I BAMBINI SLOVENI NEI LAGER FASCISTI

a cura di Cornelio Galas

Non c’erano solo i lager dei nazisti. Anche gli italiani, anche i fascisti durante la seconda guerra mondiale, allestirono dei campi di concentramento. Per un’analisi approfondita dell’argomento rinviamo al sito CAMPI FASCISTI molto documentato, con video, immagini, mappe, testimonianze.

Crediamo sia significativo invece dare ampio spazio al saggio storico della ricercatrice storica Metka Gombač dal titolo “I bambini sloveni nei campi di
concentramento italiani (1942-1943)”.

Metka Gombač

Metka Gombač

“Il tema dei bambini vittime della guerra – scrive la studiosa slovena – non è stato ancora esplorato a fondo. Benché nella retorica quotidiana i giovani assumano il valore di simbolo del futuro, ben poco in verità, si è indagato sulla loro condizione e sulla loro sorte in una guerra senza quartiere, come la seconda guerra mondiale.

Il diario di Anna Frank  ha forse consentito a molti di intuire di che cosa nazismo e fascismo sono stati capaci contro i bambini, ma, come si può evincere dalla storia qui raccontata,  quello di Anna fu soltanto un tassello di una tragedia molto più vasta.

La seconda guerra mondiale portò violenze e traumi ai bambini nel nordest d’ Italia (dove furono eretti campi di concentramento) e nelle regioni contigue della Slovenia e della Croazia (serbatoio di rastrellati ed internati). Da quando la Jugoslavia entrò nell’orbita dell’imperialismo italiano, tedesco ed ungherese, per i suoi abitanti non ci fu più pace.

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Dopo l’aggressione alla Slovenia (avvenuta il 6 aprile 1941) le forze dell’Asse decisero di dividersi il territorio conteso: il Reich tedesco optò per le regioni del nord (lo Stayer e la Carniola superiore), l’Ungheria per le regioni a ridosso del fiume Mura e l’Italia per le regioni che dalla Sava scendevano verso sud, verso la provincia di Fiume e verso la Croazia.

Le forze d’occupazione italiane tentarono di assimilare su un territorio di 4.450 chilometri quadrati ben 336.279  sloveni  che,  con  il  decreto reale 291  del 3  maggio   1941, istitutivo della Provincia di Lubiana (fuori da ogni legge di guerra), divennero sudditi del Regno d’Italia.

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Mussolini nominò a capo di questa Provincia due funzionari, Emilio Grazioli come Alto Commissario per le questioni civili e il generale Mario Robotti, comandante dell XI armata, per le questioni  militari.

Anche se i rapporti ufficiali delle autorità che da Lubiana andavano a Roma notificavano un’ occupazione relativamente tranquilla, l’OF, il fronte di liberazione sloveno (una coalizione formata da comunisti, da cristiano sociali e da frange dissidenti liberali), che dal 27 aprile 1941 dirigeva da Lubiana tutto il movimento  di liberazione, accertava che già nei primi giorni d’occupazione  ben  400 intellettuali sloveni e fuoriusciti dalla Venezia Giulia erano stati rinchiusi senza alcun fondato motivo.

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Era vero dunque, come riferivano i rapporti dell’OVRA, che sotto una pace apparente covava il malcontento e che gli sloveni mal sopportavano l’occupazione italiana. Anche a parere di Natlačen, Pucelj e Gosar, i  dirigenti politici dei partiti sloveni che avevano scelto di collaborare, l’occupazione da parte delle forze tedesche sarebbe riuscita più gradita dell’occupazione italiana. Stereotipi di superiorità verso i latini, stereotipi diffusi in Austria già dal tempo di Radetzky, suggerivano ai lubianesi una preferenza esplicita per il Reich.

Temistocle Testa

Temistocle Testa

Il malcontento cresceva anche a causa dei frequenti posti di blocco, dell’introduzione della lingua italiana nell’amministrazione e nella scuola pubblica e dell’impatto negativo dell’esercito con la realtà locale. Inoltre le manifestazioni di esplicito razzismo non potevano non incrinare le relazioni tra le forze d’occupazione e la realtà locale.

Dichiarazioni come quella del prefetto Temistocle Testa che gli sloveni erano «un popolo che ogni giorno di più sta dimostrando di essere quello che sempre è stato, cioè una razza inferiore che deve essere trattata come tale e non da pari a pari»,  sono un significativo esempio.

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Dopo l’attacco all’Unione sovietica, l’OF, il movimento di liberazione sloveno, proclamò la guerra armata contro tutti gli invasori, organizzando a Lubiana, ma anche in altri luoghi della Slovenia, una rete di strutture illegali tra le  quali  la Difesa popolare, il Servizio di informazioni, il Servizio per il finanziamento della lotta, il Centro di raccolta viveri e armi e il Soccorso nazionale sloveno (sulla falsariga del Soccorso rosso).

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Lo stesso schema venne ripetuto nelle città di Vrhnika, Logatec, Novo Mesto, Kočevje, Črnomelj e altre ancora, dove esistevano già alcuni gruppi di partigiani armati pronti ad agire. Per mobilitare la popolazione si istituirono sistemi di comunicazione illegali (radio e quotidiani) che dovevano creare un’ atmosfera utile al boicottaggio generale di tutte le forze d’occupazione.

Uno dei primi ordini per colpire le comunicazioni ferroviarie e stradali fu dato il 19 ottobre 1941. I gruppi armati partigiani attaccarono con successo nelle zone boschive vicino a Vrhnika il ponte di Verd e per qualche tempo tutti i collegamenti ferroviari e stradali da Lubiana all’Italia furono interrotti.

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Questa azione sorprese i comandi dell’esercito d’occupazione che reagì con una controffensiva    organizzata dal generale Robotti il quale si avvalse della sua competenza nella lotta antipartigiana.

Ma questo continuo passare al setaccio regioni intere creò tra la popolazione residente un grande disagio e un grande malcontento, da cui trasse vantaggio la resistenza slovena che andò ingrossando le file del proprio  movimento.

