ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 31

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia.

Maggiore Giuseppe Talamo
comandante del Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini

Il giorno 16 dicembre alle ore 20 mediante preavviso telefonico il comando di reggimento mi dava disposizioni perché il battaglione si tenesse pronto a muovere al primo cenno. Il battaglione non poté iniziare il caricamento che alle ore 13 del giorno 17 in quanto i primi automezzi furono messi a disposizione solo per quell’ora.

Ultimato il caricamento verso le ore 15, la colonna si mosse. Spezzonata e mitragliata, costretta ad arrestarsi alla periferia di Rossosch, la colonna poté raggiungere Mitrofanowka solo all’alba del giorno 18: il Battaglione Tolmezzo pagava già, a causa dell’incursione aerea, un primo contributo di sangue con un morto e 20 feriti. Alle ore 5 del giorno 18 il generale Zangheri, comandante del II Corpo d’Armata disponeva che il battaglione raggiungesse Krinitzschnaja: mancanza di carburante, guasti alle macchine, intasamento stradale, fecero sì che il battaglione raggiungesse questa località a notte inoltrata.

Successivamente il giorno 19, una richiesta telefonica del comando della 625ª Divisione tedesca mi convocava urgentemente a rapporto a Komaroff. Quivi giunto il generale Eibi, comandante del settore, dopo avermi dato alcuni cenni sulla situazione mi accompagnò di persona sul posto d’impiego del battaglione e dopo una ricognizione sommaria del terreno, assegnava fronte e compiti.

Il battaglione doveva occupare il tratto a cavallo delle due rotabili che da Nowo Kalitwa portano al nodo stradale di Komaroff Golubaja: sulla sinistra doveva saldarsi al Battaglione Saluzzo lungo il Kalitwa, sulla destra col comando tedesco di quota 176,2. Terreno piatto senza alcun appiglio tattico, schieramento pressoché lineare: fronte del battaglione 5 km all’incirca; compito: resistenza ad oltranza, nessun cedimento od infiltrazione avversaria, evitare qualsiasi inflessione della linea sia pure insignificante.

Nessun lavoro difensivo in atto, né una linea né isbe: gli alpini dovevano sostare sulla neve all’addiaccio, e con gli scarsi attrezzi al sèguito (dato che i materiali da zappatori erano stati lasciati alla divisione…) ricavare una linea. I primi reparti del battaglione (sottoposti anche in questa giornata all’offesa nemica aerea) giunsero sul posto d’impiego all’imbrunire (ore 15): man mano che le compagnie affluivano presero posizione e l’occupazione venne ultimata all’alba del giorno 20.

Si lavorò intensamente nella notte e parte del giorno 20 a ricavare appostamenti, e verso le ore 14 dello stesso giorno si ebbe il primo contatto con l’avversario; forti pattuglioni esploranti russi, provenienti dal caposaldo “Pisello”, interessarono tutto l’intero schieramento: ricacciati ripiegarono.

La situazione, oltremodo precaria, imponeva che l’intera attività dei reparti e tutte le energie degli uomini fossero rivolte a ricavare una linea; nelle pause dei combattimenti (il battaglione dovette sostenerne ben cinque nei primi dieci giorni) si lavorò febbrilmente in qualsiasi ora del giorno e della notte: a mano a mano che la linea si sviluppava, gli animi si rinfrancavano e si rasserenavano e ad una tenue speranza subentrò in tutti la convinzione che il nemico non sarebbe passato.

Tra il 21-22 e il 23 giunsero in linea ed entrarono a far parte del dispositivo del battaglione la 13ª batteria del Gruppo Conegliano, una compagnia anticarro tedesca da 50 mm, la 90ª Compagnia A. A. del Cervino, una compagnia cannoni divisionale; dietro mia esplicita richiesta il comando di reggimento provvide a far ripiegare i resti di un battaglione di fanteria dislocato in zona e già a mia disposizione quale elemento di manovra.

Fra il 22 ed il 30 dicembre l’avversario tentò per ben cinque volte di travolgere la difesa e precisamente: giorno 22: alle prime incerte luci dell’alba, dopo breve e violentissima azione di artiglieria i russi attaccarono in forze; dapprima venne interessato l’intero schieramento, poi l’azione si localizzò sul fronte della 6^ Compagnia e parte della 12ª: obiettivo le due rotabili. Dopo un’intensa lotta durata più di tre ore i russi, che avevano subìto gravi perdite, desistettero e ripiegarono.

Giorno 24: al mattino attività di pattuglie nemiche; verso le ore 16 improvviso e violento attacco con larghissimo impiego di artiglieria e mortai. Si combattè con alterne, dure vicende: qualche sortita all’arma bianca servì a ricacciare il nemico ed a ristabilire la primitiva linea; alle ore 23 l’attacco si affievolì e svanì. Prigionieri interrogati assicurarono trattarsi dell’attacco di due battaglioni: durante la notte particolarmente fredda il campo della lotta risuonò delle urla dei feriti: l’indomani il terreno apparì cosparso di numerosi cadaveri calcolati all’incirca 300.

Tre mitragliatrici pesanti, quattro leggère, un centinaio di fucili tra i quali diversi automatici, alcune casse di bombe e di munizioni, rappresentano il bottino; giorno 26: verso le ore 3 si delineò un attacco su tutto il settore con particolare intensità sulla destra. In questo giorno venne interessato debolmente per la prima volta anche lo schieramento tedesco. Azione di durata inferiore alla precedente (4 ore) ma particolarmente intensa. Il nemico respinto ripiegò con perdite di uomini e materiali: anche questa volta nonostante l’intervento di un battaglione di galeotti il nemico non passò.

Giorno 28: forte attività di pattuglie. In questo giorno in sèguito a richiesta tedesca il battaglione prolungò il proprio schieramento sulla destra verso quota 176/2 il cui punto trigonometrico era tenuto dai tedeschi. Data la vastità del fronte e la palese intenzione del nemico di forzare l’estrema destra in corrispondenza della rotabile per Ssuchaja Krinitza chiesi e ottenni che una compagnia di uno dei battaglioni di secondo scaglione (76ª Compagnia del Cividale) venisse a rinforzare l’estrema destra.

Giorno 30: preceduto da violenta azione di artiglieria alle ore 5 venne sferrato un attacco interessante l’intero fronte. Con particolare accanimento si combattè sull’estrema destra: il nemico ricacciato, ritornò reiteratamente all’attacco. Verso le ore 9 nuove forze apparvero dirigendosi verso quota 176/2 che minacciava di cedere.

Interessai il comando di reggimento perché a sua volta intervenisse o chiedesse l’intervento di riserve a favore dei tedeschi poiché la caduta della quota avrebbe rappresentato una grave calamità per l’intero nostro schieramento. Mi si rispose di resistere e di sottrarre qualche plotone a favore dei tedeschi: disposizioni vennero date affinché il Battaglione Gemona intervenisse sul campo della lotta dalla parte minacciata.

Frattanto la quota nonostante l’uragano di ferro e di fuoco delle artiglierie cedette: il nemico tentò di dilagare dal rovescio sullo schieramento del battaglione. Si resistette con combattimenti anche all’arma bianca ed intanto i tedeschi dopo appropriata preparazione di artiglieria riconquistarono la quota. Il Battaglione Gemona, che nel contempo aveva serrato sotto (fu durante questo movimento che il tenente colonnello Dall’Armi venne ferito mortalmente) lasciò sul posto un plotone e ritornò sulle posizioni di partenza.

Il giorno 31, in sèguito ad una azione, si inserì sulla destra del Tolmezzo il Battaglione Cividale. Nel periodo operativo che andò dal 17 al 31 dicembre il battaglione perse 390 uomini fra morti, feriti e congelati. Tutta l’attività era intesa a migliorare e rafforzare maggiormente la linea sì da poter far fronte a qualsiasi evenienza. Il 13 gennaio la compagnia cannoni tedesca comandata dal tenente Hermann Volkwarzen ebbe ordine di ripiegare ed abbandonò la linea; il mattino del 16 gennaio il comandante di reggimento mi convocò assieme agli altri comandanti di battaglione a rapporto nell’abitato di Golubaja Krinitza. Quivi giunto impartì le disposizioni relative al nuovo schieramento da fare assieme al battaglione.

Nel mentre col favore dell’oscurità gli altri due battaglioni ed il Gruppo Conegliano ripiegavano al di là del Kalitwa, il Battaglione Tolmezzo con i soli propri elementi, retroguardia della divisione, doveva entro le ore 23: effettuare, fermo restando con la sinistra, una conversione onde disporsi fronte alla rotabile Nowo Kalitwa – quadrivio Golubaja Krinitza – Komaroff, sistemandosi a testa di ponte ed impedendo in modo assoluto qualsiasi occupazione od infiltrazione avversaria; guardare le provenienze che dalle diverse parti adducevano alla rotabile su detta ed all’abitato di Golubaja.

Il movimento iniziato sull’imbrunire venne completato per l’ora fissata: la 72ª Compagnia in collegamento col Saluzzo e fronte all’est ed a sud sbarra la provenienza da Nowo Kalitwa lungo la linea dei pali; la 12ª fronte a sud parallelamente alla rotabile; la 6^ a semicerchio sulle alture dominanti Molk (sudest Golubaja). Nella notte tra il 16 ed il 17 l’avversario occupò quota 176/2 sgomberata dal Cividale; nelle primissime ore del mattino forti pattuglioni appoggiati da potente fuoco di artiglieria, superate le vecchie posizioni del battaglione vennero a contatto col nuovo schieramento.

Una pronta e vivace reazione impedì loro di proseguire. L’avversario, sorpreso dalla violenta reazione che si manifestava da tutte le direzioni ebbe un arresto. Dopo una sosta la lotta si riaccese a tutto il fronte con particolare accanimento sulla destra: il nemico volle passare ad ogni costo con l’evidente intenzione di isolare la testa di ponte, tagliare ogni possibile via di ripiegamento e catturare l’intero presidio allorché la posizione che minacciava di cadere per aggiramento non sarebbe stata più in grado di resistere.

Un uragano di ferro e di fuoco si scatena sul battaglione: qualche infiltrazione si nota fra i vuoti delle ampie soluzioni di continuità: un costone formante sperone avanzato ed a ridosso del quale erano stati postati con precipua funzione anticarro due pezzi da 47/32 venne occupato: ufficiali, serventi e pezzi catturati. L’intervento rapido, violento e deciso di un reparto viciniore riuscì, con un assalto alla baionetta, ad avere ragione dell’avversario: pezzi e serventi liberati; non così l’ufficiale che era già stato trascinato via.

La lotta non ebbe soste: premuti in tutti i sensi i difensori moltiplicarono i propri sforzi; sovente sortite all’arma bianca decidevano del possesso di tratti del terreno particolarmente delicati: qualche arma automatica, qualche decina di prigionieri vennero catturati, ma tutto questo non riuscì ad allontanare la minaccia che si faceva sempre più sentire.

Le diverse postazioni ben individuate vennero battute rabbiosamente dall’avversario: nel tiro dei nostri mortai e dei nostri anticarro c’erano delle pause che diventavano man mano più lunghe: le munizioni scarseggiavano, il nemico in forze sempre più preponderanti rinnovò i propri attacchi, incurante delle perdite serrò sotto.

Due colonne avanzavano: una per il fondo valle si avviò verso Golubaja, l’altra investì frontalmente la posizione. La prima, ostacolata fortemente nel movimento, tendeva ad un aggiramento a largo raggio e, sottraendosi in tal modo all’azione delle nostre armi: la seconda proseguì con direzione sudnord; ad evitare la minaccia di un accerchiamento, venne dislocato in punti dominanti, sul rovescio della posizione lungo le direttrici d’accesso da Golubaja un plotone fucilieri, una squadra mitraglieri ed un mortaio da 81 mm, più tardi un’altra squadra fucilieri ed una mitraglieri tratte dal centro dello schieramento si aggiunsero alle precedenti col compito di tenere sgombero il passaggio per Nowo Melnitza.

La pressione avversaria aumentò di minuto in minuto. La situazione cominciava a farsi disperata: distrussi e diedi ordine di distruggere tutti i documenti al sèguito, cifrario, ecc. Alle ore 15 il comando di reggimento impartì disposizioni per il ripiegamento lasciando arbitro il comandante di battaglione di svincolarsi nel momento più opportuno. Alle 15,30 le forze dislocate sul rovescio, dopo aver sparato sino all’ultima cartuccia e tentato qualche sortita all’arma bianca, vennero sopraffatte e travolte: il nemico poté così piombare alle spalle della 6^ Compagnia, parte della 114ª Compagnia comando e comando di battaglione.

Senza frapporre indugi, lasciando a sud il minimo indispensabile si capovolse il fronte e con tutti i disponibili raccolti in un sol blocco ci si buttò addosso all’avversario urlando; i russi, pur superiori di numero, presi tra due fuochi, sorpresi dalla mossa ardita tentennarono: l’attacco portato a fondo rabbiosamente fu a noi favorevole: un varco fu aperto, si passava e, mentre da un margine di una balka pochi elementi rimanevano a contrastare l’avanzata all’avversario, il rimanente delle forze, inseguite dal fuoco di artiglieria e dei mortai avversari, poteva raggiungere la palude ed attraverso la stessa guadagnare Lotschina.

Quivi giunti il tenente Oglina, incaricato dal comando di reggimento, trasmise le disposizioni per l’ulteriore ripiegamento, dopo aver fatto defluire il carriaggio, il battaglione, ripreso il compito di retroguardia, doveva raggiungere attraverso Annowka la zona di Popowka onde riunirsi al reggimento.

Non era necessario attendere la 72ª e la 12ª Compagnia in quanto detti reparti, per accordi intercorsi tra il comandante dell’8^ e quello del 2^ Alpini, avrebbero seguito le sorti del Battaglione Saluzzo. Si sostò per un’ora onde riordinare i reparti e concedere agli uomini un poco di respiro; si procedette alla verifica delle perdite: al battaglione, facendo astrazione delle due compagnie suddette, mancavano quattro ufficiali, e 118 tra sottufficiali ed alpini.

Alle ore 20 venne ripresa la marcia che si svolgeva fra inenarrabili sofferenze fisiche e morali: la neve alta, la temperatura particolarmente rigida, la mancanza di nutrimento, la stanchezza conseguente alle dure ore precedentemente trascorse, la visione di roghi di magazzini e di ammassi di automezzi, gli spettacoli pietosi di gente ed animali accasciati sulla neve ed impotenti a proseguire, cominciavano ad incidere sull’animo del soldato e l’abitato di Popowka, raggiunto alle ore 14, dopo una marcia ininterrotta di 18 ore fu un sollievo per tutti.

