LICEI TRENTINI: “LEZIONI” FASCISTE

a cura di Cornelio Galas

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Abbiamo già accennato alla situazione della scuola, in Trentino, durante il Ventennio fascista. Ma ci si riferiva più che altro alla scuola primaria. Oggi cerchiamo invece di allargare l’analisi oltre che alla scuola primaria anche alle “direttive” didattiche di quel periodo per le scuole superiori, per i licei classici, trentini, in particolare. Vediamo intanto di capire il contesto storico-politico di quel periodo.

In Trentino con un capoluogo che contava  poco  più  che  30.000  abitanti  e  circa 13.500 austriaci residenti (impiegati e militari, dati del 1910), il passaggio alla dominazione italiana fu un processo confuso e sofferto, tutt’altro che indolore. Possiamo considerare  conclusa  la  lunga  fase  di  transizione  –  limitatamente  ai  soli  aspetti  politico-amministrativi, s’intende – nel  gennaio  1923,  allorché  fu  introdotta  la  legge  provinciale e comunale del Regno che cancellava ogni precedente autonomia  locale.

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Durante  i  quattro anni seguenti la vittoria della Grande Guerra, il Trentino fu la scena di dibattiti e scontri, intorno ai temi dell’amministrazione e del governo, ora di bassissima lega, ora di notevole rilevanza creativa e programmatica. La provincia fu retta da un governatore, prima  militare  e  poi civile. A Trento, e a Bolzano, ebbe luogo  uno  degli  episodi  più  clamorosi  del  lungo  travaglio mussoliniano verso il potere: l’occupazione fascista del 2 ottobre 1922, che segnò la fine del governatorato di Luigi Credaro.

Roberto Farinacci

Roberto Farinacci

Migliaia di camicie  nere  al  comando  di  Farinacci,  complice  l’inerzia  condiscendente  delle  forze  militari,  occuparono le sedi governative e cacciarono il commissario generale civile «anima servile dell’uomo che chiede scusa di compiere il suo dovere».

Professore e protagonista dell’interventismo statale in materia di istruzione, studioso di Herbart e conoscitore del mondo tedesco, Luigi Credaro era stato inviato nella nuova provincia col mandato di risolvere i complessi problemi amministrativi del Trentino e la spinosissima questione del Sudtirolo italiano. Democratico e di formazione illuminista fu politicamente schiacciato nella morsa dei cattolici intransigenti e dei fascisti, i quali, montando il cavallo di Troia della redenzione mutilata dell’Alto-Adige, sperimentarono in grande la loro strategia per la conquista dello stato.

Luigi Credaro

Luigi Credaro

Non meno grave di altre fu per Credaro la questione scolastica, ossia il problema  della scuola asburgica, in un ambiente in cui, come ebbe a dire, «le questioni scolastiche […] sono squisitamente politiche, anzi la politica per quattro quinti si fa  nella  scuola». L’immediato dopoguerra vide riproporsi, quasi senza soluzione di continuità, l’aspro conflitto di mussoliniana memoria   tra  cattolici  e  socialisti  battistiani.

Gli uni si battevano per la libertà d’insegnamento, ossia per la facoltà di impartire l’educazione religiosa nelle scuole; gli altri, in solidale convergenza con lo spirito polemico del fascismo squadrista, bollavano i clericali di austriacantismo, forti del sospetto non del tutto infondato che la questione della libertà d’insegnamento portasse con sé anche rivendicazioni di autonomia allargabili all’ambito amministrativo.

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Come si sa il problema dell’insegnamento religioso fu risolto da Gentile, accolto, anche a Trento, con grande soddisfazione ed entusiasmo dei cattolici, ma poi ben presto accusato di essere il Danao che porta in dono l’insegnamento religioso per fare una scuola hegeliana cioè atea.

Presa  per sé l’illazione pare gratuita, perché è indubbio che qualcosa di molto vicino a un sentimento religioso dell’educazione vi fosse nell’idealismo gentiliano, ma per qualche aspetto l’immagine virgiliana ben può attagliarsi alla pars cattolica trentina, la quale,  avutala vinta sul punto dell’educazione religiosa, vide però ben presto delusa ogni ambizione di decentramento amministrativo delle istituzioni preposte alle questioni scolastiche.

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Anche Giuseppe Papaleoni, il primo a ricoprire  la  massima  carica  locale  in  ambito scolastico (1918-1920), in fondo temeva Gentile. Intimo della vedova Battisti, tenace avversario dei clericali austriacanti e delle loro mire decentrazioniste, paventava l’influsso dei  cattolici  sul  ministro,  alla  luce  dell’attenzione  consapevole  e  tutto  sommato  ben disposta che lo stesso Gentile aveva riservato alla scuola asburgica.

Ma la posizione estremista del laicismo di Papaleoni, più estremista  di  quella  del  commissario  Credaro, non ha grande successo e la secolare matrice cattolica della tradizione scolastica trentina riprende corpo con tempestività. Già nel 1921 il commissario generale civile accorda a un alunno del liceo la dispensa dall’insegnamento religioso «richiamando tuttavia il giovane stesso,  e  in  genere  tutti  gli  alunni,  sul  dovere  di  riflettere  prima  di  assumere  impegni  e prima di sbarazzarsene a loro capriccio».

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Giuseppe Papaleoni

Nel 1922 il prefetto emana un paio di circolari: l’una che caldeggiava un’energica «azione antiblasfema» («l’Italia, che oggi al soffio rigeneratore dei più alti ideali tende ansiosa al suo rinnovellamento materiale e morale, aspira a ben altro primato che non sia quello della parola laida e blasfema»), l’altra che ragguagliava sulle modalità d’acquisto del ritratto del re e del crocefisso (di un quadro di Guido Reni, la direzione ne ordina 15).

La partecipazione pressoché unanime degli studenti alle lezioni di religione nell’anno scolastico 1925-1926, infine, segnala il definitivo riassorbimento della stagione positivista e anticlericale, che, seppure in ritardo e bruscamente, aveva incontrato e sconvolto la scuola trentina.

Giovanni Gentile

Giovanni Gentile

L’effetto pacificante di Gentile e del suo carisma non si limita alla materia religiosa. Il   suo ministero e la sua riforma stemperano e risolvono attriti sordi ma pesanti, causati dal  conflitto tra posizioni consolidate da tempo  in  procedure  burocratiche  e  didattiche  peculiari e il diverso punto di vista  dei  nuovi  venuti,  spesso  imposto  maldestramente  e  con arroganza.

Un «austriacante» come l’ottimo professore e preside di Rovereto Ettore Zucchelli,   che   non aveva esitato a opporsi di   fronte  a   coloro   che   avevano ignorato «deliberatamente tutto il nostro passato qualificandolo austriaco», accoglie con caloroso entusiasmo il ministero Gentile e lo spirito della riforma, nel contesto di una felice quanto breve stagione di rinnovamento per la scuola trentina, in tutto coincidente col periodo di massimo successo delle idee educative di Gentile, agli esordi  degli  anni  Venti,  durante  i  quali – come riconosce un critico spietato della scuola italiana – tutte le forze migliori e più straordinarie della nazione si adunarono  intorno  al  neoidealismo,  creatore  di  quella riforma che era poi un’idea speculativa capace di entusiasmare una generazione.

Mussolini e Giovanni Gentile

Mussolini e Giovanni Gentile

D’altro canto Gentile poteva giovarsi dell’equilibrato giudizio di alcuni uomini di esperienza, come Giovanni Ferretti, provveditore agli studi per l’Ufficio centrale delle nuove provincie, il quale, nel subbuglio di idee e consuetudini, sceverava le buone qualità che la scuola asburgica avrebbe potuto portare in dote alla nuova gestione: il decentramento delle funzioni a consigli scolastici locali, la notevole quota di responsabilità e poteri concessi al direttore, la quotidiana collaborazione del collegio dei docenti, l’uniformità e l’omogeneità dell’insegnamento all’interno di ogni scuola, l’ottima preparazione degli insegnanti («docenti scientificamente forse meno vitali, ma in generale professionalmente meglio allenati»), i severi ma gratificanti controlli cui erano sottoposte le  carriere,  l’agilità  delle  procedure  amministrative  di  segreteria  semplificate dalla collaborazione   dei   docenti   con   la   direzione,   anche   in   questioni   non strettamente didattiche.

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Intorno al problema della disciplina scolastica, nell’immediato dopoguerra, si coagulano conflitti e rancori vissuti con grande partecipazione. L’atteggiamento insieme innovatore e demolitore dei funzionari italiani smorza l’iniziale entusiasmo dei “liberati”, che andavano piuttosto arroccandosi su posizioni tanto più conservative e ostili quanto più si mettevano in discussione i valori più intimi dell’attività educativa.

Il rigore della disciplina asburgica, in effetti talvolta eccessivo, veniva spesso liquidato nel giudizio dei nuovi funzionari con supponenza incapace del necessario spirito di mediazione. Non è il caso del commissario Credaro, uomo di scuola, ma anche politico consumato, che tuttavia raccomanda esplicitamente di dismettere certe consuetudini censorie e punitive nei confronti degli alunni, «di non usare la reclusione, né il sovraccaricarli di lavoro inintelligente e tedioso di ripetute copiature o, quel che è peggio ancora, l’esporli alla berlina in piedi o ginocchioni davanti   ai  compagni».

Celestino Endrici

Celestino Endrici

Gli  fanno   eco   rimostranze  e  malumori  diffusi  che   trovano un’autorevole voce nel vescovo Celestino Endrici – già esiliato dagli austriaci – il quale lamenta che nelle scuole «si introduce libertà e meno disciplina: a noi abituati ai metodi più severi, questo procedimento sembra avere l’impronta di una certa anarchia».

La confusione del frangente politico, ovviamente, non gioca a favore di un sereno riequilibrio delle posizioni. Al sopraggiungere dei fatti di Fiume il preside del liceo non nasconde la sua impotenza a raffrenare il «giovanile entusiasmo» degli alunni volontari, reclutati da «apposito incaricato». D’altra parte il ritorno tra le braccia della madre patria e della scuola, alla fine dell’esperienza fiumana, è indolore e pacifico, come mostra l’ordine ministeriale che autorizza senz’altro i piccoli reduci alla riammissione.

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Di fronte all’incipiente e arrogante fascismo, poi, l’effettiva preponderanza delle forze preposte all’esercizio dell’autorità si dissolve nella fiacchezza delle idee e delle motivazioni che avrebbero dovuto animarla. Nell’aprile del ‘21 il fascio di combattimento locale, in occasione del natale di Roma, invita il ginnasio a prendere parte alla commemorazione dei caduti trentini «nelle guerre per l’Indipendenza e la grandezza d’Italia».

Il commissario generale civile opta per una risposta pilatesca, disponendo affinché «la scuola non prenda parte ufficialmente ma che si lascino alcune ore di vacanza perché gli insegnanti e gli alunni che volessero, possano assistere alla cerimonia». Echi dello squadrismo militante giungono anche a scuola, alla quale arrivavano, per via ufficiale, documenti e appelli propagandisti di tenore sovversivo.

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Il preside si trova così ad affrontare, in casi di varia gravità, i piccoli emuli delle camicie nere: se non ha particolare difficoltà a censurare un «me ne frego» dichiarato in tono burbanzoso e ostentato a un professore, l’incursione nella scuola tecnica «Battisti» di tre studenti liceali, mandati dal capo del fascio e muniti di scudisci e randelli, lo costringe ad affrontare l’indignata reazione del collega vittima dell’intimidazione (1921).

Si deve attendere il 1924 per incontrare una chiara ed esplicita presa di posizione del provveditore, che impone l’obbligatorietà della punizione dei giovani avanguardisti responsabili di atti di indisciplina, anche al di fuori della scuola, alla quale, in ogni modo, non possono recarsi con armi di sorta.

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Disposizioni precise, finalmente, che potremmo accostare alle analoghe preoccupazioni di Mussolini, il quale non poteva più permettersi le intemperanze giovanili del fascismo e gli estremismi nostalgici alla Farinacci, che gli furono strumento indispensabile prima, ingombrante zavorra poi.

Il problema della disciplina degli alunni è – Gentile non avrebbe  potuto  pensare  diversamente – il problema della disciplina dei funzionari. La posizione ministeriale,  su  questo punto, è intransigente: ai presidi e ai docenti si richiede la massima lealtà,  un  profondo senso del dovere, una precisa e schietta valutazione dell’operato e dei meriti.

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A  tale rigore corrisponde il valore altissimo attribuito dal filosofo al ruolo dell’educatore, il notevole grado di libertà concesso alla prassi didattica per costruire quella relazione inscindibile, e anzi risolta in unità, tra maestro e discepolo, tra le attività dell’apprendimento e dell’insegnamento (tra la potenza dell’imparare e l’atto dell’insegnare).

Ai   fondamenti   del   pensiero   di   Gentile   intorno   all’educazione,     pure discutibili, ma ricchi di forza emotiva e trascinante e di effettive potenzialità rinnovatrici, non sembra però che consegua una leale e sufficientemente diffusa adesione delle coscienze, insomma un’adesione spirituale, e perciò libera, al genere di disciplina che essi esigevano.

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Ci si può chiedere se le premesse di tale insuccesso non siano intrinseche a un pensiero di matrice idealistica, cioè a un concetto di educazione definito in un formarsi progressivo, in continuo sviluppo, dinamico, ma esterno al soggetto e perciò teso verso un fine inattingibile.

L’autorità del maestro, in un contesto simile – sostiene Dewey – non può non essere dogmatica e astratta, si esercita secondo gli assiomi dell’ «applicazione per l’applicazione», dell’«esercizio che tempra» e che per ciò «solo è disciplinare», col paradossale corollario efficacemente rappresentato da una battuta di un umorista americano: «Non importa che cosa insegnate ad un ragazzo, basta che non gli piaccia»; e la necessaria conseguenza di un’adesione tutta superficiale e formale alle imposizioni disciplinari, sostanzialmente eluse con espedienti sleali da parte di chi le subisce,giacché «gli individui agiscono capricciosamente ogniqualvolta agiscono sotto un dettame esterno, o perché è stato detto loro di fare così, senza perseguire scopi propri e senza tenere conto delle conseguenze delle loro azioni su altri atti».

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Queste considerazioni, che John Dewey applica alle teorie educative hegeliane  e che sono state riprese, nella sostanza, anche in relazione all’attualismo, sembrano affatto coerenti con quanto è accaduto  nel  costume,  nella prassi didattica e di apprendimento degli adolescenti italiani, almeno durante tutto il secolo XX.

Ciò che però non convince è far discendere tale costume, direttamente in senso storico, dalle premesse di pensiero di Gentile. Non solo,  o  forse  non  tanto,  perché  la  riforma del 1923 fu attaccata e snaturata ben presto da forze ostili e interne al regime, ma piuttosto perché la piega in senso autoritario imboccata dal pensiero di Gentile durante il Ventennio non pare affatto conciliabile coi fondamenti filosofici  del  suo  pensiero  pedagogico, compiutamente formato prima del fascismo.

Giovanni Gentile

Giovanni Gentile

Vi è una radicale contraddizione teoretica tra il Gentile politico e il Gentile filosofo della conoscenza e se Gentile e Dewey intendono e definiscono in maniera diversa la libertà, ciò  non  toglie  nulla  al  valore  profondo e pieno che essa assume nel pensiero del primo. Sicché si può per ora ben dire che fu il fascismo  a deformare in senso  peggiorativo, e sostanzialmente controproducente per il regime medesimo, il concetto e il sentimento dell’autorità e della  disciplina  nella  scuola, con o senza l’apporto teoretico del filosofo di Castelvetrano.

Dunque i mezzi per attuare le intenzioni più profonde della riforma vengono meno, perché la carica vitale e entusiastica del realismo attualista si spegne nei roboanti appelli e negli astratti indirizzi della propaganda fascista, nell’angusto gigantismo della burocrazia ministeriale romana.

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Un uomo intelligente e di grandi capacità come Luigi Molina, provveditore agli studi della Venezia Tridentina dal 1923, si rende presto conto di come l’imponenza e l’invadenza dell’apparato burocratico accentrato producesse,oltre a carteggi interminabili, un progressivo «svaporamento delle responsabilità».

Così accade che l’energia e la passione di Molina spesso si smorzino contro l’indolenza dei sottoposti. A dargli motivo di frustrazione sono anche i professori liceali, quando malcelano «dietro il sorriso discreto, lo scetticismo un tantino canzonatorio per tutte le iniziative, che implicassero  ardore  di attività, fiducia non  centellinata nelle  imprese,  che  uscissero dal chiuso orto del lavoro cattedratico».

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Il provveditore, percepito come  un  rappresentante dello Stato, cioè come un intermediario per la divulgazione e  l’applicazione  di  decisioni  prese altrove, si sente talvolta sfuggire il controllo della vita scolastica che  era  stato  chiamato a sovrintendere. Nel marzo 1924 manda una circolare in  cui  lamenta  che  le  notizie interne all’andamento della scuola (cerimonie locali, decessi, incidenti disciplinari  di   una   certa   gravità)   non gli   vengono  comunicate,   ciò  che  è  «indice   di  scarso sentimento gerarchico e di non lodevole indifferenza verso il sano principio della vivente unità della amministrazione scolastica regionale».

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Dal canto suo il preside del liceo, che pure mostra un ostentato disprezzo per il passato regime, sbeffeggiando un ritratto di Francesco Giuseppe, riceve da Molina, per incapacità, o per indolenza, una serie nutrita di solleciti e rimproveri perché non riesce a spendere i soldi assegnati al bilancio della scuola per l’acquisto dei mezzi d’istruzione, e lo costringe ad acrobatiche manovre amministrative per mantenere integra all’anno successivo la dotazione finanziaria.

Si ha pure l’impressione che le stesse autorità scolastiche ministeriali si rendano conto degli effetti controproducenti derivati dall’imposizione d’imperio di un atteggiamento solidale agli indirizzi ideologici del regime. Sembra mostrarlo il caso del Mussolini di Giorgio Pini, una agio-biografia del 1926, che la scuola è costretta a fornire a tutti gli alunni, attingendo dalla cassa d’istituto, su ordine del ministro Fedele.

FRANCESCO GIUSEPPE

FRANCESCO GIUSEPPE

Il preside ha già diligentemente comperato 146 copie del volume, quando riceve dal ministero un dispaccio dal tono lievemente imbarazzato nel tentare di chiarire che l’acquisto era stato presentato come caldo invito e non come obbligo vincolante.

Alla sobrietà e compostezza del concetto gentiliano della scuola non poteva non essere estraneo lo stile retorico e disimpegnato che stava a mano a mano  prendendo il sopravvento. Nella già citata circolare del 1923 Gentile chiaramente  ammoniva:  «Ora,  si  badi, non si vuole levata nessuna manifestazione che sappia di esibizione e di retorica; non si vogliono attività integrative chiassose e reclamistiche. La scuola è  sempre  raccoglimento».  Un’esortazione  che  forse  ebbe  qualche  effetto  nel  periodo  del     suo ministero, ma che rimase lettera morta dopo le sue dimissioni (1924).

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D’altra parte il fascismo, in questo campo, non inventa nulla. Di retorica roboante, lacrimosa e stucchevole son pieni gli archivi delle sacre rappresentazioni del ginnasio asburgico, le quali, però, trovano talvolta motivo di giustificazione nell’eccezionalità dell’evento  festivo.

Per ben due volte  Francesco  Giuseppe fece visita al ginnasio, accompagnato dallo spargimento di «un misto di vari fiorellini con mortella e ginestra», da petali di rosa disseminati sui gradini degli scaloni percorsi tra ali di scolari plaudenti. Queste visite, nel 1871 e 1893, del «padre affettuoso, che perdona e non punisce, soccorre e non abbandona», sono solennemente commemorate al ginnasio il 2 dicembre 1908, nel sessantesimo anniversario di regno, con la scopertura di una lapide ad memoriam, il coro dell’inno imperiale e la declamazione di  un  brano  dall’Attilio  Regolo  di  Metastasio.

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Mentre  trascorrono  gli  ultimi  anni  dell’Austria  asburgica,  le  celebrazioni  ginnasiali si fanno via via più tronfie, nel tentativo (vano) di mantenere un edificio di valori in disgregazione, che richiama il clima grottesco degli Ultimi giorni dell’umanità.

Si susseguono gli obblighi per gli insegnanti, sempre più rigorosamente impartiti, di commemorare il centenario della morte di Andreas Hofer (febbraio 1910), il bicentenario della prammatica sanctio (con la quale Carlo VI aveva garantito l’indivisibilità dei domini sotto la corona di Maria Teresa, aprile 1913), infine il centenario della battaglia di Lipsia e la  sconfitta  del  tiranno  dei  tiranni,  pateticamente ricordata  nell’ultimo fascicolo dell’ «Annuario» asburgico” (ottobre 1913)  .

ANDREAS HOFER

ANDREAS HOFER

Quasi le medesime esigenze conservative, tutte rivolte a affermare la legittimità del dominio, si ritrovano anche nei primissimi anni dell’occupazione italiana, mentre la nuova amministrazione si mobilitava, invero un po’ maldestramente, per diffondere nelle scuole l’educazione paramilitare.

Richiamando l’attenzione al passato recentissimo il governatorato mal cela la preoccupazione per la scarsa popolarità del nuovo regime. Così si rivolge, nel maggio 1919, ai dirigenti scolastici, raccomandando di celebrare con la dovuta solennità l’entrata in guerra dell’Italia:

«Gl’insegnanti coglieranno l’occasione per spiegare […] i motivi che resero necessario l’intervento italiano, per far comprendere i grandi sacrifici sostenuti dal paese, l’eroismo dell’Esercito il patriottismo dell’intera nazione. Si terrà parola dei vantaggi prossimi e remoti che la vittoria porterà indubbiamente al Paese e si insisterà soprattutto  sulla ecessità di sostenere con animo sereno i disagi economici che, in misura tuttavia assai minore del passato, può riservarci l’avvenire, considerando gli stessi come conseguenza transitoria  inevitabile del  periodo  bellico,  che  non  mancano  mai  dopo  le  grandi  guerre. Il sopportarli con fermezza è il meno che la generazione combattente possa chiedere a coloro per i quali versò il proprio sangue».

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Il motivo patriottico, raccolto con accorata partecipazione dal capo ufficio scolastico Papaleoni, si rappresenta senza parsimonia in occasione delle numerose cerimonie commemorative, durante le quali le scolaresche sono impiegate nella necessaria cornice coreografica.

I pretesti per mobilitare centinaia di studenti per le vie della città nel ruolo di comparse non mancano: traslazioni solenni di salme di caduti trentini nell’esercito italiano, visite di studenti stranieri e, soprattutto, il transito dei reali in viaggio, i quali, al contrario di Francesco Giuseppe, non si recano mai alla scuola.

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Nell’ottobre 1921 passa la coppia regale, nel novembre dello stesso anno la regina madre, che dev’essere salutata all’arrivo e in partenza, sempre da una turba di ragazzini festanti, rigorosamente con la bandiera; il fascismo riprende uno stile sperimentato e quando, nell’aprile 1924, transita il principe ereditario per un viaggio in Sudtirolo, il provveditore Molina fa le cose in grande e attiva i presidi di Rovereto, Trento, Bressanone, Bolzano, Merano e Riva del Garda disponendo che le scolaresche si allineino «col vessillo in tutti i comuni che si trovano sul percorso» della  visita. L’Associazione  pro loco «Trento  nostra»  si  occupa  della regia:

«Sarebbe bello e desiderabile che i bambini e gli scolari […] si fornissero da se stessi, ognuno, una propria bandiera tricolore da agitare al passaggio del principe, e che i più grandetti sventolassero dei fazzoletti colorati, possibilmente tricolori».

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Le visite dei Savoia nella nuova provincia trentina subiscono una battuta d’arresto col ’24, ma non per questo le attenzioni per il cerimoniale si affievoliscono. All’annunzio dell’arrivo del ministro Fedele le avvertenze del provveditorato per l’occasione assumono contorni un po’ grotteschi, tanto da raggiungere un irresistibile effetto comico:

«Per rendere più vivo il saluto delle nostre scolaresche a S.E. il Ministro FEDELE desidero che al momento in cui l’automobile che trasporta S.E. sta per giungere di fronte alla scolaresca di ogni Istituto il porta Bandiera e un capo squadra saluti alla voce col grido: PER SUA ECCELLENZA IL MINISTRO FEDELE – EIA – EIA – EIA – EIA mentre il porta Bandiera abbasserà in segno di saluto l’asta dello stendardo e gli scolari tutti risponderanno al grido  ALALÀ».

Il Ministro Pietro Fedele

Il Ministro Pietro Fedele

Questo messaggio è firmato da un funzionario minore: il provveditore Molina, che non concede nulla a esagerazioni di tal genere, sembra piuttosto impegnato nei gravosi compiti organizzativi e attento agli aspetti della formazione degli insegnanti e della didattica. Per la quale, forse, mostra persino troppa dedizione, se nel 1927, «per disposizioni di carattere generale», il ministero fa cessare le pubblicazioni del Bollettino «Schola», un periodico informativo e programmatico sulla vita della scuola trentina, pienamente partecipe dell’esperienza neoidealista, cui aveva prestato tante energie.

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Più coinvolto nel nuovo corso dell’educazione fascista pare invece Enrico Quaresima, preside del liceo dal 1927 al 1934. Ottimo linguista e glottologo, sospende tuttavia gli studi durante il ventennio. Nel periodo della sua presidenza dà alle stampe solo Del  modo di vita fascista, un centone di massime e fatti salienti dalle biografie di Mussolini pubblicato in prima battuta sull’«Annuario» del liceo e distribuito poi ogni anno a tutti gli alunni. La sua adesione al fascismo e la devozione per il  duce  sono  talmente  accorati  da  non  potere  essere  insinceri.

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Anche  Quaresima  è  un  funzionario  valoroso:  uomo  di   grande energia, eredita una scuola un po’ malandata, frutto della gestione piuttosto indolente del predecessore. Riordina la segreteria, procede a ristrutturazioni architettoniche rilevanti e a opere di manutenzione straordinaria. L’intensa attività amministrativa è affiancata dalla costante preoccupazione per l’educazione fascista e patriottica degli alunni. Il ’29, per esempio, è un anno dedicato all’acquisizione alla mitologia del fascismo locale della memoria di alcuni «precursori», i giovani liceali caduti della grande guerra con la divisa italiana e il poeta Prati.

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Il suo capolavoro nel settore celebrativo è forse l’allestimento dell’atrio della scuola come sacrario ai caduti, opera da 12.000 lire, anticipate dal fondo scolari poveri della cassa scolastica, e promesse a rimborso dalla locale Cassa di risparmio. Il ministero dell’educazione nazionale esprime un positivo riconoscimento per tale fervore, per la particolare sensibilità dimostrata dal preside in quanto al «tono morale ed educativo  della scuola», ma s’intravede, nella nota in risposta alla relazione annuale  ’32-’33, il rammarico  per  la  scarsa  attenzione  che  il  dirigente  aveva  dedicato  ai problemi della didattica.

Il prof. Adolfo Cetto

Il prof. Adolfo Cetto

Al professor Cetto, di latino, pareva una «fatalità» d’aver perso un terzo delle ore «in causa di feste, gite degli scolari, vacanze». Ma la fatalità era nell’ordine – un ordine talvolta improvvisato, talvolta avversato – del programma fascista di educazione scolastica, che via via assumeva connotati sempre più celebrativi, propagandistici e disimpegnati, sino al culmine delle celebrazioni per il decennale.

Alcuni come il provveditore Molina videro limitate la loro sfera d’influenza alle mere mansioni burocratiche, altri come il preside Quaresima imboccarono con decisione  l’unica via che a un funzionario sembrava naturale intraprendere, partecipe di  un  entusiasmo  ancora «totalitario, meno venato di riserve, di motivi critici, di preoccupazioni per il  futuro».

Il prof. Bruno Emmert

Il prof. Bruno Emmert

Altri ancora, come i valenti professori Emmert e Betta mantennero un saldo convincimento antifascista che pure ebbe la sola possibilità di manifestarsi in una dimensione tutta intima, perlopiù espressa in letture scolastiche non troppo esplicite e compromettenti.

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Nell’incapacità del fascismo di mettere a frutto il talento dei migliori funzionari, e di proporre indirizzi culturali largamente condivisi si dimostra il fallimento della politica del consenso di regime. La storiografia, ridimensionando l’enfasi attribuita all’efficacia propagandistica  dell’organizzazione  ideologica  imposta  dal  fascismo,  ha  in  realtà ben mostrato come l’azione «culturale fascista fu invece luogo di investimenti diversi e tendenzialmente conflittuali» e perciò, sovente, sterili; come il vero e profondo motivo di debolezza del regime sia da individuare nella stridente contraddizione tra l’impiego di apparati propagandistici di colossali ambizioni e il sostanziale fallimento del tentativo di formare un ceto dirigente, politico e funzionariale, davvero fedele, intimamente partecipe alla realizzazione di obiettivi condivisi.

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Un ampio divario tra le premesse delle intenzioni e il realizzarsi di queste nella vita della scuola si può osservare anche dal punto di vista più intrinseco della forma e dei contenuti dell’insegnamento, in particolare dell’insegnamento della storia e della letteratura. Se è vero che il temperamento e la qualità  dei  docenti  influiscono  in  maniera  determinante sulla tipologia della didattica, è pur certo che, per queste  materie,  assume  piena cittadinanza nell’Italia del secolo XX una maniera di porgere vaga, evocativa e piuttosto retorica, insomma disimpegnata e allusiva, tutta  disposta  intorno  a  assonanze  e  connessioni apparentemente logiche,  ma  in  realtà  casuali  e  improvvisate.

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Questa  mancanza di ordine si traduce in una congenita indisciplina interiore rispetto a questo tipo     di studi, sia da parte di chi insegna sia da parte di chi  impara:  entrambi  sembrano  rinunziare alla fatica dell’atto creativo, e perciò veramente concreto, del discorso parlato e scritto, adagiandosi su di un verbalismo astratto e perciò non formativo.

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Eppure già le prime riflessioni di Gentile sul processo dell’educazione insistevano nell’affermare la concretezza dell’atto dell’apprendere. E nel ribattere colpo su colpo  ogni posizione che gli sembrava cadere nell’astrazione il filosofo si confrontava non solo con gli atteggiamenti spiritualistico sentimentali, ma anche con la pedanteria degli schematismi naturalistici e col dogmatismo delle norme grammaticali:

«Ogni imparare è atto spirituale, […] è creazione. […] Il pensare e il pensato costituiscono una cosa sola, che è l’atto del creare, che è crearsi […] Questo creare assolutamente autonomo   importa   che   non   ci   sia   una   materia   da   imparare antecedente all’atto dell’impararla, e quindi che non ci sia la possibilità di una determinazione a priori dei fini e dei processi di ogni imparare».

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«Guardiamo innanzitutto all’astratto: astratta è la lingua, se la si consideri come semplice forma che si possa prendere a prestito dai vocabolari […] astratta la grammatica che voglia autorizzare le parti del discorso, le  regole  che  lo  governano, come se potessero esistere per sé stanti; analogamente sono astratte le regole retoriche, morali, pedagogiche, tutto il pesante fardello  delle  nostre  discipline  scolastiche […]

Allora, di fronte a quella grammatica di cui quasi possiamo riderci, di quella grammatica che ci si presenta come una catena da cui dobbiamo farci incatenare, come una legge che dal di fuori venga ad opprimere la libertà del nostro spirito […] si oppone l’idea di un’altra grammatica, che è la grammatica che è la normalità della vita dello spirito, vita di riflessione in  se  stessa;  una grammatica  che è immanente e connaturata con la nostra  vita interiore, le cui regole sono la legge interna della nostra attività espressiva.

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Rispetto a qualsiasi campo dell’educazione, dobbiamo ricordare che le regole sono l’antitesi della libertà dello spirito: ma solo in quanto esse sono regole astratte che non appartengono alla vita spirituale quale essa si realizza”.

In questo testo (la prima parte del quale è del 1911-1912), si possono percepire assonanze e punti d’incontro col pensiero educativo che in quei medesimi anni andava elaborando  John Dewey, le prime traduzioni del quale, non a caso, vedono la luce in Italia grazie all’intercessione di Giuseppe Lombardo Radice. In Democrazia e educazione (1916) il pensatore  americano  formula  critiche  al  pensiero  di  Herbart  che  forse  anche Gentile avrebbe condiviso. Il filosofo di riferimento della pedagogia asburgica, o, meglio, la sua scuola, avrebbero esagerato «enormemente le possibilità dei metodi  coscientemente adoperati»,    trascurando «il ruolo delle attitudini vitali, inconsce”.

Johann Friedrich Herbart

Johann Friedrich Herbart

Il metodo educativo fondato sul pensiero  di  Herbart «insiste sull’antico, sul passato, e non si sofferma quasi affatto su come servirsi di quello che è schiettamente nuovo, e dell’imprevedibile. In breve, prende in considerazione tutto ciò che concerne l’educazione tranne la sua essenza, l’energia vitale che cerca l’occasione di esercitarsi efficacemente»: una conseguenza necessaria dello spirito della didattica herbartiana che pensa alla «formazione della  mente  mediante  la  creazione  di  certe associazioni o collegamenti di contenuto attuati servendosi dell’oggetto presentato dall’esterno».

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Così «la formazione della mente varia a seconda degli oggetti che vi si impiegano e del loro suscitare questo o quel genere di reazione e del loro produrre questo o quell’adattamento fra le reazioni provocate. La formazione della mente è solo un problema di presentazione dei materiali atti ad    educare».

Contro la posizione di impronta positivista arroccata sulla questione del metodo pedagogico Gentile condusse una strenua e veemente battaglia in discussioni sia teoretiche sia politiche. Nella memorabile orazione pronunziata al Senato nel 1925 a difesa della riforma dichiarava:

«Altro che metodo sillabico o alfabetico, caro senatore Torraca!  per  me  la  pedagogia  è  quella che rende omaggio alle forze native, spontanee dello spirito, è quella che libera dai pregiudizi, che sottrae gli uomini alla pedanteria di quello che si  deve  fare  a  un  modo  perché a quel modo è stato fatto, quella che non prescrive nessun metodo perché il metodo  è con la vita che sempre si rinnova, giorno per giorno, momento per momento».

Giovanni Vidari

Giovanni Vidari

Eppure queste posizioni radicali, affermate anche contro i «farisei del fascismo», non preclusero momenti di collaborazione con gli avversari. Gentile mantenne, per esempio, buoni rapporti con Giovanni Vidari, herbartiano e vicino a Credaro; e proprio le terre redente furono luogo d’incontro per professori neoidealisti e herbartiani in occasione dei corsi organizzati per l’aggiornamento dei nuovi maestri acquisiti all’amministrazione scolastica regnicola.

Dopo l’esordio del 1919 l’esperienza si ripeté negli anni della prima applicazione della riforma Gentile, allorché il Trentino toccò giusto a Vidari, coadiuvato in loco da Giuseppe Giovanazzi, ispettore scolastico lombardiano, attivissimo seguace e promotore  della riforma.

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Che la scuola asburgica avesse bisogno di essere purgata da un certo spirito pedantesco l’abbiamo visto in principio, discorrendo del problema disciplinare. Anche nella pratica degli aspetti didattici si individuano però analoghe inclinazioni, concretamente rappresentate, ad esempio, in un fascicolo di 22 carte contenente una serie di rapporti del direttore al Landesschulrat, del 1906. In questo caso l’ossequio acritico e ossessivamente lealista per l’autorità superiore si esprime nel delegarle decisioni derimenti su questioni di dettaglio estremo, che l’esperienza di ogni bravo insegnante dovrebbe risolvere ordinariamente  e  quotidianamente.

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Uno  dei casi pendenti riguardava il problema  della «revisione dei quaderni dei temi, fatta durante le feste  di  Natale» e  della  scarsa  propensione degli alunni a far da soli i compiti: il collegio docenti non riusciva a pervenire a una decisione unanime, sicché il  direttore  invocava  il  supremo  giudizio  del  Landesschulrat  sulla sua proposta di «dare il tema  al  mercoledì  pel  giovedì  perché  gli  scolari abbiano meno tempo di copiare, e […] di chiamare nel giorno della correzione alla tabella lo scolare di cui si poteva esser certi che il lavoro non era suo per farlo tradurre ed indurlo a non farsi più lavorare il tema da altri, per non dover vergognarsi innanzi ai condiscepoli».

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L’interferenza e il potere di intromissione del direttore nella vita della classe appare ancor maggiore nella puntigliosità con la quale si premura di  riferire  persino  gli errori  di  grammatica:  «moltissimi  degli  scolari  mostrano  di  non  conoscere  l’uso degli avverbi, perché hanno sbagliato a tradurre venne colà, anche dei buoni scolari commettono errori imperdonabili come Athenis contulit exercito».

La risposta del Landesschulrat, d’altro canto, in uno stile insieme professorale e burocratico, propone la soluzione vagliata attraverso uno schema casuistico invero un po’ asfissiante nell’ossessione classificatoria delle  eventualità considerabili.

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Tuttavia, lasciando da parte questi aspetti «devianti» dell’apprendimento, occorre rendere merito ai progressi ottenuti dalla scuola asburgica tramite l’adozione e l’applicazione sistematica  di  certi  metodi  didattici. L’importante  riforma  di  metà  XIX  secolo, ispirata  al pensiero pedagogico di Herbart, aveva riservato un ruolo fondamentale e trainante ai «mezzi d’istruzione/Lehrmittel» (gabinetti scientifici  e biblioteche),  con l’effettivo  risultato di rendere vividi, concreti ed efficaci, almeno in certi ambiti, i processi di apprendimento.

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Si fa strada così, con sempre maggior successo, il Leitmotiv didattico dell’insegnamento intuitivo (Anschauungunterricht), un approccio alle materie  curricolari  tutto  rivolto all’esame concreto e diretto degli oggetti e dei fenomeni, disciplinato dall’esercizio continuo dell’osservazione metodica e sperimentale.

Le scienze sono il campo di applicazione più naturale e immediato di tale esperienza, ma ben presto i docenti del liceo tentano di estenderla anche ad altri settori. Sul finire dell’Ottocento si avvia presso la sezione tedesca della scuola un gabinetto archeologico, che raccoglie «Gegeständen, Modellen, und Bilder zur Veranschaulichung antiken Lebens».

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Ne è l’artefice il professore supplente Rudolf Dannesberger, che aveva preso a modello l’analoga istituzione presso lo Staatsgymnasium di Brünn e il ginnasio della K.k. Theresianische Akademie di Vienna. La sezione italiana segue l’esempio con un repertorio di «Modelli per l’intuizione della vita degli antichi», e cioè plastici, immagini murali, busti in gesso, riproduzioni varie (Palestra, Terme, Triumphzug Cäsars, Castra romana, Caesaris cum Ariovisto colloquium, Caesaris exercitus in Britanniam, cocchio di guerra omerico, torre d’assedio, tavoletta cerata, casa romana, testudini, etc.).

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Una discreta biblioteca d’impianto iconografico (RealerklärungenBilderatlas)   completa  lo  strumentario  e  funge  da  supporto  agli  alunni,  i  quali,  a     loro volta, contribuiscono all’arricchimento della collezione donando al gabinetto i frutti migliori delle loro esercitazioni. Davvero straordinari sono poi i gabinetti scientifici, amorevolmente seguiti dalla Berufsfreudigkeit dei professori-custodi, quelli di geografia, di fisica e di scienze naturali. La collezione ginnasiale di apparati e macchine da laboratorio è talmente ricca che la scuola è persino in grado di fornire al costituendo Technologisches Gewerbe-Museum di Vienna una cospicua serie di pezzi per avviare la nuova fondazione.

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Questo complesso strumentale, didattico e museologico, costituisce indubbiamente il tratto più originale e notevole della scuola asburgica. L’eredità non è né accresciuta e nemmeno accolta dalla scuola italiana, che tuttalpiù soddisfa il suo momento empirico- sperimentale con le raccolte iconografiche e proiettive per la storia dell’arte,  e  che giunge, infine, a sopprimere il gabinetto di scienze naturali per far posto a un’aula,  stante il veto dell’ONB assolutamente contraria all’utilizzo alternativo, anche provvisorio, della palestra (1936).

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Tuttavia  se   questo orientamento degli studi filologici e storici, era seguito dai docenti del ginnasio, soprattutto in quanto, a loro volta, studiosi, nella prassi dell’insegnamento non viene mai meno la tradizione storico letteraria legata alla precettistica grammaticale o alla retorica estetizzante.

Insomma per uno dei licei italiani dei domini di casa d’Austria non ci sentiremmo di sottoscrivere quanto autorevolmente affermato da Giorgio Pasquali, secondo il quale «lo studente tedesco può guardarsi intorno e può, se ne ha le capacità affrontare presto l’indagine sotto la guida di maestri che non si sentono obbligati a essere in primo luogo predicatori, come troppo spesso i professori di letteratura italiana».

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Il  motivo  dell’historia  magistra  vitae,  che  ragguaglia  la  storia  a  opus  oratorium, domina incontrastato, sia in Italia sia in Austria; anche nel liceo asburgico, la Storia civile nella letteraria di Tommaseo può assurgere a emblema di una letteratura fatta di magna exempla, intraprese edificanti e mortificazioni necessarie, una letteratura connessa a un costume d’insegnamento tutto centrato sulla declamazione e l’ascolto, che, rigettando gli antichi schematismi della precettistica del bello scrivere, dispone a una recezione passiva del testo, affatto slegata dall’attività creativamente e disciplinatamente impegnata della scrittura. Il corollario necessario, sul versante della pur praticata esercitazione scritta, è il cosiddetto e famigerato «tema di componimento», di tradizione consolidata e fortunatissima.

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Nel periodo intorno agli anni Dieci, i docenti assegnavano temi come: «Egoismo e carità», «Mentre nevica sui primi fiori», «Non s’incorona che chi combatte», oppure, con inevitabile tensione verso lo sviluppo retorico e artificioso degli elaborati, si servivano di sentenze a sfondo letterario, magari dedotte secondo una mal intesa critica crociana: «Le arti e le lettere sono il miglior vanto d’un popolo», «Il Petrarca e il Tasso nella vita e nell’opera letteraria rispecchiano il dissidio interiore della coscienza italiana sull’estremo crepuscolo del Medio Evo e al  Risveglio  cattolico  nella  seconda  metà  del  secolo  XVI».

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Durante tutta la seconda metà dell’Ottocento l’amministrazione scolastica austriaca e i settori più avvertiti di quella italiana cercarono di contrastare questa inarginabile tendenza verbalistica, senza riuscire, tuttavia, a estirparla. Nel nuovo secolo lo stesso Gentile,  assieme a Lombardo Radice, condusse una battaglia sacrosanta e agguerrita contro il tema di  componimento:

«conviene dare ai giovani il senso della inscindibile unità della forma letteraria con  la  sostanza del pensiero; senso che è bisogno di sincerità e onestà, e orrore di ciarlatanismo e     di vuotaggine. Conviene che i giovani siano invitati ad esprimere null’altro che quello che pensano […] bisogna che essi non compongano pensieri che non hanno, ma espongano quelli che hanno mercé i loro particolari studi […] li espongano per iscritto, come già li  espongano  a voce».

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Anche l’impegno della didattica neoidealista, tuttavia, s’infranse contro il muro di gomma  della tradizione secolare e gli uomini più intelligenti e compromessi non esitarono perciò a manifestare tutta la propria amarezza. In occasione del concorso magistrale per la Venezia Tridentina (1927) il commissario Giovanazzi dichiarava il suo sconcerto  dopo aver esaminato centinaia di candidati che s’erano rifugiati in vaghe e modestissime riflessioni e  non avevano capito affatto lo spirito autentico del tema d’esame («Spiegare con esempi numerosi e organici come l’ambiente locale possa essere il principale campo di ricerca e d’applicazione nello studio di tutte le materie d’insegnamento»).

Giuseppe Lombardo Radice

Giuseppe Lombardo Radice

Alcuni anni dopo, alla vigilia della morte (1938), Giuseppe Lombardo Radice osservava  sconsolato  come  una  specie di «inflazione teoretica (che, data l’immaturità mentale degli scolari, diventa verbalismo) [abbia] allontanato i giovanetti e le giovanette che si preparano  all’insegnamento dallo stesso ricordo della loro infanzia e da ogni desiderio di esperienza educativa.

Ugo Spirito

Ugo Spirito

La crociata contro la pedagogia, degenerando, ha finito col diventare abolizione pressoché totale di ogni spirito pedagogico nell’Istituto magistrale». In questo stesso periodo  Ugo  Spirito,  relazionando  intorno  agli  esami  svolti  in  uno  dei  migliori  licei  di Roma, delineava un quadro disastroso dell’istruzione classica italiana, a un quindicennio dalla riforma. Ne individuava l’anacronismo, le ambizioni sconsiderate e i risultati deprimenti:

“ …  si vuole insegnare Dante «attraverso l’illustrazione di infiniti riferimenti sporadici a un mondo medievale che sfugge nella massima parte ai più intelligenti […] parlare di inquadramento storico a chi ha nel cervello una ridda di nomi e di secoli che si confondono gli uni con gli altri […] menzogna, insomma, che si esplica nel falsare per anni e anni la coscienza degli alunni col tenerla per forza a contatto di cose troppo più grandi di loro».

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Le osservazioni di Spirito, perlopiù molto convincenti, insistevano sulle ragioni estrinseche e su quelle intrinseche della crisi della riforma. Nelle prime convergevano gli interessi contrastanti dei nemici di Gentile all’interno del regime, in alcuni settori corporativi della scuola media o dell’università e negli ambienti ministeriali; in quanto alle seconde il filosofo le riconduceva sostanzialmente al vizio di fondo dell’anacronismo, generato da un’idea ancorata a un concetto di umanesimo cristallizzato, incapace di evolversi accogliendo a pieno titolo gli stimoli della scienza e della società moderne, e infine impotente di fronte al cambiamento della stessa scuola classica, che non poteva essere considerata, poiché di fatto non lo era più, una scuola d’élite.

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Alcuni dei docenti liceali trentini evidenziano timidamente l’inadeguatezza dei mezzi di fronte all’altezza dell’obiettivo da raggiungere. Abitudini radicate, cui in verità erano forse più soggetti i professori che gli scolari, ostacolavano il nuovo stile dell’insegnare. Nelle recriminazioni del professor Cetto (1926) s’intravede qualcosa della sproporzione denunciata da Spirito, una sorta d’impotenza a realizzare l’ambizione gentiliana della comprensione veramente piena e creativa degli autori, attraverso la lettura dei testi:

« … il nuovo metodo di studio, tendente a dar sempre maggior valore e sviluppo alle facoltà raziocinative degli alunni, abituati a esercitare più la memoria che la ragione, e l’argomento stesso delle lezioni così lontano dalla mentalità moderna obbligarono a procedere nei primi tempi molto a rilento».

“Dovendo la conoscenza degli autori, soprattutto «dei maggiori, venir  appresa dagli scolari  non tanto, per così dire, per  immissione  nella  loro  mente  di  semplici  notizie  e  di giudizi già formati intorno agli stessi, quanto piuttosto per effetto di una penetrazione diretta nel  loro mondo spirituale col leggerne e meditarne le opere, sarebbero necessarie a tale scopo copiose e non affrettate letture in classe […] quest’anno l’assestamento spirituale degli scolari fu più difficile e più    tardivo».

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Vi sono, poi,  degli  evidenti  fraintendimenti  della  lettera  della  riforma. Così  interpretiamo la posizione di un docente alle prese con la didattica dell’esercitazione scritta: per  il  professor Cattaneo il lavoro sulla scrittura, il faticoso sforzo di adeguamento di una forma       al pensiero, si limita a episodiche osservazioni sull’elaborato concepito come tema d’invenzione:

« … i temi assegnati dal mio predecessore ebbero l’evidente scopo di abituare gli alunni all’imitazione, inculcando loro una lettura attenta, un’applicazione minuziosa allo studio dei diversi elementi della composizione. Io, riprese  le  lezioni  negli  ultimi  tre  mesi  dell’anno scolastico, lasciando il tema d’imitazione, proposi quello d’invenzione nel quale avessero ugualmente parte la fantasia, il ragionamento, il cuore. Nella correzione cercai fra l’altro di mettere in evidenza la struttura del periodo, una maggiore corrispondenza degli elementi formali col pensiero e maggiore omogeneità e proprietà dei vocaboli». 

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La didattica della storia procede per percorsi paralleli a  quest’idea  di  scrittura  così  prossima alla vecchia soluzione del tema di componimento. Non s’intravede traccia della profonda e sofferta meditazione crociana: nella più consolidata delle tradizioni romantico- storicistiche, lo stile della lezione è tutto centrato su motivi storiografici di genere deterministico-casualistico: «alcune letture  caratteristiche  servirono  a  porgere quell’insieme di circostanze storiche che sono la causa prossima o remota dei fatti e delle vicende umane che, come si sa, non sono mai abbandonate al caso ma sempre subordinate a  determinate  leggi e ricorsi».

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Ammettendo l’eventualità che anche da questi presupposti si possa approdare a ottimi risultati didattici, pare tuttavia che l’esito più naturale dell’impostazione sia ben rappresentato dalla risposta data al «Questionario sopra l’insegnamento della storia nei licei classici» (1927): «La storia del Risorgimento è stata trattata per intiero, fino al termine della guerra mondiale e ai più recenti avvenimenti, colla maggiore ampiezza possibile di particolari e con intendimenti altamente patriottici».

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E tale esito si può a ragione definire «naturale» perché si innesta direttamente nel solco tracciato dalla politica ideologica e culturale di regime, per il quale la mitografia dei precursori, ossia del fascismo come compimento del Risorgimento, è uno dei temi propagandistici più abusati e di più intenso impatto emotivo.

L’approccio storiografico, connesso strettamente col motivo storicista dello sviluppo progressivo a iniziare da origini più o meno mitiche, ma sempre precisamente individuate, viene piegato a rappresentare pretese propagandistiche anche a sfondo politico.

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Di presupposto in presupposto si giunge a soluzioni logiche – di una logica del tutto astratta, s’intende – dei problemi posti dalle passioni politiche, «cioè alle posizioni filosofiche implicite o esplicite, che informerebbero di sé o che accompagnerebbero, seguirebbero, l’azione politica, cioè la storia stessa». Non solo il giornalismo di opinione e la libellistica, ma anche l’accademia più accreditata giungono a posizioni inaccettabili, per non dire aberranti.

Cominciano  «sterili  convellimenti  […]  che   escogitano   il   concetto   della   Francia,   della Germania, della Spagna […]: fatti particolari e transeunti che, se tali sono, non sono, com’è chiaro, concetti da definire ma materia storica da discernere». Si fa storia, insomma, non intorno a un problema, ma intorno a una cosa, o, per dir meglio, intorno a un’immagine.

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Ciò che è singolare è che Gentile,  nonostante  le  sue  ferme  posizioni  contro l’irrazionalismo, sia naturalista sia spiritualista, abbia invece abbracciato questo indirizzo storiografico   di  matrice  ottocentesca.  Gennaro   Sasso   ha  mostrato   come  ciò  sia potuto avvenire nel corso dell’operazione teoretica di adeguamento del pensiero del filosofo all’ideologia dello stato fascista, il quale pensiero finisce per incappare in una contraddizione  interna,  a  sua volta anch’essa puramente  teoretica.

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Tale  contraddizione si esprime nella confluenza del pensiero gentiliano sulla storia, ossia sulla storia del movimento fascista, in una categoria schiettamente naturalista. Il fascismo per  Gentile  è  come la rivelazione di un’essenza a lungo rimasta nascosta; la sua storia può essere rappresentata come un processo «che si  realizza  attraverso  uno  svolgimento, avente  un  suo principio, un suo sviluppo e un suo risultato, che è come  la  rivelazione  totale  ed  assoluta dello stesso principio»; e l’attività ricostruttrice dello storico (la storiografia), pur interna al suo pensiero (anzi coincidente con la storia) e fissata in un presente eternizzato, consiste, infine, nel ricostruire una serie temporale, nel rimontare il corso del passato e nel cercare  «l’ieri  in  ogni  oggi,  ossia  l’antecedente  di  ogni  fatto».

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In questo finalismo figurale,  secondo  il  quale  l’attività  del  pensiero  è  tutta  nell’individuare  qualcosa di presunto, vi è un evidente elemento naturalistico, in radicale antagonismo con l’assoluta immanenza dell’atto puro.

Così sono poste le premesse per eleggere il procedimento causale  ad  articolazione  fondante  del  discorso  storico,  che  perciò  non  può  non  farsi irrazionale: nel senso di un naturalismo realista quando si associno in nesso causale e deterministico eventi o documenti, quando cioè si rimanga ben all’interno dei  confini  tracciati per la filologia o per la cronaca; nel senso di un  naturalismo  spiritualista quando  tale connessione è tutta risolta in proposizioni del pensiero,  fissate  in  un  quadro  estetizzante  immobile  oppure  ricorrenti  secondo  la  nota  e vecchia  posizione  teorica  delle leggi e dei ricorsi: in entrambi i casi, perciò, il discorso resta sostanzialmente privo di una vera dimensione storica.

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L’indiscussa influenza di Croce nella cultura italiana non pare abbia determinato, nella prassi didattica e nella manualistica storico-letteraria della scuola media, la recezione di uno dei motivi fondanti del suo pensiero storiografico, quello intorno al concetto di causa, che «è e deve rimanere estraneo alla storia».

La storia insegnata a scuola non può non subire prepotentemente l’influenza dell’orientamento dominante, sicché, molto spesso, si  limita  al  mero nozionismo,  o  si  adagia su vaghi atteggiamenti declamatori improntati alla libera e  indisciplinata  fantasia  delle ricostruzioni aprioristiche, sovente di esplicito  intento  moralistico. Una buona parte   dei docenti italiani del secolo XX – forse addirittura una buona parte del popolo italiano – avrebbe probabilmente sottoscritto la premessa fondamentale della guida asburgica all’interpretazione dei programmi di storia (1884): «Durch die historische Bildung blühen somit  alle  Tugenden auf».

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Con tutto ciò non si vuole affatto negare che dallo studio della storia si possano (si debbano) trarre lezioni e nemmeno escludere, per esempio, che un forte interesse morale, una calda passione emotiva e un’efficace capacità oratoria dell’insegnante possano sortire benefici effetti educativi. S’intende tuttavia evidenziare la fortuna goduta da uno  degli esiti possibili della didattica della storia e della letteratura, come è scaturito dall’applicazione della riforma Gentile.

E tale fortuna non si dové tanto a un coerente riscontro nella prassi didattica del pensiero filosofico e pedagogico di Gentile, ma piuttosto a un suo travisamento al quale paradossalmente non fu del tutto estraneo Gentile medesimo, ai contrasti e alle conseguenti opposizioni che esso suscitò, al costume ideologico imposto dal fascismo, che sul fronte della scuola raccolse, rinvigorì e infine cristallizzò tradizioni didattiche precedenti, che il neoidealismo riuscì appena a scalfire.

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La gelosa conservazione di queste tradizioni e l’incapacità di rinnovarle ha tenuto le forme dell’istruzione umanistica ancorate a posizioni educative fondamentalmente astratte, sia in quanto connesse con lo stile dell’improvvisazione retorica sia in quanto immobili «in una estenuante ed autosufficiente pratica grammaticale».

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In tale contesto anche la responsabilità dell’imparare rischia di dissolversi o di ridursi alla subordinazione esteriore nei confronti di un’autorità tutta esterna al soggetto. Questo sembra il risultato più notevole della scuola fascista: un senso di disciplina nei confronti degli studi forse meno pedantesco di quello che abbiamo osservato nel funzionario asburgico, ma forse anche meno sentito. E comunque non migliore, perché non determinato intimamente, cioè non costruito sulle scelte di una volontà libera.

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