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Anche se i reparti armati partigiani dovettero temporaneamente ritirarsi in zone più sicure (un triangolo tra Lubiana il confine con la Croazia e la Provincia di Fiume), un mese più tardi il comando italiano constatò che le azioni partigiane si stavano ripetendo e che molte postazioni periferiche non potevano più essere mantenute.

Gli attacchi alla cittadina di Lož (19 ottobre 1941), al ponte di Preserje (4 dicembre 1942) e nuovamente al viadotto di Verd (2 febbraio 1942), sulla linea ferroviaria Lubiana – Trieste, crearono difficoltà insormontabili ai vertici dell’ esercito. Fu allora che il generale Mario Robotti pensò dapprima di regolare  i  conti con il suo concorrente per gli affari civili Grazioli e poi di mettere a ferro e a fuoco tutta la regione a sud della capitale slovena.

Emilio Grazioli

Emilio Grazioli

Nel gennaio del 1942 egli sottolineò che tutta la provincia di Lubiana, e in particolare la sua capitale, andavano considerate zona di operazioni. Consapevole del fatto che la direzione della resistenza slovena aveva sede a Lubiana, Robotti decise di porre la città sotto controllo cingendola con cerchi concentrici di filo spinato intervallati da posti di blocco superabili soltanto con lasciapassare italiani.

Sin da 23 febbraio 1942 la divisione di fanteria «Granatieri di Sardegna», coadiuvata dai carabinieri, dalla polizia e dalla guardia alla frontiera, dette il via alla cosiddetta azione di disarmo della popolazione cittadina, ossia ad accurate perquisizioni delle persone e delle  loro abitazioni.

Mario Robotti

Mario Robotti

Ogni giorno fu sottoposto a tale provvedimento uno dei quattordici settori della città e tutti gli uomini tra i venti e i trent’anni di età vennero trasferiti nella caserma Vittorio Emanuele III di Tabor per essere identificati da delatori sloveni che vestivano uniformi italiane.

Questo grande rastrellamento si protrasse a Lubiana per ben 19 giorni, fino al 14 marzo 1942, e i dati riportati nei rapporti parlano della cattura o dell’arresto di ben 20.037 persone. Anche se questa imponente serie di rastrellamenti urbani non riuscì a intaccare la struttura dirigente della resistenza slovena, molti resistenti dovettero subire un destino segnato da baracche e da filo spinato.

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Sui treni che partivano verso i campi di concentramento di Gonars, Visco e Renicci presero posto moltissimi attivisti e attiviste del fronte di liberazione, ma anche tanti e tante intellettuali ed ex ufficiali dell’ esercito jugoslavo.

Più tardi l’azione repressiva si intensificò con l’attività del Tribunale militare di guerra (TMG) che iniziò la sua attività nella primavera del 1942 con la condanna a morte di 28 partecipanti alla distruzione del viadotto di Preserje. Il TMG continuò ad operare fino all’ armistizio dell’ 8 settembre 1943.

Mussolini

Mussolini

Dopo l’ordine di Mussolini a Goriza del 31 luglio 1942, secondo cui bisognava «ammazzare tutti i maschi slavi», il II Corpo d’ Armata pubblicò, in forma riservata, un documento volto stroncare il movimento di resistenza sloveno, e cioè la Circolare 3 C, contenente le direttive per la repressione sia del movimento armato che dei civili in Slovenia.

La circolare fu firmata dal generale Mario Roatta, militare di professione, nato a  Modena  nel 1887  e comandante dal  gennaio del 1942 della II armata, quella che controllava la Dalmazia, la costa croata e le zone montane della Provincia di Lubiana. Nel 1944 Roatta fu condannato dagli alleati all’ ergastolo in contumacia.

Mario Roatta

Mario Roatta

Fu in base ai suoi ordini che l’esercito italiano effettuò una serie di massicci rastrellamenti contro la popolazione civile, che si protrassero dall’estate 1942 fino all’autunno dello stesso anno. Ben 70.000 soldati italiani dislocati sul fronte balcanico passarono al setaccio un terreno di 3.000 chilometri quadrati a sud di Lubiana, dove vennero rasi al suolo centinaia di paesi, effettuati massacri indiscriminati di ostaggi e da dove vennero mandati in internamento nei  cosiddetti «campi del Duce» circa 30.000 persone, in gran parte donne, vecchi  e bambini.

Due di questi campi di concentramento per civili furono istituiti a ridosso del fronte SLO-DA verso i partigiani, uno sull’isola di Rab – Arbe e l’altro sull’isola di Olib, altri ancora furono eretti a ridosso del vecchio confine italo-austriaco in Friuli e nel Veneto nelle località tristemente note di Gonars, di Visco, di Monigo presso Treviso e di Renicci presso Padova.

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A soffrire di più in questi campi furono senz’altro i bambini. Sembra che fino  ad ora, né la storiografia, né le testimonianze orali siano riuscite a tracciare una quadro esauriente del vissuto dei bambini, l’anello piu’ debole nella catena di  coloro che nel corso del conflitto subirono violenza.

Il bambino rimane ancora sempre fatalmente legato al mondo degli adulti, soprattutto nelle condizioni  estreme portate dalla Guerra e dall’internamento. In riferimento ai bambini che hanno subito la violenza di un campo di concentramento, si parla generalmente   di «infanzia violata», di una sindrome, dunque, indelebilmente impressa nella loro memoria.

Herman Janez

Herman Janez

Come ebbe a dire nel corso di un’intervista Herman Janež, uno dei bambini sopravvissuti sia al campo di Rab che a quello di Gonars: «dal 1952 sono ritornato a Rab per ben 52 volte per ricordare i miei parenti e tutti quelli che sono morti lì, ma anche per ritrovare un pezzo di me stesso. La mia  infanzia è rimasta  per sempre lì».

Nell’aggressione italiana alla Slovenia, anche i bambini, al pari delle generazioni adulte, pagarono il loro prezzo in termini di violenza e terrore. Conobbero fatalmente anche i rastrellamenti, gli incendi, la morte, lo stigma razziale e nazionale, la snazionalizzazione forzata e la deportazione nei campi di concentramento dove andarono incontro all’eliminazione fisica nella forma più brutale.

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Quando la guerra nella provincia di Lubiana divenne totale, gli adolescenti, assieme ai loro genitori, si ritrovarono in una condizione di disorientamento e smarrirono la propria gioventù. Qualcuno li aveva spinti in un mondo che non era il loro mondo e questo qualcuno aveva progettato per loro la deportazione nei campi  e l’incontro quotidiano con la morte.

Indagando le motivazioni di questo terrore generalizzato, ho incontrato presso l’Archivio di Stato sloveno una serie di scritti e di disegni infantili, che parlano proprio delle condizioni di vita dei bambini sopravvissuti ai campi del Duce.

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L’impulso a redigere questi scritti fu dato a questi giovani diseredati dalle autorità scolastiche partigiane nei territori liberi già negli anni 1944-45, per salvaguardare  in questo modo la memoria e la personalità di queste piccole vittime della guerra.  In una dichiarazione scritta da Drago Kaličič di dieci anni si può leggere:

“Io sono senza padre. È stato fucilato dagli Italiani. Un giorno sono entrati nel mio paese. Ci hanno fatto uscire dalla casa. Tutti piangevamo disperati ma mia mamma era quella che forse piangeva di più. Hanno preso e rinchiuso mio padre. Con lui hanno portato via tanti altri uomini.

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Poi ci hanno fatti andare in fila verso il paese di Zamost dove hanno fucilato dodici uomini. Tra questi c’era anche mio padre. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto tanto. Poi hanno bruciato la nostra casa e ci hanno portati verso l’internamento”.

I deportati, e soprattutto i bambini, conobbero una nuova drammatica realtà, quella di dover sopravvivere nei campi di concentramento, praticamente senza  cibo, con poca, pochissima acqua e in condizioni igieniche e sanitarie inumane. A causa di queste condizioni morirono nel breve, ma anche nel lungo periodo, numerosissimi adulti persero la vita e anche tanti bambini.

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La prima vittima del campo di Rab – Arbe fu proprio un bambino, Malnar Vilijem, nato a Žurge presso Čabar il 22 maggio 1942. Così scrisse nella cronica del monastero francescano di Sant’ Eufemia di Rab, il frate Odoriko Badurina: «Ieri, 5 agosto 1942, abbiamo seppellito nel locale cimitero un piccolo angelo di due mesi, Vilijem Malnar, la prima vittima tra questi internati».

La condizione degli internati variava da campo a campo. Se per il campo di concentramento per civili di Gonars in Friuli, gestito dal Ministero degli Interni, si può affermare che rispondesse a requisiti minimi di vivibilità (pacchi, posta, biancheria personale ecc.), la situazione nei campi di internamento parallelo, come li definì Carlo Spartaco Capogreco, era completamente diversa.

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Qui, gli internati, donne, vecchi e bambini, erano costretti ad una disperata lotta per  la  sopravvivenza, nascosti al mondo ed anche agli occhi indiscreti della Croce Rossa internazionale. L’esercito italiano, che gestiva questi campi (Rab, Olib), aveva già alle spalle una certa esperienza nella realizzazione di campi di concentramento; basti pensare a quelli eretti in Libia dal generale Graziani in cui trovarono la morte migliaia di internati.

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Il campo di concentramento di Rab – Arbe rispondeva proprio al modello dei campi creati da Graziani in Africa e non fu per caso che a Rab – Arbe e negli altri campi gestiti dall’esercito morirono di fame, di sete, di freddo e  di stenti migliaia di civili.

Il sistema concentrazionario realizzato dall’esercito italiano nei  territori occupati della Slovenia, per il numero dei deportati e delle vittime e per i metodi di gestione realizzati a Rab – Arbe, ricordava più i peggiori campi di concentramento africani, che non le forme di internamento degli oppositori del regime.

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La stessa presenza di vecchi, donne e bambini nei campi è illuminante a proposito. Tutti i campi realizzati dall’esercito nel corso della seconda guerra mondiale furono definiti ufficialmente «campi di concentramento». Carlo Spartaco Capogreco ha definito giustamente illegale o meglio «fuori legge» l’internamento dei civili sloveni praticato dal regime fascista dopo l’invasione della Jugoslavia.

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Invasione, che peraltro avvenne al di fuori di ogni legge di guerra con il bombardamento improvviso di Belgrado e, in seguito, con l’annessione della Slovenia all’Italia già nel corso della guerra.

Occorre anche distinguere, e in questo ci aiuta  molto l’analisi di Tone Ferenc, tra la violenza espressa in queste zone dall’esercito italiano nel 1941, violenza mirata ad obiettivi politici e militari ben definiti, e quanto avvenne a partire dal 1942, quando fu decisa e attuata una vera e propria strategia del terrore verso la popolazione civile.

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Le nuove direttive proposte da Roatta e  dagli alti comandi, in un quadro ideologico marcatamente razzista, prevedevano l’utilizzo contro i civili degli stessi metodi applicati dai nazisti sul fronte orientale: dall’incendio dei villaggi, alla fucilazione degli ostaggi, alla deportazione in massa in campi di concentramento per creare il vuoto attorno alle forze partigiane.

In questo quadro non dovrebbe sorprendere che il tasso di mortalità registrato nel campo di concentramento di Rab – Arbe, a causa della fame, del freddo e delle spaventose condizioni igenico – sanitarie, sia stato per lunghi periodi superiore a quello dei peggiori campi di concentramento nazisti, se si escludono quelli di sterminio.

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La differenza consiste solo nell’assenza di camere a gas e di crematori, sostituiti però da condizioni di vita insopportabili, di cui, ovviamente, furono i bambini le vittime principali. Si tratta in ogni caso di morti che non possono essere attribuite a fattori casuali e non previsti, come potrebbero esserlo le espidemie in conseguenza del sovraffollamento.

L’alto numero dei decessi è il risultato di decisioni prese a tavolino, nel momento in cui si programmava, ad esempio, un vitto del tutto insufficiente. Ciò avveniva, sia per non sottrarre risorse all’esercito, sia per rendere i prigionieri più deboli e quindi più controllabili con il minor impiego di truppe.

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Non si condanna a morte, quindi, ma si lascia morire, e questo non solo nell’inferno di Rab – Arbe. A morire per primi furono i bambini, sia quelli giunti con le tradotte, che quelli nati nei campi. L’internamento e la morte dei neonati venivano considerati dai vertici dell’esercito un collateral damage, da non prendersi seriamente.

Le rubriche ufficiali del campo di Rab – Arbe distinguono i decessi unicamente secondo il genere. Se non fosse per i documenti d’archivio e  per le testimonianze dei sopravvissutti, non saremmo mai riusciti a sapere che le vittime più numerose del campo di Rab – Arbe furono proprio i bambini. Questi arrivavano al campo con i genitori o, se orfani, con parenti o conoscenti. Così Herman Janež, che nel 1942 aveva 7 anni, ricorda l’arrivo a Rab – Arbe:

Dalle nostre montagne ci hanno trasportato fino a Bakar, un’ insenatura a sud di Fiume, dove abbiamo dormito all’ addiaccio. Mio nonno stette tutta la notte a ripetere che ci avrebbero buttati in mare.

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“Il giorno seguente partimmo senza sapere dove ci portassero. Giungemmo a Rab, dove ci divisero per sesso e per età. Praticamente ci avevano diviso definitivamente. Io che ero senza madre dovetti lasciare mio padre e mio nonno per andare nella parte del campo riservato alle donne e ai bambini.

La paura di restare solo mi fece urlare e piansi così fino al giorno successivo, quando mi trasferirono in un campo intermedio. Mio padre non l’ ho più avuto vicino e soltanto a Gonars mi riferirono, alcuni mesi più tardi, che era morto. Dormivamo in tende vecchie e logore che facevano passare l’acqua e dove si entrava  a carponi.

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La latrina era molto lontana e di notte facevamo fatica a raggiungerla. Nel caldo torrido dell’estate non si poteva trovare alcuna ombra. Pativamo la sete, la fame e l’attacco di una moltitudine indicibile di pidocchi. Il ruscello che scendeva dal campo maschile e attraversava il nostro campo era pieno di pidocchi e non ci si poteva lavare.

Quando arrivava  la cisterna dell’acqua le guardie si scostavano e noi ci buttavamo come pazzi su quel fievole rivolo d’ acqua. Quando pioveva il campo diventava una distesa di fango impercorribile. La sporcizia ci faceva impazzire”.

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Quando nella notte dal 28 al 29 settembre 1942 un nubifragio travolse il campo femminile e l’acqua di mare salì fino alle tende, molti bambini morirono scomparendo nei flutti.

Le autorità del campo non fecero niente per salvare gli internati, ma dopo un po’ incominciarono i trasferimenti nel campo superiore chiamato Bonifica e le tende vennero sostituite da baracche. Poiché la mortalità aumentava di giorno in giorno, le autorità militari, verso la fine del 1942, decisero di trasferire i bambini e le donne più provati in altri campi di concentramento, come quelli di Gonars e di Visco.

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Una sopravissuta, Marija Poje, che oggi ha 84 anni e vive a Podpreska vicino a Draga, nelle vicinanze di Loški potok, e che trascorse 5 mesi infernali al campo di Rab – Arbe con il suo bambino, ricorda così il trasferimento a Gonars:

“In una mattina fredda e piovosa di dicembre ci hanno fatti salire su una nave stracolma che avrebbe dovuto trasportarci non si sapeva dove. Quel giorno fuori dal porto si vedevano le onde alte e burrascose. La stiva era stipata da tantissima gente, però qualcuno ebbe pena di me e del mio bambino e ci fece sedere nella stiva riparati dalla pioggia e dall’acqua di mare.

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Giungemmo a Fiume la mattina seguente, infreddoliti e affamati. Ci diedero una tazza di caffè e un pezzo di pane, prima di farci salire sul treno che ci trasportò fino a Palmanova. Poi con  dei camion venimmo trasportati al campo di concentramento di Gonars dove ci misero nelle baracche. Per noi era una meraviglia sentire la pioggia e rimanere asciutti, perché a Rab, se pioveva, anche stando nelle tende eravamo tutti bagnati.

Ci portarono poi in infermeria per disinfestare i nostri vestiti dai pidocchi e farci fare la doccia. Chiesi a qualcuno che stava lì dove dovevo posare il mio bambino prima di entrare nel reparto docce e mi dissero di posarlo su un mucchio di stracci per quel po’ di tempo. Ma appena entrata nello stanzone qualcosa mi fece uscire per vedere se il mio bambino fosse sempre lì.

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Mi si strinse il cuore, quando vidi che non c’ era più. L’inserviente alla fornace a vapore dove passavano i vestiti  per  disinfestarli dai pidocchi aveva preso il mucchio dove avevo posato il bambino gettandolo nella stufa. Per fortuna non l’aveva ancora attivata e un gemito si sentì proprio in quella direzione.

Corsi verso quella stufa a vapore come una matta riprendendomi il mio bambino. Mia suocera mi aiutò molto, asciugando i pannolini bagnati sulla schiena. Ma alla fine questo ambino non sopravvisse e non sopravvisse neppure mia suocera e neanche il bambino che dovevo ancora partorire”.

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Nel campo di Gonars, dove dal 1942 erano passati molti internati della  provincia di Lubiana, l’arrivo di centinaia di questi poveretti provenienti dal campo di Rab – Arbe (i miserabili di Rab) provocò un profondo sconvolgimento tra gli internati del campo.