Alle ore 3 del giorno 19 il comandante del reggimento riunì a rapporto i comandanti di battaglione. Un’informazione pervenuta poco prima dal comando di divisione riferì sulla situazione. Da parte del nemico era già in atto un accerchiamento: necessitava marciare verso ovest ed aprirsi una strada: la salvezza era nel fattore velocità. Si concretarono delle disposizioni ed alle ore 7,30 la colonna reggimentale, composta dai tre battaglioni, dal Gruppo Conegliano, da una compagnia cannoni divisionale, dalle slitte e da aliquote di altri reparti, iniziò il movimento portandosi fuori dalle vie di comunicazione.

Il battaglione, che aveva avuto assegnata una compagnia di complementi si muoveva quale retroguardia alle ore 10; alle ore 15 la colonna venne arrestata nei pressi di Nowo Postojalowka da una violenta azione di fuoco avversario. Il comandante di reggimento dispose per l’attacco all’abitato. Vi parteciparono i Battaglioni Gemona e Cividale. Fallito l’attacco, mentre gli altri due battaglioni si riordinavano, il Tolmezzo, venne spinto avanti a protezione del fianco sinistro e nel mentre eseguiva i movimenti relativi, urtò contro alcuni centri di fuoco avversari.

Durante la notte azioni di pattuglie da entrambe le parti; alle prime luci dell’alba, dopo un’azione infruttuosa da parte del 2^ Alpini che ripiegava, entrò di nuovo in lotta l’8^ con tutti i suoi battaglioni. Il Tolmezzo attaccato in pieno da carri armati (sette) subì grandi perdite: quasi tutta la compagnia complementi venne distrutta. Il combattimento si protrasse per ore: tutto quanto c’era disponibile venne buttato nella lotta: conducenti, cucinieri, portaferiti ecc. I pezzi anticarro sia dei battaglioni sia divisionali, colpiti, furono messi fuori uso; l’artiglieria, con gli ultimi proiettili, tentò di arrestare i carri che di volta in volta facevano delle puntate per poi scomparire nel bosco vicino.

La lotta assunse aspetti sempre più drammatici: sul luogo era giunto il comando della divisione al completo: più tardi venne anche il generale Battisti con alcuni ufficiali del suo comando. Non c’erano possibilità di scelta: era necessario resistere sino a notte inoltrata per avere qualche possibilità di sganciamento. La lotta continuò con accanimento: da entrambe le parti si aveva la sensazione che queste ultime ore sarebbero state decisive: gli alpini sentivano che solo da una resistenza ad oltranza sarebbe potuta venire la salvezza: tutto veniva messo in atto per far fronte agli eventi. Ogni metro di terreno era sanguinosamente conteso: agli attacchi si rispondeva con i contrattacchi: parecchie erano le fasi all’arma bianca.

Verso le 13,30 il nemico sferrò un ulteriore attacco: appoggiato da carri avanzò una massa imponente di armati: la nostra artiglieria sparò gli ultimi colpi: due carri colpiti si immobilizzarono. Fu un momento particolarmente critico: se non si fosse riusciti ad arrestare la valanga ci sarebbe stato il rischio di venire travolti. Senza un attimo di indecisione si radunarono tutti gli armati: due masse, una di artiglieri e l’altra di alpini, rispettivamente agli ordini del tenente colonnello Rossotto e mio, si lanciarono ripetutamente, in fraterno cameratismo, incuranti delle gravi perdite, a testa bassa contro l’avversario ed in reiterati assalti lo sopraffecero, lo costrinsero ad arrestarsi e successivamente a ripiegare sulla linea di partenza nonostante la propria superiorità in uomini e mezzi.

Sopraggiungeva intanto l’oscurità e col favore della stessa si procedette alla radunata dei superstiti ed allo sganciamento. In questa giornata il battaglione ebbe un ufficiale morto, sei feriti e tre dispersi e 242 tra sottufficiali ed alpini morti e dispersi. Si rifece la colonna: i resti del battaglione in funzione di avanguardia iniziarono la marcia dirigendosi verso ovest: si camminò per alcune ore e verso le due il comandante di reggimento ordinò di sostare in un bosco. Alle ore 12 del giorno 21 dopo aver preso contatto con una colonna tedesca, si riprese la marcia: arrestati per due ore a causa di un combattimento fra tedeschi e russi, si giunse a Nowo Georgiewka all’alba.

Il comando di reggimento diede ordine di accantonarsi: le notizie raccolte davano come certo d’essere al di fuori della sacca. Alle ore 10,30 un’improvvisa quanto rapida incursione avversaria gettò lo scompiglio fra i reparti. Numerosi carri armati, seguiti da artiglieria e fanteria motorizzata, circondarono l’abitato: da tutte le parti una tempesta di fuoco investì le abitazioni che, crollando, trascinarono nella rovina gli occupanti. Dalle isbe vennero fuori gli uomini che cercarono a ridosso delle case di sottrarsi alla minaccia e di guadagnare terreno. Inseguiti, schiacciati, feriti, cercarono di comporsi in piccoli nuclei; si cercò di reagire, ma nessuna difesa è possibile.

Dovunque il nemico era in agguato ed inesorabilmente tutto il terreno era battuto sia dal fuoco sia materialmente con carri ed automezzi. Unico scampo era dato dal dilagare nei campi e dal cercare di raggiungere qualche anfrattuosità del terreno in modo di sottrarsi alla vista ed al fuoco avversario. Dopo un’ora di cammino a ridosso di una piccola balka i superstiti si riunirono in colonna: molti erano gli assenti. Si camminò per tutto il giorno e gran parte della notte: si sostò per due-tre ore, indi si riprese il cammino.

Praticamente alla fine di questa giornata il battaglione cessava di esistere come unità organica; oltre alle perdite dei giorni scorsi vi era da annoverare la scomparsa temporanea dei resti della 6^ Compagnia e della 114ª che, impiegate dal comando di reggimento per uno speciale servizio, erano riuscite ad unirsi alla Tridentina e ad effettuare la marcia con questa unità raggiungendo Bolsche Troizkoje il 30 gennaio.

I rimanenti, qualche ufficiale ed una quarantina di uomini vennero al mio sèguito: attaccati ancora prima di Warwarowka si ebbero ulteriori perdite: successivamente ci unimmo ad una colonna il cui comando al giungere del tenente colonnello Vespignano venne assunto dallo stesso e con questa colonna che marciava parallelamente ad una tedesca passando il Samara si raggiunse, il 29, Woltschansk dove chi scrive e quasi tutti gli alpini superstiti furono ricoverati in ospedale.

Alpino Felice Lazzeris
12ª Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini

Letto di quanto si chiede, ho messo assieme le poche righe che seguono. Mi sono state ispirate al vedere l’alpino Luigi Clerici, detto “Vigi Picioli”, da Cimolais (Pordenone), composto nella sua bara il 12 febbraio scorso. Ciò mi ha fatto pensare al povero dottor Vidari, a padre Fiora e all’amico di Clerici, Giacomo Bressa detto “Meto” pure da Cimolais e morto tre anni e mezzo fa ad Alessandria ove s’era trasferito.

Erano amici inseparabili fin dall’infanzia e pure inseparabili furono a Kalitwa e ovunque fu il Tolmezzo. Dunque: Nikolajewka? Gli amici mi guardano da tempo, il loro sguardo chiede: hai scritto? che fai? E da allora penso: che faccio? che dico? Perché, io a Nikolajewka non c’ero, io ero a Kalitwa, e chi ci fu sa dov’è! Cosa dire allora? Da dove comincio? Solo ora ho deciso e scrivo. Scrivo perché sono stato in montagna e sono stato dal “Vigi”, sono andato da lui perché lui non poteva venire da me, era morto!

Disteso nella sua bara, sereno tranquillo, il suo bisunto cappellaccio da montanaro appoggiato sopra la coscia sinistra; quello d’alpino, stinto e tarlato, posato su quella destra. Due cappelli! Una vita. Consummatum est, qualcuno potrebbe dire. Ed invece no, io non ho detto nulla, a me mi si sono velati gli occhi di lacrime e il velo era come Io schermo d’un televisore a colori sul quale il “Vigi” e il “Meto” correvano fra quelle che avrebbero dovuto essere postazioni d’armati e invece erano solo neve, neve ammucchiata a
riparo. Quale riparo?

Correvano “Vigi” e “Meto” a raccogliere feriti, congelati e morti con la loro barella. E mi son visto l’anfratto, sempre pieno di doloranti, in cui il povero dottor Vidari compiva il suo sovrumano dovere aiutato dai due inseparabili infermieri portaferiti. Quanti occhi spiritati e tremolanti nelle occhiaie deformate dal freddo e dallo sfinimento! Quante mani, quanti piedi resi duri come legno dal gelo! Quanti feriti scesero o furono portati in quella buca dal “Vigi” e dal “Meto”?

In quei momenti ho rivisto il “Vigi” raccogliermi dal sentierino sul quale mi trascinavo bocconi e portarmi al posto di medicazione e là il dottor Vidari guardarmi, slacciarmi i pezzi di coperta in cui avevo ravvolto i miei arti e scrivermi nome, cognome e matricola sul cartellino di tela cerata e legarmelo al bavero del cappotto come fossi un pacco. Mi sono ritrovato sulle spalle del “Meto” portato su per i pochi gradini scavati nel tufo. Mi sono rivisto porre sulla barellina montata sugli sci, sotto l’arco del piccolo telo con la croce rossa e il “Vigi” e il “Meto” a trascinarmi fino ad un lontano gruppo di isbe e lasciarmi là nelle mani di padre Fiora.

“Quando ta rive saluda a casa” dissero, poi sparirono con la loro barella e io sento ancora il rumore dei legni che scivolavano sulla pista gelata! Quante volte “Vigi”, tu e “Meto” avete percorso quel tratto di pista trascinando amici, compagni e paesani? Quante?! A quanti avete ripetuto la frase che diceste a me: “Quando arrivi saluta a casa”? Chi può dimenticarlo?

Poi, padre Fiora! Mi fece portare in un’isba dove tanti erano i feriti e i congelati che i corpi accavallati formavano un informe groviglio e dal mucchio uscivano urla, bestemmie e lamenti. Su tutto il graveolente, nauseabondo odore della carne d’uomo in putrefazione. Pure, là dentro, finalmente era caldo! Mi son visto venire padre Fiora ad offrirmi una bottiglietta di brodo riscaldato e una fetta di pane nero spalmata di marmellata. “Prendila” disse “mangiala tu che hai più fame di me.” Era la sua. cena.

Ho rivisto la fetta di pane ridotta in briciole dai miei compagni affamati, che orribili mani!
Ho risentito il caldo del sorso di brodo che riuscii a ingollare scendere lungo la gola, e lo strappo con cui mi tolsero di mano la bottiglia. Tre, quattro, cinque bocche deformi, piagate e contornate da croste appese alle barbe si attaccarono al liquido. Padre Fiora riprese la bottiglia vuota ed uscì a testa bassa dall’isba seguito dai nostri sguardi. Che facce orribili e spaventose avevamo!

Forse in quel momento il “Vigi” e il “Meto” stavano già trascinando indietro qualcun altro.
Poi la steppa, le slitte, i camion traballanti carichi di creature che non potevano più muoversi. Starobelsk; l’orribile quadro dello stanzone pieno di feriti sanguinanti, di piedi e mani che cadevano a brandelli come fossero presi dalla lebbra. E sangue, carne, orina ed escrementi d’uomo a fare strato sul pavimento! Poi altre isbe piene di chiedenti pietà (c’ero anch’io) a chi ancora camminava… ma questo lo sanno tutti. Mi sono asciugato gli occhi, ho baciato il “Vigi” e l’ho accompagnato al cimitero del suo villaggio. Ora riposa là, coi suoi due cappelli, finalmente in pace. Ciao “Vigi”. Ciao “tutti”!

Alpino Lino Salinis
Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini

Era qualche giorno prima di Nikolajewka, e stavo sciogliendo un po’”di neve per ottenere un po’”di acqua calda per darne a un mio compagno con la febbre. Dalle concitate consultazioni di un gruppo di alti ufficiali che entravano e uscivano da una misera isba, capivo che le cose non andavano bene. Non tardò a confermarlo lo sbigottimento e l’allarme per l’avvicinarsi di carri armati russi. Sollecitato da un ufficiale corsi con altri volenterosi sul lieve dosso che proteggeva l’isba e mi buttai alla sinistra (sulla medesima linea) di un pezzo da 75/13 della nostra artiglieria alpina.

Appena la nuvola di nevischio, reso polveroso dai cingoli, mì lasciò intravedere la sagoma di uno di quei bestioni, incominciai quella impari lotta col mio ’91 (era datato 1917). Ripetei più volte questo… solletico su quella massa di ferro avanzante, ma fu un colpo dei nostri artiglieri che riuscì a fermarlo di traverso. Gli altri carri continuarono a vomitarci fuoco dalle mitragliatrici e a procurarci perdite, finché un preciso colpo del cannoncino dalla torretta colse in pieno il pezzo da 75 che avevo a fianco e una ruota (povere ruote di legno) mi frullò vicino come una trottola.

L’unico artigliere superstite si voltò di spalle, e dalla grossa “asola” nel pastrano fluiva il sangue fumante unitamente alla lana della fodera. Ci precipitammo dal piccolo pendio che ci aveva portato su quel dosso insanguinato fra le urla dei feriti e il frastuono della battaglia finché i carri si affacciarono al dosso e con i colpi grossi e con le raffiche ci inflissero altre forti perdite. Piombai in un’isba più lontana e mi trovai di fronte a una donna dall’età indefinibile e un ragazzo di sei sette anni, con la bocca piena ma ferma; piena di qualcosa… e le mani volutamente strette dietro la schiena come se volesse nascondere qualcosa; chiesi allora alla donna qualcosa da mangiare e lei mi rispose che non aveva niente.

Io ribattei che il ragazzo mangiava o nascondeva roba da mangiare; la donna lo invitò a dividere con me quella frittella o polpetta di miglio che teneva nascosta. La ringraziai e, rivolto alla icona che c’era nell’angolo della stanza, le assicurai che avrei pregato anche per loro.

Alpino Vittorio Della Schiava
72ª Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini

Rimasi a Podgornoje fino al 15 gennaio, giorno in cui assieme ai reparti alpini iniziò la grande marcia disastrosa che poi ci portò alla grande battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio. Io giunsi a Nikolajewka il giorno prima, inseguito dalla vigilia. Vi fui catturato assieme a tanti altri compagni e fummo rinchiusi in una scuola dove rimanemmo fino al sopraggiungere dei primi colpi che l’artiglieria nostra pure sul nostro asilo. I rimasti vivi venimmo trasferiti in una chiesa che dista poco dalla ferrovia dove vi fu il grosso combattimento e ivi con la nostra vittoria liberati e ci unimmo ai resti dei nostri reparti.

