LA RESISTENZA IN TRENTINO – 10

a cura di Cornelio Galas

La Valsugana era un crocevia di spie e infiltrati utilizzati sia per individuare i partigiani diretti verso la Val di Fiemme attraverso la Val Calamento e la Val Cadino, sia, in seguito, per la presenza del “Gherlenda”.

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“Primula” e “Ila”, partigiani del Gherlenda dei quali si conoscono solo i nomi di battaglia, di ritorno ai primi di ottobre 1944 da Valfloriana dove avevano prelevato 23 mila lire alla locale Cassa Rurale, stavano per cadere in un tranello. All’albergo “Calamento” trovarono quattro sconosciuti che si facevano passare per patrioti: uno di costoro diede loro appuntamento asserendo di poter portare dinamite, armi automatiche, documenti e denaro.

l'albergo Calamento negli anni '40

l’albergo Calamento negli anni ’40

I due, prese informazioni tramite “Falco”, scoprirono che si trattava di spie tra le quali c’era l’onnipresente Fiore Lutterotti. Quest’ultimo aveva tentato di farsi passare addirittura per il comandante “Bruno”, ma fu presto smascherato perché riconosciuto da alcuni partigiani.

C’è da chiedersi come mai in Val Calamento non si conoscesse l’attività di spia di Lutterotti. Vittorio Gozzer cercò più volte di venirne a capo parlando con Rosina Franzoi, senza alcun risultato. Negli iltimi mesi prima della fine della guerra, Lutterotti era di stanza al comando delle SS di Strigno.

Carmela “Rosina” Franzoi (1915 – 2003) in Val Calamento nel 1946

Carmela “Rosina” Franzoi (1915 – 2003) in Val Calamento nel 1946

Pio Fantoma, ex sergente Cst, affermò che le spie locali regolarmente pagate erano dodici, numerate da 59 a 70. Veniva però tenuto all’oscuro su chi si nascondeva sotto quei numeri, perché Hegenbart preferiva quale interprete Maria Marchetto. Fantoma diede i nomi di tre spie, tra le quali quello di Aldo Boso di Castello Tesino, che con la sua delazione causò la morte dei due fratelli Mascarello.

“Dalle deposizioni di prigionieri interrogati abbiamo potuto ricostruire il sistema con cui lavoravano le SS per colpirci alle spalle”: è l’inizio della relazione “Spie e delatori” depositata al Museo Storico di Trento a firma del commissario del “Gherlenda”. Dei vari collaborazionisti locali, Nazario Sordo, sergente del Cst di Castello Tesino, fu l’unico a pagare il suo debito con la giustizia.

CASTEL TESINO

CASTEL TESINO

Due donne di Castello Tesino furono accusate dai loro stessi amici del Cst. Se una spia veniva individuata doveva essere eliminata. A questo generalmente provvedevano i Gap. Per le donne ci si limitava al taglio dei capelli.

“Oggi si fa presto a dire: potevate farè così o colà. Ma allora, quando si trattava di una spia che poteva causare la morte di molti partigiani, non c’era molta scelta” (dall’intervista a Luigi Doriguzzi “Momi”, 1968).

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I due fratelli Tarcisio e Danilo Ballerin morirono a Mauthausen per la delazione di un loro compaesano di Castello Tesino. Non avevano mai avuto a che fare con il “Gherlenda” e furono consegnati al carnefice per rancori personali. Danilo frequentava il terzo anno di teologia al seminario di Trento. Il ricordo di don Remo Zottele, suo compagno di studi:

Sui collaborazionisti a vario livello manca una ricerca che potrebbe ora giovarsi di testimonianze e documenti d’archivio. Poche spie o collaborazionisti furono condannati nel dopoguerra: molti trovarono giudici che avevano vinto i concorsi sotto il fascismo e pretendevano testimonianze impossibili o rifiutavano quelle a disposizione.

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Le spie venivano premiate secondo l’importanza delle delazioni fornire: per la segnalazione di un “bandito” o di un deposito di armi, nel Bellunese il premio era di cinquemila lire e cinque chilogrammi di sale; per la cattura di un “capobanda” o per la segnalazione di un importante deposito di armi ed esplosivi c’erano diecimila lire e dieci chilogrammi di sale.

“Era necessario essere cauti. Le spie erano molto diffuse e i tedeschi avevano da poco iniziato esperimenti con bande dei cosiddetti controbanditi, cioè dei tedeschi e fascisti che si aggiravano in piccoli gruppi travestiti da partigiani. Questo non er un travestimento così difficile da attuare, in verità. Basette, barba da Alpini, o perlomeno un po’ di capelli sulla faccia, e una totale mancanza di uniformità nel vestire, erano gli elementi essenziali.

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Nessuno si fidava, di conseguenza la parola d’ordine era: io sono sospetto, tu sei sospetto, egli è sospetto” (da “Uomini e Montagne, dall’Himalaya alla guerra partigiana sulle Alpi”, Torino, Centro Documentazione Alpina, ottobre 2001).

A supporto della lotta di liberazione venivano paracadutate o s’infiltravano attraverso le linee le cosiddette “Missioni militari” con il compito di collegare le varie formazioni partigiane ai Comandi alleati. Comunicavano con la ricetrasmittente direttamente con Brindisi per segnalare necessità di rifornimenti, che avvenivano tramite aviolanci di armi, esplosivi, equipaggiamento e viveri.

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Potevano segnalare anche obiettivi da colpire. I loro componenti indossavano sempre la divisa militre sperando, in caso di cattura, di ricevere un trattamento da prigionieri di guerra secondo la Convenzione di Ginevra. Sull’Altopiano di Asiago, proveniente da Monopoli, nell’agosto del 1944 arrivò la missione “Simia” comandata dal maggiore inglese Harold William Tilman, il primo, nel 1936, a scalare un ottomila, il Nanda Devi.

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TILMAN

Con lui c’erano il tenente John H. Ross, il tenente Vittorio Gozzer “Gatti”, quale interprete, e il radiotelegrafista Antonio Carrisi “Marino Marini”. Dovettero ritornare a Monopoli per ben due volte causa la nebbia. Alla fine furono lanciati nelle stesse condizioni, col risultato che Tilman cadde su uno spuntone di roccia e rimase inattivo per una settimana, mentre il radiotelegrafista si slogò una caviglia e fu sostituito da Benito Quaquarelli “Pallino”, distaccato dalla missione “Sim” di Antonio Ferrazza.

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Il solo rimasto indenne fu “Gatti”, che lasciò testimonianza anche delle avventure successive. La Missione, dopo aver contattato John Wilkinson della Missione “Freccia” che operava sull’Altopiano di Asiago, doveva dirigersi su Cansiglio in appoggio ai circa tremila partigiani della divisione “Nino Nannetti”.

Attraversato il Monte Grappa, dovette trattenersi sulle Vette Feltrine perché era in corso un rastrellamento e fu ospite in Pietena della brigata “Gramsci”, alla quale procurò qualche lancio. Questo invece non fu possibile per il “Gherlenda” data la conformazione del terreno e il limitato numero di combattenti da assistere.

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Oltre a quelle militari, venivano inviate tramite aviolanci o sbarcate da sottomarini, passando poi la linea del fronte, anche “missioni informative”, vere e proprie “missioni di intelligence”, formate da personale italiano reclutato tramite il Sim (servizio informazioni militari) e l’Ori (organizzazione della resistenza italiana, creata e diretta da Raimondo Craveri).

Con la radio ricetrasmittente fornivano informazioni di tipo militare, politico, industriale ed economico-sociale. Non essendo ufficialmente militari, i componenti di queste missioni non indossavano divise e in caso di cattura potevano essere passati per le armi. Non che, comunque, i tedeschi abbiano sempre rispettato i diritti dei missionari in uniforme.

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Il capitano Steve Hall della Missione “Eagle”, per esempio, arrivato alla fine del 1944 nel Cadore, fu catturato dai tedeschi a Cortina d’Ampezzo, portato a Verona, poi a Bolzano, duramente torturato e quindi impiccato.

Metà delle missioni dipendevano dalla Soe (Special Operations Executive), il Servizio speciale inglese in attività oltre le linee che in Italia corrispondeva alla “Special Force N. 1”, il cui scopo era di incrementare l’opposizione ai nazisti nei paesi europei. L’altra metà dipendeva dall’Oss (Office of Strategic Services) americano, da cui alla fine della guerra ebbe origine la Cia. Responsabile dell’Oss per l’alta Italia era Albert Materazzi. Ovviamente le missioni venivano inviate dove c’era una vasta organizzazione partigiana.

Albert Materazzi

Albert Materazzi

“In Val Calamento, presso l’albergo, giunse nell’estate 1944 una Missione inglese e rimase per qualche tempo: aveva la ricetrasmittente. Qualche giorno dopo arrivò Fiore Lutterotti alla ricerca della Missione. Mi puntò la rivoltella alla tempia: voleva sapere dove erano gli inglesi. Gli dissi che se anche l’avessi saputo non glielo avrei detto: la Missione era partita per la Val di Fiemme.

C’era anche un certo Icaro proveniente dal Veneto che portava soldi ai partigiani. Sapeva che la baronessa Buffa era collaboratrice dei partigiani”. E’ quanto dichiaro nel 2001 Rosina Franzoi, che assieme alla sorella Lorenzina gestiva l’albergo Calamento.

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C’è da constatare purtroppo che a quel tempo né Rosina Franzoi né Lucia Buffa sapevano di essere circondate da spie. La rivoltella alla tempia era sicuramente una messa in scena: Fiore Lutterotti non era nuovo a simili imprese. A Riva del Garda, nel giugno precedente, come abbiamo già scritto, si era lasciato catturare pure lui dalle SS assieme ai compagni traditi, per non destare sospetti.

La stessa missione la troviamo comunque alla fine di ottobre alle malghe Viose, dove erano alloggiati i fratelli Ugo e Tullio Pasqualini con alcuni amici. “La Missione inglese, sbrindellata e senza soldi, ci aveva lasciato il giorno prima”, scrive Ugo nel suo diario il 28 ottobre. Sul Cansiglio ce n’era a disposizione una unica per l’intera divisione di combattenti e non era lasciata certo “sbrindellata e senza soldi”, perché i lanci arrivavano. Vien da pensare che quella di cui racconta Ugo Pasqualini non fosse certo una missione ufficiale.

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Il 28 ottobre anche i due fratelli partirono per Milano dove avevano una casa. Il loro padre, Ermanno Pasqualini, uscito dal campo di concentramento di via Resia a Bolzano ai primi di maggio 1945, scrisse che “Ugo dovette andarlo a cercare a Vicenza, dove stava terminando la sua attività per la missione militare alleata “Icaro”. C’è da chiedersi come mai Ugo, facendo parte di una missione alleata, abbia abbandonato baracca e burattini e se ne sia partito col fratello per il capoluogo lombardo.

La rete di spie organizzata da Hofer funzionava benissimo. “Tra i frati sottoposti a interrogatorio si trovava anche Costantino Amort, che all’insaputa dei confratelli aveva partecipato in quei mesi all’attività del Cln locale.

IL GAULEITER FRANZ HOFER

IL GAULEITER FRANZ HOFER

L’irruzione nel convento di Cavalese era avvenuta quindi dopo un’opera assai minuziosa di spionaggio e di delazioni, guidata, ancora una volta, da quel Fiore Lutterotti che era già riuscito a far cadere nella rete dei tedeschi l’intera organizzazione clandestina del Basso Sarca, e, inoltre, come si sospettò, fa un ufficiale italiano di nome “Icaro”, il quale lavorava da due mesi per conto della missione Ercole” (dalla relazione del Cln di Trento al Clnai, 24 marzo 1945).

CINTE E PIEVE TESINO

CINTE E PIEVE TESINO

La Missione “Ercole” aveva la sua zona di attività nel Cadore e in Val Cordevole: non si capisce come un suo componente, sia pure di nome “Icaro”, abbia potuto prendere il volo e arrivare così lontano dalla sua formazione. Anche i cinque partigiani del distaccamento “Bronzetti”, di stanza nella zona del Passo del Brocon, nella prima metà di ottobre “incontrarono elementi di una missione inglese con la quale concordarono invano un lancio di materiali”. Da notare che la zona si sarebbe prestata benissimo ad un aviolancio.

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Non è ben chiara, quindi, l’identità e la presenza in Val Calamento prima e nella zona del Passo del Brocon poi di una missione, visto che in quelle zone c’erano soltanto cinque o sei renitenti alla leva e qualche gruppetto di partigiani di passaggio. Chiara Saonara, nel suo studio sulle varie missioni militari alleate nel Veneto, non ne annota nessuna in Trentino. Alla voce “Icaro” (Soe) scrive: “Attività fine 1944 – zona Vicenza-Verona”.

Il dono dell’ubiquità l’hanno avuto solo pochi che si sappia: tutto quanto passò sotto il nome di “Icaro” in Valsugana, in Val di Fiemme o nel Tesino, fu senz’altro opera di controspionaggio di occupanti e collaborazionisti. Il tutto ben organizzato e riuscito per il fatto che in Trentino non c’era una missione vera che potesse smascherare la falsa, e quei pochi partigiani rimasti, se pur avessero avuto dei dubbi, non avevano modo di prendere informazioni.

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