successivo e di notte si veglia continuamente per evitare sgradite sorprese.
Intanto apprendiamo che il Battaglione Verona ha perso numerosi uomini tra caduti, feriti e congelati. All’alba del giorno 20 abbiamo la gradita sorpresa di vedere che si sono a noi uniti, a sostegno della nostra azione, quattro semoventi tedeschi, alcune autoblinde e pezzi d’artiglieria ripiegati da Rossosch prima dell’occupazione russa di detta città. Ricomincia l’attacco. I resti del Verona ed il Battaglione Vestone partono all’attacco sostenuti anche dai carri e dal fuoco delle nostre batterie.
Stavolta i russi cedono e vengono sopraffatti. Passiamo subito attraverso il paese pressoché distrutto dalla cruenta lotta e notiamo che il terreno è abbondantemente cosparso di cadaveri italiani e russi. I nostri pezzi si muovono a malapena poiché le ruote affondano fino ai mozzi ed i muli del traino devono compiere sforzi enormi, in parte aiutati dagli stessi serventi. E’ uno sforzo tremendo nel quale l’uomo deve richiamare tutte le sue energie per poter continuare e per non perdere il contatto coi reparti. Altre durissime giornate e cruenti combattimenti seguono a quelli accennati.
E’ necessario ricordare in particolare quello avvenuto il giorno 22 a Scheljakino dove i russi, appoggiati da formazioni di carri armati, tentarono in tutti i modi di sbarrarci la strada verso ovest. Gli alpini e gli artiglieri tutti seppero tener testa al nemico e nonostante l’inferiorità di equipaggiamento e di armamento, volgerono in fuga. Tre carri russi vennero
distrutti. I russi, constatato che la testa della nostra colonna aveva la meglio, attesero che questa fosse passata, per attaccare e spezzare la coda.
In questa circostanza furono duramente colpite le eroiche formazioni del Battaglione Morbegno già fortemente provato ad Opyt, e la 31ª Batteria del Gruppo Bergamo, così come ad Opyt si era immolata la 45ª Batteria del Gruppo Vicenza. A Scheljakino liberiamo un numeroso gruppo di prigionieri italiani e tedeschi che i russi avevano in precedenza catturato. Non è possibile descrivere la gioia di questi uomini che oramai soggiacevano al loro triste destino. La partenza, al mattino successivo, è fatta di buon’ora. Dopo una fugace
apparizione del sole, la tormenta ricomincia e la temperatura è sempre attorno ai – 40 gradi.
Comunque avanti, sempre avanti. Giorni 23, 24 e 25 gennaio. La Tridentina (è l’unica delle tre divisioni alpine che può ancora combattere essendo ormai la Julia e la Cuneense pressoché mille per i combattimenti da esse sostenute in precedenza) continua instancabile la sua marcia di liberazione superando ostacoli di ogni genere, combattimenti durissimi su terreno e con clima impossibili ed aprendo sempre più il cerchio che, come ci informa la radio dei tedeschi, dovrebbe ora essere ridotto a pochi capisaldi.
Il giorno 25 siamo a Nikitowka. La città è pressoché deserta ma i pochi civili russi ci informano che, fino a poche ore prima, vi era una forte guarnigione russa. Senza dubbio il grosso dello schieramento russo si è concentrato più avanti e là ci attende per darci la botta finale e chiuderci definitivamente ogni via di scampo.
Nella notte dal 25 al 26 gennaio ci ripariamo in alcune isbe alla periferia nord di Nikitowka e precisamente ad Arnautowo. La maggior parte della colonna si è invece fermata nel paese e noi della 33ª Batteria del R. M.V. del Gruppo Bergamo ed un reparto del Battaglione Val Chiese, costituiamo la punta avanzata della colonna stessa. Stiamo ancora preparando un po’ di fuoco per scaldarci e far rinvenire i congelati e già arrivano i primi colpi di mortaio dei russi e ci troviamo investiti in pieno. I russi, notati i nostri 4 pezzi, indirizzano il fuoco su di essi nel tentativo di distruggerli.