La vista di quegli scheletri ambulanti provocò in molti un intenso sentimento di compassione e diede impulso a gesti di solidarietà. Molti cercavano di aiutare i superstiti di Rab dando loro il cibo che arrivava  dall’esterno con i pacchi, o capi di vestiario vecchi, oppure semplicemente fornendo  loro notizie fresche.

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I volti di quei bambini ammutoliti, che restavano fermi negli angoli per giorni interi senza muoversi, restarono impressi non solo nei disegni del pittore Stane Kumar, ma anche nella memoria di tanti internati, bambini  compresi.  Ricorda nel suo scritto Milan Cimprič di 9 anni:

“A Gonars si pativa una tale fame che faccio meglio a non pensarci. Mangiavamo anche le bucce che i cuochi buttavano nella fossa delle immondizie. Una volta siamo caduti tutti quanti in questa fossa e io ero sotto. Gli altri sono cascati sopra di me. Avevo male alle ossa. Ho trovato poche bucce. E’ stato così triste a Gonars”.

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Queste memorie infantili scritte in pieno tempo di guerra sono toccanti anche per il loro linguaggio semplice, senza abbellimenti, ma con l’aggiunta di disegni e schizzi che vorrebbero rappresentare quei piccoli episodi di felicità o di paura che si erano fissati nella memoria dei bambini durante la permanenza nel campo di Gonars.

La vita degli adulti nei campi era assorbita dai tentativi di arrangiarsi e sopravvivere. Ma era difficile non vedere che la sofferenza dei bambini aumentava di giorno in giorno.

I bambini più provati erano soprattutto quelli senza genitori, benché si trovasse sempre qualcuno che prendeva il loro posto. Stane Kumar, noto pittore sloveno anch’egli internato, aveva pensato di alleviare il proprio dolore facendo degli schizzi ai bambini affamati sia nel campo di Rab – Arbe che in quello di Gonars.

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Nelle sue memorie parla della terribile fame che rendeva i bambini apatici e anemici:

“Ho visto la fame della prima guerra mondiale, ma quella non era fame vera. Quella veramente reale era la fame nei campi dove ad ogni passo ritrovavi due paia di occhi che ti chiedevano di sfamarli, di dar loro qualcosa da mangiare. I bambini diventavano ottusi e stavano seduti negli angoli delle baracche senza parlare. Morivano in tanti di fame e tu non potevi far niente”.

Che i bambini fossero l’anello più debole della catena dei diseredati finiti nei campi di concentramento italiani, lo conferma l’«amnesia» della direzione dei campi stessi, che dimenticò di annotare, tra i 25.000 internati sloveni, il numero dei bambini che fecero il loro ingresso nel campo, il numero di quelli che vi nacquero e che vi persero la vita.

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Alcuni dati sporadici della fine di agosto del 1942 parlano, per il campo di Arbe, di 1000 bambini sotto i 16 anni, mentre per il campo di Monigo presso Treviso i dati a nostra disposizione per il 1943 parlano di 979 bambini su 3.188 internati.

Anche se sulle deportazioni e sull’occupazione italiana della provincia di Lubiana, esiste oggi in Slovenia una vasta documentazione, molti dati sui campi sono tuttora irreperibili, sia per la fretta con la quale le forze d’occupazione lasciarono la Slovenia, sia perché le autorità, nella loro ignominia, non badavano troppo alle cifre dei vivi o dei morti, degli arrivi e delle partenze, delle nascite e dei decessi nei campi.

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Per una riflessione su queste reclusioni  forzate ci restano le testimonianze dei sopravvissuti e i componimenti dei bambini ai corsi scolastici organizzati nei territori liberi partigiani:

“Erano corsi – ricorda Herman Janež – che venivano organizzati proprio in questa stagione 60 anni fa. E’ giugno. Le giornate sono lunghe e calde. Siamo gli alunni delle scuole partigiane di Podpreska, di Draga, di Trava, di Osilnica sul fiume Kolpa.

Le lezioni vengono tenute quando non ci sono rastrellamenti in corso. Soprattutto a Podpreska e a Draga. Maestre pronte al sacrificio ma umili e gentili vedono davanti a sè nelle classi improvvisate i volti di questi alunni già provati seriamente dalla tragedia dei campi, segnati per tutta la vita. Noi siamo i bambini della guerra.

Le lezioni ormai si svolgono tutto l’anno dal gennaio 1944 in poi. Si svolgono nelle case risparmiate dalla guerra, nelle camere dei contadini locali  dove troneggiano stufe di terracotta enormi che mai si spengono. Qui siamo a 1000 metri d’altezza   e le patate appena crescono.

Dopo aver "marciato" su Bolzano provocando i noti fatti dell'ottobre del 1922, i fascisti sfilano per le vie di Trento nel tentativo di intimidire la popolazione e di farsi credere più forti

Gli occhi dei bambini sono grandi. Sono vestiti malamente e in generale sono tutti scalzi. Qualcuno li accompagna a scuola e qualcuno viene a riprenderli. Sono tanti, ma la maestra Nada Vreček del paese di Trava, numero civico 96, è la maestra con il maggior numero di alunni.

Tra loro ben 74 sono senza padre. O è morto a Rab o è stato fucilato come ostaggio. Soltanto uno è stato fucilato dai partigiani. La maestra Nada è in continuo movimento, ora per ora, giorno per giorno, perchè le lezioni si tengono in case diverse. Gli alunni sono stati assenti da scuola per due anni e allora si capisce che c’ è ancora tanto da fare.

Una volta forse scoppierà la pace e allora voglio, diceva Nada, che siate alla pari con queli che non hanno perso 2 anni di scuola. Queste scuole improvvisate non hanno né lavagne né banchi e i bambini sono senza libri e senza quaderni. Rifanno la materia  a memoria.

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Se qualche gruppo partigiano attraversa il paese, si rimedia una o due matite, che vengono attentamente tagliate in 3 pezzi, per essere poi divisi tra gli alunni. Questi scolari, questi «miei poveri bambini», diceva sempre Nada, un giorno diverranno adulti. Si dovranno promuovere in una società che non ricorderà i patimenti patiti.

Un giorno sarete tutti uguali e Dio vi benedica per questo, ma attenzione, nessuno vi darà dei privilegi per quello che avete patito. Quelli che sopravviveranno dovranno lottare per il pane quotidiano. La maestra Nada Vreček ha insegnato per 54 anni.

Oggi è nel suo novantaseiesimo anno di età. Ancora oggi è solita ripetere che «gli anni passati tra questi bambini sono gli anni piu’ sentiti della mia vita e non vorrei mai dimenticare nessuno tra loro.

Ma noi eravamo pieni di paura. Eravamo  ancora abbastanza magri e non potevamo stare mai fermi. C’era ancora la guerra, molte case erano ancora allo sfascio, gli ex internati erano ancora privi di tutto. Si temevano soprattutto i collaborazionisti, che si facevano vedere soltanto quando non c’erano partigiani in circolazione.

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Si sapeva che la loro comparsa era accompagnata dalla morte. Si facevano chiamare «quelli della mano nera» ed erano veramente pericolosi. Per non mettere in  difficoltà la nostra maestra, alla loro comparsa cantavamo canzoni di chiesa e al saluto provocatorio di «morte al fascismo» rispondevamo «buon giorno signori». Parlavamo molto tra noi. Soprattutto alla sera si parlava dei patimenti subiti, dei nostri genitori scomparsi, della fame e della sete.

Noi bambini internati avevamo sempre molto da raccontare. A volte queste storie venivano soffocate da un pianto sfrenato al quale seguiva il pianto di tutti noi. Rivivevamo così la nostra tristezza, la nostra paura e il ricordo dei nostri cari. Vivevamo assieme la nostra grande miseria umana, che qualcuno pensò sarebbe bene esternare e farci passare così il trauma subito”.

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Negli scritti e nei disegni dei bambini internati conservati presso l’Archivio di Stato di Lubiana si può intravvedere questo trauma della fame e dell’inedia a cui si univa l’inclemenza della natura.

I maestri che proponevano i temi e che poi di volta in volta annotavano i voti sui fogli, erano essi stessi dei sopravvissuti ai campi e qualcuno di loro aveva perduto in quell’inferno il proprio bambino o uno dei suoi cari. Erano dunque le persone più adatte per accogliere il dolore dei bambini  passati nei campi e comprendere i loro traumi.

Essi sapevano che quelle tende, di volta in volta fradice e surriscaldate, non sarebbero mai scomparse dalla memoria dei bambini e che le esperienze narrate nello scritto di Ivan Štimec  di 10 anni non si sarebbero mai cancellate:

“Siamo stati deportati a Rab. Abbiamo vissuto in tende vicine al mare. Dormivamo sulla terra nuda. Una notte mentre dormivamo, il vento incominciò a soffiare ed incominciò a piovere. L’alta marea era cresciuta e l’acqua ci arrivò fino alle ginocchia.

Abbiamo pianto e chiamato aiuto. Volevamo scappare, ma le guardie non ci lasciarono uscire dal recinto. Il mare continuò a crescere e molti bambini morirono annegati, mentre i nostri vestiti furono trascinati via dall’ acqua. La mattina dopo la burrasca si calmò e uscì il sole asciugando e scaldando i nostri corpi, scossi dal freddo e dalla paura”.

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La serie dagli scritti infantili continua con i ricordi delle delle cose belle e calde legati al tempo antecedente la distruzione dei paesi. I bambini rivedono le mucche lasciate sole a casa, o il viaggio verso l’isola di Rab – Arbe, o le cose di casa, il fuoco nel cammino o la casa stessa. Come scrisse Vera Cimprič di 9 anni:

“Sono stata internata per 9 mesi. Pensavo spesso alla mia casa perduta. Ma quello che mi  faceva piu’ male era il pensiero del nostro bestiame. Quelle che preferivo erano le mucche, perché ci davano tanto latte. Si chiamavano Ruska e Breza.

Quando dovevo pascolarle, pensavo che era difficile pascolare sempre le mucche. Ma durante l’internamento dove non avevamo né da mangiare né da lavorare, pensavo a quanto fosse bello essere sazi e pascolare. Dio, fa’ che possiamo avere ancora del bestiame”.

In tutti questi scritti la morte è onnipresente: si ricorda un coro che canta sulla fossa di una sorella morta o una scatola di cartone contenente il corpo di un amico ridotto ad uno scheletro. Come scrisse Mrle Slavka di 9 anni:

“Tutti ci chiamano internati perché siamo stati internati. Siamo stati a Treviso. Avevamo tanta fame. A Treviso e’ morto mio fratello. Avevo ancora un fratello. Quando è ritornato dall’internamento è morto all’ospedale di Sušak. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto molto”.

Durante le grandi manovre del 1935: Mussolini e gerarchi fascisti a Cles

Accostando le storie dei bambini ai dati d’archivio si può intravedere una realtà agghiacciante. Come riferiva il generale Giuseppe Gianni, da luglio a novembre 1942, a Rab – Arbe morirono ben 104 bambini.

Davanti a questi fatti le autorità italiane d’occupazione presero due decisioni: la prima ordinava l’evacuazione di donne e bambini da Rab – Arbe verso il campo di Gonars, la seconda ordinava ad una squadra di fotografi di documentare le condizioni di vita nel campo. Da Rab – Arbe a Gonars furono trasferiti tra il 21 novembre e il 5 dicembre 1942 ben 1.163 donne, 1.367 bambini e 61 uomini adulti.

L’ 8 settembre 1943 il regio esercito italiano si dissolse. Dalla Slovenia e dalla Jugoslavia lunghe colonne di militari disarmati presero la via dell’Italia e anche i campi di concentramento aprirono le loro porte. Come ricorda Marica Malnar di 10 anni:

“Siamo stati internati a Treviso, avevamo fame e in inverno pativamo il freddo. Parlavamo sempre di come era bello a casa. Volevamo andare a casa. Un giorno i soldati entrarono   nella nostra camerata e ci dissero che saremmo tornati a casa. Lo stesso giorno siamo partiti verso casa. Questo è stato per noi un giorno felice”.

Nelle colonne che partivano dai campi, i bambini orfani venivano accompagnati da parenti o gente comune, che davano loro una mano, un pezzo di pane o di rapa. Attraversando passo dopo passo il Friuli, qualcuno rivolgeva loro la parola  e offriva un piatto di polenta.

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Al momento del ritorno a casa videro tanti edifici bruciati, le stalle distrutte e i fienili sfondati. Gli ex internati,  malridotti  e  affamati, dovettero organizzarsi da soli. Un grande senso di solidarietà permise a questa gente di sopravvivere, ma alla fine dovettero rivolgersi ai comandi partigiani, che erano però impegnati a fronteggiare una pesante offensiva tedesca.

Soltanto più tardi i reduci dei campi ebbero un aiuto concreto dalle organizzazioni civili della resistenza che si erano organizzate nelle zone libere. Si provvide prima di tutto ai bambini orfani e a quelli che erano rimasti senza casa, senza parenti o senza altre possibilità. A molti di questi bambini l’organizzazione delle donne antifasciste (AFŽ) e l’organizzazione della gioventù socialista permisero di raggiungere regioni non devastate dalla guerra e in cui si era istituito un servizio scolastico.

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L’organizzazione del Fronte di Liberazione Sloveno aveva pensato di organizzare il servizio scolastico già dal 17 maggio 1942 attraverso l’emanazione di un decreto che prevedeva l’organizzazione della scuola nei territori  liberati. Accanto alla lotta armata il movimento di liberazione cercava di organizzare anche la vita civile: scuole, ospedali, un istituto di credito e uno giuridico.

Nelle zone libere della Kočevska, lontano dalle vie di comunicazione, si era pensato di far funzionare uno Stato partigiano in alternativa a quello di occupazione. La scuola partigiana si sviluppò in tre fasi. Nel 1942 l’organizzazione della vita scolastica fu un progetto limitato, nato dall’iniziativa di alcuni maestri dei reparti partigiani che avevano pensato di istituire dei corsi scolastici per bambini delle scuole elementari locali.

Più tardi, dopo la capitolazione dell’esercito italiano e dopo la formazione di vasti territori liberi, l’organizzazione scolastica partigiana divenne oggetto di una normativa da parte del Fronte di Liberazione che a partire dall’ autunno del 1944 organizzò la scuola in settori distrettuali e circoscrizionali.

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La popolazione locale collaborò al buon funzionamento della scuola. Si pensò inoltre di istituire corsi supplettivi per chi era privo di istruzione e di articolare meglio il lavoro dei maestri che si svolgeva in condizioni tanto difficili. Per dare un senso a tutti questi sforzi, si pensò anche di organizzare un concorso in componimenti che avrebbero dovuto compattare il tessuto sociale di quanti avevano provato tutte le paure e i traumi della guerra.

La sezione scolastica dell’ OF promulgò allora un bando nel quale si invitavano gli alunni delle scuole partigiane a scrivere la propria storia sui  patimenti vissuti nei tre anni di guerra.

I temi del concorso dal titolo «I bambini ci parlano»  e «I bambini  nei campi di concentramento» volevano far  ripercorrere   a questa generazione perduta la via delle sofferenze patite per ricucire il trauma e rielaborare l’esperienza.

È così che si sono conservati questi scritti e questi disegni. Sono documenti che parlano delle violenze subite dal punto di vista dei bambini coinvolti in questa tragedia. Anche se le disposizioni del bando recitavano «che bisognava esimersi  dal patetico», gli scritti e i disegni conservano una non comune forza espressiva.

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La commissione che valutò gli scritti premiò tutti gli autori in blocco senza prendere  in considerazione gli errori di ortografia o di sintassi. Bogomir Gerlanc, che aveva raccolto gli scritti migliori, li definì «dei piccoli monumenti dedicati ai patimenti e alle sofferenze subiti».

In questo senso vorrei riproporre alcune riflessioni del maestro Bogomir Gerlanc, che tanto ha fatto per far uscire le piccole vittime dal trauma dei campi e ad inserirle nella vita quotidiana:

  • siano questi scritti un documento del loro passato e delle sofferenze patite
  • siano d’aiuto alla pedagogia ed alla sociologia nello scoprire l’animo della gioventù in condizioni estreme di sopravvivenza
  • siano un documento d’accusa della bestialità umana
  • siano una pagina incancellabile della sofferenza nel tempo che corre inesorabile.

Nel campo della salvaguardia degli adolescenti in tempo di guerra, la resistenza slovena aveva dato prova di una grande capacità organizzativa già dal 1941 in poi. Si era pensato già allora di organizzare un sistema di copertura illegale  per  i membri più giovani delle famiglie impegnate nella resistenza.

I figli di coloro che  si erano dedicati completamente alla lotta di liberazione venivano affidati a  famiglie che si occuparono di loro per tutta la durata della guerra. Chi finiva in carcere o in campo di concentramento, o veniva incluso nelle formazioni armate partigiane poteva contare su un vasto reticolo di famiglie che avevano il compito di badare ai loro figli.

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Per questa generazione di 200 – 300 bambini si adoperò già allora il nome di «ilegalčki», cioè di bambini nati e vissuti nell’ illegalità. Come supporto logistico venne affiancata a questa rete di famiglie l’organizzazione del Soccorso nazionale sloveno, erede del Soccorso rosso, organizzato dai comunisti tra le due guerre.

Soprattutto nelle grandi città il Soccorso nazionale sloveno formò nel 1942 delle sezioni che dovevano andare in aiuto a tutti i giovani in pericolo, pensare a procurare loro documenti falsi, aiutarli in caso di malattia, vestirli, sfamarli, nasconderli, ecc.. Dall’estate del 1942 fino alla fine della guerra, ad organizzare questa rete furono Ana Ziherl e Ada Krivic.

A guerra finita Ana Ziherl scrisse le memorie dell’avventurosa vicenda della resistenza slovena e consegnò inoltre all’Archivio di Stato tutta la documentazione del movimento.  Per organizzare  questa  attività  la  Ziherl si serviva  di  quattro aiutanti,  che coprivano uno dei quattro settori di questa organizzazione illegale, il cosiddetto settore bambini.

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Il gruppo poteva usufruire di una serie di magazzini illegali, dove  venivano conservati i mezzi necessari per far fronte a questo impegno. Il settore bambini provvedeva anche ai bisogni quotidiani delle donne e dei loro figli rinchiusi nelle carceri ed arrivò a dar vita a delle dimostrazioni per proteggere le famiglie rinchiuse o destinate ai campi di concentramento.

La prima dimostrazione si svolse nella primavera del 1943 davanti alla sede dell’Alto Commissario Grazioli e la seconda nell’estate dello stesso anno davanti alla sede arcivescovile. Dopo le grandi retate del 1942, Lubiana restò praticamente senza uomini abili per la lotta clandestina. Allora furono le donne a prendere il loro posto ricoprendo tutti i ruoli di maggiore responsabilità nella resistenza slovena.

Come si è detto, la recrudescenza della guerra fece sì che Lubiana fosse circondata da un filo spinato lungo 34 chilometri con posti di blocco, bunker e fortezze, con postazioni di mitragliatrici pesanti.

L’organizzazione del Soccorso nazionale, alla quale si rivolgeva un numero sempre maggiore persone, decise che per superare questa crisi si sarebbe dovuto aumentare il numero delle famiglie incaricate della protezione e che alcuni dei bambini avrebbero dovuto prendere la via dei territori liberati.

Secondo le testimonianze e gli studi condotti sulla base di documentazione archivistica si può dedurre che per aiutare i bambini nell’illegalità fosse stata messa in piedi una rete di 300 famiglie lubianesi che non  fu  mai scoperta né dalle forze fasciste né dai nazisti né dai collaborazionisti.

A formare questa organizzazione erano persone di estrazione sociale diversa, persone sole o famiglie intere, anziani, medici, contadini, artigiani nubili e sposati. Dagli studi risulta che tra tutti questi bambini vissuti nell’illegalità per più di quattro anni a morire sia stata soltanto una bambina.

Ma la morte di una persona non può rendere l’idea delle conseguenze patite da tutti questi bambini sui quali hanno pesato le assenze dei genitori, la paura delle retate diurne e notturne, il vivere  costantemente nell’illegalità per due, tre o quattro anni. Questa generazione, provata dalla guerra forse in un modo diverso, ha dovuto affrontare i propri traumi ripercorrendo  nella memoria la tragedia di una gioventù violata.

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Una storia tipica di questo periodo è la storia di Tatjana Dovč. Sua madre, che  fu sindacalista e membro del partito comunista, partorì la bambina nell’agosto del 1941 nel reparto di maternità dell’ospedale di Lubiana.

Con l’aiuto del Soccorso nazionale sloveno riuscì ad eclissarsi, mentre la bambina fu «rubata» da una attivista e fatta uscire dall’ospedale dentro una comune sporta per la spesa. La mamma, Angela Ocepek Dovč, ricercata dalle forze dell’ordine, cambiò in quattro mesi ben 15 nascondigli riuscendo a salvarsi e a salvare la bambina. Più tardi si divisero e la bambina cambiò residenza ancora 20 volte.

Come appare chiaramente dal materiale consultato e presentato in questo studio, sul tema  dei bambini sloveni in  tempo  di  guerra  le fonti  d’archivio primarie e secondarie sono ricche e numerose.

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Questi documenti si trovano soprattutto nella Sezione II dell’Archivio di Stato della Repubblica di Slovenia. La Sezione II trae le sue origini dall’archivio dell’Istituto per la storia del movimento operaio (oggi Istituto di storia contemporanea) che venne fondato nel 1959 come un’istituzione complessa, formata da un reparto di ricercatori e da un reparto che copriva i fondi d’archivio riguardanti la resistenza slovena.

Questo archivio venne completato più tardi con fondi originali provenienti del funzionamento in loco delle istituzioni delle forze d’occupazione della Slovenia, sia di quelle italiane che di quelle tedesche (440 m.c.) e dall’archivio delle forze collaborazioniste.

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Esiste inoltre una sezione del primo dopoguerra (1945-47), costituita soprattutto dalla documentazione inerente alle questioni di definizione dei confini (la questione di Trieste) fino alla conferenza della pace di Parigi e da una vasta documentazione sull’ Adriatisches Kuestenland. Ai fondi d’archivio si accompagna un vasto repertorio di memorie e testimonianze, archivi personali di politici in vista, una vasta collezione di carte geografiche e di cartelli e bandi pubblici.

L’archivio legato alla resistenza slovena veniva a costituirsi man mano che l’amministrazione partigiana cresceva e si sviluppava. Nelle zone libere funzionò dall’inizio del 1944 in poi un Istituto di ricerca, diretto da Fran Zwitter, che dispose che tutti gli organi di ogni grado e di ogni livello conservassero e archiviassero la documentazione pubblica, civile e militare, interna ed estera.

Il governo partigiano sloveno (SNOS) promulgò nel gennaio del 1945 una legge di tutela per gli archivi, le biblioteche, i monumenti artistici e naturali (Gazzetta ufficiale NOS).

La Sezione II dell’Archivio di Stato della Republica di Slovenia è il diretto continuatore di questo lavoro e con i suoi 1.300 metri consecutivi di materiale archivistico costituisce uno dei più importanti e ricchi archivi sulla resistenza e sulle guerre di liberazione in Europa e nel mondo.

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Il materiale in questione può essere molto interessante sia per i ricercatori di lingua italiana che per quelli di lingua tedesca, perché conserva i materiali originali di queste due amministrazioni sul territorio sloveno.

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