ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 27

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Politiche. Titolo Tesi: “La campagna di Russia (C.S.I.R.- A.R.M.I.R. 1941-1943) nella memorialistica italiana del dopoguerra”. Anno accademico 1999-2000.

Si è già visto nei capitoli precedenti come la reattività psico-fisica di individui costretti a confrontarsi con situazioni estreme ed al limite della sopportazione sia strettamente legata a particolari strumenti di supporto psicologico che spesso finiscono per divenire  presupposto predominante e necessario rispetto alla condizione fisica stessa. La mancanza di risorse energetiche quali possono essere il cibo ed il riposo tendono ad essere sostituite e coadiuvate dall’attivazione di risorse mentali spesso in grado di reintegrare le energie in maniera più rapida ed efficace.

Precedentemente si è messa in luce l’importanza rivestita in tal senso dalla forza dell’istinto di sopravvivenza capace di moltiplicare le forze ormai allo stremo e di limitare la percezione del dolore. In questo capitolo invece verranno analizzate in maniera più approfondita due tematiche che, dalla lettura delle memorie, emergono come principali strumenti di supporto psicologico alle dolorose sofferenze e alle continue privazioni imposte dalla guerra: il ricordo di casa e degli affetti, e la religione, la percezione rassicurante della presenza di Dio.

Il ricordo di casa

A differenza dell’istinto di sopravvivenza che risvegliava forze ed energie sconosciute e riposte nel fondo dell’anima, presentandosi in maniera irruenta quando era in pericolo la propria salvezza, il ricordo di casa e degli affetti lasciati in patria si manifestava in momenti differenti ma caratterizzati comunque da una relativa tranquillità. Nelle memorie
gli autori ritornano con il pensiero ai propri cari sopratutto nei momenti di solitudine, durante i turni di vedetta o prima di coricarsi, quando la frenesia della guerra lascia il posto ai rari momenti di riflessione che portano alla nostalgia di casa.

“Me ne tornai nella stanzetta. Dal finestrino del bunker osservavo scendere dolcemente i fiocchi della neve. Quando nevicava tutto diventava misterioso, insidioso e seducente. Il bisogno di starsene protetti in un guscio diventava irresistibile. La mia durezza aveva sempre scacciato, come una trappola pericolosa, la nostalgia della casa lontana.

Quando però la neve scendeva fitta, a grossi fiocchi, nell’ovattato silenzio di un crepuscolo, la magia delle immagini delle serate invernali con la famiglia riunita davanti al grosso camino colmo di ceppi crepitanti prendeva irresistibilmente possesso di me. Così fu anche in quel momento. Dovevo sperare, anche se il mio destino sembrava concluso e privo di sbocchi”.

L’oggetto del ricordo negli autori è sempre lo stesso: la famiglia, le fidanzate, gli amici, la propria casa. Quello che caratterizza il ricordo però è che questo spesso si sofferma su piccole e semplici cose come profumi, rumori, vecchie consuetudini proprie di ogni casa, che evocano un senso di familiarità forse assai maggiore di altre immagini.

“Quanti ricordi fanno groppo alla gola. Vorrei parlare di casa nostra, dei nostri cari, delle nostre ragazze, dei nostri monti; degli amici. Ti ricordi Rino, quella volta che l’insegnante di francese ci disse: – Una mela guasta può far marcire una mela sana, ma una mela sana non può sanare una mela guasta? – E la mela guasta ero io e la sana tu. Ricordi, Rino? E prendevo sempre quattro e tre. Tante cose vorrei dirti e non sono capace di augurarti la buona notte. Fuori c’è la steppa desolata e le stelle che splendono di sopra a quest’isba sono le stesse che splendono di sopra alle nostre case”.

Sul senso di nostalgia che si produceva nei momenti di solitudine scrive anche Gambetti Fidia:

“Ora nel cuore dell’inverno russo, il peso gelido di questa effimera calma che non promette nulla di buono per nessuno, ha per la natura umana il medesimo effetto dello spesso manto di neve sulla terra che imprigiona ma conserva i germogli. Ci imprigiona nella nostra solitudine, ci isola nei nostri pensieri, ma ci aiuta a evocare tutti i fantasmi della memoria, che ritornano vivi a vivere in noi.

Quanto più il freddo, incalzante, costringe a rinchiudersi in pochi metri quadrati di spazio scavato profondamente nella terra, a respirare l’alito, il fumo e il lezzo dei compagni, tanto più ognuno si raccoglie e ritrova se stesso. Ritrova i caldi legami del sangue, i soli che a un certo punto contano, i legami che annullano tutte le distanze, il tempo stesso, l’idea della vita e della morte”.

Ecco quindi che il ricordo viene stimolato anche dal presentarsi di eventi particolari, come ad esempio il Natale, ricchi di tutte queste caratteristiche proprie di una familiarità quotidiana in grado di stimolare maggiormente il languore del ricordo. Il Natale di guerra, vissuto in una terra straniera ed ostile, è per gli autori un momento importante nel quale il pensiero ritorna fortemente alla casa lontana.

“- Sergente, buon Natale! Egli restò un istante come interdetto, poi mi ricambiò l’augurio. Restato solo ripresi a rimuginare. Parli pure qualcuno, se vuole, di sentimentalismi, io non mi vergogno di confessare che pensai ad altri Natali, trascorsi in ben diverse situazioni, ed altri ne immaginai. La mamma, che s’alza a quell’ora per dar l’augurio, con un bacio, al figliolo che dorme e forse sogna […]

Ora io ho davvero l’impressione d’essere sotto lo sguardo amoroso di due occhi che vogliono essere sereni nonostante la trepidazione dell’animo. – Hai freddo? – No, mamma, poichè mi guardi così….- Sei solo? – Sì, ma non ho paura…è la notte di Natale […] Realmente ho udito quella notte, in quell’immensità fredda ed ostile, fischiettare un’aria natalizia[…] Poi ancora freddo e silenzio, e dentro il cuore un peso mentre la fantasia ricostruiva altre notti di Natale; quelle trascorse laggiù al paese e fors’anche quelle che era possibile non avessi vissute più”.

La forza con la quale i ricordi in queste occasioni si affacciavano alla mente dei soldati è evidenziata anche dalla tenace volontà con la quale venivano riproposte, anche in terra straniera ed a distanze notevoli, tutte le usanze proprie del Natale nelle famiglie italiane. I soldati si sforzavano di rendere più abbondante e completo il rancio che veniva poi condiviso con le famiglie ospitanti in una mescolanza di tradizioni russo-italiane che tentavano di ricreare un’atmosfera di pace e serenità a dispetto della guerra, mentre nelle trincee i soldati si riunivano tra loro in una comunione fraterna di sentimenti e ricordi nella quale si condividevano con gli altri i cibi che si erano trovati nei pacchi arrivati da casa e che portavano con loro sapori e profumi di casa.

Oltre alla solitudine, anche il momento del pasto comune, del banchetto, era solito accompagnarsi al ricordo: i soldati si scambiavano frammenti del loro vissuto in patria rievocando esperienze individuali che erano poi nella realtà esperienze comuni, e che alimentavano, in ognuno, il senso di nostalgia per la propria famiglia.

“Non mancavano le salsicce, i formaggi, i dolci: quasi tutti avevano ricevuto il pacco da casa. Poi, avevano preparato la polenta con un ragù che era una leccornia e persino le castagne arrostite […] Eppure nonostante avessimo di tutto non vi era allegria nei nostri cuori; il nostro animo era pieno di malinconia, il nostro essere albergato dalla tristezza perché la nostra mente era in Italia, nelle nostre case, con le nostre mamme, con le nostre spose, con i nostri figli, con le nostre fidanzate.

Tutti raccontavano dell’ultimo Natale trascorso con i propri cari, ed anche il mio cuore, in quel mio primo Natale di guerra, era nella mia bella ed incantevole Sardegna, con i miei cari. Ed aspettavamo la mezzanotte, la nascita di Gesù Bambino, e quando nacque ci scambiammo gli auguri e la speranza in tutti noi di trascorrere il prossimo Natale nelle nostre case”.

Dalla letture delle memorie traspare evidentemente quanto fosse importante per gli uomini del contingente italiano mantenere una forma di contatto, sia materiale che spirituale, con la patria distante e con le famiglie lasciate ormai da lungo tempo. Il contatto spirituale veniva mantenuto tramite il ricordo personale, tramite il pensiero che si
soffermava sul vissuto quotidiano della propria esistenza, mentre il contatto materiale, assai più sporadico e difficoltoso, veniva mantenuto attraverso la posta, unico e sottile filo di congiunzione con i propri affetti lontani.

Era inevitabile per quegli uomini che rischiavano ogni giorno di morire senza aver potuto rivedere i propri cari che il legame con la famiglia si facesse sentire con un’intensità superiore rispetto alla coesione familiare che si percepiva in tempo di pace. L’arrivo di pacchi e lettere dall’Italia costituiva per i soldati un momento importante per il loro equilibrio e per la loro reattività nei confronti di un ambiente quanto mai ostile alla loro presenza. Era come se per qualche attimo, il tempo di leggere la lettera della propria mamma o della propria fidanzata, le distanze si annullassero e gli affetti si riunissero, riportando la serenità nei cuori angosciati.

“La vita di tutti i reparti, più che mai in questi giorni, non ha un’altra tensione più scoperta e più visibile di quella che si accompagna ai messaggi che partono e ai messaggi che arrivano dall’Italia. Finché questi continueranno a giungere, a tutto il resto, al cibo, al riposo, alla speranza, si può anche rinunciare. Il soldato italiano non vincerà mai delle battaglie se non avrà ricevuto posta da casa. Nella mia borsa porto la felicità e la tristezza […] Allorché il ritardo si prolunga per diversi giorni, nessuno osa più chiedermi nulla, se non con gli sguardi che vorrebbero sembrare indifferenti, ma hanno lo stesso lucore acquoso che ristagna nelle pupille dei cani supplichevoli […]

I compagni stanchi, affamati, feriti, questo lo sanno. E in cuor suo ognuno spera che il messaggio dimenticato nella borsa miracolosa sia per lui. In compenso hanno sempre un particolare sorriso e un cordiale gesto di saluto per il postino, come se egli portasse con se un letto soffice e caldo, del buon minestrone fatto in casa, delle bende, del cognac, tutto ciò insomma di cui mancano e che li aiuterebbe a tener duro oltre ogni umana possibilità di resistenza”.

Fidia paragona il conforto ricevuto dall’arrivo di una lettera da casa a quello per il possesso dei beni primari che mancavano ai soldati combattenti e dei quali con difficoltà si riusciva a fare a meno. Tali considerazioni non sono esclusive dell’autore, ma si presentano anche in altri testi analizzati, che sottolineano come il mantenimento dei legami con gli affetti costituiscano senza dubbio un momento ricreativo della speranza e della volontà di resistenza anche più importante dei generi di sostentamento e di conforto necessari alla vita di linea.

Al soldato Peretti di ritorno da una licenza al suo paese molti compaesani vanno a chiedere notizie dei propri familiari e delle proprie fidanzate:

“- Sì la Maria sta bene ed anche sua sorella – risponde. – La Carla? Quella che ha due sorelle, la Franca e la Lucia? Fioi se le cognosso! Belle sono, belle sono tutte e tre; un amore sono, fortunato chi le cata.- E Rita, la fiola de Tony? […] E la Iva? […]-. Perotti poi, finito l’assedio, scoppia a ridere. – Ma cosa vogliono che conosca tutto il paese, e tutte le loro morose?[…] A Bardolino conosco sì e no due o tre ragazze, ma per il resto non conosco nessuno-, confida nel suo veronese pulito e simpatico.

– Ma come si fa a dire di no, che non conosco la loro morosa a ‘stì poari fioi che vien qua da mì con la speranza nei oci?-, domanda a noi allargando le braccia, per rendere la sua domanda più comprensibile. – Varda, varda come i va via contenti e come i ride, ‘stì poareti, come se i andasse in licenza- […] Noi non abbiamo da chiedergli notizie di ragazze e se le avessimo ci giurerebbe che quelle ragazze le conosce veramente!”

Sempre sull’importanza di mantenere un contatto con la propria famiglia a dispetto della distanza, Moioli Mario:

“ E la lettera di mia madre? Come dire ciò che essa significò per me in quel momento? Il cuore di mamma che mi raggiunge nel cuore della Russia ostile! Quanto valore aveva per me”.

L’inganno dell’alpino Perotti era forse stato poco rispettoso dei propri compagni e delle loro fidanzate, delle quali aveva portato notizie e saluti inventati, ma lo spirito con il quale un tale inganno era stato perpetrato era certamente tra i più puri dato che aveva portato un momento di gioia e di speranza nei cuori dei suoi compagni, e lui sicuramente sapeva quanto essi avessero bisogno delle sue bugie.

L’importanza rivestita dal legame con la propria casa e con la propria famiglia nel soldato italiano non era sconosciuta neppure alle autorità russe, la cui propaganda, che data l’accuratezza delle immagini era probabilmente coadiuvata nei contenuti dai fuoriusciti italiani, puntava decisamente ad alimentare il senso di nostalgia per convincere i soldati italiani alla diserzione. Di volantini che invitavano alla diserzione ne esistevano di diverse tipologie, ma sotto Natale ne vennero lanciati dall’aviazione russa alcuni che giocavano sul tema della festività natalizia, sul suo significato per gli italiani, sull’amore per la famiglia, per i figli, per la mamma.

“Oggi è Natale e la nostalgia per la famiglia si fa particolarmente sentire. In qualche angolo dell’Italia lontana, vi è il vostro focolare domestico. Ricordate? Vostra moglie preparava la cena di Natale, i vostri bimbi lieti, pregustavano già la gioia di trovare sotto il guanciale, risvegliandosi alla mattina, i regali di Gesù Bambino, mentre dalla chiesa giungeva lo scampanio festoso annunziante la messa di mezzanotte… Sono ancora vivi i vostri piccoli, vostra moglie, la vostra mamma? O sono forse rimasti sepolti tra le macerie della loro casa distrutta dai bombardamenti dell’aviazione? […] Perché non siete con i vostri piccoli, con le vostre spose e le vostre madri, nella vostra patria?”.

Il contenuto di questo volantino, evidentemente preparato con grande cura, mette in luce proprio gli elementi fondamentali sui quali si fondava il senso di nostalgia nei soldati italiani. Innanzitutto la rievocazione particolareggiata di piccoli gesti dal sapore familiare quali il risveglio eccitato dei bambini il giorno di Natale, la preparazione del tradizionale pranzo di Natale o il suono lontano e familiare delle campane. Poi il richiamo ai componenti della famiglia dei quali più di ogni altri si sentiva la mancanza, come le spose, i figli e le madri.

Ed infine il tentativo di diffondere il senso di insicurezza sulla loro sorte alimentato dalla scarsità e lentezza con le quali le notizie dalla patria giungevano agli uomini fino al lontano teatro di guerra russo. Se l’efficacia di un tale strumento di propaganda resta dubbia, indubbio è invece come avesse individuato con certezza quali fossero gli elementi basilari sui quali puntare per alimentare il senso di distacco dalla madrepatria nei soldati italiani.

Fino a questo momento il tema del ricordo è stato analizzato in relazione al modo ed al momento nel quale esso si presentava, è ora il caso di soffermarsi in maniera più approfondita sugli effetti che il prodursi del ricordo aveva sugli uomini del contingente italiano, e che rendono il ricordo sotto molti aspetti assimilabile agli strumenti di supporto
psicologico che si attivano nei momenti di grande difficoltà.

E’ nel momento dell’estrema incertezza sul proprio futuro che viene fuori con tutta la sua irruenza la forza sostentatrice del ricordo. Quando l’apparato organizzativo dell’esercito italiano era ancora in funzione i soldati certamente rischiavano la loro vita nelle quotidiane azioni di guerra alle quali partecipavano, ma nella loro mente era come se persistesse l’inconscia convinzione che in una maniera od in un’altra sarebbe stato possibile ritornare sani e salvi a casa per riabbracciare i propri cari.

In quei momenti la nostalgia subentrava nell’animo dei soldati sopratutto con una funzione di aspettativa nei confronti di un evento, il ritorno a casa, che comunque era considerato solamente come rimandato nel tempo. Quando invece, con il crollo disordinato di tutte le strutture dell’esercito, l’incertezza sul futuro divenne una sensazione
radicata nel cuore dei soldati, allora la nostalgia cominciò a prendere la forma della paura, la paura di non poter mai più rivedere quelle persone, quei luoghi, quegli affetti ai quali tanto si teneva.

“Intanto cammini, e la neve, gelata, scricchiola; cammini, e ciagotti nella neve non ancora calpestata ai margini della strada; cammini, e ti sorgono ricordi nella mente; cammini, ed esprimi ricordi parlando sommesso; cammini… e tante cose ti ruminano nell’animo, e idee e pensieri ti si formano, così a caso, quasi, nella mente, e si affacciano nella coscienza, e poi cadono, muoiono nel subcosciente, tornano nel niente […] E così tu, e così quello che ti sta a fianco, e quello che ti sta davanti, e quello che ti sta indietro.

E, in fondo, si pensano, e si dicono, e si sentono le stesse cose… gli stessi ricordi del passato, le stesse ansie per l’avvenire, la stessa pena di oggi. E’ il pensiero della mamma, per alcuni; dei bambini, per altri; della fidanzata, della morosa….della realtà del presente che ti consuma, della dolcezza del passato che ti strugge, della speranza trepida che ti fa ansioso del domani…

Cammini e, più che crescere la stanchezza, tu ti senti rinascere un calore nuovo nel fisico; cammini, e a mano a mano che le membra si sciolgono, anche la mente ti si fa più spedita, e anche il cuore ti si fa più sereno e calmo”.

“ Moribondi, votati alla morte, mi sembrarono tutti quegli uomini che già riprendevano il cammino; moribondo, votato alla morte, mi sembrai e mi sentii io […] Intanto lo smorto lucore, che era stata la luce di tutta la giornata, si andava ancora attenuando. Già quasi imbruniva, ormai. E nell’animo ti entrava come una mestizia nuova, una nostalgia di cose e di volti e di persone e di affetti lontani; che poi si tramutava in malinconia; e ti pervadeva tutto; e ti faceva dimenticare tutto; e ti faceva protendere, trepido e ansioso”

Era in questi momenti che dal ricordo, dall’affetto mai sopito verso i propri cari, che diveniva possibile trarre una nuova forza, una nuova energia, capace di alimentare e sostentare la volontà di vivere nonostante tutto, nonostante le sofferenze, nonostante l’estrema incertezza. La nostalgia, l’amore verso la propria famiglia e la propria terra, divenivano il mezzo tramite il quale estraniarsi, anche se solo per pochi attimi, dall’orrore circostante, e ritrovare quella serenità e quella forza d’animo che erano il necessario presupposto alla salvezza.

“Ho sognato la casa, il pergolato nel cortile, il muro dove raschiavo il salnitro per confezionare bengala con il clorato di potassio. Mi sono rivisto sull’aia dirimpetto alla chiesa con i pagliai e tanti uccelli che cercavano chicchi di grano. Sulla piazza i vecchietti seduti sul marciapiede a godersi il sole e a raccontare storie di altri tempi. Mia madre, mio padre, i miei fratelli e sorelle, ed infine la vecchia tavola intorno alla quale sedevamo a mangiare nei momenti di festa.

Questi sono i pensieri in cui mi sono rannicchiato e dai quali ho attinto la forza per continuare la marcia – verso l’avvenire….incerto, sempre più incerto….Mi venivano in mente le parole di Dante: – … Era già l’ora che volge al disìo e ai naviganti….– noi eravamo i naviganti, in quello strano, oceanico, mare di neve – …intenerisce il core… – e la mestizia si faceva più acuta, e la nostalgia più struggente: perché più sperduti, e in più pericolosa solitudine, e in maggior pericolo dei naviganti, eravamo noi….”.

Quello che caratterizza il tema del ricordo e che in parte lo differenzia dagli altri strumenti di supporto psicologico è che, per considerazione degli stessi autori, la nostalgia poteva avere anche degli effetti negativi sulla volontà di sopravvivenza. Se da una parte infatti dall’amore verso luoghi e persone poteva scaturire una ferrea volontà di non lasciarli, di ritrovarli intatti e vivi come nel ricordo, dall’altra era possibile che si producesse un senso abbattimento e scoramento che entrava in contraddizione con la determinata e decisa volontà di sopravvivenza che non ammetteva momenti di debolezza.

L’istinto di sopravvivenza spingeva gli individui verso una durezza ed una indifferenza nei
confronti delle altrui sofferenze, un egoismo resosi alle volte necessario dalle limitate risorse fisiche a disposizione che non permettevano altri sforzi che non fossero indirizzati alla propria salvezza. In queste condizioni non erano permessi momenti di debolezza senza che questa comportasse un grave rischio per la propria volontà di resistenza nei confronti di un ambiente tanto ostile all’essere umano.

La malinconia che si poteva produrre per mezzo del ricordo poteva invece tendere ad indebolire ed a fiaccare quella durezza e volontà d’animo che con tanta fatica i soldati cercavano di mantenere. Il pericolo era determinato dal fatto che per mezzo del ricordo si potesse insinuare nell’animo dei soldati, già enormemente provati sia sotto l’aspetto fisico che quello psicologico, una sorta di rassegnazione nei confronti della realtà circostante, debolezza che costituiva il primo segnale di resa e la consapevolezza di non poter più riuscire a dominare gli eventi.

Ancora sulla capacità del ricordo di alleggerire le sofferenze e di creare un certo distacco dalla realtà circostante:

“Fuori fa freddo. Sento le ossa rotte e nel cuore una voglia di piangere. Il vento riposa e il cielo è limpido. Guardo con nostalgia la luna e in mente mi vengono tanti ricordi e una tacita gioia mi fa dimenticare il luogo dove sono e il freddo. Martinuzzi m’invita a camminare. Mi distraggo e ritorno alla fredda realtà della vita”.

“ – Dì, stiamo camminando sempre verso occidente; ne abbiamo macinati di chilometri, ma… Proprio, te lo dico in confidenza in un orecio: mi, proprio, sa, mi par de allontanarmi de casa mia; più cammino, per arrivarci, e più me par di andare lontano… Quanto pensi ci sarà ancora, prima di arrivarci, fuori de ‘stà sacca che dicono, fuori de ‘st’accerchiamento de la disgrazia?…. –. – Ehi, vecchio stracco, che ti piglia, mò, la nostalgia?…  A casa, pè tornarce, nun ce devi pensà; se no più ce pensi e più ce soffri, e più si allontana, la casa… E così la tua, e così la mia, e così di tutti, qua, perché chi sa se anche solo pochi di noi la rivedremo la casa”.

Questa ambivalenza nel ruolo del ricordo, fonte contemporaneamente sia di dolore che di speranza, sembra essere legata al momento psicologico vissuto dall’individuo nel quale il ricordo si produce. Finché nel singolo permaneva la speranza della sopravvivenza, il ricordo della propria terra e della famiglia assumeva la funzione di un miraggio verso il quale protendersi con ogni sforzo possibile, di una meta da raggiungere proprio in virtù della forza degli affetti in quel momento tanto distanti.

Quando invece nell’animo degli uomini albergava quel fatalismo sulla propria sorte che faceva considerare ogni ulteriore sforzo come vano ed inutile ai fini di una salvezza considerata come ormai irraggiungibile, la forza degli affetti si tramutava da speranza in rimpianto. Il rimpianto di non poter mai più riabbracciare la famiglia e gli affetti, il rimpianto di non poter rivedere i luoghi della propria giovinezza.

Il sorgere di un tale angoscioso sentimento non faceva che alimentare il senso della vanità degli sforzi e contribuiva in maniera decisiva a fiaccare la volontà d’animo che invece costituiva il presupposto fondamentale per superare le dolorose difficoltà che la ritirata stava imponendo.

Sempre sul pericolo della nostalgia, Bellini:

“Ero di fronte ad un moribondo, i cui occhi di tanto in tanto ci fissavano con espressione ora disperata ora rassegnata. La commozione crebbe allorché emise lamenti accompagnati da frasi sconnesse e il suo attendente gli raccomandò, con parole dolci, di stare calmo e di pensare alla sua mamma, che sicuramente pregava per lui in quel momento. L’accento perugino di Bozza fece esplodere in me la nostalgia per la mia terra umbra.

Mi si parò davanti l’immagine della mia casa di Assisi, il volto dei miei genitori e di mio fratello. Avevo accumulato masse di ghiaccio per difendermi dagli assalti pericolosi della nostalgia; in quel momento crollarono, come crollano, mentre sono aderenti ai fianchi delle montagne per un prodigio di equilibrio, alla vibrazione di una voce umana”.

Una situazione psicologica dello stesso tipo, sempre in relazione al ruolo doloroso del ricordo, viene descritta da Primo Levi per coloro che ebbero a vivere l’inumana esperienza dei lager nazisti, dove il crollo della speranza diveniva inevitabile di fronte allo scarso valore che la vita umana aveva in quei luoghi.

“Quando si lavora, si soffre e non si ha il tempo di pensare: le nostre case sono meno di un ricordo. Ma qui [ nell’infermeria del lager ] il tempo è per noi: da cuccetta a cuccetta, nonostante il divieto, ci scambiamo visite, e parliamo e parliamo. La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è piena di parole, di ricordi e di un altro dolore.– Heimweh – si chiama in tedesco questo dolore; è una bella parola, vuol dire – dolore della casa –.

Sappiamo donde veniamo: i ricordi del mondo di fuori popolano i nostri sonni e le nostre veglie, ci accorgiamo con stupore che nulla abbiamo dimenticato, ogni memoria evocata ci sorge davanti dolorosamente nitida. Ma dove andiamo non sappiamo […] Qui lontano dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo”.

In conclusione quindi si può dire che la funzione del ricordo degli affetti, per come viene descritta dagli autori, appare strettamente legata alla percezione della realtà circostante da parte dei soggetti nei quali il ricordo si produce. Quello che risulta comunque importante sottolineare è come, sia che producesse effetti negativi o positivi, il legame con la propria terra e con la propria famiglia fosse fortemente sentito tra i componenti del contingente italiano.

Nelle memorie gli autori si soffermano spesse volte sul racconto del loro vissuto precedente alla spedizione di Russia, come a voler sottolineare la necessità, per coloro che sono costretti ad una forzata lontananza, di mantenere un filo di congiunzione con tutto quello che di caro si è stati costretti ad abbandonare e che si spera di ritrovare intatto ed immutato, come nel ricordo, al proprio ritorno.

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