Sergente maggiore Umberto Cella Battaglione Gemona, 8^ Reggimento Alpini

Citerò alcuni dati di fatto in merito al Battaglione Gemona: tre comandanti di battaglione caduti in sei mesi, precisamente il tenente colonnello Rinaldo Dall’Armi, il maggiore Carlo Ubaldi, il capitano Vincenzo Rago, oltre una ventina di ufficiali. Faccio presente che quei pochissimi ufficiali del mio battaglione che sono arrivati vivi a Nikolajewka con i loro pochi alpini superstiti, hanno contribuito con il loro esempio a dare man forte alla Divisione Tridentina per aprire l’ultimo varco.

Faccio il nome dell’eroico ufficiale aiutante maggiore tenente Pio Marcili di Milano, che ha trascinato all’ultimo attacco i suoi alpini, i quali mi sembravano freschi, arditi: invece, erano alpini che avevano fatto tutta la ritirata. Infine prego vivamente di scrivere qualcosa in merito ai conducenti: in parole povere, posso documentare che migliaia di alpini feriti, malati, congelati sono stati salvati dai nostri conducenti e muli.

Sono un alpino che venni in Russia con un polmone già bucato sul fronte greco. Presi una buona pleurite e altre ferite in Russia, e dopo 30 anni vivo ancora da un sanatorio all’altro, ma non ho mai cessato di amare la mia patria e di ricordare con riconoscenza e con affetto quelli che sono stati più sfortunati di me, caduti combattendo al nostro fianco per aprirsi la strada verso l’Italia.

Sergente Luciano Papinutto Battaglione Gemona, 8^ Reggimento Alpini

Il 16 gennaio 1943 i russi attaccavano incessantemente con ogni tipo di arma il settore davanti a Nowo Kalitwa, dove io mi trovavo con il plotone mortai della 71ª Compagnia del Battaglione Gemona. Faceva parte della squadra esploratori di suddetta compagnia anche il caporal maggiore Enore Viezzi, classe 1920, già combattente sul fronte grecoalbanese e prigioniero sull’isola di Creta. Il settore da noi difeso, lo avevamo rilevato al Battaglione Val Cismon, il quale era stato semidistrutto da un attacco in forze di carri armati russi.

Nel breve periodo di giorni che tenemmo saldamente questa posizione la squadra esploratori della 71ª Compagnia, dove il caporal maggiore Viezzi, assieme al sergente maggiore Rumiz e al sergente Vignuda erano fra i più temerari componenti, effettuò diverse puntate notturne nelle difese russe, catturando diversi prigionieri e quantitativi di armi nemiche.

In una di queste azioni furono sorprese le sentinelle russe; nostri uomini penetrarono nei bunker russi e dopo una breve mischia con bombe a mano, rientrarono nelle linee con sei prigionieri ed una ventina di fucili caricati sulle spalle dei prigionieri. Questa azione avvenne verso le due del mattino e l’uscita della pattuglia era stata segreta. Io e i miei del plotone mortai, in difesa di quel settore assieme ai serventi, richiamati dai bagliori e dal boato delle bombe a mano, e dalle grida, saltammo nelle postazioni pronti ad effettuare un fuoco di sbarramento pensando ad un attacco russo.

Prima di intervenire con il nostro fuoco, andai però dal capitano Zilioli della 71ª Compagnia per chiedergli se era opportuno il nostro fuoco di sbarramento. Concitatamente il capitano mi rispose: “Per l’amor di Dio, Papinutto non sparare perché sono fuori i lazzaroni”. (Egli bonariamente intendeva, con il termine di lazzaroni, la squadra esploratori.) All’alba il sergente Vignuda accompagnò i prigionieri al comando del 9^ Alpini, e parlando con accento meridionale si presentò al colonnello Actis Caporale. Il colonnello, meravigliato, chiese come mai nel Gemona ci fosse un alpino meridionale. “Signor Colonnello” rispose il capitano Zilioli “questo non è meridionale, ma un lazzarone di S. Daniele del Friuli.”

Il 17 gennaio ’43, al termine di una giornata di aspri combattimenti sostenuti con buon esito, giunse al calar della sera l’ordine di ripiegamento. La notte era gelida ed a me, assieme ad un gruppo di uomini della mia squadra al comando del sottotenente Buzzi toccò la missione di fiancheggiare la colonna, cosa che si protrasse fino verso le due del mattino, ora in cui mi accodai alla colonna ed ebbi modo di incontrarmi con il caporal maggiore Viezzi, il quale con una squadra esplicava la funzione di retroguardia del battaglione.

Questo incarico non era di suo gradimento, ma egli lo effettuava con il massimo impegno per il timore di rimanere tagliato fuori da infiltrazioni nemiche e dover subire un secondo periodo di triste prigionia. Il 18 gennaio facemmo qualche ora di riposo all’alba in ripari di circostanza, subimmo qualche attacco aereo, c’era un continuo afflusso e ondeggiamento di colonne con reparti sbandati. Ordini e contrordini si intrecciavano, già trapelava che la situazione per noi era alquanto critica. Da qualche parte giungeva un ordine quasi perentorio di marciare verso ovest al più presto.

Il 19 gennaio dopo una notte passata all’addiaccio partimmo alle prime luci dell’alba con il battaglione in colonna. La marcia procedette spedita fino al pomeriggio, poi subimmo un attacco aereo in cui rimase ferito il sottotenente Sensale. Giungemmo a Nowo postojalowka. Subito un ordine chiamò avanti la squadra esploratori della 71ª ed il caporal maggiore Viezzi, mentre mi sorpassava, mi disse che andavano avanti a vedere di cosa si trattava.

Qualche centinaio di metri più avanti si cominciarono ad udire i primi rumori; qualche istante più tardi ci furono allarmi di carri armati a cui seguì lo sparpagliarsi degli uomini delle compagnie di avanguardia ed il ripiegamento a rotoloni sulla neve del capitano Chiussi della 70ª. In un baleno tre dei nostri pezzi da 47/32 erano in posizione di tiro, ed uno di questi comandato dal sergente Vari non era più di dieci metri lontano da me; chi con le mani, chi coadiuvato da attrezzi da campo, ci ponemmo a riparo in effimere difese di neve.

La sera stava calando, all’orizzonte si profilavano le sagome mastodontiche di due carri armati russi, i quali cannoneggiavano e mitragliavano in forma impressionante seminando morte ovunque, ed a complemento di questo triste spettacolo seguiva una seconda carneficina operata dai cingoli di un carro armato, il quale presa d’infilata la colonna, macinava sotto i suoi cingoli muli, slitte, equipaggiamenti, e ciò che era più triste, alpini. Alpini che si erano illusoriamente messi in ripari di circostanza, sparando con il moschetto
’91 fino al momento di essere schiacciati.

Il sergente Vari coadiuvato dal caporale Venturini e dagli alpini Tea, Molinaro, Calligaro, con altri serventi, quando il colosso corazzato russo, rullando sulla colonna indifesa giunse a circa 100 m, aprì il fuoco centrandolo per ben 13 volte consecutive senza arrecargli il minimo danno, e senza neppure impressionare l’equipaggio, il quale diresse velocemente il
carro verso il cannone tenuto dall’ardito sergente Vari, schiacciandolo. Il caporale Venturini e gli altri serventi rimasero fortunatamente feriti solo di striscio e non gravemente.

Il T 34 compì l’ultima prodezza schiacciando il nostro cannone, poi invertì la rotta protetto da un altro carro armato. La notte era calata, l’ordine di sistemarci in buchi nella neve ci giunse nel luogo in cui impotenti avevamo assistito al terribile massacro. Dico impotenti perché le tredici granate che colpirono il carro, schizzarono in ogni direzione dopo averlo colpito e producendo scintille di ogni colore. Ritiratisi i due carri dal nostro settore, iniziammo l’ingrato compito di raccogliere i feriti e sistemarli in un piccolo gruppo di isbe poco distanti dal luogo dello scontro. Intanto sulla nostra destra si schierò la 14ª Batteria del Gruppo Conegliano, e da quanto appresi, un pezzo possedeva alcune granate OT.

Poco più avanti sulla mia sinistra udii la voce del caporale maggiore Viezzi, il quale incitava i suoi componenti la squadra a scavare fosse nella neve per ripararsi dalla tormenta, e pernottare in queste fosse, se altri ordini non fossero pervenuti. La notte era calata ormai da parecchio tempo; noi riposavamo nelle fosse, ma c’era un silenzio che non faceva presagire niente di buono. Decine di metri avanti a noi sulla destra c’erano due covoni. Questo silenzio venne poco più tardi dissipato da un tenue ronzio che andò a poco a poco aumentando fino a quando nuovamente sulla bianca distesa antistante si profilarono le grosse sagome di altri due carri armati russi.

Noi eravamo immobili ed i carri si avvicinavano lentamente ai due covoni. Lì si arrestarono e cominciarono a sparare a sinistra e a destra proiettili di mitragliere traccianti; i covoni, centrati, s’incendiarono, le fiamme subito si svilupparono alte e produssero un certo chiarore tanto da distinguere molto bene i carri e provocare una violenta reazione da parte dei 75/13 della 14ª Batteria e dei nostri superstiti 47/32. I due carri sorpresi dalla reazione invertirono la rotta e velocemente ripiegarono senza ingaggiare battaglia.

Subito dopo il loro allontanamento uscimmo dai nostri ripari e ci avvicinammo al rogo dei
pagliai a scaldarci, e mentre godevamo quel po’”di calore e lo stomaco reclamava qualcosa che non poteva ricevere, il capitano Zilioli impartì gli ordini agli esploratori della sua compagnia: effettuare una perlustrazione fino al paese che si trovava a circa 2 km del nostro itinerario di ripiegamento. Qui nuovamente il caporal maggiore Viezzi fu fra i primi assieme al sergente maggiore Rumiz, al sergente Vignuda ed una decina di alpini. Dopo aver ricevuto le istruzioni necessarie e riempito i tascapane con bombe a mano si avviarono taciturni e lenti.

Oltre i covoni, più a destra si trovava una boscaglia nella quale subito scomparve quel pugno di uomini. Il nostro compito era di vigilare, ed eventualmente rintuzzare qualsiasi intenzione dei russi. La nostra linea era esile, ma molto attenta, composta di alpini e artiglieri alpini. La notte trascorse lenta, il freddo ci costringeva a rimanere nei buchi; per evitare il sicuro congelamento, a turno uscivamo dai ripari per sgranchirci gambe e braccia. Nel gruppetto di isbe alle nostre spalle, per tutta la notte ci fu un’intensa attività dei medici ed infermieri per medicare alla meglio i feriti che erano collocati in ogni angolo.

Continui erano i rapporti fra gli ufficiali superiori e i comandanti di compagnie e batterie per studiare altre eventuali direzioni da prendere dopo lo sbarramento incontrato. La situazione per noi sembrava sempre più insostenibile. Dopo mezzanotte nel paese antistante si udirono boati, raffiche di armi automatiche, razzi luminosi; era difficile per noi prevedere quello che stava succedendo, si poteva solo immaginarlo. All’alba invece, al rientro della pattuglia esploratori della 71ª, tramite il caporal maggiore Viezzi ebbi il racconto dettagliato di come portarono a termine senza nessuna perdita la temeraria impresa.

Questo il fatto: giunti in prossimità del paese, gli uomini si divisero in tre gruppetti, ognuno dei quali aveva un obiettivo ben preciso; strisciando sulla neve Viezzi raggiunse un lungo capannone adibito a scuderia, ed essendo pratico dei servizi di scuderia entrò in silenzio sorprendendo i tre uomini di servizio che uscirono spaventati a mani alte mormorando nella sorpresa “Karasciò, karasciò”.

Mentre un alpino vigilava i tre momentanei prigionieri e gli altri quattro erano disposti a difesa, il caporal maggiore Viezzi sbrigliò un po’”di cavalli e muli, lanciò una bomba a mano al centro della scuderia; avendo aperto le porte provocò un fuggifuggi generale dei quadrupedi che mise in allarme il contingente di truppa che pernottava in paese, e creò un grande scompiglio.

Il secondo gruppetto prese di mira un parcheggio di autocarri adibiti al trasporto della truppa, provocando anche incendi. Questo attacco fu così fulmineo che gli alpini poterono ripiegare convergendo sugli altri senza subire la reazione del nemico. Il terzo gruppetto che fungeva di protezione dall’alto di un’isba, arrestò i primi pattuglioni nemici, che riavutisi dalla sorpresa cercavano di eliminare questa spina sul fianco del paese.

La sorpresa e lo scompiglio per i russi fu enorme, tanto che tardarono molto ad organizzare una reazione consistente. Lo sparuto gruppo di alpini non poteva più agire in alcun modo. I carri armati si erano mossi per la via centrale del paese e i pattuglioni rastrellavano ogni contrada, mentre gli alpini distruggevano le armi che avevano trovato agli uomini di guardia alle scuderie e a qualche altro catturato in sèguito.

Un soldato avversario attraversò un viottolo con un mortaretto calibro 50 in spalle e penetrò in un’isba. Il caporal maggiore Viezzi senza un attimo di esitazione si lanciò come un falco sulla preda, entrò nell’isba con decisione impugnando una bomba a mano, e con sua sorpresa, al tenue lume di candela vide la sagoma di una ragazza e di una donna anziana.

Con la bomba luccicante in mano Viezzi gridava “Soldat, soldat”, loro rispondevano “Karasciò, karasciò italiano”. Viezzi appostato con le spalle coperte per precauzione, e minacciando con la bomba, intravide sotto lo spac (quella specie di letto di tavole che la notte ospita tutta la famiglia), le scarpe del soldato; ebbe così la certezza che si era rifugiato lì. Lo invitò fuori, aveva ancora il mortaretto sulle spalle e gli occhi fuori dall’orbita ed anche lui gridava “Karasciò italiano” in coro assieme alle due donne. Viezzi lo portò fuori e dopo aver distrutto il mortaretto, considerando la nostra situazione insostenibile lasciò liberi i soldati catturati e ripiegò sulle nostre linee.

L’operazione in sé non fruttò vantaggi; solo si seppe con certezza che quella strada era per noi sbarrata dai carri armati e da un forte contingente di truppa autotrasportata per bloccarci e se possibile, annientarci. Il 20 gennaio, prima che le tenui luci dell’alba avessero ragione della triste e gelida notte trascorsa all’aperto, con un freddo che pareva volesse ghiacciare perfino il liquido degli occhi, con una tensione di nervi che ci aveva fatto dimenticare che da 24 ore non mangiavamo, e con un lancio di moccoli, rientrò nelle nostre fragilissime linee la pattuglia esploratori.

Gli uomini avevano i volti scavati dalla fatica ed esalavano vapore dal corpo, come una pentola d’acqua bollente, vapore che veniva subito congelato sui baffi, sopracciglia e bavero del cappotto. Dopo una nottaccia così, invece di trovare un cantuccio tiepido per un
meritato riposo, questi soldati non trovarono nient’altro che un buco nella neve per rannicchiarsi al riparo dal vento gelido.

Qualcuno malgrado la posizione ingrata, dopo il rientro schiacciò un pisolino, ma di breve durata perché, appena l’alba ebbe ragione delle tenebre, un forte pattuglione russo, protetto dalla boscaglia, ci attaccò sul fianco destro e noi, subito lasciati gli uomini necessari al servizio dei pezzi, formammo una pattuglia di contrattacco eliminando subito le infiltrazioni e inseguendo l’avversario fino all’altro lato della boscaglia, e non oltre, perché appena usciti all’aperto intervenivano i carri armati ed a noi non rimaneva altro che ripiegare.

Ripiegando, nel mezzo di questa boscaglia trovammo un’isba isolata, io guardai dentro attraverso le finestre, ed ai miei occhi si presentò uno spettacolo agghiacciante: fino all’altezza delle finestre c’erano morti e feriti, che sicuramente la notte precedente erano stati sorpresi e sterminati senza alcuna possibilità di difesa. Fino a mezzogiorno di questo tragico 20 gennaio subimmo quattro attacchi e rigettammo il nemico infliggendogli sensibili perdite e catturando diversi prigionieri. Così, essendo accerchiati e quindi considerati prigionieri dall’alto comando russo, catturavamo a nostra volta prigionieri.

Le nostre azioni elastiche ci permettevano, dopo aver ributtato l’avversario, di ripiegare fino a quel gruppetto di isbe, in cui sempre più cresceva il numero dei morti e feriti, che venivano allineati ai loro bordi con qualche coperta sopra, perché all’interno non c’erano più posti. In questo gruppetto di isbe si trovavano il comandante dell’8^ Alpini, il comandante del gruppo Conegliano, il capitano Magnani, il capitano Rago (comandante del Battaglione Gemona, dopo la morte del tenente colonnello Dall’Armi), il capitano Giglioli, comandante dei “lazzaroni” della 71ª Compagnia, il tenente Zatti, i sottotenenti Pascatti, Carta e Marchiori della 116ª A. A. del Gemona e diversi altri di cui ora non ricordo il nome.

Dopo un ampio studio delle carte a disposizione, essi giunsero alla conclusione che c’era una possibilità su cento di uscire da quella terribile morsa, ma questa possibilità comportava un allungamento di diversi km, nel fondo di un canalone per poter aggirare il paese antistante, e naturalmente tutto doveva avvenire di notte. Mentre ognuno di noi stava parlando con i paesani, o pensando a ciò che poteva accaderci, una voce di incredibile potenza cominciò a scandire: “Avanti Julia che si va in Italia. Avanti! Avanti!”.

Questo era il capitano Magnani: alto, imponente, con la sua bella barba tutta brizzolata, seguito poi da tutti gli altri ufficiali. Immediatamente fummo elettrizzati da questa voce, da questo incitamento che ci dava come obiettivo la lontana Italia, questa nostra patria che voleva dire anche famiglia e gli affetti più cari. A gruppetti ci inoltrammo rapidamente nella boscaglia per la quinta volta nella giornata, ma questa volta decisi ad uscirne a qualunque costo.

Il caporal maggiore Viezzi era alla mia sinistra, come pure il capitano Magnani, il capitano Rago e diversi altri ufficiali, il sergente maggiore Rumiz, il sergente Vignuda; sulla mia destra c’erano il sergente Forte, il sergente Minisini, il sergente Forabosco, il caporal maggiore Lanfrit, il caporal maggiore Filoferro, l’alpino Ganzitti, l’alpino Scangoi e Calligaro ed altri del Gemona appoggiati da artiglieri alpini e da conducenti di tutti i servizi.

Arrivati quasi al termine della boscaglia, per un attimo ci arrestammo, convinti che quel grosso reparto mimetizzato con tute bianche che avanzava strisciando sulla neve, fosse di tedeschi venuti in nostro aiuto; invece il grosso reparto era russo e questa volta tentava la sorpresa mimetizzandosi. Ne uscì una mischia furibonda all’arma bianca e a bombe a mano. Tale fu il nostro impeto, che ben pochi nemici riuscirono a scappare, dietro un cespuglio, un soldato nemico pareva morto, invece ad un tratto ripiegò velocemente trascinando sulla neve un fucilone anticarro.

Viezzi che era fra i primi gridò: “Alt! Non sparate che questo è mio”, e lo seguì con tanta foga che in qualche decina di metri lo raggiunse, lo disarmò, lo consegnò ad un alpino perché lo conducesse al comando e riprese il suo posto fra i primi. Eliminato questo grosso reparto proprio ai bordi della boscaglia, riorganizzati alla bell’e meglio, tentammo la sortita all’aperto, ma ben presto dovemmo convincerci che anche questa volta la nostra azione doveva fallire, e con essa si riaffievolì quella tenue speranza di aprirsi un varco in quella direzione.

Appena lasciata alle nostre spalle la boscaglia, sbucarono all’improvviso due carri armati, uno di grossa mole, l’altro un po’”più leggero, quest’ultimo dopo aver sparato con la mitragliatrice all’impazzata, piegò sulla nostra destra e si allontanò costeggiando la boscaglia; l’altro più grosso cannoneggiò per un momento, senza far fuoco con le mitragliatrici, e tentò di venirci contro, ma una piccola scarpata lo fermò con il muso un po’”alto, tanto vicino che lo tempestammo di bombe a mano ed anche qui il caporal maggiore Viezzi, senza togliere merito a nessuno, è stato fra i più arditi.

Egli si lanciò avanti e saltò sul carro con l’evidente intenzione di aprire lo sportello superiore: operazione questa che non gli riuscì, perché la mischia era ancora infuriante ed egli fu colpito da una scheggia di bomba a mano che gli asportò l’occhio sinistro. Con il duro colpo che ricevette, stramazzò giù dal carro; lo si credette morto, invece la gelida neve sulla quale era caduto lo risvegliò e subito si rialzò da solo, e dopo aver barcollato per qualche passo, volgendosi a me che gli ero corso in aiuto, mi disse: “con questa ferita si muore?”. “Ma no! Viezzi”, gli risposi io. “Sei stato colpito solo di striscio”, mentre invece l’occhio era penzoloni fino a metà guancia.

Due alpini lo accompagnarono attraverso la boscaglia al punto da cui eravamo partiti per questa azione. Noi intanto rendemmo completamente inutilizzabile il carro armato e subito dovemmo ripiegare nella boscaglia, poiché si avvicinavano altri mezzi corazzati. In questi due giorni di furibondi attacchi e contrattacchi la situazione era caotica, i feriti giungevano da tutte le parti, reparti sbandati si ammassavano e nessuno sapeva esattamente quello che si doveva fare, la notte era nuovamente calata, la fatica si faceva sentire, ma la cosa peggiore era quella di non sapere la sorte che ci attendeva. Al riparo di un’isba, si trovavano Viezzi ed il sergente Rumiz i quali avevano già un posto su una slitta.

Viezzi, assistito dall’alpino Barnaba, suo cugino, venne caricato sulla slitta assieme al sergente Rumiz, e da quel momento io non li vidi più durante la ritirata. Quella notte, tentando la sola probabilità che ci rimaneva per uscire da quel cerchio di fuoco in cui eravamo asserragliati, riuscimmo a spuntarla. Per noi però non era ancora finita, perché dovemmo camminare ancora per ben dieci giorni fino a giungere a Bielgorod il giorno trenta. Passammo con una piccola colonna composta da alpini e truppa tedesca al lato di Nikolajewka, e combattemmo quasi tutte le sere per occupare un paese, per riposare qualche ora durante le gelide notti e per respingere le azioni di disturbo in coda alla colonna quando si lasciava all’alba il paese.

In questi dieci giorni perdemmo quasi tutti gli ufficiali del battaglione fra prigionieri e morti, e diversi commilitoni con cui avevamo diviso tanti rischi e fatiche. Da Bielgorod a Karkow andammo in treno, facemmo qualche giorno di sosta a Karkow, da dove spedimmo alla bell’e meglio tutti i feriti e congelati. Da Karkow, dopo una sommaria riorganizzazione dei superstiti, ripartimmo a piedi, e nel periodo fra il 6 febbraio ed il 25 febbraio percorremmo a marce regolari 390 km. In questo tragitto ci incontrammo con altri superstiti dell’8^ Alpini, e diversi miei paesani fra i quali il sergente Forte, Minisini, l’alpino Bortolotti, il caporal maggiore Clemente, l’artigliere Tonello.

Chiesi a tutti notizie sul caporal maggiore Viezzi e sul sergente maggiore Rumiz, ma nessuno seppe dirmi niente, così nella mia mente si fece sempre più strada la convinzione che fossero periti nelle tremende giornate che seguirono al loro ferimento. Il 12 marzo sera si partì in treno; nel carro bestiame dov’ero io, c’erano 92 alpini, lascio a chi leggerà queste righe, immaginare la situazione nell’interno di questi vagoni. Il 13 marzo giungemmo a Minsk, e il 14 a Brest Litowsk. La notte fra il 14 e il 15 marzo potemmo fare il primo vero bagno dopo tre mesi e fummo disinfettati. Il 16 proseguimmo lentamente con il convoglio e il 17 attraversammo Oderberg Bohumin.

Il 18 ci svegliammo a Vienna e proseguimmo lentamente, il 19 giungemmo in prossimità di Villach, e già si pensava che in giornata avremmo potuto raggiungere Udine, sede della nostra gloriosa Julia, e zona in cui sono distribuiti tutti i nostri paeselli dai quali partimmo in tanti e tornammo in pochi; invece invertimmo la rotta e rientrammo in Italia per S. Candido, dove alla stazione di confine trovammo le prime dimostrazioni di affetto da parte degli enti assistenziali.

Il 20 sostammo in treno in prossimità di Vipiteno e trascorremmo la notte in treno. Il 21 raggiungemmo Vipiteno dove facemmo un altro bagno e disinfezione, ci cambiammo di vestiti e il 22 arrivammo a Monguelfo, dove ci alloggiarono in una lussuosa caserma per trascorrervi la contumacia. L’agognato sogno di poter portare quelle quattro ossa in Italia, si era realizzato ed in certo qual modo eravamo felici, una felicità costantemente offuscata dal dolore di avere perso tanti camerati in quella tremenda ritirata.

Dopo 20-25 giorni di contumacia, verso metà aprile attraverso Verona e Venezia, giungemmo a Udine, dove una fiumana di parenti ci attendeva. Anche qui le scene di dolore dei congiunti di quelli che erano rimasti in terra russa, furono indescrivibili. Da Udine andammo verso Buia, il paesello natio, in corriera, e qui fra i primi che incontrai, dopo i miei genitori, con somma mia sorpresa ed indescrivibile gioia, fu il caporal maggiore Viezzi senza l’occhio sinistro ed una gamba diritta.

Egli mi raccontò che uscito miracolosamente da quel cataclisma senza poter ricevere nessuna cura all’occhio ferito per ben 19 giorni, arrivò infine in Germania dove gli asportarono quei resti di occhio che aveva penzoloni, e qualche giorno dopo lo rinviarono in Italia.

Alpino Emilio Vialetto
69ª Compagnia, Battaglione Gemona, 8^ Reggimento Alpini

Era il giorno 16 dicembre 1942 quando noi del Battaglione Gemona, abbiamo ricevuto l’ordine di trasferirci dal Don per dare man forte alle Divisioni Pasubio, Sforzesca, ecc., che fronteggiavano l’offensiva russa. Ricordo molto bene che, mentre marciavamo per giungere a destinazione, per sbarrare l’avanzata russa, sbucarono nel cielo due apparecchi che ci presero subito di mira con le loro mitragliatrici facendo ben 11 morti nella mia compagnia che era la 69ª al comando del tenente Chiussi, alla quale ero aggregato come telefonista.

Ci siamo attestati sul nuovo fronte e dopo esserci sistemati, abbiamo fronteggiato il nemico per una ventina di giorni. Un giorno però fummo attaccati con ogni sorta di armi: le pallottole fischiavano da ogni parte e sembrava di essere all’inferno; a questo punto il tenente Chiussi mi disse: “Vialetto, telefona all’osservatorio, vediamo come vanno le cose lassù!”; appena feci per eseguire l’ordine capii che la linea era interrotta: subito il tenente mi mandò a ripararla dicendomi che rimaneva lui al mio posto di ascolto.

Partii assieme ad un mio commilitone di nome Venier e quanto arrivai al punto in cui i fili erano stati cambiati, trovai un mio compagno che aveva già riparato la linea ma che era morto lì vicino; per accertarmi che tutto funzionasse mi spinsi sino all’osservatorio sotto una grandine di proiettili e trovai altri due alpini feriti; dopo aver constatato che la linea era riparata, caricai i due feriti su uno slittino e di corsa, tra un colpo di mortaio e una raffica di mitragliatrice, riuscii a raggiungere il mio posto: consegnai i feriti all’infermeria e andai dal tenente il quale mi disse: “La nostra compagnia ha ricevuto l’ordine di ritirarsi, quindi tu e Venier rimarrete qui, protetti da un mitragliere; quando caleranno le tenebre, ritirerete il filo telefonico, porterete via la vostra roba e ci raggiungerete in quella località” della quale ora non ricordo il nome.

Lavorammo tutta la notte e appena arrivati il tenente Chiussi ci riservò un’altra amara sorpresa: “Vi ordino di distruggere tutto il materiale che avete recuperato poiché siamo accerchiati e non voglio che vada in mano al nemico”; quindi mi diede in consegna il suo zaino e quello di un ufficiale di complemento. Mi lasciò in consegna la sua slitta ed alla testa della compagnia partì all’attacco; a sera quando tornò, vidi che aveva un cerotto sulla fronte; gli chiesi se era rimasto ferito; lui mi rispose che erano cose da poco; si mangiò qualche cosa poi si ripartì per un nuovo attacco e da quella sera non lo vidi più, ma sono sicuro che è morto da vero eroe.

Più tardi in un momento di stasi dei combattimenti, ci riparammo in un’isba e un ufficiale, sempre del Gemona, di cui non ricordo il nome, mi fece vedere un portafoglio di certo Mario Casanova; disse che era morto e mi chiese se io lo conoscevo e alla mia risposta affermativa mi incaricò di consegnarlo alla sua famiglia. Quando sono ritornato in Italia lo diedi ad un suo paesano ma poiché questi non aveva il coraggio di darlo alla mamma, incaricammo il cappellano di adempiere al triste compito.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento