2ª GUERRA MONDIALE, SEGRETI AMERICANI – 5

a cura di Cornelio Galas

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La propaganda non è semplice, come si crede, un gioco di parole combinato da spiriti maligni per ingannare o adulare, per calmare o spaventare. La vera propaganda è quella che annuncia o minaccia l’azione e in tal caso l’azione deve seguire immediatamente, altrimenti la propaganda si ritorce su se stessa.

Visita ufficiale di Hitler a Roma nel 1938; sul palco in prima fila da sinistra: Benito Mussolini, Adolf Hitler, Vittorio Emanuele III, Elena del Montenegro; in seconda fila, da sinistra: Joachim von Ribbentrop, Joseph Goebbels, Rudolf Hess, Heinrich Himmler

Visita ufficiale di Hitler a Roma nel 1938; sul palco in prima fila da sinistra: Benito Mussolini, Adolf Hitler, Vittorio Emanuele III, Elena del Montenegro; in seconda fila, da sinistra: Joachim von Ribbentrop, Joseph Goebbels, Rudolf Hess, Heinrich Himmler

La distruttiva propaganda nazista, la strategia del terrore, non solo fu una creazione della ditta Goebbels e C.; fu sostenuta da tutta una serie di fatti: epurazioni sanguinose, pogroms, riarmo, senza contare gli annuali pellegrinaggi di Norimberga e l’adorazione della forza, i campi di concentramento, la realtà delle quinte colonne operanti con impudente e sprezzante sincerità dietro le frontiere delle vittime designate in tutta Europa e nell’emisfero occidentale; e, infine, l’improvvisa applicazione di quella forza schiacciante e la prova della futilità d’ogni resistenza.

Hitler che fa il suo balletto sulla tomba dell’armistizio del 1918; Hitler che rende un magnanimo tributo d’omaggio alla tomba del suo antico collega, Napoleone Bonaparte: questi, gli avvenimenti salienti che fornivano il massimo aiuto alla propaganda nazista. Se fosse bastata la strategia del terrore a conquistare il mondo, Hitler non avrebbe avuto da temere alcuna battaglia futura.

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Ma vi sono popoli che è pericoloso allarmare, primo fra tutti il popolo britannico, secondo, quello russo e infine l’americano. Uno dei più forti e persuasivi fautori della propaganda nazista fu, per quanto involontariamente, il famoso eroe americano, colonnello Charles A. Lindbergh. In seguito alla sua tragedia personale e al rifiuto della stampa scandalistica (che era anche la stampa più accesamente isolazionistica) di permettere a lui e alla sua famiglia di condurre una vita tranquilla, Lindbergh era vissuto per parecchi anni in Europa, prima della guerra.

Charles Lindbergh

Charles Lindbergh

Aveva toccato con mano la debolezza dell’Inghilterra di Baldwin e di Chamberlain, la caotica discordia della Francia e le apparenti deficienze dell’industria russa, in confronto con la superba organizzazione e irreggimentazione della Germania di Hitler e di Goering, che alla sua mentalità di teorico, presentava un modello di grande efficienza. Gli fu data da Goering ogni facilitazione per studiare piani e modelli della potente Luftwaffe.

E poiché aveva un eccezionale intuito per la potenza delle macchine – in opposizione ai principi che animano gli uomini liberi – egli giunse alla logica conclusione che la Germania nazista era invincibile e che l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti avrebbero dovuto svegliarsi e, faccia a faccia con i fatti della vita moderna, cedere “all’ondata del futuro”. Uomo taciturno e solitario per natura e per la forza crudele delle circostanze, Lindbergh divenne violento ed eloquentissimo fautore dell’isolazionismo.

Adolf Hitler, con Hermann Göring (a sinistra) e Albert Speer (a destra), durante l'estate 1943, dopo la caduta di Mussolini.

Adolf Hitler, con Hermann Göring (a sinistra) e Albert Speer (a destra), durante l’estate 1943, dopo la caduta di Mussolini.

Indubbiamente divenne, alla radio, il competitore più formidabile e accanito di Roosevelt. Quando la guerra-lampo giunse al culmine in Occidente, il Presidente chiese al Congresso di votare un programma che comprendeva fra l’altro la produzione di cinquantamila aeroplani da guerra per l’Esercito e la Marina. Egli disse:

La brutale forza della moderna guerra offensiva si è scatenata in tutto il suo orrore. Si sono scoperti nuovi potenti mezzi di distruzione incredibilmente rapidi e mortali; e chi li possiede è senza pietà e animato da audacia senza limiti.

Non c’è difesa che possa resistere se non venga rafforzata; non c’è attacco, per quanto assurdo od incredibile, che non possa essere compiuto.

Lindbergh denunciò queste parole come “chiacchiere isteriche” ed aggiunse:

Noi oggi siamo in pericolo di guerra, non perché gli Europei tentino di ingerirsi nei nostri affari interni, ma perché gli Americani cercano di ingerirsi negli affari interni negli affari interni d’Europa.

I nostri pericoli sono tutti interni. Non abbiamo nessun bisogno di temere un’invasione a meno che non ce la portino in casa gli Americani con il loro stesso altercare e intrigare negli affari degli altri. Se desideriamo la pace, basta smetterla con le continue grida di guerra. Nessuno vuole attaccarci e nessuno è in grado di farlo.

Charles Lindbergh

Charles Lindbergh

Lindbergh non diede molta diffusione allora a quel che egli sapeva sulla potenza tedesca e la debolezza degli Inglesi, dei Francesi e dei Russi. Ma, parlandone in privato e citando fatti e cifre, ottenebrava addirittura la vista dei suoi interlocutori e li spingeva spesso a scrivere Roosevelt per raccomandargli di ordinare a Churchill di arrendersi subito, se voleva evitare la carneficina imminente.

Uno degli ascoltatori di Lindbergh subì tuttavia una ben diversa reazione. Fu il dr. Vannevar Bush, già preside della facoltà di ingegneria all’Istituto di Tecnologia del Massachusetts ed ora presidente dell’Istituto Carnegie di Washington. L’effetto che fecero su di lui le terribili notizie, non fu affatto quello che cercava Lindbergh.

Vannevar Bush

Vannevar Bush

Anzi egli fu spinto all’azione proprio dalla minaccia che Lindbergh gli coloriva a così forti tinte. Bush era in corrispondenza con vari illustri uomini di scienza, fra cui i presidenti James B. Conant di Harvard, Karl T. Compton dell’Istituto di Tecnologia del Massachusetts e Frank B. Jewett dei Laboratori telefonici Bell. Essi avevano discusso un piano per mobilitare tutti gli scienziati americano alla ricerca di armi nuove, per affrontare e bilanciare la terribile sfida che la tecnica nazista aveva lanciata al mondo libero e civile.

Bush era stato nominato il portavoce di questo gruppo soprattutto per il fatto di abitare a Washington, ma dimostrò di essere, secondo le parole di Conant, “il capo ideale degli scienziati americani in tempo di guerra … la sua analisi della confusa situazione e il forte programma da lui sostenuto produssero effetti destinati a diffondersi oltre il suo raggio d’azione ufficiale”.

Vannevar Bush

Vannevar Bush

Bush non aveva facile accesso alla più alte sfere del Governo, ma ben sapeva che l’uomo da vedere per giungere a Roosevelt era Harry Hopkins; andò perciò, da lui a sottoporgli il suo piano per il Consiglio nazionale delle ricerche per la difesa.

Hopkins non era nuovo ad un progetto simile, perché l’Ufficio licenze del Dipartimento del Commercio era impegnato in ricerche e suggerimenti del genere e per mezzo dell’Ufficio brevetti aveva ricevuto una proposta simile anche da Lawrence Langner, un newyorchese di larghe vedute che divideva il suo tempo tra l’applicazione delle leggi sui brevetti e la direzione del Teatro Guild (la proposta da lui formulata era quella di un Consiglio nazionale degli inventori per incrementare lo sviluppo di armi nuove e di nuovo equipaggiamento: proposta accettata ed applicata).

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Sempre aperto a tutte le idee grandiose e ardite, Hopkins fu subito molto bene impressionato dal progetto di Bush. C’erano alcuni punti di contatto fra i due uomini. Bush era esile, ma intraprendente, acuto ed aperto di mente. Conosceva l’argomento di cui parlava e si esprimeva brevemente, con un buon pizzico di sale, come Hopkins. Aveva preparato un succinto memorandum, che illustrava la sua proposta. Hopkins lo lesse, l’approvò e fisso a Bush un’udienza con il Presidente.

Bush quando giunse alla Casa Bianca, era pronto a rispondere ad ogni sorta di domande e di obiezioni, ma trovò che Roosevelt aveva già studiato con Hopkins il memorandum, perché dopo due o tre convenevoli, scrisse su di esso “O.K. – F.D.R:” e congedò Bush senza trattenerlo più a lungo.

In seguito Bush, su consiglio di Hopkins, dettò la minuta di una lettera a firma del Presidente. Tale lettera, con poche aggiunte riferentesi ad una stretta collaborazione fra l’N.D.R.C. (il Consiglio nazionale della ricerche per la difesa) e le autorità militari, venne firmata da Roosevelt il 15 giugno, il giorno dopo la caduta di Parigi.

Roosevelt

Roosevelt

Nella lettera si diceva fra l’altro:

Recentemente ho nominato uno speciale comitato, di cui è presidente il dr. Briggs dell’Ufficio licenze, per studiare le possibili relazioni, con la difesa nazionale, delle recenti scoperte nel campo dell’atomo ed in particolar modo nella scissione dell’uranio.

Inviterò ora questo comitato a riferirvi personalmente sugli studi finora fatti, visto che le funzioni del vostro comitato prevede lo studio della stessa materia e la nostra commissione potrà ritenere consigliabile dare impulso a studi più approfonditi sull’argomento.

La funzione del vostro comitato è assai importante in questo particolare momento di tensione nazionale. I metodi e gli strumenti nell’arte della guerra, sono radicalmente mutati e muteranno ancor più profondamente nel futuro.

Il paese si trova in una posizione di raro privilegio a causa dell’ingegnosità dei suoi abitanti, della perizia e del sapere dei suoi scienziati, dell’elasticità delle sue industrie e può eccellere nelle arti della pace, come in quelle della guerra, qualora sia necessario.

Gli scienziati ed i tecnici del Paese, sotto la guida del vostro comitato e in stretta collaborazione con i servizi dell’Esercito, possono fornire un aiuto sostanziale per il compito che ci attende.

Vi assicuro che l’opera vostra avrà sempre il mio continuo appoggio e sarà da me seguita giorno per giorno nelle sue realizzazioni.

Vannevar Bush venne pertanto autorizzato a continuare i suoi piani, il che fece senza indugio e senza cerimonie. Fu proprio questo l’influsso esercitato, attraverso Lindbergh, dalla strategia hitleriana del terrore: la creazione di un organismo cui risale la scoperta della bomba atomica.

Quando a Lindbergh, a sua rivalutazione per aver tacciato di “grida isteriche” la richiesta di 50.000 aeroplani fatta da Roosevelt, dobbiamo dire che egli si rese grandemente utile in tutti gli studi sperimentali dell’Aeronautica, valendosi di tutte le perfette conoscenze tecniche che aveva potuto acquistare in Germania.

Charles Lindbergh

Charles Lindbergh

Egli prestò un prezioso servizio in qualità di aviatore civile, collaudando un buon numero degli oltre trecento mila aeroplani che la nazione produsse prima della vittoria nel 1945. Lindbergh, tra parentesi, avrebbe dovuto conoscere la mentalità del cittadino americano: gli puoi dire, se lo credi, che molti paesi hanno una forma di governo migliore, una cultura superiore o una più pura fede religiosa ed egli è capacissimo di rispondere, senza scomporsi: “Può darsi benissimo caro”, ma prova a dirgli che qualche altro paese ci supera industrialmente o nell’uso di qualche strumento ed è subito in armi.

