ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 15

a cura di Cornelio Galas

Giorgio Rochat

Fonte: Giorgio Rochat, “La campagna di Russia 1941-1943 – Rassegna Bibliografica”

Buona parte degli spunti critici sui limiti della storiografìa ufficiale provengono dalla memorialistica; potremmo anzi dire che l’orientamento generale della memorialistica stessa mette in discussione la versione tradizionale della campagna di Russia e specialmente della rotta dell’ARMIR, perchè solleva problemi e pone interrogativi che non trovano risposta nelle pagine dell’Ufficio Storico, del Valori e degli studi da essi condizionati.

E’ però necessario in primo luogo caratterizzare a grandi linee le opere, raggruppandole con un certo schematismo in alcuni gruppi omogenei. Ricordiamo in primo luogo le memorie di alcuni comandanti ed ufficiali superiori, che hanno tracciato la storia della loro unità per un periodo più o meno lungo, inserendo in essa la loro esperienza personale e una certa documentazione; volumi equilibrati ed attendibili, assai divergenti però nella valutazione della campagna e dei suoi insegnamenti.

Si passa da una certa retorica di corpo (Salvatores) ad un racconto asciutto che non solleva accuse nè recriminazioni (Catanoso); le denuncia dell’impreparazione tecnica diventa motivo di esaltazione per il valore dei soldati in un contesto di approvazione della guerra e della campagna (Messe, Carloni) oppure di accuse fermissime ai comandi italiani e tedeschi (Odasso, il migliore degli studi per ampiezza di analisi).

Ma in tutti questi volumi traspare sempre una piena fiducia nell’esercito e nella sua tradizione; sono infatti opera di ufficiali superiori non più giovani, che hanno conosciuto la prima guerra mondiale con i suoi orrori e passata la loro vita nell’esercito: dinanzi alla sconfitta costoro possono chiedere che qualcuno paghi per tanti morti, ma non vedono messo in causa il loro mondo, i valori in cui credono e che riaffermano (con più asciuttezza gli alpini, Odasso e Catanoso, con più verbosità i bersaglieri, Messe, Salvatores e Cationi).

Per gli ufficiali più giovani, in genere di complemento, l’esperienza della ritirata e della rotta ebbe invece una ripercussione molto più profonda, tale da mettere in crisi la loro posizione dinanzi all’esercito ed i loro ideali e da portare spesso ad una sconsolata constatazione di fallimento. La testimonianza del crollo di valori di cui furono vittime molti dei più giovani combattenti ci sembra uno degli apporti più importanti della memorialistica.

Scegliamo, tra le tante, quella del Corti: uno studente universitario che non aveva compiuto 22 anni al momento del crollo del fronte sul Don, chiamato alle armi nel 1941 come sottotenente d’artiglieria, distintosi nei primi mesi passati in Russia e proposto per una medaglia d’ argento.

Sulla traccia di un diario tenuto anche nei giorni più duri, egli racconta la ritirata, l’accerchiamento e la salvezza (19 dicembre – 16 gennaio) del XXXV° corpo d’armata, o meglio delle poche migliaia di superstiti.

E’ una testimonianza impressionante della vastità e profondità dello sfacelo: l’ordine di ripiegare vede l’immediato sbandamento di alcuni reparti d’artiglieria, che pure non avevano portato il peso maggiore dei combattimenti dei giorni precedenti; una notte di marcia segna la fine di ogni legame organico, due giorni di sofferenze tramutano un ufficiale valoroso come l’autore in un fuggiasco preoccupato solo della sua salvezza personale, pronto ad abbandonare i resti del suo reparto.

L’autore si descrive ora pronto a fuggire, ora deciso a combattere, spesso con la pistola in pugno, sempre pronto a prendersela con la vigliaccheria altrui ed a drammatizzare i suoi contrasti interni; ma malgrado la proclamata «capacità spirituale» non appare che come uno degli sbandati, incapace di azione autonoma, di decisione, di giudizio.

Anche durante la ritirata i tedeschi continuano a fucilare i prigionieri russi e gli italiani a consegnare i prigionieri ai tedeschi; ed il Corti scrive:

«Nel profondo del mio cuore, l’innata avversione contro i tedeschi crebbe e si tramutò in un’ira sorda e costante. Faticavo ad obbedire al comandamento di Dio e a non lasciarmi prendere dall’odio. Dal canto loro, in quel tempo, i nemici agivano verso i prigionieri allo stesso modo: noi sapevamo che non un tedesco veniva tenuto vivo nelle loro mani e che gli italiani subivano quasi sempre la stessa sorte. Era penosissimo per noi, uomini civili, essere coinvolti in quel mostruoso urto di barbari. Se almeno ad Arbusow i tedeschi avessero risparmiato i prigionieri! Si era quasi certi ormai di cadere tutti in mano russa e con quel modo! di agire ci si scavava con sicurezza la tomba con le nostre mani. Anche i prigionieri fatti da noi venivano chiesti dai tedeschi per il massacro e si dovevano consegnare”.

“Era penosissimo per noi, uomini civili, essere coinvolti in quel mostruoso urto di barbari!” Questa è l’unica riflessione che il Corti trae dalla tragedia di cui è attore: né mai si chiede perché gli italiani fossero in Russia, coinvolti nell’urto di barbari, né mai spiega cosa intenda per civiltà, dinanzi all’abbruttimento degli italiani sbandati.

Il crollo dei miti fascisti di potenza lo ha lasciato disarmato, la tradizione militare non gli offre alcun sostegno, la sua intensa fede cattolica si risolve in chiave individuale; egli passa quindi da un’illusione nazionalista ad un pessimismo rinunciatario, sempre incapace di un giudizio politico e morale autonomo.

L’esperienza russa si chiude quindi con un bilancio fallimentare, con un vuoto ideale, con una rinuncia a capire ed a lottare. Un vuoto che ritorna nelle parole di un altro ufficiale, ugualmente stanco:

«Tedio della guerra che non è paura, ma stordimento, abbrutimento, selvaggia allucinazione. Ma era necessario studiare tanto, e sacrificarsi e costruirsi e civilizzarsi e ingentilirsi, per correre carico di pidocchi, con le armi spianate, contro uomini sconosciuti, che non ti hanno mai dato fastidio {…) ? tedio di chi fa la guerra, di chi continuerà a farla e la odia».

Il disgusto della guerra non si traduce mai in una protesta coerente e logica: per il capitano medico Sacco, ugualmente demoralizzato dalla guerra, dal fango, dagli imboscati, c’è una sola via d’uscita:

«Ma perché questi russi continuano a fare la guerra? Perché ancora questo incubo di morte e rovina? Come sarebbe bella questa notte di luna! Non si potrebbe avere un po’ di pace?»

Testimonianze demoralizzate come queste (e quelle dei tenenti Fincato, Pedani, Gozzi e del cappellano Del Monte) lasciano un’impressione assai triste; alcuni di questi autori hanno combattuto fin dove era possibile, altri invece narrano senza ritegno di aver abbandonato il loro reparto, ma tutti concordano nel descrivere la ritirata in termini drammatici, come un disastro che tutto travolge, contro cui non si può reagire.

E’ in questi libri che si trovano descritti gli episodi più neri di sfacelo morale, di sbandamento di reparti, di viltà di superiori, di morale basso. Non è possibile dire fino a che punto- questo crollo di valori fosse provocato dall’esperienza russa (come per il Corti) o fosse preesistente (come sembra per il Sacco ed il Gozzi); ma questo pessimismo rinunciatario non giunge mai fino ad una critica decisa dei comandi, fino ad un giudizio politico sulla guerra, che è accettata come una catastrofe naturale.

Tutti narrano di alti ufficiali imboscati o -incompetenti, ma nessuno tenta di risalire dai casi singoli di viltà o eroismo ad un giudizio generale che non sia cupo disfattismo o retorica patriottica altrettanto facile.

In questi autori è evidente un certo distacco verso la popolazione ucraina (che tanto più colpisce in un medico o in un cappellano) di cui si nota la miseria, la sporcizia e poco più; e una condanna delle brutalità dei soldati russi che stupisce in chi enumera tanti episodi di bestiale violenza commessi da italiani e tedeschi.

In conclusione, ciò che più colpisce in questi ufficiali è la rinuncia ad un giudizio su quanto vedono e vivono, che non sia pessimismo apocalittico : essi narrano un’esperienza puramente individuale, in cui non c’è posto per amici, colleghi o subordinati, in cui tutti gli orrori sono ricondotti alle conseguenze per l’autore.

Sono volumi che illustrano lo smarrimento di una generazione di giovani cresciuti nel mito dell’invincibilità fascista e ritrovatisi nudi e disarmati nel crollo dell’ARMIR. Una testimonianza singolare ed unica nel suo genere è quella di Tolloy, ufficiale di carriera di sentimenti antifascisti, liberal-crociano.

Egli descrive la vita del comando dell’ARMIR, cui appartenne, e la politica italiana verso le popolazioni (manca purtroppo una conoscenza diretta delle truppe e del fronte) denunciando con lucido pessimismo la corruzione e l’incompetenza degli ufficiali dei comandi, quasi tutti raccomandati politici in cerca di facile gloria e burocrati interessati solo alla carriera.

Il Tolloy è l’unico tra i nostri autori che sia giunto in Russia con una chiara posizione antifascista, che viene confermata dal crollo dell’armata; dà quindi un giudizio duro e motivato della politica mussoliniana, della partecipazione italiana alla campagna, della preparazione delle truppe e del comportamento dei tedeschi, temi che saranno ripresi dagli studi posteriori; ma anche il Tolloy ha una posizione puramente negativa, non vede in Russia che marcio ed incompetenza: solo più tardi, nella Resistenza, egli saprà giungere a scelte politiche positive (nel suo caso, l’adesione al socialismo).

Per il momento, la sua posizione rimane un caso limite, dell’intellettuale antifascista sdegnosamente solo nel crollo di un mondo che non è più il suo. Un altro gruppo di testimonianze esprime invece l’orientamento di una parte degli ufficiali più giovani, che nel crollo degli ideali loro offerti seppero trovare qualcosa cui afferrarsi, un motivo per continuare a combattere: alcuni subalterni degli alpini (Revelli, Quattrino, Moscioni Negri, Corradi), un capitano dei battaglioni d’assalto delle camicie nere (Dotti), un sottufficiale degli alpini (Rigoni Stern).

Un gruppo alquanto eterogeneo, potrebbe sembrare a chi si fermi al tono delle memorie (dalla violenza accusatrice del Revelli al tono sommesso del Quattrino, dal distacco del Rigoni Stern all’inchiesta giornalistica del Corradi); ma un esame attento rivela la costanza di caratteristiche fondamentali.

Si tratta anzitutto di giovani, ufficiali e sottufficiali di complemento (tranne il Revelli, che ha però pochi mesi di carriera militare alle spalle e lascerà l’esercito dopo l’esperienza russa), che hanno accettato la guerra talora con entusiasmo ma soprattutto con serietà, come un dovere da compiere senza discutere (non un’avventura né una crociata antibolscevica); tutti hanno combattuto valorosamente, senza abbandonare il loro reparto, e sono usciti a testa alta dalla sacca.

Quando narrano dello sfacelo della ritirata, non usano i toni cupi e talora compiaciuti degli scrittori prima citati, ma raccontano con tristezza, con amarezza; eppure i loro libri sono quelli più critici per i comandi e per il sistema, perchè solo ad essi, e non ai soldati, essi attribuiscono la sconfitta e la rotta.

Le loro accuse scaturiscono dalle cose stesse: armi che si inceppano, razioni scarse, scarpe che facilitano i congelamenti, ordini tardivi, imboscati nelle retrovie, superiori spesso incompetenti e sprezzanti; tranne il Revelli ed in parte il Moscioni Negri, questi autori non vogliono fare processi e perciò le loro pacate testimonianze sono più efficaci. E in tutte si sente il peso degli amici e dei soldati morti senza ragione, il loro muto rimprovero.

Quando si cerca di individuare la ragione della resistenza di questi uomini, che andarono all’assalto quando sarebbe stato possibile imboscarsi come migliaia di altri superstiti, non si trovano i motivi cari alla tradizione oleografica dell’amor patrio (che per i più significava solo la casa e non poteva spiegare la guerra di conquista in Russia) e del dovere militare, ma un forte sentimento di solidarietà e responsabilità verso il loro reparto, gli uomini che si affidavano a loro.

Entrano qui in gioco lo spirito di corpo delle truppe scelte ed il reclutamento regionale delle truppe di montagna, ma in un quadro che ha ben poco di tradizionale: gli alpini si sentono traditi, sanno di non aver mancato, essi, al patto che stringe comandanti e soldati, sanno che la colpa della rotta non è loro; la lealtà che lega questi giovani ufficiali ai loro uomini è un protesta contro i superiori, contro un ordinamento, un sistema che non è stato leale.

Gli uomini nella sacca cercano nei loro compagni quei valori che non trovano più nei miti crollati e continuano a combattere per tornare a casa, per chiedere conto dei morti a chi li ha abbandonati, per non venir meno alla fiducia dei loro uomini o soltanto per un istinto di conservazione che non è mai fuga egoistica, ma ricerca di qualcosa di buono, di sano, di vero; e tutti questi libri sono pervasi di amore per colleghi e soldati, come pure di simpatia per la popolazione russa e persino per i partigiani ed i militari sovietici, visti più spesso come uomini che come nemici.

Perciò questi volumi, così scettici verso gli alti comandi, così critici verso l’esercito, così ai margini rispetto alla tradizione militare, di cui ripetono solo elementi secondari, ma da cui non traggono i motivi della resistenza, ci sembrano i più belli e veri racconti di guerra, quelli che possono aiutare a comprendere perché tante unità non si siano sfasciate, mentre crollava un sistema.

Non sono certo racconti antimilitaristici, anzi più d’uno attesta una maschia gioia di combattere, ma contengono un giudizio, chiaro anche se quasi sempre implicito, sulla campagna e sui comandi; un giudizio negativo sugli scopi della guerra (nessuno sa perché sia in Russia a portare lutti e massacri) e sulla sua preparazione e condotta, un giudizio largamente negativo, ci sembra, sui valori più cari alla storiografia ufficiale sulla campagna.

La quale trova invece rispondenza in un quarto gruppo di testimonianze, in cui raggruppiamo coloro che sembrano entusiasti della guerra e pronti a ricominciarla ed alieni da giudizi negativi.

Si tratta spesso di ufficiali di una certa età, di carriera o reduci della prima guerra mondiale: un colonnello dei bersaglieri che rivendica il valore dei suoi soldati, un capitano dei servizi automobilistici, che riesce a trovare donne e cognac che lo consolino del freddo, un capitano degli alpini imboscato nei comandi, rientrato in patria con l’ultimo treno prima dell’offensiva russa, che scrive in tono goliardico, come se la rotta non fosse avvenuta, il fascismo caduto e la guerra persa; oppure l’ex seguace di D’Annunzio che invano cerca in Russia lo spirito dei legionari fiumani o infine il racconto di un valoroso capitano delle retrovie, battutosi nella ritirata con truppe di formazione (l’unico tra questi volumi che ci sembri utile per lo storico).

E inoltre due subalterni di complemento, che a due decenni di distanza tornano sulle loro vicende di Russia, l’uno per tracciare il suo distaccato itinerario spirituale conclusosi nella Decima repubblichina, l’altro per un romanzone storico confortato dal successo di pubblico, costruito secondo i più tradizionali schemi della retorica nazionalistica e patriottica.

Un insieme di esperienze quanto mai eterogenee, anche nella motivazione della loro posizione di consenso implicito alla guerra, in cui vanamente si cercherebbe lo slancio epico o la commozione umana di certe pagine della memorialistica da Revelli a Rigoni Stern.

Parte a se formano le opere dei reduci dai campi di prigionia russi. Sugli 85.000 morti e dispersi dell’ARMIR, forse 50.000 furono catturati dalle truppe e dai partigiani sovietici; circa tre quarti di costoro morirono per la mancanza di una organizzazione sanitaria al seguito delle truppe sovietiche, per le durissime marce di trasferimento a piedi ed il successivo viaggio in treno in spaventose condizioni (vitto scarsissimo, nessuna precauzione igienica, confisca dei migliori capi di vestiario, ecc.) ed infine per i primi mesi nei campi di concentramento, dove l’insufficiente alimentazione e le epidemie causarono un’ultima falcidia.

Dal maggio 1943 le condizioni di vita migliorarono e cessarono i decessi; i prigionieri furono però sottoposti a corsi di indottrinamento politico ed a penose discriminazioni, dinanzi alle quali non sempre seppero reagire con fermezza.

I rimpatri avvennero nel 1945-46, tranne per piccoli gruppi che si erano opposti al prepotere russo e che furono trattenuti in parte fino al 1954. Nelle memorie dei superstiti l’esperienza della prigionia supera per intensità e tragicità quella della ritirata e dei combattimenti, quindi su di essa si imperniano i volumi; analogamente le testimonianze di coloro che rimpatriarono nel 1943 si riducono quasi sempre al periodo della ritirata, più denso e drammatico.

Le memorie di reduci dalla prigionia hanno quindi per la nostra rassegna, che sulla prigionia non intende addentrarsi, solo un valore relativo, sia perchè nemmeno la metà delle opere esaminate dedica più di qualche pagina alle vicende vissute nell’ARMIR prima della resa, sia perchè anche queste vicende sono logicamente filtrate attraverso gli anni di prigionia.

Tuttavia merita di notare che tutte le opere che si soffermano sui combattimenti sul Don hanno accenti polemici ed amari verso l’organizzazione militare italiana. I temi sono i consueti (equipaggiamento, armamento, vitto, ordini tardivi, ecc.); ad essi si aggiunge il rimpianto di essere stati avviati alla sconfitta ed alla prigionia in condizioni disperate.

Due volumi si soffermano con più ampiezza su questi problemi: l’uno è un’affrettata accusa ai comandi di un subalterno di complemento, fortemente polemico ma anche superficiale (le accuse sono quasi sempre giustificate, ma l’autore esagera, a nostro avviso, nell’addebitare ai comandi colpe ed intenzioni su cui andrebbe approfondito l’esame); l’altro una testimonianza amarissima di un capitano comandante di battaglione della sfortunatissima divisione Vicenza, che più di ogni altra scontò l’imprevidenza dei comandi italiani: il racconto, cupo e forte, sembra attendibile.

Infine occorre registrare i volumi di due soldati che tornarono dalla prigionia comunisti: testimonianze polemiche, ma più moderate della maggioranza di quelle analoghe, che hanno il pregio notevole di illustrare le condizioni di vita delle truppe.

E’ infatti caratteristica pressocchè costante della memorialistica il riferirsi solo agli ufficiali, poiché ufficiali erano la grande maggioranza degli autori; questi due volumi, entrambi assai vivi, gettano uno spiraglio di luce sulla vita delle retrovie e della prima linea, descrivendo il morale delle truppe come assai oscillante, ma soprattutto insistendo sulla scarsezza del vitto per i soldati semplici e sull’equipaggiamento inadeguato che causavano malumore e apprensione.

In complesso ci sembra che l’esame della memorialistica convalidi le nostre osservazioni sui limiti della storiografia ufficiale. Attraverso queste opere si può giungere ad una ricostruzione più critica e dettagliata della campagna e particolarmente del ripiegamento: la documentazione ufficiale e le testimonianze di alti comandanti su cui si basa il Valori possono essere utilmente integrate e corrette dal confronto con gli autori citati, in gran parte giovani ufficiali a contatto delle truppe.

E nuovo incitamento da queste memorie si dovrebbe trarre ad una raccolta sistematica di testimonianze di superstiti (come ha fatto il Corradi, limitatamente alle sue esperienze personali, nel volume citato). Ma la memorialistica concorre a mettere in crisi l’impostazione storiografica che ha il suo maggiore esponente nel Valori anche da un altro punto di vista, come testimonianza del morale e del comportamento dei quadri dell’ARMIR.

Nella campagna di Russia (e più in genere nella guerra mondiale), coloro che continuarono a combattere anche quando si era palesata la vanità dei miti fascisti, lo fecero per motivazioni assai diverse, una delle quali fu indubbiamente la fedeltà ad una tradizione di onore e di dovere, che trovava un punto di riferimento nelle istituzioni militari, al di là del crollante regime fascista: è questa la posizione che abbiamo individuato anche in memorie polemiche come quelle di Odasso o di Messe.

Bisogna però distinguere tra il rispetto dovuto a questa posizione, per la quale molti seppero soffrire e morire, ed il tentativo compiuto in sede storiografica di presentarla come unica vitale, assumendo tutti gli episodi di valore e tutti i morti dell’ARMIR come prova della validità della tradizione militare.

Ci sembra però che non prendendo in considerazione la memorialistica più demoralizzata e più critica, la storiografia ufficiale non solo commetta una deformazione della realtà storica ma isterilisca proprio quella posizione di fedeltà al dovere che viene posta a modello.

Il Valori, si è detto, sottolinea che i soldati italiani in Russia combattevano senza odio, senza credere veramente alla propaganda antibolscevica che pure offriva loro l’unica motivazione al loro soffrire e morire; ed il fatto è confermato pressochè da tutta la memorialistica: per quasi tutti gli autori (tanto più quindi per la massa dei soldati) la guerra è senza ragione.

I combattenti erano quindi mossi soltanto dal dovere e dalla disciplina, secondo la versione ufficiale, che non manca di sottolineare che ciò va ascritto a loro maggior merito; il che significa, sviluppando il ragionamento, che se morire per un ideale è possibile a chiunque, solo un esercito regolare forte della sua tradizione e disciplina può addestrare gli uomini a morire senza ragione.

E’ questa la conclusione estrema cui porta l’esaltazione acritica del valore e del sacrificio dei combattenti ed il rifiuto di una qualsiasi altra motivazione del loro eroico comportamento che non sia la fedeltà ad una tradizione singolarmente atemporale, studiatamente collocata al di sopra delle fluttuazioni politiche e ridotta quindi alla difesa di un’istituzione (l’esercito permanente avulso dal contesto politico) e di una categoria (i quadri dell’esercito).

In altri termini, è questa la conclusione cui si giunge insistendo nel rifiuto di un giudizio politico e di una visione critica ed ampia della guerra, e dimenticando che molti di quei caduti oggi presentati come eroi caddero senza sapere il perché del loro sacrificio, forse cercando di fuggire per salvare la vita e che molti di quelli che combatterono e morirono eroicamente lo fecero protestando contro la tradizione ed il regime che li avevano mandati in Russia.

La storiografia ufficiale persevera infatti nell’illusione che sia possibile una storia puramente tecnica e patriottica, prescindendo non tanto da un giudizio sul regime e sull’operato di Mussolini (la cui generica condanna è ormai luogo comune pressochè obbligato) quanto da una spregiudicata analisi dei rapporti di collaborazione tra esercito e fascismo e dei problemi politici posti dalla guerra, e da una coraggiosa revisione dei miti cari al fascismo (anche se anteriori) di un patriottismo senza incrinature.

In queste pagine crediamo di aver dimostrato che questa impostazione permette solo una ricostruzione degli avvenimenti agiografica e parziale, pur se pregevole sotto molti aspetti, e che la storia della seconda guerra mondiale, anche per un argomento limitato nel tempo e nello spazio come la partecipazione italiana alla guerra russo-tedesca, non può sottrarsi ad una più ampia prospettiva, che si assuma i rischi di un giudizio sui fatti e sulle responsabilità politiche e militari.

BIBLIOGRAFIA

Questo elenco è stato compilato sulla base del Saggio Bibliografico sulla seconda guerra mondiale dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito (Roma, Tip. Regionale, 1955, pp. 524), della Bibliografia Storica Italiana, volumi 1945 – 62, a cura della Giunta centrale per gli studi storici (Bari, Laterza), dei cataloghi delle principali biblioteche milanesi e della Nazionale di Firenze e delle appendici bibliografiche contenute nei seguenti volumi: A. Valori, La campagna di Russia, Roma, Grafica Nazionale, 1950-51, pp. 801: E. Franzini, Campagna di Russia, Treviso, La tipografica, 1952 (2a ed.), pp. 273; E. Corradi, La ritirata di Russia, Milano, Longanesi, 1964, pp. 242.

Le opere sono state raggruppate per argomenti ed ordinate secondo la data di pubblicazione e l’ordine alfabetico.

Opere pubblicate nel 1942-’44

  • Magliari-Galante Luigi, Il Corpo di spedizione italiano sul fronte dell’Est, « Rassegna Italiana », febbraio 1942, pp. 59-67.
  • Mazzara Aldo, Fanti in Russia, Roma, De Carlo, 1942, pp. 167.
  • Napolitano Tomaso, In Russia con il CSIR, «Nuova Antologia», fase. 1684-1690 (maggio-agosto 1942) per complessive pp. 63.
  • Parente G., L ’asse e l’URSS, Milano, Centauro, 1942.
  • Valori Aldo, L ’ epopea dello CSIR, pp. 177-194 del volume: Due anni di guerra (1940 ’42), Roma, Minist. della Cultura Popolare, 1942, pp. 258.
  • (Anonimo), Sesto reggimento bersaglieri. Dal Gianicolo al Don (1836 1943), Bologna, ti. Compositori, 1943, pp. 47.
  • Cappuccini Guido, La guerra meravigliosa, Milano, Mondadori, 1943, pp. 401.
  • Gianbelvo N., Crociata europea antibolscevica, Roma, Voce della stampa, 1943.
  • Gianturco Luigi, Ritorno dalla Russia, Roma, Marte, 1943, pp. 62.
  • Gnocchi Carlo, Cristo con gli alpini, Lecco, Stefanoni, 1943, pp. 114. Seconda ediz.:Brescia, La scuola, 1945, pp. 113.
  • Meille Enrico, Diario di una squadriglia (Russia 1941), Roma, De Carlo, 1943, pp. 263.
  • Pagano Salvatore, Leuthen e la battaglia del Don, «Echi e commenti» 20 aprile 1943 , pp . 148 – 50.
  • Querel Vittorio, Fronte Est. Un anno di guerra del CSIR, Verona, L’albero, 1943, pp. 266.
  • Scala Edoardo, I combattenti italiani nella guerra contro la Russia (1941-42), Roma, Marte, 1943, pp. 147.
  • Stato Maggiore R. Esercito, Ufficio Stampa e Assistenza, Eroismo dei combattenti italiani in Russia, senza data né luogo di stampa [ma Roma 1943], pp. 30.
  • Terzo reggimento bersaglieri. In memoria del colonnello A. Carretto, Com. 30 Bers., senza luogo di stampa, 1943, pp. 32.
  • Tomaselli Cesco, Battaglia sul Don, Milano-Roma, Rizzoli 1943, pp. 270.
  • Calvi Gianni, L ’armata italiana nella battaglia del Don, senza data né luogo di stampa [ma 1944, Italia settentrionale], ed. erre, pp. 32.

Studi maggiori

  • Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, Minist. Guerra, 8a armata italiana nella seconda battaglia difensiva sul Don (11 dicembre 1942 – 31 gennaio 1943), Roma, Tip. Regionale, 1946, pp. 70.
  • Messe Giovanni, La guerra al fronte russo. Il CSIR, Milano, Rizzoli, 1947, pp. 253. L ’opera ha avuto numerose ristampe: 4a ediz. riveduta, 1964, pp. 398.
  • Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, Minist. Difesa, Le operazioni del CSIR e dell’ARMIR dal giugno 1941 all’ottobre 1942, Roma, Tip. Regionale, 1947, pp. 211.
  • Valori Aldo, La campagna di Russia. CSIR – ARMIR 1941-43, Roma, Grafica Nazionale 1950-51, 2 vol. di pp. 801 complessive (l’opera uscì in fascicoli periodici).

studi monografici

  • Guercio Romolo, Responsabilità germaniche sulle operazioni che condussero al ripiegamento invernale 1942-43 nella campagna di Russia, «Rivista militare», febbraio 1946, pp. 161-68.
  • Odasso Mario, Col corpo alpino italiano in Russia, Cuneo, Panfilo, 1949, pp. 224.
  • Pallotta Pietro, Dottrina tattica ed esperienza bellica. La difesa di Nowaja Orlowka, «Rivista militare», dicembre 1952, pp. 369-73.
  • Pallotta Pietro, Una divisione ternaria all’attacco. Chapetowha 5-14 dicembre 1941, «Rivista militare», marzo 1953, pp. 367-71.
  • Guercio Romolo, La 3a divisione Celere «Principe Amedeo Duca d’Aosta» nella seconda battaglia difensiva del Don (dicembre 1942 – febbraio 1943), «Rivista militare», giugno 1953, pp. 669-96.
  • Pallotta Pietro, Esperienze di una campagna di guerra. Russia 1941-’43, «Rivista militare», luglio-agosto 1953, pp. 774-81.
  • Pallotta Pietro, Motorizzati contro corazzati. Sseraflmowitsch 30 luglio – 8 agosto 1943, «Rivista militare», dicembre 1953, pp. 1202-06.
  • Santoro Giuseppe, Le operazioni aeree sul fronte russo (luglio 1941 – maggio 1943), «Rivista aeronautica», giugno 1954, pp. 613-37 e luglio 1954, pp. 723-41).
  • Pallotta Pietro, Fanteria: Kalibaki 1940, Petrikoroka 1942, Serio e Santerno 1945, «Rivista militare», settembre 1954, pp. 849-62.
  • Catanoso Carmelo, Il 1° reggimento alpini dal Don all’Oskol, Genova, Stab. Graf. Morino, 1955, pp. 107.
  • Santoro Giuseppe, L’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale, Milano- Roma, ed. esse, 1957, due voL. di pp. 580 e 582.

trattazioni generali nell’ambito di opere più vaste

  • Tosti Amedeo, La guerra che non si doveva fare (giugno 1940 – settembre 1943), Roma, Faro, 1945, pp. 242. Cfr. cap. XII, pp. 181-90.
  • Roluti Francesco, Il CSIR, l’ARMIR e la guerra in Russia, «Rivista aeronautica”, dicembre 1947, pp. 725-34.
  • Canevari Emilio, La guerra italiana. Retroscena della disfatta, Roma, Tosi, 1948, 2 voL. di pp. 632 e 836.
    Scala Edoardo, La riscossa dell’ esercito, Roma, Tip. Regionale 1948, pp. 357 (Ufficio Storico SME).
  • Corselli Rodolfo, Cinque anni di guerra italiana nella conflagrazione mondiale 1939- ’45 Roma. Tip. Regionale, 1951, pp. 280.
  • Historicus, Da Versailles a Cassibile. Lo sforzo militare italiano nel venticinquennio 1918-’43, Bologna, Cappelli, 1954, pp. 238.
  • Faldella Emilio, L’ Italia nella seconda guerra mondiale. Revisione di giudizi, Bologna, Cappelli, 1959, pp. 783. Italianzy kaputt? Con l’ARMIR in Russia, Roma, CEN, 1959, pp. 655.
  • Battaglia Roberto, La seconda guerra mondiale, Roma, Ed. Riuniti, 1960, pp. 452.
  • Guglielmotti Umberto, Le armi italiane nel secondo conflitto mondiale, Roma, 1963, CEN, pp. 711 .

storie di corpo

  • Barilli Manlio, Alpini in Russia sul Don, Milano, Ciarrocca, 1954.
    Scala Edoardo, Storia delle fanterie italiane. Vol. X: Le fanterie nella seconda guerra mondiale, Roma, Tip. Regionale, 1956, pp. 892.
  • Gioda Carlo, Sesto reggimento alpini, Rovereto-Bolzano, Manfrini, 1956, pp. 191.
  • Tramonti Nino, I bersaglieri dal Mincio al Don, Milano, Tip. Artigianelli, 1956, p. 528.
  • De Zolt Germano, Gli alpini da Abba Garima a Nikolajewka, Feltre, Tip. Castaidi, 1958, pp. 233.
  • Salvatores Umberto, Bersaglieri sul Don, Bologna, Tip. Compositori, 1958, pp. 625.
  • Lombardi Giacomo, Battaglioni L’Aquila e Val Pescara, Pescara, Ballerini, 1960, pp. 152.
  • Rasero Aldo, Quinto alpini, Rovereto, Manfrini, 1963, pp . 643.

Memorialistica 1944 – 1964

Memorie di reduci non caduti in prigionia

  • Palazzo Archimede, Verità sulla campagna di Russia. L ’olocausto della divisione «Torino», Roma, Tip. Agostiniana, 1944, pp. 23.
  • Tarchi Mario, Con l’armata italiana in Russia, Livorno [ma in realtà località della Brianza), a cura del Partito It. del Lavoro, 1944, pp. 215. L’opera fu poi pubblicata nel dopoguerra con il vero nome dell’autore: Tolly Giusto. Con l’armata italiana in Russia, Torino, De Silva, 1947, pp. 231.
  • Del Monte Aldo, La croce sui girasoli. Giornale intimo di un cappellano militare in Russia, Alba, ed. S. Paolo, 1945, pp. 363.
  • Sacco Ettore, E’ niente se si torna, Torino, SATET , 1945, pp. 265.
  • Acquistapace Filippo, La divisione alpina «Tridentina» nella battaglia del Don, «Rivista Militare», agosto-settembre 1946, pp. 986-1004.
  • Bonicelli Sandro e Cesare, Lettere e pagine di diario, Brescia, La Scuola, 1946, pp. 242.
  • Fincato Silvano, Attraverso la sacca. Memorie di un alpino nella campagna di Russia, «Rivista militare”, gennaio e febbraio 1946.
  • Revelli Nuto, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia, Cuneo, Panfilo, 1946, pp. 261. Ripubblicato in: Revelli Nuto, La guerra dei poveri, Torino, Einaudi, 1962, pp. 528.
  • Caracciolo Alberto, Teresio Olivelli, Brescia, La Scuola, 1947.
  • Corti Eugenio, I più non ritornano, Milano, Garzanti, 1947.(5a edizione  nel 1964).
  • Sorrentino Lamberti, Isba e steppa. La Russia era comunista da prima degli zar, Milano, Mondadori, 1947, pp. 308.
  • Tomaselli Cesco, Strana gente a Pitcairn, Milano, 1948 pp. 271.
  • Baviera Giuseppe, Un artigliere dell’ eroica divisione «Ravenna» racconta, Enna, Airone, 1950.
  • Giordano Vincenzo, La tragedia dell’ARMIR, Milano, Gastaldi, 1950, pp. 254.
  • Gozzi Gianni, Con noi era l’infinito, Genova, ed. prisma, 1950, pp. 140.
  • Manus (pseudonimo), Crepuscolo sul Don. Con gli alpini nella campagna di Russia, Milano, istituto editoriale di propaganda per la cultura storica nazionale, senza data, pp. 154.
  • Pedrazzini Fulvio, La campagna della divisione “Tridentina” in Russia, Genova, Bozzi, 1950.
  • Quattrino Umberto, Sacrificio di alpini sul Don, Pinerolo, Tajo, 1950, pp. 228.
  • Pedani Adelmo, La tragedia del Don, Roma, Stampa d’oggi, 1951.
  • Rudié Stefano, Harasciò. Russia non inventata, Bari, Laterza, 1951.
  • Cereghini Mario, Alpini in Russia, 1942, Milano ed.  del milione, 1952.
  • Palazzo Archimede, Eroi d’Italia fra Ladoga e Mar Nero, Milano, Gastaldi, 1952, pp. 185.
  • Rigoni Stern Mario, Il sergente nella neve, Torino, Einaudi, 1953, pp. 160. Varie ediz. successive presso Einaudi, in collane diverse.
  • Carloni Mario, La campagna di Russia, Milano, Longanesi, 1956.
  • Dotti Stefano, Ritirata in Russia, Bologna, Cappelli, 1956.
  • Negri Moscioni Cristoforo, 7 lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Torino, 1956, Einaudi, pp. 147.
  • Bozzini Vittorio, Neve rossa, Verona, ICA, 1957.
  • Carerj Ezio, L’ epopea di Tscherkowo. Campagna di Russia, Roma, Stab. Graf. Naz., 1957, pp. 221.
  • Costa Flaminio, Tre girasoli per Maria Speranza, Monza, Nuova Massimo, 1957, pp. 365.
  • Lazzeretti Appio Claudio, I giorni dell’ira. La ritirata dal Don con la divisione «Torino», Milano, SEDIT, 1957, pp. 245.
  • Lupi Antonio, Ricordi di guerra di un alpino, Genova, Ass. Naz. Alpini, 1957.
  • Novello Giuseppe, Steppa e gabbia, Verona, Mondadori, 1957 , pp. 87 (più disegni).
  • Crespi Angelo, Breve storia del ripiegamento del corpo d ’armata alpino dal Don al Donez. Gennaio 1943, Bologna, Tip. Villaggio del fanciullo, 1960, pp. 48.
  • Revelli Nuto, Campagna di Russia: «Il Ponte», maggio 1961, pp. 702-10.
  • Revelli Nuto, La ritirata italiana in Russia, pp. 284-90 di: Trent’anni di storia italiana. Dall’antifascismo alla resistenza. Lezioni con testimonianze, Torino, Einaudi, 1961, pp. 387.
  • Spinella Mario, L’intervento italiano contro l’ Unione Sovietica, pp. 428-32 di: Fascismo ed antifascismo. Lezioni e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 706.
  • Adami Giuseppe, Gli alpini del Quinto in Russia, Milano, Ass. Naz. Alpini, 1963.
  • Bedeschi Giulio, Centomila gavette di ghiaccio, Milano, Mursia, 1963, pp. 431.
  • Gandini Mario, La caduta di Varsavia, Milano, Longanesi, 1963, pp. 287.
  • Ceva Bianca, Cinque anni di storia italiana (1940-45). Da lettere e dialoghi di caduti, Milano, Comunità, 1964, pp. 350.
  • Chiavazza Carlo, Scritto sulla neve, Bologna, Ponte Nuovo, 1964, pp. 173.
  • Corradi Egisto, La ritirata di Russia, Milano, Longanesi, 1964, pp. 242.
  • Costa Giuseppe, Vent’anni dopo. I disperati del Don. Il sacrificio della «Cuneense» in Russia, Milano-Napoli, Relationes Latines, 1964, pp. 143.

Memorie di reduci dalla prigionia

  • Franzini Egidio, In Russia. Memorie di un alpino redivivo, Venezia, ed. già Zanetti, 1946, pp. 217. Ediz. definitiva: Verona, Tip. Commerciale, 1962, pp. 270.
  • Fanciulli Enrico, In terra di Russia. Ricordi di un prigioniero, Roma, Il Maglio, senza data [ma 1947], pp. 143.
  • Gambetti Fidia, I morti e i vivi dell’ARMIR, Milano, ed. Milano-Sera, 1948, pp. 238. Nuova ediz. Roma, Editori Riuniti, 1953, pp. 277.
  • Gherardini Gabriele, La vita si ferma. Prigionieri italiani nei «lager» russi, Milano, Baldini e Castoldi, 1948, pp. 347.
  • Palmieri Luigi, Davai, Roma, Danesi, 1948.
  • Serio Franco, La steppa accusa, Milano, La Prora, 1948, pp. 216.
  • Turla Maurilio, La nostra e la loro prigionia. Russia, Russia, Russia. Quattro anni di prigionia in mezzo ad un popolo di prigionieri, Milano, ITE, 1948, pp. 198.
  • Bonadeo Agostino, Sangue sul Don, Milano, Accademia, 1949, pp. 238.
  • Fabietti Franco, Redivivo. Quattro anni di prigionia in Russia, Milano, Garzanti, 1949, pp. 142.
  • Buffa Nino, Steppa bianca. Quattro anni di prigionia nella Russia sovietica, Palermo , Renna, 1950, pp . 247.
  • Franzini Egidio, Reduci dalla Russia. Libro-ricordo, Treviso, stamperia artigiana, senza data /ma 1950/, pp. 256. Nuova ediz. Campagna di Russia. Libro ricordo del CSIR e dell’ARMIR, Treviso, la tipografica, 1952, pp. 273.
  • Zabeo Gino, Hai veduto mio figlio? Quattro anni nella Russia dei Soviet, Mestre, tip. artigiana, 1952, pp. 201.
  • Giuffrida P., L’ARMIR, il generale, la ritirata, Novara, Macchia, 1953, pp. 229.
  • Brevi Giovanni (redazione di Franco Di Bella), Russia 1942-53, Milano, Garzanti, 1955, pp. 237.
  • Reginato Enrico, Dodici anni di prigionia nell’URSS, Milano, Garzanti, 1955, pp. 232.
  • Massa Gallucci Alberto, No ! Dodici anni prigioniero in Russia, Milano, Rizzoli, 1958, pp. 214.
  • Battisti Emilio, Prigioni sovietiche, pp. 287-326 del volume: Italianzy kaputt? Con l’ARMIR in Russia, Roma, CEN, 1959, pp. 655.

Inchieste giornalistiche

  • Fusco Giancarlo, La lunga marcia, Milano, Longanesi, 1961, pp. 186.
  • La Guidara Franco, Ritorniamo sul Don, Roma, Ediz. Internazionali, 1965, pp. 317.
  • Vandano Brunello, I disperati del Don, Milano, Ediz. Storia Illustrata (Mondadori), 1965, pp. 155.

Polemiche sulle vicende dei prigionieri

  • D’Arduini, Le verità sui prigionieri italiani, Roma, Stampa Moderna, 1947.
  • D’Onofrio Edoardo – Palermo Mario, Vogliamo un’inchiesta sul disastro dell’ARMIR, Roma, Stampa Moderna, 1948, pp. 146.
  • Serio Franco, Via crucis. Risposta all’on. sen. Bruschi, Milano, Unione Tipografica, 1948, pp. 23.
  • Benassi B., Il processo D’Onofrio e la verità, Bologna, Abes.
    Cappellini Arnaldo, Inchiesta sui dispersi in Russia, Milano, ITE, 1949, pp. 221.
  • Mastino Del Rio Giorgio, In difesa dei reduci di Russia, Roma. Centro assistenza milit., 1949, pp. 155.
  • Sotgiu Giuseppe – Paone Mario, La tragedia dell’ARMIR nelle arringhe di G. Sotgiu e M. Paone, Milano, ed. Milano-Sera, 1950, pp. 362.
  • Saini Ezio, Sono vivi in Russia, Roma, Ariete, 1951, pp. 219.
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