Vengono così colpiti e feriti tutti gli uomini della linea pezzi. Le isbe centrate in pieno dai colpi russi, bruciano ed illuminano a giorno lo spazio dove noi stiamo cercando di fare una linea difensiva. Ad un tratto, quando il freddo della notte russa raggiunge il suo apice, i nostri pezzi e le nostre mitragliatrici non sparano più. La situazione si fa di minuto in minuto sempre più critica e dopo 4 ore di lotta siamo costretti a ritirarci attorno alle isbe incendiate che, con le loro fiamme, offrono ai russi la possibilità di individuare le nostre posizioni. Spariamo solo con i fucili e la difesa, per quanto disperata, continua ugualmente senza sosta.
Molti cari amici cadono in questa impari lotta ed i feriti aumentano sempre di più. Ma ciò nonostante resistiamo ancora ed all’alba, quando finalmente il Battaglione Tiràno riesce a raggiungere la località del combattimento, i russi sono oramai a pochi metri da noi ed hanno già conquistato diverse isbe. Il glorioso Tiràno attacca a semicerchio ed i russi, sorpresi dall’ardita manovra degli alpini, indietreggiano sbandandosi. Gli alpini approfittano dello smarrimento russo, sostenuti anche dal fuoco del Gruppo Valcamonica.
Cessato il combattimento volgiamo lo sguardo nel cerchio di resistenza ed un quadro terribile si presenta ai nostri occhi. Numerosi cadaveri di italiani e di russi giacciono accanto ai corpi dei muli pure abbattuti nella violenta battaglia notturna. Ci facciamo forti e nonostante l’immenso dolore per la perdita di numerosi compagni ci mettiamo subito al lavoro per caricare i molti feriti ed i congelati sulle slitte onde proseguire la marcia che la colonna, nel frattempo, ha già ripreso.
Caporale Sancirò Goglio
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 21º Reggimento Artiglieria Alpina
Il 22 gennaio 1943, quando la colonna si fermò davanti a Scheljakino, presidiata da forze russe, ricevemmo l’ordine di contrastare e respingere, anche con l’uso della forza, gli innumerevoli sbandati che venivano avanti e si ammassavano confusamente con le truppe di testa. Era la storia di tutti i giorni: non appena i reparti avanzati dovevano rallentare o sospendere la marcia, la fiumana degli isolati, che seguiva a perdita d’occhio e vedeva in ogni sosta l’ora della “caccia” all’isba, rigurgitava affannosamente in avanti, formando assembramenti e ingorghi nei quali era impossibile conservare l’unità delle formazioni organiche.
L’ordine era crudele ma necessario, onde consentire alle compagnie ancora efficienti di riunirsi, ai pochi pezzi di appostarsi, per muovere all’attacco dell’abitato. Alle prime grida, ai primi comandi degli ufficiali, la massa prese ad ondeggiare; poi si udirono alcuni spari intimidatori, seguiti da proteste ed imprecazioni di ogni genere e, al momento, sembrò che la confusione dovesse aumentare anziché diminuire. Io non mi sentivo in grado di collaborare all’esecuzione di un simile ordine: d’altra parte non vedevo come si potessero distinguere, fra tutti quegli uomini imbacuccati e mal conci, quali fossero o meno gli sbandati.
Solo gli stessi potevano manifestarsi e, infatti, la paura di essere individuati e maltrattati operò una certa selezione. Isolatamente o a gruppi molti si portarono indietro, lasciando maggior libertà a quelli che restarono. Fu allora che mi trovai vicino un ragazzo, così almeno lo giudicai dall’aspetto infantile. Era piccolo e magro, con un viso scavato e due grandi occhi neri pieni di paura. Con tutto quanto portava addosso, poteva pesare, sì e no, 60 chili.
Dalle sue labbra uscì una voce fievole e tremante che cominciò a supplicare: “Non mandarmi via, lascia che stia con voi! Non scapperò, farò tutto quello che vorrete. Io non ho più compagni. Ero a Rossosch, quando arrivarono i carri armati russi e, con gente sconosciuta sono fuggito a Podgornoje. Ora sono qui, ma, se mi mandi via e così fanno tutti gli altri, dove vado io?”.
Mi disse anche il suo nome, quello del paese; mi parlò del suo ufficiale, del suo reparto, tutte cose alle quali non prestai la minima attenzione e che ora non ricordo più. Quello che non sono riuscito a dimenticare, sono i suoi occhi neri e quella voce sottile, quasi stridula, che continuava a implorare, come se pregasse. “Va bene” risposi. “Resta pure, e, se ti chiedono chi sei, dì che sei mio parente.” “Parente di chi?” domandò. “Mio, di Goglio” gridai, e la parentela fu sancita.
Non disse altro, ma dal lieve sorriso che illuminò quel viso smunto, intuii tutta la gratitudine per averlo liberato dall’incubo e dalla paura. Ormai non era più solo. Sapeva con chi stare. Da quel giorno lo ebbi sempre vicino. Io non mi preoccupavo certo di lui, ma
lui si accontentava di seguirmi a pochi passi di distanza, timido e riservato, senza chiedermi nulla. Ogni tanto, per caso, i nostri sguardi si incrociavano e lui, supponendo che lo cercassi per controllare se c’era ancora, mi rassicurava con un sorriso o con un cenno del capo. A sera, quando ci fermavamo nelle isbe, scompariva, ma all’indomani, al momento della partenza, era sempre puntuale e si appostava in modo che lo potessi vedere.
Confesso che in quei giorni ero duro, arcigno ed egoista, come tutti; ma quel ragazzo, anche se non volevo dimostrarlo, mi aveva profondamente intenerito e la sua presenza mi faceva piacere. L’ultima volta che lo vidi fu ad Arnautowo, il 26 mattina, dopo quella tragica notte. Io ero ferito e correvo da isba ad isba alla ricerca di un pacchetto di medicazione e di un amico che mi fasciasse la ferita.
Me lo trovai improvvisamente di fronte, in piedi, faccia a faccia. Non mi sorrise. Nei suoi occhi, più grandi ancora, vidi la paura e la disperazione. Teneva il capo leggermente reclinato su una spalla e, osservando meglio, notai che aveva un piccolo foro nel collo. Dietro, una ferita più grande. Una pallottola lo aveva trapassato, fortunatamente senza lesioni gravi. Neppure allora mi chiese qualcosa ma, con voce quasi impercettibile, si limitò a sussurrare: “Guarda, anch’io sono ferito!”.
Mi sembrò che volesse parlare ancora, forse aggiungere che non era fuggito, che era rimasto con noi anche nel momento del pericolo, ma non disse altro. “Vieni con me” gli gridai. “Cerchiamo qualcuno che ci possa medicare.” Ma non mi seguì. Forse in lui era già subentrata la rassegnazione e restò nell’isba in cui si trovava. Da allora non l’ho più incontrato e non so, neppure oggi, se ha ancora avuto quel tanto di forze e di fortuna per superare Nikolajewka e gli ultimi giorni del ripiegamento.
Il ricordo di questo ragazzo non mi ha mai abbandonato, forse perché mi rimorde il pensiero di non averlo aiutato di più, di non averlo saputo confortare con calore e generosità. E’ questo povero soldato italiano che mi ha fatto veramente capire la grande tragedia di tutti coloro che in Russia, per caso o per forza maggiore, hanno perso contatto coi compagni di reparto e che, pur fra tanta gente, sono rimasti soli, senza amici, senza aiuto. Uomini isolati, sperduti in un inferno di freddo e di fuoco, semplici e stoici sconosciuti che nessuno ricorderà di aver visto combattere, soffrire, morire e che diventeranno i tanti, troppi dispersi della ritirata in Russia.
…Alla sera del 25 gennaio alcune squadre del Val Chiese, la mia batteria e il reparto M. V. del Gruppo Bergamo proseguono sino alla sommità di una piccola sella. Dopo qualche incertezza, retrocediamo di pochi passi e occupiamo le disabitate isbe di Arnautowo, sparse sui fianchi della pista. Durante il giorno ho mangiato poco o niente e gironzolo a lungo in cerca di cibo. Trovo solo cinque patate crude, mezze congelate.
Nelle isbe quasi tutte le stufe sono spente e nessuno fa posto dove c’è fuoco. Torno all’aperto e, trovato un recipiente, mi ingegno ad accendere un po’ di sterpaglia. Ma il freddo è più forte del fuoco e la neve neppure si scioglie. Spazientito e affumicato, butto tutto all’aria e riprendo le ricerche, ma poco dopo la fame mi fa ritornare. Recupero le patate e le più abbrustolite finiscono nello stomaco.
Il tempo trascorso mi ha fatto perdere la possibilità di trovare un posto per la notte e mi sistemo alla meglio in un fienile. Levo le scarpe e, malgrado il freddo e la fame, casco in un sonno di piombo. Verso mezzanotte, urla e spari mi svegliano di colpo. C’è l’allarme, i russi ci stanno attaccando. Mi accorgo di essere senza scarpe e moschetto e, nel trambusto, stento a recuperare le mie cose. Appena in sesto, mi apposto con altri dietro una palizzata e cerco di capire cosa sta succedendo.
E’ ancora notte, ma si vede abbastanza bene. Fa molto freddo, non meno di 40^ sotto zero.
Lontano noto una lunga fila di luci in movimento, che si snoda in un’ampia curva e avanza verso di noi. Sono sicuramente truppe russe motorizzate, provenienti da Waluiki o Nikolajewka. Le luci avanzano sulla destra e si spengono una alla volta. Nessuno è tranquillo: infatti quasi subito siamo investiti da una fitta gragnola di traccianti e di colpi di mortai.
Rispondiamo con qualche mitraglia e coi moschetti, ma la sproporzione di fuoco è notevole. Intanto ai pezzi della 33ª sparano a ripetizione. Mi sento incoraggiato e penso che si possa resistere, anche perché non compaiono i temuti carri armati. Anch’io sparo un caricatore dopo l’altro, indirizzando i colpi verso le postazioni che riusciamo a individuare.
Col passare del tempo i russi si fanno sotto strisciando sulla neve e colpiscono con precisione.
Intanto i morti e i feriti aumentano e le posizioni si vanno sguarnendo. E nessuno arriva ancora in aiuto. Sento i nostri 75/13 che sparano ancora, ma i colpi sono sempre più rari. Anch’io continuo a sparare, ma è solo per combattere la paura. L’alba è ormai vicina e distinguo chiaramente i russi che avanzano a balzoni sulla neve. Non ho il coraggio di prendere la mira e scarico a casaccio sui gruppi più numerosi, finché resto senza munizioni. Il sergente Vanini, che sanguina per una ferita di striscio al mento, mi passa due caricatori. Sparo anche quelli, ma poi retrocedo sgusciando fra le isbe. Percorro circa 300 metri, mai immaginando di trovare anche alle spalle tanti morti e feriti.
Arrivo ad un’isba dove molti tentano di entrare. Dicono che sia l’infermeria, ma non so chi possa medicare tanti feriti. Incontro l’amico Frigerio e con lui mi apposto dietro un mucchio di letame. Il gelo l’ha indurito, come se fosse impastato col cemento, e mi sembra un buon riparo. Frigerio mi racconta che la mia pattuglia O. C. è stata sorpresa dai russi. Morti il sottotenente Mazzaggio, Cairoli, Giudici e Nava. Ferito Morandi. Anche ai pezzi abbiamo avuto molti morti e feriti. I russi hanno concentrato il fuoco su di loro ed ora sparano colpi isolati.
Mancano i serventi e le munizioni e pochi hanno il coraggio di restare sotto quel fuoco. Il sergente maggiore Guicciardi si lancia imprecando, ma un fucilone anticarro lo centra in pieno petto, trapassandolo da parte a parte. Si affloscia inerte e la sua sorte scoraggia i volenterosi. La situazione è gravissima e i rinforzi non arrivano. Io non ho più un colpo e mi aspetto da un momento all’altro di vedermi capitare addosso i russi.
Improvvisamente dalla pista arrivano delle grida. Sento: “Tiràno” e tiro un sospiro di sollievo. Finalmente sono arrivati. Istintivamente mi rialzo e abbandono la posizione. Con la 49ª ci sono amici di Bergamo, il sergente Vitali, un valoroso dell’Albania, Giuliani ed altri e li voglio seguire per riprendere coraggio. Sulla pista c’è una confusione tremenda. Uomini che corrono avanti e indietro, ordini, contrordini, urla, bestemmie e colpi che arrivano da tutte le parti. Del “Tiràno” però non trovo più nessuno.
Vedo il tenente Apostoli del R. M.V. che cerca di creare un po’ d’ordine. Io non so più cosa fare e mi sento sperduto. E” così che, non so come né perché, mi trovo una cassetta di munizioni fra le mani e due mitraglieri che mi chiedono di seguirli. Come un automa, senza pensare a niente, ubbidisco. Andiamo avanti, carponi fra le isbe, sotto un fuoco tremendo. Una raffica mi passa sopra la testa e mi butto a terra. Siamo stati individuati e ci sparano addosso. I mitraglieri sono più avanti, appostati sul fianco di un’isba e mi sollecitano le munizioni.
Aspetto qualche secondo e, quando mi pare che il fuoco sia rallentato, mi precipito in avanti. Saranno venti o trenta metri e li percorro d’un fiato. Arrivo, piego un ginocchio per stendermi, quando un fortissimo strappo alla spalla sinistra mi fa roteare indietro e piombare a terra. Lancio un urlo. Sono colpito. Qualcuno mi rotola addosso, è un alpino che mi seguiva con un’altra cassetta. Vedo un viso barbuto, due occhi che si chiudono, un fiotto di sangue uscirgli dalla bocca e scorrermi sul pastrano. Morto di colpo, senza un lamento.
Tento di rialzarmi, ma non ce la faccio. Il braccio sinistro non fa forza e non riesco a spostare il morto. Allora, puntando la mano destra sulla neve, mi sposto piano piano e scivolo fuori. Appoggiandomi al moschetto, mi rialzo e, con sorpresa, resto in piedi, anche se il braccio ferito resta lungo e disteso sino al ginocchio e non risponde più. Incomincio a camminare, poi a correre, ma non posso curvarmi per che il braccio ciondola e sfrega per terra. Mi porto indietro e arrivo all’infermeria.
Non è un’infermeria, è un cimitero, più i morti dei vivi. Fra i primi riconosco il sottotenente Mazzaggio, steso su una panca, fra i secondi il conducente Balduzzi, che si lamenta penosamente. Mi riconosce anche lui e mi implora di aiutarlo. Una raffica l’ha colpito al ventre e non so come faccia ad essere ancora vivo. Di infermieri e di medicazioni neppur l’ombra. Capisco che lì non ho nulla da sperare ed esco in cerca di aiuto. Fatica sprecata.
Le cose però stanno migliorando. Fuori c’è molta gente in più, arrivata da Nikitowka, e, sotto la pressione, i russi stanno ritirandosi. Saranno le sei o le sette del mattino. E’ l’ora della conta dei morti e della raccolta dei feriti; molti gli uni e più ancora gli altri. Si cerca di allestire delle slitte per il trasporto dei feriti. Io sto ancora in piedi, ma temo di non poter camminare a lungo e vago qua e là per assicurarmi un posto e aiuto in caso di bisogno.
Trovo finalmente l’infermiere Guzzoni, al quale chiedo di guardarmi la ferita. Non potendo spogliarmi la giacca, mi apre una finestra sulla schiena, dove sono sporco di sangue, e mette a nudo la ferita. Mi rassicura che non è cosa grave. Una pallottola mi ha colpito fra le cicatrici antivaiolose ed è uscita sotto l’ascella, fratturando l’omero. Niente alla spalla e, soprattutto, niente più sangue. Mi dice di andare tranquillo, che per così poco non si muore. Sono sollevato e persino fiducioso.
Sento Frigerio che mi chiama. Stanno partendo le prime slitte e mi aggrego, con un senso di liberazione, a quella di Scuri, conducente della Comando. E’ stracarica di feriti e si procede lentamente su una pista ingombra di tutto. Ho fissato il braccio ad uno straccio annodato al collo e riesco a tenere il passo. Durante una breve sosta mi imbatto in Gentili. E’ una quercia di due metri, una pasta d’uomo, buono e servizievole con tutti. Sotto il pastrano è gonfio e sembra che trattenga qualcosa. Sto per chiedergli da mangiare, ma mi previene. Scosta i lembi e mi mostra un braccio monco.
Con una corda gli hanno fermato l’emorragia, è bendato alla meglio, ma incredibilmente è ancora in piedi e cammina cogli altri. Lo rivedrò due giorni dopo, sfinito e dissanguato, passare dal sonno alla morte. La marcia è durissima e si avanza a singhiozzo. Resistiamo perché, dopo dieci giorni di cammino e di tanti combattimenti, siamo convinti di non incontrare altri russi.
Non sappiamo né immaginiamo che, di lì a poche ore, incocceremo nell’ultimo e più duro ostacolo: Nikolajewka. Ci arriviamo nelle prime ore del pomeriggio, ma già nei pressi il rombo di cannonate ci preavvisa che è in corso un nuovo e furioso combattimento. Altro segno premonitore è la colonna che ingrossa, per quelli che avanti rallentano o si fermano. Noi ci portiamo al largo della pista e avanziamo sino alla cima di un dosso. Eccola Nikolajewka, è lì davanti a noi a un paio di chilometri. E’ un grosso abitato, con molte case in muratura, forse è una città.
C’è anche la ferrovia che l’attraversa in diagonale, formando un bastione fra noi e l’abitato.
Gli alpini del 6^, con quanto resta dei Battaglioni Verona, Vestone e Val Chiese, giunti per primi sul posto, hanno attaccato ripetutamente, senza riuscire a sfondare. Anche altri reparti hanno provato, ma inutilmente. Ora si sta aspettando che arrivino altri uomini, altre forze, per muovere un nuovo attacco.
Con noi ci sono due carri armati tedeschi e altrettanti semoventi, più qualche pezzo della nostra artiglieria: troppo poco per controbattere il fuoco nemico. Ma dietro non avanzano che feriti e congelati, reparti già provati o decimati; poi la grande massa degli isolati che non fa forza. Il 5^ Alpini non c’è quasi più. Il Battaglione Morbegno ha cessato di esistere a Warwarowka. Il Tiràno ha avuto fortissime perdite ad Arnautowo, forse l’Edolo ha ancora qualche reparto efficiente.
Siamo ancora in tanti, ma chi riuscirà ad organizzare questi uomini sfiniti dal freddo, dalla fame, dalle durissime marce, che si vanno ammassando in enorme confusione? Chi darà la spinta per buttarsi contro il fuoco nemico che ha già fatto tanti morti? E con che cosa spareremo, che molti non hanno più né munizioni, né fucile? Io certamente non mi muoverò. Sotto la pressione della massa, la mia slitta, passo passo, è già avanzata troppo, entrando nel raggio dei mortai nemici.
Ora basta, succeda quel che vuole, resterò dove sono. E’ da molto che siamo fermi e comincio ad accusare il freddo. I piedi non li sento più, forse sta arrivando il congelamento. Mi siedo sul retro della slitta e, nella speranza di scaldarli, batto le scarpe una contro l’altra. Intanto la massa ha preso ad ondeggiare. Anche davanti qualcuno deve essersi mosso, perché da Nikolajewka i russi sparano con maggior intensità. Infatti i colpi di mortaio hanno ripreso a pioverci addosso.
Il vociare aumenta e la colonna sbanda paurosamente come la coda di un serpente. Improvvisamente sopra le case di Nikolajewka sono sbucati due aerei a bassa quota, uno dietro l’altro. Non sono nostri. Hanno la stella rossa e passano mitragliando e spezzonando. Intorno non ci sono ripari di sorta. Al secondo passaggio sono sopra le nostre teste a 70/80 metri di quota. Da sotto il ventre escono fiammelle e distinguo chiaramente il mitragliere che spara.
Decido di buttarmi sotto la slitta, ma non faccio a tempo. Una vampata, un sussulto della slitta e mi trovo lungo e disteso sopra il braccio ferito. Credo di morire dal dolore e urlo quanto posso. Qualcuno mi aiuta a rimettermi in piedi. Mi manca mezzo pantalone, rimasto impigliato nella slitta. Anche il moschetto è in due pezzi, sotto i pattini. Sono infuriato, imbestialito e i moccoli salgono al cielo. Anche il mulo è imbizzarrito e trascina in avanti slitta e conducente.
Pure altri avanzano e sembra che la massa stia rotolando tutta verso Nikolajewka. “Siete pazzi? Fermatevi!” Ma nessuno si ferma e anch’io devo andare avanti. E’ una pazzia, un suicidio generale. Infatti ci arriva addosso un fuoco d’inferno. Fischi, scoppi di granate e miagolii di pallottole arrabbiate. Io arranco disperatamente e piango, piango senza ritegno. Ogni tanto inciampo e vorrei buttarmi a terra, ma ho paura degli zoccoli e delle slitte che scendono senza pietà.
“Dio aiutami, tienimi in piedi o fa che muoia senza soffrire!” Ma la morte non mi vuole e devo andare avanti. Scorgo un gruppo vicino a un morto con una spanna di gradi sul pastrano. Forse è un generale. Ma i morti sono tanti ed è quasi impossibile scansarli. E molti cadono ancora. Arranco ancora, zoppico, inciampo, ma ce la faccio e mi lascio andare a terra.
Ho il viso nella neve, ma non sento il freddo. Forse è la febbre. Mi appiattisco, chiudo gli occhi e aspetto. Intanto va facendosi buio. Dopo un po’ mi calmo e mi metto a sedere. Gli spari sono quasi cessati e molti stanno superando la ferrovia. Anche le slitte incominciano a passare, ne vedo una delle nostre e la seguo. Che carneficina, è meglio non guardare. Finalmente siamo fra le case e cerchiamo il reparto. Ritroviamo i nostri in un edificio in muratura, forse una scuola, forse una chiesa.
Mi metto in un angolo, e dopo tante ore, mi allungo all’asciutto. Il pavimento è freddo, ma trovo un’assicella da mettere sotto la schiena. Non riesco a prendere sonno, sono ancora eccitato, troppe sono state le emozioni della giornata. Soprattutto non riesco a liberarmi dalle dolorose impressioni provate durante la terribile discesa su Nikolajewka. Mi sembra di essere ancora fra quella fiumana di gente che precipitava, come onde straripate da una diga, a travolgere la città. “Come è successo? Chi ci ha spinto avanti?” Nessuno era in grado di comandare quella massa!
L’esasperazione, l’insofferenza, il coraggio della disperazione, la necessità di far smettere quei colpi, quei morti, il bisogno di ripararsi dagli aerei e dal freddo, di sfamarsi, il desiderio di farla finita a qualunque costo hanno spinto allo sbaraglio tutti quegli uomini sbandati, disarmati, feriti, congelati, con muli, slitte e tutto. E i russi perché si sono ritirati? Hanno forse avuto pietà di noi? Non credo. Certo non sapevano che molti di noi non erano più in grado di offendere, ma la massa, quelle ondate che scendevano a precipizio, li hanno sicuramente atterriti, più di quanto noi temessimo loro. Ora è finita e speriamo che la notte non ci porti altri guai. Io non ce la farei più.
Penso alle cose mie, a casa, alle condizioni in cui sono e ritornano le lacrime. I morsi della fame tornano a tenermi compagnia. Provo a dormire, ma mi assalgono nuovi incubi. Il braccio mi fa male e penso ai pericoli di un’infezione, alla perdita di altro sangue, all’amputazione. Nel sonno potrei anche morire. Ma l’indomani riuscirò ancora a rialzarmi. Il freddo, quel terribile freddo che pur fa morire, mi salverà dalle infezioni e dal dissanguamento e potrò riprendere il duro calvario del ripiegamento. Questo è il 26 gennaio 1943, questa è Nikolajewka, come li ricordo oggi, tanti anni dopo.