Altro anello della reazione alla strategia del terrore fu un gruppo di uomini della città di New York, che erano stati ufficiali nella prima guerra mondiale ed avevano formato l’Associazione dei campi militari di addestramento per mantenere vivo “l’ideale di Plattsburgh”. Uno di questi era Grenville Clark, illustre avvocato e presidente dell’Ufficio legale dell’ordine degli avvocati statunitensi, repubblicano e vecchio amico di Franklin Roosevelt.

Grenville Clark

Grenville Clark

In una riunione privata durante i giorni di Dunkerque, Clark uscì nella sorprendente proposta che la nazione dovesse stabilire la coscrizione obbligatoria. Era un consiglio veramente ardito e quasi senza speranza in un tempo in cui la gioventù in tutto il Paese, faceva dimostrazioni contro l’aumento della produzione bellica.

Mai gli Stati Uniti avevano promulgato una legge per la coscrizione prima di essere in guerra e di avere incominciato a combattere. Ma Clark e i suoi compagni prepararono il primo progetto del Selective Service e persuasero il senatore Edward R. Burke, del Nebraska, (uno degli Stati più isolazionisti) e il rappresentante James W. Wadsworth, repubblicano di New York, a sostenere la proposta al Congresso.

Era naturalmente opportuno darle un aspetto bipartitico ed in effetti le parole “Selective Service” costituivano un efficace eufemismo. Clark prese appuntamento per vedere il Presidente il 31 maggio e incitarlo a prendere a cuore il progetto, nominando segretario alla Guerra Henry L. Stimson e sottosegretario il giudice Robert P. Patterson.

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L’udienza non ebbe luogo. Il generale Watson invitò Clark e gli disse che non era conveniente che il Presidente lo vedesse allora, per cui aveva passato il suo appuntamento a Hopkins, al quale avrebbe potuto parlare liberamente. Clark, però, temeva che Hopkins lo volesse semplicemente consigliare a procrastinare il pericoloso progetto del Selective Service, almeno fino a dopo le elezioni di novembre. Poiché, non aveva nessuna intenzione di fare marcia indietro, stimò assai opportuno non parlargli affatto.

Circa tre settimane più tardi, tuttavia Clark ed Hopkins s’incontrarono ed ebbero un colloquio di circa due ore. Hopkins non prese alcun impegno per conto del Presidente, – poiché il Selective Service era uno di quegli “atti irrevocabili” che Roosevelt desiderava evitare finché non fosse sicuro di poter ottenere il voto del Congresso – ma diede a Clark il suo incoraggiamento personale e gli promise che Roosevelt stesso avrebbe avallato la proposta non appena ritenesse giunto il momento per farlo.

Roosevelt infatti, aveva già deciso la nomina di Stimson e di Patterson, due dei principali campioni del Selective Service. Fu questa una delle prime apparizioni di Hopkins in un campo che doveva diventare della massima importanza: quello di confidente ed intermediario di Roosevelt nei contatti tra lui e i privati cittadini che propugnassero passi politici che il Presidente approvava, ma non riteneva per ragioni contingenti, di appoggiare pubblicamente.

Robert P. Patterson

Robert P. Patterson

In più di una circostanza Roosevelt avrebbe desiderato moltissimo di vedersi “attaccato” per inattività e poter essere così “spinto” all’azione a voce di popolo. Negli stessi giorni oscuri della fine di maggio, Hopkins partecipò alla formazione della commissione consultiva per la Difesa nazionale, cui dovevano fare capo tutta la produzione di guerra e quella alimentare e le varie organizzazioni per il controllo dei prezzi.

Essa segnava l’inizio della mobilitazione della mano d’opera maschile a carattere civile, mentre il Selective Service, era a carattere militare. La commissione era composta dai seguenti membri:

1) William S. Knudsen, produzione industriale;

2) Sidney Hillman, lavoro;

3) Edward R. Stettinius, materie per l’industria;

4) Leon Henderson, calmiere dei prezzi;

5) Ralph Budd, trasporti;

6) Chester C. Davis, produzione agricola;

7) dr. Harriet Elliot, protezione dei consumatori;

8) William H. McReynolds, segretario.

Più tardi si aggiunse anche Donald M. Nelson, con il compito di coordinatore per la difesa nazionale.

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È facile osservare che mancava un presidente. Roosevelt fu appunto aspramente criticato per non aver nominato un uomo a capo di tutto lo sforzo produttivo. Ma si rifiutò sempre sdegnosamente di farlo, fino a un mese dopo Pearl Harbour. E non è chiaro – o perlomeno non ne sono al corrente – il motivo di tanto ritardo.

Si discusse preliminarmente se la nuova commissione dovesse essere un organo governativo. Il sottosegretario al Commercio, Edward J. Noble, riteneva senz’altro che dovesse dipendere dal Dipartimento del Commercio, ma credo che fu Hopkins a volere che il nuovo ente e indipendente, in una sorte di limbo, sotto il nome di Ufficio della gestione d’emergenza.

Edward J. Noble

Edward J. Noble

Roosevelt stabilì così il modello di quella che sarebbe stata la sua amministrazione pubblica: gli enti speciali dovevano essere liberi di se stessi, affiancati, ma indipendenti, alla normale e permanente struttura governativa e direttamente responsabili verso il Presidente, non verso gli altri funzionari del Gabinetto. Così gli enti bellici – o “enti di difesa” come si chiamarono nei giorni degli eufemismi prima di Pearl Harbour – formarono una specie di governo entro il governo.

La decisione fu foriera di nuove critiche a Roosevelt da parte dei membri del suo stesso Gabinetto, che si vedevano togliere un’infinità di mansioni e di proventi in favore dei nuovi enti a carattere temporaneo. Ma i motivi che spinsero il Presidente a comportarsi così sono ben chiari:

  • 1) il Congresso era piuttosto restio a concedere nuovi fondi, più ampi poteri e altro personale ai Dipartimenti esistenti, per il semplice fatto che quando si riconoscono nuove funzioni a un ente permanente è poi difficilissimo togliergliele, mentre un ente provvisorio si scioglie facilmente quando venga a cessare lo scopo per cui è stato creato. Sarebbe stato logico, ad esempio, che il controllo dei prezzi fosse attribuito alla Commissione degli scambi e che la mano d’opera pubblica venisse affidata al Dipartimento del lavoro; ma Roosevelt sapeva che il Congresso sarebbe stato più favorevole se quelle misure così impopolari fossero state affidate ad enti provvisori, che si potevano abolire in qualsiasi momento.
  • 2) Roosevelt stesso era inoltre convinto che i normali Dipartimenti fossero ben lontani dal poter assolvere tutte le funzioni e le esigenze di una guerra. Troppo impacciati dalla tradizionale lentezza burocratica, troppo timorosi di ogni anormalità, per potersi muovere con la speditezza che l’ora richiedeva. L’”uomo di carriera” del governo è naturalmente incline a considerare gli interessi del suo avvenire più che gli immediati problemi di una data ora ed ha come principio fondamentale quello di “camminare coi piedi di piombo”. In un tempo di pace la pazienza è un ottimo requisito, anzi una virtù, in un funzionario pubblico, il quale sa quanto la fretta guasti e se ne debba poi rendere conto al Congresso: ma in tempo di guerra, non si può attendere; meglio gli impazienti dei pazienti. E questi non li si può trovare che negli enti provvisori, diretti in massima parte da uomini e donne improvvisati, i quali hanno una sola preoccupazione, di riuscire a vincere la guerra nel più breve tempo possibile “per mandare poi a quel paese governo ed amministrazione pubblica”.
Roosevelt

Roosevelt

Questi dirigenti improvvisati, repubblicani e democratici, sciamarono a Washington, come avevano sciamato in Francia i panzer tedeschi; e bisogna ammettere che non pochi di essi dimostrarono una spiccata attitudine a saper dirimere tutte le piccole gelosie e controversie che sorsero con i vecchi della burocrazia. Harold Smith, direttore dell’Ufficio del bilancio durante la guerra, mi parlò anni fa dei metodi usati da Roosevelt per risolvere tutti i problemi particolari, che si presentarono allora alla sua amministrazione e mi disse:

Il Presidente era l’unico a capire in tutta la sua estensione il significato e la necessità della parola “guerra totale”. Gli altri credevano di poter imbracciare con la destra il fucile e con la sinistra continuare ad occuparsi dei propri affari privati ed interni. Roosevelt vedeva nei ministri non dei membri di un suo Gabinetto, ma tanti comandanti autonomi, ognuno con un settore, interessi, esigenze e problemi specifici.

Era impossibile pensare che uno solo d’essi sapesse vedere il tutto nella sua interezza, come doveva fare il Presidente. Per questo Hopkins gli divenne così prezioso quando lasciò il Dipartimento dl Commercio. La sua funzione non era altro che di vedere le cose dal punto di vista del Presidente e non c’era uomo più adatto di lui, perché era libero da preconcetti, né si lasciava inceppare da impedimenti legali e non dimostrava il minimo rispetto per la tradizione.

Smith mi diceva di credere che se il Presidente avesse avuto davanti a sé più tempo – l’autorità necessaria – per prepararsi alla guerra avrebbe dovuto fare piazza pulita del personale dei Dipartimenti e riorganizzarli con sistemi radicali, in modo da renderli capaci di affrontare le esigenze richieste dall’ora straordinaria che si viveva. Ma non ebbe tempo e dovette improvvisare, come e quando poté.

Harold Smith

Harold Smith

Nel volume Arsenal of Democracy, Donald Nelson scrisse:

Torniamo un po’ indietro al giugno del 1940: chi di noi, tranne il Presidente, sapeva esattamente la vastità dei compiti che ci aspettavano e la missione decisiva che gli Stati Uniti dovevano esercitare nel dirigere un mondo impazzito? Sono testimone che tutte le persone con le quali ho avuto contatti e colloqui, compresi i membri dello Stato maggiore generale e i più alti ufficiali dell’Esercito e della Marina, statisti e deputati, ritenevano che il programma di difesa non fosse che un mezzo per organizzarci e tenere lontani i nemici dalle coste degli Stati Uniti.

Nessuno di noi – non uno di quelli che io conosca, tranne il Presidente – pensava che potessimo combattere la Germania e il Giappone anche fuori dal nostro territorio, in ogni parte del mondo. Egli prese la sua decisione contro il consiglio degli uomini migliori del Paese, ma lì vinse, perché le sue previsioni erano superiori alle loro e fini con il salvarci tutti.

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Hopkins era certo un dei molti che non avevano un concetto molto chiaro della “guerra totale”, ma cominciò a farsene un’idea frequentando Roosevelt, come ebbe agio di dimostrare in una conferenza stampa verso la fine di maggio. Gli era stato chiesto da Nicholas Gregory della New York Herald Tribune, che cosa pensasse della situazione generale della guerra e che relazione potesse avere con la nostra situazione particolare. Rispose:

Noi non possiamo trastullarci e rimanere spettatori passivi, accontentandoci di dire che la guerra è lontana migliaia e migliaia di chilometri. Essere il paese più ricco del mondo non vuol dire che la guerra non possa influire sulla nostra economia. Noi non possiamo in nessun modo lasciarci trascinare in un abisso economico.

Dobbiamo essere realisti e considerare gli avvenimenti senza paura della verità, per decidere sul da farsi e compiere tutto quello che è necessario per mandare ad effetto la nostra decisione.

Robert E. Sherwood

Robert E. Sherwood

Hermann dell’American Banker, chiese: “Fino a che punto ci porterà un simile progetto?” Hopkins rispose: “Fino a che punto? Fino al punto che vorremo”. Hermann rispose: “Anche se …”. Ma Hopkins non gli lasciò il tempo di finire la frase… “se ciò finisse per trascinarci in guerra?” e lo interruppe:

Diavolo! Voglio fare l’ipotesi peggiore. Ammettiamo che la Germania vinca la guerra nei prossimi due mesi e faccia sul fonte economico quel che ha fatto sul fronte militare. Che cosa farà nell’America del Sud se vincerà? E noi, che ci resterà da fare? Oppure no.

Supponiamo che la guerra duri due o tre anni. Che effetto potrà avere sull’economia del nostro Paese? Non sono chiacchiere da farsi a tavola dopo aver mangiato! Io per lo meno, non sono cresciuto alla scuola di quelli che fanno chiacchiere. Si agisce.

Hopkins cominciò presto a fare esperienza nel campo della produzione e delle assegnazioni di guerra, due argomenti di cui doveva diventare praticissimo in poco tempo. Divenne intimo del maggiore generale James H. Burns, della direzione dell’Intendenza dell’Esercito e fu con lui in stretta collaborazione per tutto il tempo successivo, durante gli affitti e prestiti e i vari programmi di produzione e di aiuti. Di Burns ha scritto John J. McCloy, vicesegretario alla Guerra sotto Stimson: “Ispirava ed incoraggiava il programma in maniera tale da rendersi benemerito del Paese”.

James H. Burns

James H. Burns

Burns era uno dei tipi che Hopkins preferiva, cioè, un “realizzatore” e lavorava davvero moltissimo. All’inizio di giugno ebbe una conferenza con Knudsen e Louis Johnson e il primo, capace e abile tecnico della produzione di auto, ma assolutamente inesperto di armamenti, gli chiese: “Quanti pezzi vi occorrono?”

La parola “pezzi” significava bombe, proiettili, armi automatiche, carri armati … e le richieste dell’Esercito erano state fino allora timidissime. Pareva che si fossero lasciati cogliere alla sprovvista dall’inaspettata furia delle assegnazioni votate dal Congresso e temessero di chiedere troppo. Non avevano idea di quanti “pezzi” avrebbero potuto aver bisogno.

Ma Hopkins consigliò Burns a chiedere senza timore e questi, lavorando per ventiquattr’ore filate col suo Stato maggiore, presentò un programma di massima che comprendeva fra l’altro la fornitura di 50.000 aeroplani da guerra, come era stato chiesto dal Presidente. Il programma fu promosso dallo Stato maggiore generale e consegnato a Knudsen, due soli giorni dopo la richiesta.

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Non si esagera nell’affermare quale fosse lo stupore, l’incertezza e lo sconcerto che dominavano a Washington in quei giorni. Era una cosa ridicola, eppure profondamente significativa; era un andare a tentoni, senza direzione, secondo il caso e le necessità dei singoli servizi. Fra i molti industriali convocati a Washington, vi era Robert T. Stevens, uno dei più accreditati dirigenti dell’industria tessile.

Egli non aveva alcuna idea, arrivando, dei compiti che gli si chiedevano, ma Donald Nelson gli disse: “Guardati intorno nei vari Dipartimenti della Guerra e della Marina e cerca di conoscere quali sono gli effettivi bisogni nel campo dei tessili. Poi trova il modo di soddisfarli”.

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Stevens cominciò dalle uniformi, dalle coperte, dai teloni, cose tutte che non richiedevano un particolare talento per essere scoperte e poi penso che forse lo avevano chiamato per esercitare la propria immaginazione. Scoprì così che nel campo dell’attività bellica i tessili potevano essere usati anche per la confezione dei paracadute. E si ricordò che, chiuse a noi le manifatture di seta francesi ed italiane, l’unica fonte che ci rimaneva era ancora il Giappone.

Era pressoché all’oscuro della situazione internazionale, ma non gli parve fuori luogo pensare che un giorno o l’altro anche quest’ultima risorsa potesse venirci meno e fosse quindi necessario stivare i nostri magazzini del maggior numero possibile di balle di seta finché c’era tempo. Sapeva che si dovevano calcolare, in media, quattro paracadute per aeroplano, contando su undici uomini per i bombardieri pesanti e uno per i caccia, più le riserve.

Consultò gli ufficiali del Commissariato dell’Esercito e della Merina e gli fu detto che il bisogno di paracadute per l’anno seguente 1940/41 era previsto in 9.000 capi (6.500 per le forze aeree dell’Esercito e 2.500 per quelle della Marina). Stevens fece i suoi calcoli e disse agli ufficiali che le sue cifre gli davano 200.000 paracadute al posto dei 9.000 richiesti.

Gli chiesero come avesse ottenuto una cifra così fantastica. Ma egli replicò: “Il Presidente ha parlato di 50.000 apparecchi ed io moltiplico per quattro”. Il numero dei paracadute fu così portato nel programma di produzione da 9.000 a 200.000 e la cifra salì più tardi addirittura a milioni.

Questo può essere stato anche un caso estremo, d’accordo, ma era il caso che si verificava più frequentemente nel 1940. Non lo cito per screditare gli ufficiali del Commissariato, ma per dimostrare quanto la preoccupazione per il denaro dei contribuenti, onesta e santa in tempo di pace, possa in tempo di guerra rivelarsi pericolosa per la loro stessa vita, mettendo a repentaglio la sicurezza stessa della Repubblica.

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È importante ricordare che Roosevelt istituì i suoi enti della produzione bellica, del lavoro obbligatorio, del controllo dei prezzi, dell’alimentazione e dei trasporti, senza ricorrere ad alcuna legge del Congresso, ma richiamandosi a norme votate ancora durante la prima guerra mondiale e nel caso dell’organizzazione del Consiglio delle ricerche di Vannevar Bush, richiamandosi addirittura ai poteri straordinari concessi al Presidente al tempo della guerra di Secessione.

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Si servì dunque di leggi antiquate e generalmente inadeguate per prendere decisioni che più moderne non potevano essere, perché non voleva assolutamente correre l’idea d’un contrasto col Congresso sui punti del suo nuovo programma, tranne che su quello che egli considerava di capitale importanza: il Selective Service.

Come Comandante in capo, in un periodo di travagliata vita nazionale, si trovava nella necessità di risolvere tutti i problemi di particolare urgenza. Può essersi sbagliato nell’anteporre questo a quello o viceversa, ma a torto o a ragione, egli doveva agire ed agì. La sua posizione personale, già si è detto, era tutt’altro che forte, in confronto ai passati periodi del New Deal e ai futuri anni di guerra.

L’unità, l’armonia, la lealtà che erano esistite nella sua amministrazione, erano messe a dura prova dell’avvicinarsi dello scadere del periodo presidenziale e dalla scelta di un nuovo candidato alla Vice-Presidenza. Né si sapeva ancora, durante tutto maggio e giugno, se Roosevelt si sarebbe ripresentato e se, ripresentandosi, sarebbe riuscito a vincere il sentimento isolazionistico della gran massa popolare e il rispetto della tradizione stabilita da Giorgio Washington e confermata da Thomas Jefferson.

Del resto l’unico Dipartimento che funzionasse egregiamente, era il Tesoro. Anzi, nei prolungati contatti con le commissioni d’acquisto francesi e britanniche e come promotore degli aiuti alla Cina, Henry Morgenthau aveva esercitato funzioni che erano di pertinenza del Dipartimento di Stato e di quello della Guerra e questo non perché ne usurpasse il campo, ma perché quelli non assolvevano il propri compito.

Henry Morgenthau

Henry Morgenthau

Comunque, Roosevelt fu criticato, a metà giugno, quando nominò segretati alla Guerra e alla Marina due notissimi repubblicani, quali Stimson e Frank Knox. I due uomini si erano vigorosamente pronunciati in favore della politica estera di Roosevelt e contro le tendenze isolazionistiche del loro partito. Quanto a Stimson, egli aveva già gettato le basi di tale politica, quando era stato segretario di stato di Hoover, patrocinando una resistenza collettiva al primo atto di aggressione fascista, compiuto dai Giapponesi con l’invasione della Manciuria nel 1931.

Stimson aveva precorso gli eventi in un mondo timido e miope e Roosevelt lo ammirava proprio per questo. Knox, editore del Chicago Daily News era stato candidato alla Vice-Presidenza con Landon contro Roosevelt quattro anni prima ed uno dei critici più aspri del New Deal; ma era stato anche con Teodoro Roosevelt nel suo Corpo di volontari di cavalleria e fra i suoi amici più intimi e al pari di quello, non ligio alla disciplina di partito.

Così Stimson come Knox avevano fatto la prima guerra mondiale con il grado di colonnello e ora, a distanza di tempo, riconoscevano gli stessi pericoli di allora. Quando Roosevelt chiamò Knox con l’intercomunale, per invitarlo ad assumere il Dipartimento della Marina, Knox chiese che la nomina fosse resa di pubblica ragione dopo la Convenzione repubblicana, che si doveva tenere a Philadelfia.

Frank Knox

Frank Knox

Disse di voler partecipare alla Convenzione per combattervi a favore di una politica non isolazionistica appoggiando un candidato ad essa favorevole, Wendell Willkie. La cosa gli sembrava nell’interesse stesso della nazione, perché avrebbe eliminato un pericoloso dibattito durante la campagna elettorale.

Roosevelt rispose invece, che era importantissimo dare l’annuncio della nomina prima della Convenzione, perché l’entrata di Knox nel Gabinetto doveva essere pubblicamente conosciuta per quello che era: un atto di puro patriottismo, dovuto alla persuasione che le necessità della politica estera e della difesa nazionale dovevano prevalere sopra ogni considerazione di partito.

Ciò sarebbe stato difficile se non impossibile da ottenere, se Knox aspettava a dopo la Convenzione, quando la questione sarebbe stata risolta. Se il partito repubblicano avesse sposato una politica ed un candidato isolazionisti, l’entrata di Knox in un Gabinetto democratico sarebbe stata interpretata puramente come un gesto di contrarietà e una mancanza di senso sportivo.

Wendell Willkie

Wendell Willkie

Se poi a Philadelfia avessero vinto Willkie e i non isolazionisti, ben difficilmente Knox avrebbe potuto correttamente abbandonare il suo candidato e i principi per cui s’era battuto e il Presidente non avrebbe più potuto servirsi della sua opera in un momento di tanta importanza.

Anche Stimson, interpellato per telefono, pose alcune precise condizioni alla sua nomina: prima di tutto eliminare dal Dipartimento alla Guerra ogni traccia di faziosità e accettare la proposta di Grenville Clark, per la nomina di Robert P. Patterson a sottosegretario. Roosevelt acconsentì.

L’annuncio della nomina di queste due personalità avvenne alla vigilia della Convenzione di Philadelfia e suscitò un coro di proteste fra i capi politici del partito repubblicano, che accusarono i due di “doppio gioco” e ne chiesero l’espulsione dal partito. Farley ed altri democratici denunciarono invece la nomina di Stimson e Knox come un tradimento fatto al partito.

Ickes ne fu furente, perché voleva per se il segretariato alla Guerra. È indubbio che furono proprio Stimson e Knox a dar man forte al Presidente nei problemi urgenti del 1940, che andavano dai vasti aiuti da accordare alla Gran Bretagna, alla riorganizzazione delle forze armate e, successivamente, al loro impiego in guerra.

Dei due uomini, quello che si sobbarcò ad un maggior peso di responsabilità fu Stimson, poiché è nota la predilezione sempre dimostrata dal Presidente per la Marina. Con a fianco il generale Marshall, egli dovette cominciare a creare dal nulla un esercito gigantesco e ad organizzare l’aviazione. Seppe circondarsi di civili di notevole capacità, quali il sottosegretario giudice Patterson e i segretari aggiunti John J. McCloy e Robert A. Lovett. Knox fu ugualmente felice e fortunato nella scelta del suo sottosegretario, James Forrestal, che gli successe nel 1944.

James Forrestal

James Forrestal

Nessuno di questi, logicamente, era un simpatizzante della dottrina del New Deal e per lo più non mutarono la propria avversione alla politica interna di Roosevelt, ma, pur così, costituirono un mirabile esempio di devozione e di capacità nella amministrazione rooseveltiana di guerra.

Il capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Marshall e il capo delle operazioni navali Harold Stark, erano stati nominati da Roosevelt poco prima dello scoppio della guerra europea nel 1939 e sono stati i suoi consiglieri per tutto quanto concerneva la strategia mondiale. Erano entrambi degli studiosi di questioni militari, muniti di una sicura conoscenza dei principali problemi.

Avevano il senso della diplomazia, ciò che permetteva loro di considerare la situazione generale in tutti i suoi aspetti, politici e militari. Stark, soprattutto, aveva prestato servizio a lungo negli anni prebellici nel Dipartimento della Marina. Aveva eccezionali qualità di ufficiale di Stato maggiore, ma mancava della rapidità e della decisione necessaria in tempo di guerra e dopo Pearl Harbour venne sostituito dall’ammiraglio Ernest J. King, cui non mancavano né l’una né l’altra.

Ernest J. King

Ernest J. King

Stark venne trasferito a Londra, come comandante delle forze navali statunitensi in Europa, dove si distinse per capacità e devozione. Il suo contributo alla preparazione dei piani strategici fu incommensurabile, come avrò ancora occasione di dire.

Negli anni del servizio prestato al Dipartimento della Marina, Stark si era fatto molti amici, ottenendo la piena fiducia degli uomini del Congresso, cui piaceva la modestia delle sue richieste. A sua volta, Marshall si guadagnò questa fiducia con la serenità, col tatto eccezionale e con la padronanza della materia, benché lo guardassero con diffidenza ogni qualvolta parlasse di divisioni corazzate e di bombardieri a lungo raggio, per il solito sospetto che volesse prendere l’offensiva invece di concentrare e le forze nell’organizzare la difesa costiera.

il generale Marshall

il generale Marshall

Di fronte ad una stupidità e miopia che avrebbe condotto alla disperazione un uomo più debole di lui, Marshall oppose una grande calma ed una pazienza olimpica: ma dentro di sé si arrovellava, non tanto per l’inanità e le frecciate che lo colpivano, quanto per l’integrità stessa e la sicurezza dello Stato. Ben pochi fra coloro che ebbero contatti con lui durante la guerra, possono dissentire dalle parole rivoltegli dal segretario della Guerra Stimson, il giorno della resa incondizionata della Germania: “Ho visto molti soldati in vita mia, signore, ma voi siete il miglior soldato che abbia mai conosciuto”.

Anche l’opinione pubblica aveva cominciato a mutare volto. Se durante tutto il tempo della “strana guerra” aveva dato prova di indifferenza e di letargo, dando poi luogo ad una confusione e ad un timore che era parente prossimo del panico di fronte alla realtà della guerra-lampo, quando Churchill e Roosevelt indicarono chiaramente la via da seguire nell’immediato futuro, l’opinione pubblica aveva dato segno di saper vedere le cose con occhio più acuto e penetrante.

Churchill e Roosevelt

Churchill e Roosevelt

Il sapere ormai che l’Inghilterra, pur da sola, avrebbe continuato a combattere e che l’America le avrebbe accordato ogni aiuto possibile, servì a chiarire immensamente la situazione alla mente del pubblico, finché almeno non si manifestasse una nuova crisi. Il pubblico non aveva mai avuto una cognizione più esatta della situazione, da Monaco in poi. E Roosevelt si avvide ben presto di essersi guadagnato il favore popolare in una misura che non si sarebbe mai aspettato.

Innanzi tutto la stampa, che nella sua stragrande maggioranza gli si era scagliata furiosamente contro durante il New Deal, cominciò ad appoggiarlo ora, senza riserve. Molti degli articolisti più accreditati erano con lui, pur con qualche eccezione, come il sempre più intemperante gen. Hugh S. Johnson. Gli organi repubblicani progressivi che , come il New York Herald Tribune, il Boston Herald, il Chicago Daily News, il Des Moines Register e il San Francisco Chronicle, erano stati fra i più aspri critici della sua politica interna, gli davano ora, il più incondizionato consenso per le misure prese in aiuto dell’Inghilterra.

I maggiori corrispondenti esteri americani per anni ed anni avevano continuato a mettere in guardia l’opinione pubblica americana contro le minacce dell’imperialismo tedesco e giapponese. Nessuno era stato più di loro preciso nel valutare la situazione. Ora potevano trasmettere per radio i loro moniti a tutto il Paese: e le voci di Edward R. Murrow e di Fred Bate da Londra, quelle di William S. Shirer da Berlino, di Elmer Davis da New York, di Raymond Gram Swing da Washington, per non citare che i migliori, contribuirono molto a consolidare la situazione di Roosevelt.

Cominciarono a diventare attive nel mobilitare l’opinione pubblica, anche le organizzazioni private. La più vasta di esse aveva cominciato ad agire, su scala ridotta, nel settembre 1939, quando vari membri dell’Associazione per la Lega delle Nazioni si erano riuniti per formare un comitato onde appoggiare la richiesta di Roosevelt a una revisione sull’embargo delle armi.

Presidente di questo “Comitato apolitico per la pace mediante la revisione della legge della neutralità” (tale la denominazione) era l’illustre e ben amato William Allen White, che nessuno poteva accusare di essere strumento dell’imperialismo britannico o del New Deal. Convinto repubblicano e biografo di Calvin Coolidge, White fu anche uno dei più grandi amici e consiglieri di Franklin D. Roosevelt.

Dopo la revisione dell’embargo sulle armi, il primo comitato di White fu sciolto, poiché il suo scopo era stato ottenuto, ma tornò a rivivere nel maggio 1940 e fu chiamato il “Comitato di difesa dell’America per mezzo degli aiuti agli alleati”. Fu la prima organizzazione che si propose di combattere l’isolazionismo sul piano nazionale. White non era certo un interventista ed è significativo che il Comitato decidesse di non accettare denaro né dai “fabbricanti di munizioni”, né dagli “industriali dell’acciaio”, né dai “banchieri internazionali”, perché su queste tre categorie si appuntavano tutte le accuse di voler propugnare una guerra fra le nazioni.

Durante l’ultima fase della “strana guerra”, White aveva scritto:

Quale valanga di errori ha rovesciato la Gran Bretagna sul capo delle democrazie del mondo? Il vecchio leone britannico sembra lebbroso e cieco. Ha bisogno di liberarsi dai vermi e di far lavorare i denti. Non sa più reagire. Se un nuovo governo non prende decisamente la barra del timone in Inghilterra, l’Impero britannico è finito. Sono parole crude a dirsi, ma è la pura verità.

Fin da maggio, White aveva cominciato a patrocinare la necessità di aiuti all’Inghilterra. Con la flotta inglese ancora intatta, diceva infatti: “potremmo avere dinanzi a noi almeno due anni di tempo per prepararci all’inevitabile attacco delle potenze totalitarie, che avverrà, se la Gran Bretagna non vince la guerra”. E quando in Inghilterra un nuovo governo prese la barra del timone, White fu uno dei suoi più fervidi e validi sostenitori.

Padre Coughlin parlò così del Comitato di White, nel suo giornale “Social Justice”:

Come un ladro che opera nell’oscurità della notte, c’è in mezzo a noi chi agisce sotto la protezione di interessi egoistici, per privarci della libertà, della pace e dell’autonomia… Il “Comitato di difesa dell’America per mezzo degli aiuti agli alleati” è un nome altisonante, formato di uomini d’alto rango che non vogliono lasciare pietra su pietra per gettare tutto ciò che di caro e di prezioso può avere un Americano in pasto ai cani della guerra…

Striscianti, sovvertitori, celandosi, contro tutti i nostri principi, sotto uno spesso manto di santità, che porta il nome di William Allen White, questi uomini formano la più pericolosa quinta colonna che abbia mai posto piede su un territorio neutrale. Sono i Quisling dell’America.

Sono i Giuda Iscariota del collegio apostolico della nostra nazione. Sono le serpi, ben protette dall’oro, del governo e dello straniero, che non osano drizzarsi fra l’erba e parlare da uomo a uomo a faccia aperta.

Nonostante simili omaggi, il Comitato di White ebbe ben presto dei tentacoli operanti in tutti gli Stati e organizzo dappertutto conferenze e trasmissioni tenute da personalità che rispondono al nome di James B. Conant, presidente dell’Università di Harvard, di Henry R. Luce, editore e della signora Dwight W. Morrow, suocera del colonnello Lindbergh.

Il mio primo contributo alla campagna fu un avviso con titolo su tutta la pagina: “Fermiamo Hitler!”, pubblicato dai giornali di tutto il Paese il 10 giugno, giorno dell’entrata in guerra dell’Italia. Tale avviso ebbe la pubblica approvazione del Presidente Roosevelt (che io non conoscevo ancora) e sollevò a Berlino l’ironico commento del dr Goebbels: “fermare Hitler? E come?”. Usai forse parole troppo forti : “Chi pensa che il nazismo aspetti finché noi siamo pronti ad entrare in guerra è un imbecille!”.

William Allen White fu sommerso da un’ondata di proteste, comprese persino quelle degli amici, come Oswald Garrison Villard , il quale scrisse anch’egli e milioni di persone come lui non vedevano alcun pericolo per gli Stati Uniti, né per questo sentivano affatto di essere “meno leali, meno sinceri e meno seri, come americani, di Sherwood o di qualsiasi altro”. White, impressionato dal numero delle proteste, mi allontanò garbatamente per essermi lasciato trasportare un po’ troppo.

Ma non passò molto tempo che epiteti simili al mio divennero un luogo comune. Il grande dibattito era cominciato e divampava e ribolliva, per giungere a conclusione solo dopo il bombardamento giapponese di Pearl Harbour. Una delle accuse più violente dell’isolazionismo era che il Paese si trovasse di fronte ad un complotto giudaico per trascinarlo in guerra. Lindbergh anzi lo disse chiaro e tondo un giorno, dichiarando che gli unici a desiderare un intervento, in America, erano i tirapiedi di Roosevelt, gli Inglesi e gli Ebrei.

Pearl Harbour

Pearl Harbour

È naturale che la comunità ebraica avesse tutte le ragioni del mondo per essere antinazista, ma esse non era affatto unanime nell’opposizione all’isolazionismo. C’erano anzi, degli Ebrei, sopratutto fra quelli di più elevata posizione sociale, che appoggiavano in pieno il Comitato dell’America Innanzitutto, perché il timore dell’antisemitismo in America superava di gran lunga i risentimenti contro la barbarie nazista in Europa; e c’erano altri Ebrei disposti come chiunque altro a “fare affari” con un Hitler vittorioso.

La forza del Comitato di White e le sue numerose diramazioni, come il Comitato di lotta per la Libertà, non riuscirono mai ad intaccare il nocciolo dell’isolazionismo americano, ma esercitarono un’influenza sul pensiero di milioni di persone che non erano né isolazioniste, né interventiste, mentre giovarono immensamente quando si trattò di fare accettare la legge sul Selective Service, lo scambio di cinquanta cacciatorpediniere per le basi sull’Atlantico e la legge affitti e prestiti.

Il comitato di White, valendosi della sua natura bipartitica, agì ancora più efficacemente come anello di congiunzione fra gli opposti campi politici, di Roosevelt e di Willkie, per raggiungere un accordo sulle direttive di politica estera.

Roosevelt

Roosevelt

Qui anzi, in politica estera si poté notare una delle conseguenze più importanti della guerra-lampo tedesca. In primo luogo, infatti, essa portò alla nomina di Wendell Willkie invece di un candidato repubblicano isolazionista e costituì la spinta necessaria a decidere finalmente Roosevelt a presentarsi candidato per la terza volta; e in secondo luogo fu, sotto ogni aspetto, il fattore più importante della sua rielezione.

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