ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 2

a cura di Cornelio Galas

  • documenti raccolti da Enzo Antonio Cicchino

La discutibile (e discussa) lettera
di Palmiro Togliatti
a Vincenzo Bianco

dopo la battaglia degli Alpini a Nikolajewska

Mosca – 15 febbraio 1943

Palmiro Togliatti

L`ENIGMA
PALMIRO TOGLIATTI

di Marco Maggioni

Su Togliatti moltissimo è stato detto e ancora oggi è un personaggio oggetto di ricerche e interpretazioni. Senza dubbio, nel bene e nel male, egli è stato uno dei protagonisti di buona parte del secolo scorso.

Nostra intenzione è quella di soffermarci su alcuni momenti salienti della sua vita, non per coglierne i lati biografici, ma per mettere in risalto alcune ambiguità o contraddizioni del suo comportamento politico che hanno influenzato e ancora influiscono sulla politica e la cultura italiana odierne.

In particolar modo, vogliamo anche interrogarci sul suo spirito democratico, su quanto cioè fosse reale o pretestuosa, dopo il rientro in Italia nel 1944, la sua adesione alla vita democratica italiana o essa non fosse piuttosto una soluzione transitoria in vista di una meta rivoluzionaria da attuare in tempi più opportuni.

Palmiro Togliatti

Su questo e su altri eventi di un passato che ha così tanto influito sul sistema politico italiano, possiamo permetterci oggi più distacco e disincanto. E questo grazie soprattutto alla disponibilità di nuove fonti documentarie che, in seguito all’apertura degli archivi ex sovietici, sono state messe per alcuni anni a disposizione degli studiosi soprattutto tra il 1992 e il 1996.

Non sempre è possibile però rintracciare la verità: per questo riteniamo di fornire un servizio utile alla conoscenza storica proponendo le diverse versioni e interpretazioni che si evincono dalla lettura dei documenti, dalle testimonianze di chi quelle storie ha vissuto in prima persona nonché dai filmati. Fatto salvo il caso in cui sia possibile imbattersi in documenti la cui lettura offra, in maniera inoppugnabile, un’unica versione dei fatti.

LA LETTERA DEL `92

Se la verità sfugge in molti casi, senza rigore storico è assai difficile anche solo avvicinarsi ad essa. Ne è esempio un fatto relativamente recente, accaduto nel 1992, che coinvolse storici, partiti e opinione pubblica. Ci riferiamo al cosiddetto “falso della lettera di Togliatti”, che poi tanto falso non era. Siamo nel 1992.

Ecco cosa dissero i vari Tg di allora, in conseguenza della pubblicazione di alcuni brani di una lettera che Togliatti manda al compagno Vincenzo Bianco, nel 1943.

Tutto comincia sabato 1 febbraio 1992 verso l`una del pomeriggio, quando le agenzie anticipano lo scoop di Panorama: il 15 febbraio 1943 l`allora segretario del Comintern, il leader comunista italiano Palmiro Togliatti, rispondeva al suo compagno Vincenzo Bianco che chiedeva di risolvere lo stato di prigionia dei prigionieri italiani in Russia: il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini e soprattutto la spedizione contro la Russia si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore e il più efficace degli antidoti, scrive Togliatti.

Palmiro Togliatti

Una settimana prima l`opinione pubblica era rimasta sconvolta per il ritrovamento, negli archivi del Kgb, di migliaia di fascicoli riguardanti i detenuti italiani dell`Armir, morti nei lager di Stalin. Sulle pagine dei giornali e alla televisione erano ricomparse dopo quasi cinquant`anni le facce gelate e smarrite di soldati e ufficiali mandati allo sbaraglio dal governo fascista di Benito Mussolini. Argomenti trascurati da anni riemergono di colpo. Dinanzi alla lettera sull`Armir, tutti i politici, da Bettino Craxi ad Achille Occhetto, hanno usato l`aggettivo “agghiacciante”.

E` stato il Professor Freiderich Firsov, uno storico che ha dedicato tutta la sua vita a studiare i documenti del Komintern, a fornire la lettera al giornalista Francesco Bigazzi e allo storico Franco Andreucci. In Italia la sera del sabato 1 febbraio 1992, i telegiornali annunciano lo scoop della rivista Panorama. La domenica 2 febbraio la bomba riesplode su tutti i quotidiani.

Franco Andreucci

Lunedì 3 febbraio Panorama è in edicola. Il suo scoop è quasi invisibile. Nessun annuncio in copertina. Solo un titoletto ad una colonna a pagina 72 “Togliatti e l`Armir. Stalin lo vuole.” Ma ormai il boom è lanciato e viene utilizzato a fini elettoralistici. La tragica sentenza di Togliatti nei confronti dei soldati italiani che stavano morendo in massa nei lager di Stalin dopo la campagna di Russia.

Una sentenza emessa senza un dubbio, una esitazione. Al compagno comunista che gli chiede di intercedere verso Mosca, Togliatti risponde che la causa è più importante di tante vite umane, per noi, dice il leader del PCI ha deciso Stalin. Se migliaia di famiglie italiane avranno lutti in casa, questo sarà il più efficace antidoto contro la guerra di Mussolini e farà bene all’avvenire del Paese.

Il giallo della lettera di Togliatti, dopo pochi giorni, è risolto. Grazie ad una maggiore attenzione al testo originale. Si rivela un falso clamoroso. Il corpo del reato è una fotocopia venuta male. Il professor Andreucci l`ha usata con imperdonabile leggerezza. Un suo collaboratore, il giornalista Francesco Bigazzi corrispondente del Giorno da Mosca afferma: “E` lo stesso Andreucci a dettare per telefono dalla mia casa a Mosca, il testo della lettera di Togliatti al direttore di Panorama Rossella”.

Ma nella fotocopia che Andreucci aveva in mano, il testo era parzialmente illeggibile, perché il margine sinistro della copia e` stato mangiato dalla fotocopiatrice. Andreucci si trova di fronte a mezze parole, frasi incomplete, che ha completato a modo suo, inventando sostituendo, sopprimendo. E ha stravolto il senso della lettera.

Il feroce dibattito politico che ne è seguito si è basato su affermazioni e commenti che Togliatti, in fondo non aveva mai fatto… il confronto tra la fotocopia originale proveniente dagli archivi di Mosca e la fotocopia pubblicata dai giornali nei primi giorni di febbraio del 1992, rendono giustizia al testo… e a Togliatti.

Nella versione di Panorama, il testo è questo:“ Te l`ho già detto, io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano assassinare tanto più che possiamo ottenere certi risultati in altro modo”. Ma quello che in realtà Togliatti scriveva, ha un senso ben diverso:” Te l`ho già detto: io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in un altro modo”

Mentre Togliatti scrive sopprimere, Andreucci si inventa “assassinare”, mentre Togliatti scrive che i prigionieri, in sostanza debbono sopravvivere, per essere utilizzati poi in altro modo, Andreucci si inventa che i prigionieri verranno assassinati comunque, in un modo o nell`altro. Il contrario quindi di quello che dice Togliatti.

Siamo nel 1992, in piena lotta elettorale, un contesto nel quale gli opportunismi politici impediscono che la lettera di Togliatti, scritta nel lontano 1943, venga presa in considerazione a fondo. E` prevalso infatti lo scandalo per la “svista” dello storico, che facilitò la propaganda degli opposti schieramenti: la “destra” ebbe in un primo momento buon gioco nell’usare quella lettera in funzione anticomunista; una volta svelate le manomissioni, fu la volta della “sinistra” che scese in campo puntando il dito sullo scoop mancato per sottacere invece, o minimizzare, il reale contenuto di quella frase.

La lettera di Togliatti a Vincenzo Bianco non soltanto fu “corretta’” in alcune parole, ma fu diffusa anche incompleta. Il senso generale non risulta stravolto, ma è indubbio che Togliatti nell’originale, appaia meno cinico di quello che sembrava. C`è una frase ad esempio che può far capire meglio quella successiva, pubblicata sui giornali.

Togliatti ritiene logica e legittima la rivendicazione slovena di una fetta del territorio conquistato dall’Italia nella Prima guerra mondiale e teorizza che l’aiuto anti-imperialista ai popoli della Jugoslavia deve andare fino alla partecipazione diretta alla lotta armata contro le bande mussoliniane e, aggiunge poi, contro l’esercito italiano stesso. Con questa premessa è forse più comprensibile il seguito riguardante la questione dei prigionieri dell’Armir.

La lettera prosegue così:

“Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo… il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali. È penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia.

I massacri di Dogali e Adua furono uno dei freni più potenti allo sviluppo dell’imperialismo italiano e uno dei più potenti stimoli allo sviluppo del movimento socialista. Dobbiamo ottenere che la distruzione dell’Armata italiana in Russia abbia la stessa funzione oggi…

Te l’ho già detto, io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in altro modo: ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia”.

Questa la lettera.

Se il senso della lettera è inequivocabile, come giustamente osservarono i TG dell’epoca, il documento può essere considerato sufficiente per elaborare un serio giudizio storico o non dovrebbe piuttosto essere contestualizzato nel quadro di un insieme di documenti?

Oggi sappiamo qualcosa di più che nel ’92 riguardo all’atteggiamento di Togliatti nei confronti del problema dei reduci? Come leggere il fatto che nel ’45 il leader del PCI mandò a Mosca Di Vittorio a perorare la causa dei prigionieri? (lettera del 5 agosto che Di Vittorio spedisce a Molotov). Può questo documento nuovo essere considerato una smentita della lettera a Vincenzo Bianco oppure no?

Tocca agli storici rispondere a questi interrogativi in base ai documenti che in futuro si ricaveranno dagli archivi di Mosca.

Ritornando alla lettera, quali furono comunque le ragioni di tanto cinismo in Togliatti? Gli altri dirigenti del partito presenti a Mosca condivisero questo atteggiamento? E’ vero che il leader del PCI non avrebbe potuto, anche volendo, scrivere parole diverse, dal momento che anche la sua corrispondenza era ancora sotto il vaglio della polizia segreta? Vi sono infatti serie prove sul fatto che, dal 1939 in poi, Togliatti sia stato indagato dalla polizia politica sovietica.

Oppure la lettera, come sostengono alcuni, era solo un’espressione della sua spregiudicatezza, di quel cinismo appunto che contraddistinse la sua azione politica e che lo portò sempre a privilegiare la convenienza politica a quella affettiva e morale?

Si temeva ad esempio il ritorno dei prigionieri dell’Armir perché si temeva che potessero testimoniare sulla situazione in Unione Sovietica, su cosa era davvero il comunismo. Chi fu veramente responsabile della scelta di trattenerli in URSS: le autorità sovietiche o i comunisti italiani che, come per esempio Paolo Robotti ed Edoardo D’Onofrio, diretti da Palmiro Togliatti, avevano cercato di indottrinarli nei campi di prigionia?

Giuseppe Di Vittorio

Perché dopo tanti anni, ancora nel 1992, questo argomento ha suscitato così tanta polemica? Quali sono precisamente gli eventi che accaddero in quel lontano 1943 e che sembrano ancora così vivi da suscitare cinquanta anni dopo una così aspra polemica?

L’ARMIR E LA SECONDA GUERRA MONDIALE

22 giugno 1941: le armate tedesche con gli alleati rumeni, ungheresi, finlandesi, invadono l’Unione Sovietica. Un’avanzata travolgente. Avanzano per centinaia di chilometri al giorno sul territorio sovietico lasciandosi la terra bruciata dietro. Distruggono centinaia di carri armati, di aerei, travolgono villaggi e città, è un’azione di sorpresa…immensa.

È qui che Mussolini entusiasta di queste avanzate straordinarie, chiede a Hitler di mandare subito un contingente italiano sul fronte russo, una rappresentanza. Che ci siamo anche noi, insomma, dice Mussolini. Hitler accetta a una condizione: che il contingente italiano sia motorizzato, perché sul fronte russo, si combatte una guerra di movimento, di grandi manovre.

Sarà il Csir, Corpo di spedizione italiano in Russia, 3 divisioni, la Pasubio, la Torino, la Celere. Ma una sola divisione sarà a tutti gli effetti motorizzata, le altre sono dichiarate “motorizzabili”, dove cioè i soldati sono in grado semplicemente di essere trasportati.

Aprile 1942. E` un anno decisivo per l’Asse. il Giappone da qualche mese è alleato del nazifascismo, è in guerra. Con l’attacco a Pearl Harbur trascina gli Usa nella guerra mondiale. Mussolini più volte aveva avanzato la richiesta a Hitler di inviare un’intera armata in prima linea, pretendendone il “sacrificio di sangue” come scrive nella lettera all’alleato tedesco del 6 novembre 1941.

A Salisburgo Hitler invita Mussolini a un incontro. Il corpo di spedizione in Russia diventerà una armata, l’ARMIR, armata italiana in Russia. Di questo aiuto non richiesto alla Germania i tedeschi seppero servirsi con molto cinismo, come accadde nella battaglia di Stalingrado dove la VI armata comandata dal generale Von Paulus ormai disfatta, per proteggersi la ritirata si servì degli italiani, mandandoli contro una morte quasi certa pur di tenere il fronte e proteggere la loro fuga.

La decisione di mandare nuove forze in Russia venne presa da Mussolini contro il parere dei suoi esperti militari. Dieci divisioni peseranno di più sul tavolo della pace, dice Mussolini, rispetto alle tre che abbiamo attualmente in Russia. E poi, non possiamo essere da meno degli altri alleati. Partono quindi le poche artiglierie moderne disponibili che avrebbero potuto ribaltare i rapporti di forza in Africa settentrionale e invece in Russia avranno un ruolo del tutto secondario.

Alcuni reduci racconteranno:

“ sono stato militare dall’aprile ’38, ho fatto il fronte occidentale, tutta la campagna di Russia, tutta la ritirata, poi dopo è venuto l’8 settembre, totale sono 68 mesi, 68 tacche incise sulla mia cinghia”

“la guerra è la guerra non è mai una cosa allegra, ma per quegli italiani come noi che non credevano ai valori ideali di questa guerra, è stata uno squallore veramente infinito. Mi ricordo quei ragazzini che uscivano dalle scuole, le bandierine, le maestrine coi cartelli “guerra, guerra”, questo entusiasmo falso, comandato per circolare ministeriale, e che poi ha mandato tanti giovani italiani al rischio, allo sbaraglio, alla morte”. 

“chissà perché nella campagna di Russia si mette in evidenza sempre il secondo tempo che è stato quello sfortunato, cioè quello dell’ARMIR, invece di mettere in evidenza il primo periodo, che è stato veramente lirico sotto il profilo militare, che esprime il valore del soldato italiano, non dobbiamo perdere di vista che siamo stati sbattuti in tutte le latitudini con la consueta inferiorità di numeri e di mezzi.

Basti dire che io assunsi il comando dell’80°, ancora nei primi mesi del ’40, mai ebbi la possibilità di una esercitazione, né prima né dopo, nel ’41 prima di partire per la Russia. Ma sa, la nostra storia si è ripetuta in ogni tempo e in ogni latitudine”

“altroché equipaggiati e armati bene, avevamo la giacchetta di pelle, pantaloni lunghi, scarpe, pugnale mitra, però eravamo del battaglione Arditi Sciatori Montecervino, dov’è il mio cappello!! vede!… siamo andati in Polonia, poi in Russia i primi contatti coi russi… badate menavamo bene, eravamo solo 1500 uomini, eravamo di rincalzo… a un certo punto viene l’ordine di andare all’attacco…una compagnia di bersaglieri di rincalzo… sotto, via… spirito di sacrificio… li abbiamo rimandati indietro i russi ”

“18 gennaio 1943, ordine di ritirata, ci siamo attrezzati nel migliore dei modi possibile, con slitte rudimentali… la sera abbiamo cominciato il cammino, è stata una marcia terribile, faticosissima, fin dal principio. Sotto la tormenta, neve altissima, lascio la colonna sfinito, vedo una capanna di ucraini, mi sono riposato lì, poi da solo in mezzo alla tormenta 5 giorni di cammino, mangiando erbe… fino a ritrovare la colonna”.

“erano da fare 5000 km di neve a piedi… dall’ansa del Don alle nostre montagne… dobbiamo stare uniti… infatti se siamo tornati a casa lo dobbiamo al fatto che siamo rimasti uniti… eravamo una specie di paese noi, in Russia, ci conoscevamo tutti, però… altri sono rimasti là in Russia, nelle steppe…”

“essere chiusi in una sacca era la morte… non potevano fare prigionieri i russi… accerchiati, feriti, morti, spaventati… e poi si verifica una fatto paradossale, un soldato, carabiniere, ha preso un tricolore, si è trascinato appresso 3 mila persone… non riesco a capire come abbiamo passato questo sbarramento… una marcia pazzesca, affamati, eravamo non più uomini, ma bestie…abbiamo abbandonato compagni per terra, assiderati… non lo abbiamo impedito… eravamo come allucinati… pensavamo solo a camminare”

“ la marcia pazzesca, che ha fatto gli uomini talmente deboli… 8000 prigionieri in Russia…”uccisi sul posto, non c’era modo di aiutarli, i mongoli e i siberiani erano indifferenti, sparavano per un nonnulla…poi la tradotta per andare in Siberia rinchiusi 4 5 giorni dentro il vagone… scene di cannibalismo anche, di tutto… poi ci hanno aperto, una razione di 5 grammi di pane secco, senza acqua, scaricavamo i morti… ho visto un alpino che si prendeva sulle spalle un compagno perché ferito e quindi lo avrebbero subito ammazzato”

“che vuole quattro anni di prigionia in Russia, prigionia che ha dato la più bassa percentuale di sopravvissuti è un fatto che parla da sé. Difficile raccontare episodi, uno al giorno, 1416 giorni, li ho contati. Vorrei raccontare un altro episodio…4 o 5 anni dal mio rientro in Italia… eravamo al mare, mio figlio la prima volta che mi vede quasi nudo, ferite di guerra tante… non volevo dare ai ragazzi spiegazioni… come ti sei fatto male? Mi chiede. In guerra dico io. Mi è uscito molto sangue… ma certo, dice lui, il capo della guerra avrà detto a tutti ” fermo, fermo c’è un uomo che si è fatto male”!

Dall’11 dicembre ’42 al 16 gennaio ’43 il fronte venne tenuto dalla divisione Julia contro 4/5 divisioni russe… inizia qui la ritirata del Don … i soldati italiani si trascinarono nelle steppe, lasciarono tracce di sangue dietro di se… per migliaia di alpini iniziò una tragica marcia verso le retrovie, la marcia del “davai, davai!!” camminare , camminare, così la marcia è stata chiamata, perché cosi` urlavano di continuo i soldati russi ai nostri alpini… ai ritardatari, raffiche di mitra.

Dopo settimane di marcia sulle strade ghiacciate e nella neve vergine, cadendo e rialzandosi coi piedi avvolti in stracci e con il viso spaccato dal freddo, arrivavano alle stazioni ferroviarie, dove su ogni vagone stipavano un centinaio di alpini. I pochi che sopravvissero a questi lunghi viaggi, morirono poi nei campi di prigionia, dal freddo, dalle malattie, e dalla fame.

Fu una tragica ritirata, che il bollettino di guerra italiano non nominerà mai. Eppure radio Mosca, col bollettino n. 630, mentre annuncia la disfatta dell’Asse sul fronte del Don, e la riconquista di Stalingrado, aggiunge testualmente: “soltanto il corpo d’armata alpino italiano deve considerarsi imbattuto sul suolo di Russia”. Quei pochi che riuscirono a tornare sul suolo italiano, saranno inviati quasi tutti negli ospedali e in campi di contumacia, per rimetterli in sesto, certo, ma anche perché si voleva evitare che dessero spettacolo delle delusioni e delle sofferenze patite.

Di 229.000 soldati italiani inviati in Russia, 29.690 furono rimpatriati perché feriti o congelati. Dei rimanenti, i superstiti furono solo 114.485. Mancarono all’appello 84.830. Il totale delle perdite ammontò a 74.800 uomini. Molti di loro, in base ai documenti scoperti di recente negli archivi del Partito comunista sovietico, morirono di stenti nei campi di prigionia russi.

Trentamila italiani morirono in combattimento e oltre 80.000 furono fatti prigionieri. Furono adibiti a lavori pesanti, come raccogliere cotone in Kazakistan o estrarre carbone dagli Urali. Di questi solo 10.000 furono rimpatriati. E gli altri? I registri dei lager russi danno una cifra di 38.000 deceduti, per denutrizione e tifo petecchiale. Sulla sorte degli altri 50 mila ancora rimangono molte ombre e dubbi.

I SOLDATI DELL`ARMIR PRIGIONIERI

E IL RIENTRO IN ITALIA 

Testimonianze di alcuni reduci:

“ Da una esperienza del genere si poteva uscire più fascisti di prima, ma anche un individuo del genere riconosce che la popolazione russa era fatta di brava gente, di persone generose, buone… siamo tornati, in Italia ci hanno concentrati in quarantena, poi in caserma…

La prima cosa che fanno distribuiscono un opuscolo dell’ufficio propaganda fascista in una maniera offensiva… iniziava: tu hai sofferto tu hai combattuto per la patria… se sei un buon soldato ti cuci la bocca e non dici niente, né dell’esercito, né dei tedeschi, non parli, solo così sei un buon soldato… questa fu la prima accoglienza… fascista, che abbiamo ricevuto da un capitano, dell’esercito fascista…bisognava prenderlo a calci, ecco, la mia scelta, l’8 settembre la feci…ero convalescente, in divisa, tre armi automatiche che avevo, in caserma e in quel momento ho scelto di fare il partigiano” 

1946. “certo, andare a convincere la gente che i loro cari non ci sono più… le nostre parole ricordo suscitavano incredulità, sembrava impossibile che centinaia di uomini fossero svaniti nel nulla. Ricordo i ragazzi rimasti nei cimiteri…“

Arrivo a Tarvisio… è stato impressionante, una folla enorme, ognuno con una foto tutta lisa… tutti volevano informazioni. Perché noi eravamo l’ultima tradotta arrivata dall’Unione Sovietica, agosto il ritorno a casa… tragedia somma, perché mia madre non c’era più”

“siamo partiti, abbiamo fatto tutta l’Italia, sul Po, una domenica arriviamo a piazza Duomo a Milano con l’indifferenza totale di quelli che andavano a messa… per cui il primo impatto è stato deludente, ma di noi, che abbiamo fatto tutto questo, se frega qualcuno??”

“noi non abbiamo solo problemi di carattere fisico, ma problemi anche di carattere morale, di principio, di amor di patria da superare… nel rientro in Italia non trovammo l’ambiente che ci comprese, per questo ne parliamo pochissimo delle nostre vicende. Quello che è stato è impresso indelebile… a ogni ricorrenza è come se rivivessi quelle circostanze”

“l’ossessione del lager turba ancora i nostri sogni, passare da quell’ambiente di violenza, di spersonalizzazione all’inserimento nella vita di tutti i giorni è veramente drammatico e ci furono dei nostri amici che non superarono questo momento… ci furono casi di suicidio”.

La guerra finì e, per i pochi fortunati che riuscirono a tornare a casa, ce ne erano moltissimi di cui non si conosceva la sorte. Migliaia di donne e genitori attendevano i treni in arrivo, migliaia di mani alzate con le fotografie del marito, del fratello, del figlio.

In molti giornali accanto ai ritratti dei dispersi, l`annuncio: “se qualcuno riconosce questo volto è pregato di rivolgersi alla famiglia”. Sulle nostre montagne e colline mogli e genitori per anni saranno in attesa a scrutare il sentiero di casa ad aspettare, sperare, non rassegnarsi.

Erano i reduci del ’42 e del ’45 e del ’46. I reduci di Salò, della Germania, della Russia, dei campi inglesi e americani. Il Paese scelse di non rivedere queste diverse vicende, di non fare un esame del passato, non fece discriminazione delle diverse categorie di reduci ed ex prigionieri, concesse loro una assistenza minimale e si fece il possibile per dimenticarli rapidamente e definitivamente.

Togliatti che ruolo ebbe nei confronti dei prigionieri dell’Armir negli anni in cui sia il dirigente del PCI che i soldati italiani inviati da Mussolini e fatti prigionieri dai sovietici si trovarono contemporaneamente in terra sovietica? Apparentemente, in prima persona, Togliatti si interessò relativamente poco dei prigionieri italiani limitandosi a organizzare la propaganda comunista nei campi di prigionia ove i soldati italiani erano rinchiusi.

A questo scopo inviò rappresentanti del PCI in questi campi affinché i prigionieri venissero indottrinati e abbandonassero la vecchia fede fascista in nome di quella comunista. Altre notizie non se ne hanno a parte la durezza delle parole con cui egli si espresse nella famosa lettera a Vincenzo Bianco del 1943. E` documentato inoltre che Togliatti mandò Di Vittorio a Mosca nel ’45 a perorare la causa dei prigionieri. Perché non ebbe risultati concreti? Perché i governi repubblicani del primo dopoguerra non dettero ai reduci l’accoglienza che meritavano? Che situazione trovarono in Italia i soldati al loro rientro?

Perché la Russia dichiarò nel `46 che non rimaneva nessun altro prigioniero quando invece poi si scoprì che ancora 28 militari erano stati trattenuti per essere processati ed essi vennero liberati solo nel 1954 e nel 1956 restituiti? In tutto ciò Togliatti ha delle responsabilità? E se sì quali? Poteva agire diversamente? Perché dopo tanti anni vi è ancora una certa reticenza nel riaffrontare quel tema?

Oltre ai soldati dell`Armir, altri italiani vivevano in URSS e anche una parte di essi espresse nel 1946 il desiderio di rientrare in Italia. Si trattava degli emigrati politici antifascisti che negli anni Venti e Trenta avevano cercato rifugio in URSS e spesso erano rimasti vittime del terrore staliniano. Quale fu il comportamento del PCI? E quello stesso partito, quegli stessi dirigenti, che ruolo avevano avuto negli anni precedenti, quando il terrore aveva colpito la comunità italiana in URSS?

I PRIGIONIERI POLITICI

In Russia dopo la seconda guerra mondiale rimasero sia i prigionieri di guerra italiani sia gli italiani che erano riusciti a sopravvivere a lunghe pene detentive nei lager sovietici o nelle località di confino delle regioni più inospitali dell’Unione sovietica. Erano emigrati italiani, prevalentemente antifascisti di fede comunista.

La comunità italiana in URSS venne colpita dalla repressione soprattutto negli anni compresi tra il 1935 e il 1939, cioè nel periodo più intenso del terrore di stato sovietico. Proprio dopo il 1933, infatti, in coincidenza anche con l’arrivo di Hitler al potere e lo spettro di una guerra imminente, si diffuse in URSS una xenofobìa imperante e generalizzata che a priori vedeva in tutti i gruppi stranieri che vivevano nel paese dei potenziali nemici.

Amedeo Bordiga

Nel caso degli emigrati politici che vivevano in URSS un altro sospetto si aggiungeva a quello più generale di essere “stranieri”, un sospetto che aveva precise connotazioni politiche: molti di essi infatti, negli anni Venti, avevano simpatizzato per Amedeo Bordiga, leader del partito comunista italiano, e per le sue idee che nel 1926 erano apparse a Stalin pericolosamente vicine a quelle di Trotckij, il mitico capo dell`armata rossa della rivoluzione sovietica e antagonista di Stalin. Era dunque facile per l’NKVD ( il famigerato servizio segreto sovietico) sostenere l’equazione bordighisti = trotckisti.

L’emigrazione politica in Unione sovietica si era formata dopo il 1917 e soprattutto all’inizio degli anni Venti quando, anche dall’Italia, erano cominciati ad affluire in Unione Sovietica gli emigrati politici: si trattava di comunisti, socialisti, anarchici, antifascisti senza tessera di partito, che si concentrarono per la maggior parte nella capitale; secondo i dati più verosimili, negli anni Venti e Trenta circa trecento furono gli italiani rifugiatisi in Unione sovietica per sfuggire alla repressione fascista e per apportare il proprio contributo fraterno alla costruzione del socialismo..

Molti protagonisti di quest’emigrazione politica erano membri del PCI, per cui arrivarono in Russia grazie all’aiuto del partito o del Soccorso Rosso Internazionale, un’organizzazione anch’essa di natura politica, comunista, che li aiutò, li finanziò, dando passaporti, documenti falsi, per raggiungere il territorio sovietico.

Con il 1927-28, sotto la direzione di Stalin, si intraprese in Unione sovietica la strada della collettivizzazione forzata e si lanciò un piano quinquennale di rapida industrializzazione. Nell’ambito di questa politica, data la necessità che il gruppo dirigente del partito avvertiva di acquisire conoscenze per l’industrializzazione del paese, furono stipulati contratti con ditte straniere, anche italiane, come la ditta Amadei, che cominciò a operare in Unione Sovietica all’inizio degli anni Trenta, anni nei quali (precisamente dal 1932 al 1936) anche il generale Umberto Nobile dirigeva vicino Mosca un’officina sperimentale di costruzione di dirigibili.

Umberto Nobile con la cagnetta Titina

Quando, in un collaudo ufficiale esplode un dirigibile facendo diversi morti e feriti, le accuse di sabotaggio e di trotzkismo investirono dirigenti e collaboratori tecnici sovietici e italiani. Nel 1934, l’assassinio di Kirov, uno dei più stretti collaboratori di Stalin, probabilmente ordinato dallo stesso Stalin ma attribuito ai trotzkisti, fornì il pretesto per un nuovo acuirsi della repressione; si venne a creare un’atmosfera di terrore, di diffidenza e di sospetto, che raggiunse il suo apice negli anni 1937 e 1938, quando il “Grande Terrore” colpì la maggior parte delle vittime italiane dello stalinismo nella maggior parte dei casi processate e imprigionate con le accuse di bordighismo e di spionaggio.

Di larga parte di quelle vittime nessuno, per anni e anni, ebbe più alcuna notizia. Perché? Fino agli anni `50, e oltre, il Partito comunista italiano mantenne un rigoroso riserbo sulla sorte dei prigionieri italiani dello stalinismo, perché in questo modo riusciva a coprire la responsabilità che molti suoi dirigenti, compreso Togliatti, avevano avuto in quelle morti e in quelle dimenticanze.

Paolo Robotti

Nei documenti si legge che alcuni di questi indirizzarono la loro richiesta di rientro, ironia della sorte, a Paolo Robotti, proprio uno dei dirigenti del PCI che negli anni Trenta aveva avuto il compito di sorvegliare la comunità italiana in URSS e di stilare graduatorie di fedeltà alla causa stalinista. Egli annotava diligentemente come si dovesse concedere l’autorizzazione a rientrare in Italia solo a coloro che avessero un atteggiamento sufficientemente favorevole all’Unione Sovietica per evitare una propaganda negativa. I non fidati dovevano rimanere invece in URSS.

Neppure la morte di Stalin servì a scuotere la posizione del PCI nei confronti degli italiani dispersi in Russia e neppure tre anni dopo la destalinizzazione avviata da Kruscev e la conseguente riabilitazione di molte delle vittime delle purghe staliniane comprese le vittime italiane. Si venne a creare quindi una situazione paradossale.

Da un lato in Unione Sovietica gli italiani, nella maggioranza dei casi, nel 1956 furono riabilitati, le loro colpe riconosciute inesistenti e completamente cancellate, dall’altra in Italia le vittime italiane dello stalinismo furono completamente dimenticate.

Ancora negli anni `60 molti parenti si rivolsero agli organi del PCI per avere notizie dei propri familiari, dal momento che da anni e anni non avevano saputo niente: se i loro genitori o parenti erano morti in un lager, se erano stati fucilati e perché, se erano stati mandati in un lager e il PCI in tutta risposta non seppe mai fare chiarezza su questo tema, tant’è vero che la maggior parte dei parenti delle vittime dello stalinismo hanno saputo qualcosa soltanto attraverso le autorità sovietiche che anni dopo hanno rilasciato un certificato di morte, un certificato di riabilitazione, un certificato di fucilazione poco dopo l’arresto, e così via.

47 archivi consultati, in questi ultimi due anni, in tutto il territorio ex-sovietico grazie all’opera della Fondazione Feltrinelli: ne sono emersi atti di processi sommari, verbali di interrogatorio, fascicoli processuali, elenchi di prigionieri. Queste sono state le fonti da cui sono partiti i ricercatori per decifrare e riconoscere gli italiani dei quali si è poi ricostruita la storia con la collaborazione dei comuni e delle famiglie in Italia.

Quale fu il comportamento di Togliatti riguardo all’epurazione dei compagni comunisti che vivevano in URSS? Ha avuto un ruolo di mediatore, se non di freno? Oppure al contrario ha determinato o incoraggiato la repressione? Ci sono casi in cui ha tentato di salvare qualche compagno? Se sì, poteva fare di più? Soprattutto perché e come ha vissuto questa doppiezza: da una parte guardiano, più o meno protagonista della repressione, dall’altra fautore dell’ alleanza con le forze democratiche e socialiste dell`Occidente in funzione antifascista? Quanto era veramente convinto del nuovo corso della diplomazia sovietica? Quanto condivideva la doppia strategia: lotta per la pace ad uso esterno, guerra senza quartiere ai (presunti) nemici interni?

Fino a che punto Togliatti è convinto della verità delle testimonianze e delle autocritiche nei grandi processi che Stalin inscena contro i suoi vecchi avversari all’interno del partito? Paolo Robotti, cognato di Togliatti, sosterrà molti anni dopo che non vi era dubbio che solo la brutale violenza fisica e morale, unita al ricatto di colpire le famiglie, aveva costretto gli imputati a quelle false e assurde confessioni.

Ma quando quei fatti erano accaduti, né lui né Togliatti avevano sollevato obiezioni o perplessità. Poteva Togliatti raccogliere le voci imploranti e disperate che gli arrivavano dalle prigioni della Butyrka, da Lefortovo, dalla Taganka? E` vero che, a detta dello storico Frederik Firsov, che da anni è immerso nelle carte degli archivi del Cremlino, che gli uomini dell`NKVD avevano cominciato nelle loro indagini ad aggirarsi anche intorno a Togliatti e a Dimitrov ?

Stalin con Georgi Dimitrov

Quale era il ruolo che in quel periodo egli svolgeva all’interno del PCI e dell’Internazionale e che margine di manovra questo gli consentiva?

IL PCI DEGLI ANNI ’30

Il PCI negli anni Trenta viveva già da alcuni anni in una situazione di clandestinità. Dopo l’emanazione delle leggi fasciste, il partito era stato messo fuori legge e i suoi dirigenti erano andati esuli in Francia dove avevano formato un nuovo centro dirigente chiamato Centro Estero.

La comunità italiana in Unione Sovietica, quella formata dall’emigrazione politica iscritta al partito, rappresentava in un certo senso l’unica base che il PCI avesse in quel momento. L’arresto di Gramsci aveva fatto di Togliatti il nuovo leader.

Gramsci, foto segnaletica

L’arresto di Gramsci era avvenuto in un momento di forte tensione all’interno del partito bolscevico e del PCI. A Mosca infatti era in atto un grande scontro tra gli eredi di Lenin che si concluse con il trionfo di Stalin sui suoi oppositori. Pochi mesi prima di essere arrestato, Gramsci aveva indirizzato una lettera molto dura al gruppo dirigente bolscevico sottolineando il rischio che venissero traditi gli ideali della rivoluzione a vantaggio della pericolosa burocratizzazione che era in atto in URSS.

In quello scontro, Togliatti sposò completamente la tesi staliniana. Fu dopo il 1926 che cominciò la vera ascesa politica di Togliatti, sancita definitivamente quando, nel 1934, fu nominato uno dei segretari della Terza Internazionale. Da allora la sua adesione alla linea di Stalin non ebbe né dubbi né esitazioni. Anche quando, dopo il 1936, Stalin decise che era giunto il momento di attuare un’operazione di radicale eliminazione di tutti i potenziali oppositori nel partito e nel paese.

In questa vicenda di terrore e di morte un ruolo particolare ebbe la Terza Internazionale di cui solo un anno prima, nel 1934, Togliatti era diventato uno dei dirigenti più in vista.

Negli anni delle purghe, Stalin decise infatti l’epurazione e nella maggior parte dei casi l’eliminazione fisica dei dirigenti e dei quadri dei partiti comunisti affiliati all’Internazionale. I casi più eclatanti furono quelli del partito comunista tedesco e polacco i cui dirigenti vennero quasi completamente eliminati ma anche partiti più piccoli come il partito comunista svizzero o anche quello francese vennero duramente colpiti.

Una storia completamente diversa è invece appunto quella del partito comunista italiano. Perché? E’ questo un mistero della vita del PCI e di quella di Togliatti ancora lontano dall’essere risolto anche se alcuni elementi aiutano a illuminare alcuni aspetti di questo enigma.

Il partito comunista italiano, negli anni tra il 1936 e il 1939, non rivestiva per esempio nella strategia internazionale di Stalin la stessa importanza che potevano avere il partito comunista polacco o il partito comunista tedesco. Molti suoi dirigenti inoltre vivevano a Parigi, lontani da Mosca e questo forse garantì in parte la loro incolumità. Fondamentale poi fu il ruolo di Togliatti che nel 1938 impose una rigorosa disciplina a tutto il gruppo dirigente parigino.

Congresso del Komintern

A differenza di altri partiti comunisti che facevano parte della III internazionale, il gruppo dirigente del PCI non conobbe dunque repressioni e violenze. Duramente invece la repressione colpì l’unica base che questo partito avesse, cioè la comunità italiana che viveva in URSS, soprattutto quella parte della comunità definibile come emigrazione politica che si era formata negli anni Venti e Trenta.

In questo caso la repressione fu durissima e passò attraverso la collaborazione dei dirigenti comunisti italiani che lavoravano per conto del partito negli organismi della III internazionale e in particolar modo di quei dirigenti, fra cui Antonio Roasio, che fu uno dei personaggi di spicco di tutta questa operazione, che lavoravano per conto della Sezione Quadri del Komintern: un organo che gestiva un potere immenso controllando qualsiasi straniero che entrasse in Unione Sovietica.

Tutto quello che poteva essere rintracciato nel passato di un emigrato veniva schedato, annotato, riassunto dai funzionari italiani che lavoravano negli organi del Komintern o operavano per essi come suoi informatori esterni: Ciufoli, Roasio, Amedei, Buzzi, Robotti e altri ancora. Questo materiale veniva poi trasmesso alla polizia politica sovietica.

Qualsiasi atteggiamento politicamente poco ortodosso, qualsiasi cenno di insoddisfazione poteva significare la condanna, la fucilazione, la detenzione in un lager. Esistette una responsabilità diretta dei dirigenti del PCI che si trovavano allora a Mosca e che lavorarono per la Sezione Quadri nella morte degli emigrati politici italiani.

Per quanto riguarda Togliatti, mentre sinora non esiste una documentazione che dimostri il suo ruolo nelle purghe staliniane in Spagna, esistono invece pochi ma certi documenti che provano il suo diretto coinvolgimento nell’epurazione della comunità italiana in Unione Sovietica.

I documenti stilati da Roasio e da Ciufoli nel 1936 sugli emigrati politici sospetti, portano talvolta la firma in calce di Togliatti. Una firma importante poiché essa avvalorava ciò che stava accadendo non solo come capo del PCI ma anche come uno dei dirigenti più importanti della Terza Internazionale.

Il terrore staliniano gettò sospetti e paure su tutti. Negli anni fra il ’36 e il ’39 ma soprattutto nel momento della massima violenza che fu raggiunta fra il 1937 e il 1938 nessuno fu al riparo da dubbi, sospetti e dal pericolo di essere arrestato. Molti dirigenti dell’Internazionale persero la vita, basti pensare alla gloriosa figura di rivoluzionario di Bela Kun. Vi sono prove che anche Togliatti fosse tenuto già dal 1938 sotto controllo dalla Sezione Quadri dell’Internazionale e quindi dalla polizia politica sovietica stessa. I sospetti erano tali che la Sezione Quadri decise di aprire un’inchiesta a suo carico.

Bela Kun

Quali erano questi sospetti? Innanzitutto la debolezza del suo partito. Il Centro Estero si trovava in una situazione di estrema confusione politica e organizzativa. I tentativi di riprendere contatti con l’Italia fallirono miseramente dopo la guerra d’Etiopia che aveva segnato il massimo del consenso della popolazione italiana nei confronti di Mussolini. Il PCI aveva tentato di ristabilire un contatto con i fascisti della base attraverso la politica dei “fratelli in camicia nera” ma questa era stata duramente criticata dal Komintern.

Oltre a ciò, il Centro Estero di Parigi si adattava con troppa lentezza agli ordini di lotta antitrotzkista che arrivavano da Mosca. Il PCI appariva quindi un partito piccolo ma troppo indisciplinato.

In un momento in cui altri dirigenti di spicco dell’Internazionale perdevano per futili motivi la vita, Togliatti sapeva benissimo che essere il leader di un partito considerato a Mosca in ritardo nella lotta antitrotzkista significava essere esposto in prima persona al sospetto, all’indagine e forse anche all’epurazione. Gravava inoltre non solo su Togliatti ma su tutto il PCI la delicata questione di Gramsci che, seppur abbandonato e dimenticato nelle carceri fasciste, non era mai stato formalmente rinnegato.

Nel 1937-38 ciò poteva facilmente essere preso a pretesto da parte dei sovietici per un indagine, essere fonte di sospetto per capire come mai Gramsci che in fondo nel ’26 aveva ufficialmente condannato la burocratizzazione del regime bolscevico non era poi mai stato altrettanto ufficialmente rinnegato dal PCI.

LA SVOLTA DI SALERNO

1944, gli alleati sono sbarcati a Salerno. E` al microfono il capo dei comunisti italiano, Palmiro Togliatti che rivolgerà un messaggio agli italiani delle regioni occupate: “concittadini delle regioni del Nord… compagni… che vegliate in anni difficili… e voi amici… di Roma… si avvicina l`ora della liberazione.. a voi tutti che aspettate con ansia particolare… ” questo è il primo appello di Togliatti agli italiani subito dopo il suo ritorno in patria.

Il mito di Ercoli ( Ercole Ercoli e Mario Correnti gli pseudonimi di Togliatti)  è diventato ormai una realtà. “Amici e compagni…questa è in prima linea per voi un’ora di grandi responsabilità. E` vicino il momento in cui tutte le vostre forze devono entrare in azione per affrontare il giorno tanto agognato della liberazione di tutta la nostra patria, e prima di tutti della sua capitale immortale, di quella Roma che ancora oggi è l`aspirazione, il sogno di tutti i patrioti italiani.

Compagni e amici, oggi per la nostra liberazione dobbiamo essere pronti a fare e a saper fare tutto ciò che è imposto dalle necessità di questa guerra sacra per lo schiacciamento della barbarie hitleriana e fascista. Lo so che vi chiamo ad una lotta durissima e a un sacrificio, ma è la patria stessa che vi rivolge questo appello supremo. L`Italia vuole essere libera e lo sarà… ma sono i suoi figli migliori, gli operai etc… i contadini… gli intellettuali… i giovani, desiderosi di aprire alle loro generazioni tutte le vie del futuro, le donne nostre patriottiche, intelligenti… che devono tutti essere pronti a scendere in campo e debbono essere pronti a battersi con in animo solo per la libertà e la liberazione del paese… nel nome della libertà, dell’Italia e di Roma, al lavoro e alla lotta affinché la vittoria sia nostra il più presto possibile”.

Nel giugno del 1943, il Comintern viene sciolto. Togliatti è il capo riconosciuto dei comunisti italiani che si battono in clandestinità. In questa veste dedica molte “chiacchierate” radiofoniche, incita i connazionali, dopo la caduta del fascismo il 25 luglio, a combattere l’invasore nazista. Il suo obiettivo è una costituente per arrivare ad uno stato libero e a una repubblica frutto della collaborazione di tutte le forze popolari e democratiche.

1944. Il 27 marzo, Togliatti sbarca a Napoli, dopo 18 anni di assenza dall’Italia. Con un lasciapassare alleato aveva potuto imbarcarsi ad Algeri sulla nave Tuscania, dopo aver compiuto in aereo il tragitto da Mosca al Nord Africa. A Salerno, tra il 30 e il 31 marzo si svolge il congresso del partito. E’ la notissima “svolta di Salerno”.

Togliatti rinvia tutto il problema istituzionale (monarchia o repubblica) a dopo. Prima, dice, è necessaria la costituzione di un governo di unità nazionale di tutti gli italiani disposti a battersi contro i nazisti e i fascisti: quindi blocco antifascista… partecipazione al governo Badoglio di unità nazionale… questo fu il primo atto politico di Togliatti.

Una decisione difficile che aveva suscitato parecchie perplessità tra i comunisti, ma che i rapporti ormai creatisi tra le grandi potenze avevano reso necessario. Il 21 aprile, nasce il governo Bonomi che comprende anche i comunisti. Dopo la liberazione, Togliatti è segretario di un partito che ha oltre un milione e settecentomila iscritti e che raccoglie grande appoggio tra i lavoratori, ma anche tra la maggior parte degli intellettuali italiani.

Ferruccio Parri

Togliatti, nel governo di Ferruccio Parri è ministro di grazia e giustizia, incarico che manterrà anche nei due successivi governi De Gasperi. 1946. Il 2 giugno, nelle elezioni per la Costituente, il Pci ottiene il 18,9 dei voti. L’Italia è ormai una repubblica, dopo la sconfitta della monarchia e il guardasigilli Togliatti promulga una amnistia generale per i fascisti che non abbiano commesso gravi reati.

E’ un generoso tentativo di pacificare il paese. Il Pci contribuisce, in modo determinante ad elaborare la Costituente repubblicana tenendo anche conto della grande richiesta che parte da tutto il Paese, per una vera democrazia, basata sul diritto al lavoro e alla libertà.

Dal rientro in Italia di Togliatti nella primavera del 1944 nasce però un dilemma irrisolto. E non è una caso che sulla stessa svolta di Salerno sia stato detto tutto e il contrario di tutto: è stato Stalin o è stato Togliatti a suggerire quella strategia politica? Togliatti ha un piano strategico dettato da Stalin? E’ Stalin che si è lasciato convincere dal leader del PCI?

I documenti emersi dagli archivi ex sovietici negli ultimi anni provano che tra il gennaio 1944 e i primi giorni del marzo seguente il gruppo dirigente sovietico sostiene la necessità di mantenere una posizione intransigente sulla questione della monarchia e di evitare la partecipazione dei comunisti nel governo Badoglio.

Togliatti è sicuramente al corrente di questo orientamento ma non vi sono ancora oggi fonti documentarie che provino se egli fosse concorde o meno con questa scelta. Poi improvvisamente la posizione sovietica cambia radicalmente tra l’1 e il 4 marzo 1944.

Georgi Dimitrov

Nel suo diario, recentemente pubblicato anche in Italia, Dimitrov annota in data 4 marzo 1944: “Ieri notte Stalin, alla presenza di Molotov, ha ricevuto Ercoli, nome di battaglia di Togliatti. Nella fase data, non esigere l’immediata abdicazione del re; i comunisti possono entrare nel governo Badoglio; bisogna concentrare i propri sforzi soprattutto nella creazione e nel consolidamento della unità nella lotta contro i tedeschi. Seguire questa linea ma senza fare riferimento ai russi”.

Che cosa è successo in quei due giorni, tra il 2 e il 3 marzo 1944? Perché la tattica sovietica rispetto alla situazione politica italiana è repentinamente mutata? Togliatti è a conoscenza di quanto accaduto in quei due giorni oppure no? Ha in qualche modo influenzato questa nuova scelta?

Anche il ritorno di Togliatti fu avvolto nel mistero. Perché? Era necessario mitizzarlo? E perché? Che tracce ha lasciato a tutt’oggi? Ma il mistero più grande è forse un altro: come è successo che un uomo praticamente poco conosciuto in Italia, che non ha avuto nessun ruolo nella lotta partigiana, sia diventato poi uno degli uomini più in vista della scena politica italiana?

Molte ombre dunque sul Togliatti pubblico, molte lacune dunque sul Togliatti privato. Ma l’enigma non è solo biografico, ma anche politico: esiste un Togliatti “sovietico”, un Togliatti “italiano” o entrambi uniti insieme ?

L`UOMO TOGLIATTI

Se parlare del Togliatti pubblico non è facile, ancora meno lo è del Togliatti privato. Ci sono varie testimonianze che lo tratteggiano affettuoso, cordiale, emotivamente addirittura scoperto.

Cecilia Kin, scrittrice russa, massima studiosa della storia e della cultura italiana, veterana del Comintern, ha lavorato con Togliatti:

“Sul personaggio Togliatti posso dire con parole povere che secondo me è stato uno dei personaggi più importanti di questo secolo, però, io lo considero un personaggio tragico in un’epoca tragica… secondo me il momento cruciale è stato l’ottobre 26, cioè quella famosa lettera che Gramsci manda a Mosca”

Anna Larina, vedova di Nikolaj Bucharin:

“Parlare di Togliatti mi resta difficile, appartengo a un’altra generazione e non ho avuto con lui legami di lavoro. Nicola lo conosceva dall’infanzia, l’ho visto al Lux, residenza dei dirigenti del Comintern. Era un uomo vivo, allegro, con mente molto acuta. Nicolaj lo rispettava molto. Vi mostro una caricatura amichevole di Togliatti che Nicolaj gli ha fatto durante una riunione.

Durante la mia visita in Italia ho avuto buona accoglienza dalla Nilde Iotti, era evidentemente al corrente dei rapporti che c’erano stati tra Togliatti e Bucharin perché non avevo chiesto io l’incontro, e stata lei ad organizzarlo. La Iotti mi ha detto che lo pseudonimo di Ercoli è stato inventato da Bucharin, Togliatti era molto basso e così Bucharin lo prendeva in giro, chiamandolo Ercole… gli fece anche una caricatura…”

Anna Larina Bucharina

Larina:

“Quando sono stata in Italia mi ha colpito che l`atteggiamento su Togliatti… non era univoco, ho avuto questa percezione, sia da parte dei membri del Pci sia da parte dei socialisti. Lo definivano aiutante di Stalin , affermavano che non si è opposto alle repressioni. Il mio atteggiamento è diverso, a quei tempi fare qualcosa era impossibile.

Perciò non ha senso dare un giudizio su Togliatti solo in base al fatto che in un modo o nell`altro si è salvato mentre la maggior parte dei rappresentanti del Comintern è stata eliminata. Bisogna quindi pensare secondo le linee di una logica formale, altrimenti è incomprensibile. Per esempio da noi si è salvato… e non… cioè alcuni che secondo logica staliniana sarebbero dovuti morire non sono stati perseguitati, non c`era una logica, e così per Togliatti… è stato costretto a tacere”

Sono pochi i documenti che raccontano come viveva e come lavorava Togliatti durante la seconda guerra mondiale. Si sono salvate qualche foto, cartoline, autografi su libri regalati agli amici. Anche gli indirizzi moscoviti sono improbabili, oltre al noto albergo Lux.

Enrico Farina a Radio Mosca

Enrico Farina, impiegato di radio Mosca, intervistato negli anni `80 dice:

”Quanto alla vita quotidiana, Togliatti era persona modesta, gli piaceva fare la fila, fare la coda per comprare due panini,, come abitazione due stanze e basta, diceva: vado all’ufficio informazione, cioè per dire che andava a fare la coda per sentire cosa diceva la gente. Poi quando comprava i panini li avvolgeva con i suoi commenti e con questi, così unti andava al microfono di radio Mosca”

Cecilia Kin:

“ Togliatti con tutto il bene e con tutto il male rimane secondo me uno dei protagonisti più importanti, più tragici, più brillanti, forse un po’ più misteriosi del nostro secolo. Coi suoi meriti… immensi… coi suoi peccati… che erano purtroppo tanti, ma non solo lui, era l`epoca che era tragica, grandiosa e tragica. Senz’altro era legato a Stalin, non solo per ragioni… perché gli faceva comodo, ma anche dal punto di vista delle idee, c`era una specie di schiavitù, parola grossa, ma era così, tutti i discorsi che pronunciava nei congressi, era uomo di grande coraggio fisico e morale, però in questo punto lui era soggetto a Stalin” 

“Si rivolgeva in russo, veniva sempre applaudito. Compagni delegati, cari amici, vi trasmetto un saluto fraterno da parte del Partito comunista italiano… dagli anni della giovinezza a Togliatti piaceva la Russia… pian piano si è liberato dalle illusioni… vedeva solo sconfitte.”

“C`è un paradosso, che Krusciov, proprio quello che ha demolito il mito di Stalin, stava scivolando negli stessi metodi di Stalin e questo Togliatti lo percepiva”

Krusciov

“C`era divergenza tra Togliatti e Krusciov. Ogni incontro ogni colloquio assumeva un carattere sempre più drammatico, discutevano in russo, senza badare alle parole, tornava al pettine la destalinizzazione incompiuta. Togliatti ripeteva che non erano in discussione piccoli problemi tattici, ormai il nocciolo del problema era molto diverso. Può il comunismo avere un volto umano?”

“Come è stato ai tempi di Krusciov lo dimostra il memoriale di Togliatti… a dire la verità ho conosciuto le opinioni di Togliatti proprio da questo memoriale ed eccolo qui l`ho conservato. Lo leggo. 1964 a Yalta. “Siamo favorevoli a fare discussioni pubbliche, aperte, in forma corretta, col rispetto reciproco. Noi partiamo sempre dal concetto che il socialismo è un sistema nel quale esiste la più grande libertà per il lavoratore che partecipa realmente in un modo organizzato alla gestione di tutta la vita della società”.

E’ qui che si sono manifestate le opinioni di Togliatti… che certamente erano le stesse anche al tempo di Stalin, solo che allora non poteva esprimerle, come il suo amico Bucharin”

Stalin e Bucharin nel 1928

Nella biografia di un leader dai tanti volti si affacciano momenti, circostanze ed episodi che smussano, umanizzano e lasciano aperta qualche piega dove interrogarsi è lecito, analizzare è possibile. Cosa si celava veramente dietro a quegli occhiali da professore e dietro a quel carattere forte e volitivo, dedito alla concretezza piuttosto che agli slanci emotivi?

Nella cupa atmosfera dell`hotel Lux Togliatti tesseva la tela dell`internazionalismo comunista, si guardava le spalle e pronunciava discorsi appassionati di fronte alle platee moscovite ma poi, giocava con i bambini degli amici, si preoccupava del loro benessere.

Nella lotta politica italiana si scontrava con gli avversari, realizzava i suoi progetti con strategie caparbie e con contrapposizioni dure, si confrontava con Gramsci fino all’aperta rottura dei giorni del carcere. Ma nei confronti dell’intellettuale suo padrino politico aveva sempre un atteggiamento di stima e di deferente affetto.

Togliatti con Nilde Iotti

Nella vita privata conosceva la compagna Nilde Iotti e con lei sfidava la morale benpensante dei tempi e degli stessi compagni di partito salvaguardando con consapevole e lucida caparbietà un amore sbocciato nelle pieghe della politica e tanto osteggiato dall’ideologia di ferro dell`apparato. Come padre dedito al sentimento, ma subiva la tragedia del figlio malato Aldo e il calvario dei ricoveri e delle troppe cliniche in Italia e a Mosca.

Come uomo politico sentiva, improvviso, l’abbraccio di una folla commossa nei giorni dell`attentato. Quell’abbraccio che l`Italia vedrà, nelle ore del sue funerale, insieme alla rivelazione di un rapporto umano e politico che tuttora sfugge a una definizione esauriente. Una definizione a cui, oggi, sembra sfuggire ancora quell’uomo che aveva anteposto la ragione al sentimento.

Aldo Togliatti con la madre

ULTERIORE E PIU` DETTAGLIATO RESOCONTO DELL`INTERVENTO ARMATO DELL`ITALIA IN UNIONE SOVIETICA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Il CSIR

La partecipazione italiana alla campagna militare denominata “operazione Barbarossa” che Hitler scatenò contro l`Unione sovietica, si realizzò dal luglio 1941 al gennaio 1943 in due fasi. La prima vide l`invio di un contingente limitato… di circa 62.000 uomini, inquadrati nel Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir). svolse operazioni molto circoscritte e di copertura dell`avanzata delle truppe tedesche in Ucraina meridionale tra luglio e il dicembre 1941.

Nella seconda e ultima fase l`impegno in uomini e mezzi crebbe considerevolmente, con gli oltre 220.000 uomini dell`ARMIR (Armata italiana in Russia). Furono impegnati sulla direttrice sudorientale del fronte sino alla catastrofica ritirata seguita allo sfondamento del Don realizzato dall’Armata Rossa, tra il dicembre 1942 e il giugno 1943, nell’ambito della controffensiva che avrebbe condotto poco dopo alla disfatta della VI armata tedesca a Stalingrado.

La campagna di Russia maturò sostanzialmente da un’autonoma decisione politica di Mussolini. A poche ore dall’attacco tedesco, il 22 giugno 1941, l`Italia era pronta ad annunciare a Berlino la disponibilità ad inviare un contingente in tempi molto rapidi. Dopo la disastrosa campagna di Grecia, la leadership fascista temeva che una facile vittoria tedesca avrebbe aumentato il divario tra Italia e Germania negli equilibri post-bellici.

La partecipazione ad una campagna militare presentata da Hitler come di agevole conduzione e di breve durata e tale ritenuta da Mussolini, avrebbe dovuto garantire all’Italia un più efficace riconoscimento dei propri interessi da parte dell`alleato tedesco.

Il corpo di spedizione italiano in Russia, composto da tre divisioni di fanteria , Pasubio, Torino e Amedeo Duca d`Aosta e da due piccoli gruppi di aviazione per un totale di 58.800 uomini di truppa e 2.900 ufficiali, posti al comando del generale Giovanni Messe, si trasferì tra il 10 luglio e il 5 agosto 1941 in Moldavia.

Il generale Giovanni Messe in visita al fronte orientale russo nella primavera 1942

Da lì le truppe si mossero verso la zona di operazioni tra i fiumi Dnester e Bug, scontando da subito la scarsissima dotazione di mezzi di movimento. Delle tre divisioni, solo la “celere” Duca d`Aosta poteva dirsi effettivamente autotrasportata. Le altre, “autotrasportabili” ma sprovviste di automezzi, furono fatte affluire sul fronte attraverso marce massacranti di più d’un migliaio di chilometri lungo piste argillose e fangose.

Al di là della esiguità numerica del contingente italiano, a fronte delle circa centonovanta divisioni tedesche impegnate sul fronte orientale, fu soprattutto la debolezza logistica e di armamento a condurre il Csir ad una partecipazione assai defilata nelle operazioni offensive dell’estate – autunno 1941.

Un contributo di carattere simbolico dunque che bene si inquadrava nelle motivazioni di prestigio politico con cui era stato pensato da Mussolini.

L`ARMIR

Aprile 1942. e` un anno decisivo per l’Asse. il Giappone da qualche mese è alleato del nazifascismo, è in guerra. Con l’attacco a Pearl Harbor trascina gli Usa nella guerra mondiale. Naque in questo quadro il progetto da parte di Hitler di una nuova e massiccia offensiva lungo la direttrice sudorientale, con il duplice scopo di tagliar fuori Mosca dalle risorse del Caucaso e di avviare il movimento verso i giapponesi in Asia.

Mussolini si riconobbe in questo disegno e lo accolse con entusiasmo, anche se la disponibilità ad inviare addirittura venti divisioni fu moderata dal capo di stato maggiore Ugo Cavallero, riducendole a sette. Il corpo di spedizione in Russia diventerà una armata, l’ARMIR, armata italiana in Russia.

Nel complesso si trattava di una forza di circa 220.000 uomini di truppa e di 7.000 ufficiali, al comando dell’anziano generale Italo Gariboldi. Macroscopiche erano però le limitazioni di armamento, in un conflitto nel quale la potenza meccanica e mobile ebbe sempre a giocare un ruolo decisivo.

Il generale Italo Gariboldi, comandante dell’Armata italiana in Russia, passa in rivista militari schierati nel campo di aviazione di Stalino (Doneck) nel giugno 1942

Basti pensare che i carri armati L di cui era dotata l`armata italiana, in numero di poco superiore ai cinquanta esemplari, pesavano all’incirca tre tonnellate a fronte delle ventisette dei mezzi corazzati tedeschi e delle trentaquattro dei micidiali T34 sovietici. In sostanza la spedizione era stata pensata ed equipaggiata per partecipare ad operazioni statiche e di bassa intensità tecnica, anche in conseguenza del fatto che gli armamenti italiani risalivano per lo più al primo conflitto mondiale.

Ma l’elemento decisivo nella percezione collettiva dell’esperienza bellica sul fronte russo sarà la disfatta a cui andarono incontro le unita` italiane tra il dicembre 1942 e il gennaio 1943, sotto l`offensiva scatenata dall’Armata rossa per accerchiare e distruggere la VI armata tedesca a Stalingrado.

Simbolo bolscevico in un villaggio russo distrutto dai fanti della divisione “Sforzesca” nell’estate 1942

LA RITIRATA

Il 19 novembre 1942 l`offensiva sovietica investì le armate rumene a sud e a nord di Stalingrado, sbaragliandole in pochi giorni. L`operazione Piccolo Saturno, come fu chiamata dal comando sovietico questa ondata di accerchiamento, non incontrò una resistenza significativa sulle linee italiane.

Fu solo il 17 gennaio 1943 che le unità del corpo d`armata alpino ricevettero l`ordine di sganciarsi dalla linea del Don. Aveva così inizio per l`Armata italiana in Russia la drammatica e conclusiva vicenda della ritirata.

Incalzata ai lati da continue puntate offensive dei sovietici, sprovvista di mezzi di sussistenza, di strumenti di comunicazione, di combustibile e quindi di armamento pesante, una massa di uomini senza più alcuna struttura organizzativa e gerarchica percorse circa duecento chilometri in condizioni climatiche spaventose, con temperature di venti-trenta gradi sotto zero, per raggiungere, dopo circa due settimane, con fortissime perdite, le linee dell`Asse ad occidente della grande sacca di accerchiamento.

Emerse qui, più gravemente che in tutto lo svolgimento della campagna, l`impreparazione delle unità italiane ad operazioni di movimento sul teatro russo. La previsione di una lunga e statica resistenza sulle linee del Don aveva spinto i comandi italiani a trattenere i materiali e il combustibile nelle retrovie, centellinando i rifornimenti alle truppe di linea. Così come non fu senza conseguenze la cattiva qualità dei materiali di cui erano fornite le truppe, come ad esempio gli apparecchi radio o le calzature.

Al momento decisivo della ritirata, dunque, le unità italiane si trovarono del tutto impreparate ad affrontare una prova del genere. A Roma le notizie sulla disfatta del Don iniziarono ad arrivare intorno alla metà di gennaio del 1943.

IL RITORNO

La guerra finì e per i pochi fortunati che riuscirono a tornare a casa, ce ne erano moltissimi di cui non si conosceva la sorte. Migliaia di donne e genitori attendevano i treni in arrivo, migliaia di mani alzate con le fotografie del marito, del fratello, del figlio.

In molti giornali accanto ai ritratti dei dispersi, l’annuncio: “Se qualcuno riconosce questo volto è pregato di rivolgersi alla famiglia”. Sulle nostre montagne e colline mogli e genitori per anni saranno in attesa a scrutare il sentiero di casa ad aspettare, sperare, non rassegnarsi.

Erano i reduci del ’42 e del ’45 e del ’46. I reduci di Salò, della Germania, della Russia, dei campi inglesi e americani. Il Paese scelse di non rivedere queste diverse vicende, di non fare un esame del passato, non fece discriminazione delle diverse categorie di reduci ed ex prigionieri, concesse loro una assistenza minimale e si fece il possibile per dimenticarli rapidamente e definitivamente.

Togliatti che ruolo ebbe nei confronti dei prigionieri dell’Armir negli anni in cui sia il dirigente del PCI che i soldati italiani inviati da Mussolini e fatti prigionieri dai sovietici si trovarono contemporaneamente in terra sovietica? Apparentemente, in prima persona, Togliatti si interessò relativamente poco dei prigionieri italiani limitandosi a organizzare la propaganda comunista nei campi di prigionia ove i soldati italiani erano rinchiusi.

Umberto Savoia incontra gli alpini del Monte Cervino prima della partenza per la Russia

A questo scopo inviò rappresentanti del PCI in questi campi affinché i prigionieri venissero indottrinati e abbandonassero la vecchia fede fascista in nome di quella comunista. Altre notizie non se ne hanno a parte la durezza delle parole con cui egli si espresse nella famosa lettera a Vincenzo Bianco del 1943.

Tra l’aprile e il maggio del 1943 fecero ritorno in Italia, su poche tradotte ferroviarie, gli scampati all’accerchiamento sovietico. Mentre la diffusione tra la popolazione delle notizie sulla disfatta, insieme all’angosciosa interruzione dei contatti epistolari, contribuiva al definitivo tracollo della condizione psicologica del paese.

Coloro che mancavano, secondo i dati archivistici più recenti, erano circa 95.000 tra caduti,, dispersi e prigionieri dell`Armata Rossa. Questi ultimi dovettero affrontare una seconda e altrettanto drammatica odissea. Dei circa 70.000 prigionieri italiani in Unione sovietica solo 10.030 furono i rimpatriati al termine del conflitto.

Gli altri, uccisi dalle marce verso i campi e dalle condizioni di prigionia, insieme ai 25.000 caduti in combattimento o stroncati dalla ritirata, costituirono il prezzo pagato dal paese per una tra le pagine più disastrose della guerra voluta dal fascismo.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento