FUCILATI PER LA RESA AI PARTIGIANI JUGOSLAVI

a cura di Cornelio Galas

Fonte: patria indipendente 25 novembre 2007

Quella che proponiamo nelle pagine seguenti è la ricostruzione di una vicenda pressoché sconosciuta, avvenuta sulla piccola isola di Brazza (Brac), nel territorio della nuova provincia italiana di Spalato (noi l’avevamo occupata), ai primi di agosto del 1943. Le pochissime notizie finora disponibili provenivano dalla Storia della Resistenza italiana all’estero di Alfonso Bartolini (1).

Oggi, una ricerca presso l’archivio dell’Ufficio storico dell’esercito ha portato alla luce due sentenze (2) che permettono di riesaminare con accuratezza i fatti che condussero alla condanna a morte e alla fucilazione di 28 militari dell’Esercito Italiano (due ufficiali, 23 alpini e tre carabinieri) per essersi arresi al nemico – i partigiani jugoslavi – senza combattere.

Alpini della “Taurinense” in Montenegro, nel 1943

Si tratta dell’unico caso di repressione collettiva portata a compimento da un Tribunale militare su soldati italiani in tutta la seconda guerra mondiale; con una durezza estrema, che contrasta con la documentata tendenza a contenere il più possibile le esecuzioni di militari. Per quanto riguarda gli ufficiali, ad esempio, due delle tre condanne a morte in tutto il conflitto risalgono proprio a questo episodio.

Il 7-8 agosto 1943, a Sebenico (Sibenik), il comando del XVIII Corpo d’armata convocò il Tribunale militare straordinario per giudicare i componenti del presidio di Bol, località sulla costa meridionale dell’isola di Brazza, che due giorni prima si era arreso ai partigiani. Fu comminata una punizione esemplare: il capitano Leo Banzi, comandante del presidio, riconosciuto colpevole dei reati di resa in campo aperto e aiuto al nemico, subì la condanna alla degradazione e alla fucilazione alla schiena; il sottotenente Renzo Raffo, i tre carabinieri e i 23 alpini finirono davanti al plotone di esecuzione, potendo offrire il petto alle armi, per il reato di sbandamento.

Le fucilazioni ebbero luogo immediatamente mentre altri ventitre alpini, condannati a quindici anni di reclusione ciascuno, vennero trasferiti in zona di operazioni e solo ventuno andarono assolti con formule varie.

Settembre 1943. Il Maresciallo Tito assieme ai membri del Comando supremo dell’EPLJ a Jaice

Nel dopoguerra, il generale Angelo Banzi (padre del capitano passato per le armi), dopo aver raccolto le testimonianze di alcuni superstiti, chiese la revisione del processo, appoggiata anche dal generale Marras, capo di Stato maggiore dell’esercito (nota del 27 aprile 1947), alla quale si aggiunsero anche le istanze dei familiari dei tre carabinieri.

Luigi Efisio Marras

Le sentenze emesse negli Anni 50 dai tribunali militari competenti e ritrovate dopo oltre cinquant’anni di oblio non solo consentono di verificare come si svolsero effettivamente le cose ma, soprattutto, permettono a noi di restituire la dignità ingiustamente perduta a quei ventotto nomi di soldati italiani che persero la vita in una maniera così tragica e insensata.

Il Tribunale supremo militare, investito della richiesta di revisione, registra la mancanza della sentenza e degli atti del processo del 7-8 agosto 1943, di cui resta soltanto una nota senza data che comunica le condanne ai comandi coinvolti (le carte andarono perse dopo l’8 settembre); non ritiene necessario procedere a una ricostruzione minuta dei fatti perché già dalle concordi testimonianze presentate risulta che il capitano Banzi non poté ordinare la resa perché sopraffatto di sorpresa all’inizio dell’azione, così come i suoi uomini; cade così l’accusa principale, quindi il Tribunale conclude che esistono gli elementi per una revisione del processo, annulla la sentenza di condanna e rimette gli atti per un nuovo giudizio al Tribunale militare territoriale di Bari.

Partigiani jugoslavi a riposo dopo una lunga marcia

Il Tribunale militare riaprì le indagini con molta cura, sentendo gli imputati superstiti e gli ufficiali che li avevano accusati. Poi stese una sentenza di 20 pagine che ripercorre tutta la
vicenda (3). Ne diamo un’ampia sintesi, a cominciare dai nomi dei fucilati:

    • 1) Leo Banzi, 1901, Cuneo, capitano degli alpini, a 43 anni il più anziano di tutti;
    • 2) Renzo Raffo, 1912, provincia di Lucca, sottotenente degli alpini;
    • 3) Lodovico Marazzi, 1912, provincia di Piacenza, caporalmaggiore;
    • 4) Giuseppe Castagno, 1912, provincia di Torino, caporale;
    • 5) Attilio Novo, 1914, provincia di Asti, caporale;
    • 6) Lorenzo Migliore, 1912, provincia di Cuneo, caporale;
    • 7) Valentino Stella, 1918, provincia di Torino, caporalmaggiore;
    • 8) Felice Grossi, 1922, provincia di Novara, carabiniere;
    • 9) Basilio Lusso, 1907, provincia di Torino, carabiniere;
    • 10) Natale Ribotta, 1922, provincia di Cuneo, alpino;
    • 11) Ermenegildo Poggio, 1918, provincia di Asti, alpino;
    • 12) Aldo Pavese, 1921, provincia di Asti, alpino;
    • 13) Ernesto Pastrone, 1921, provincia di Asti, alpino;
    • 14) Arnaldo Barbero, 1912, provincia di Asti, alpino;
    • 15) Ettore Colombo, 1906, provincia di Novara, carabiniere;
    • 16) Firmino Gozzelino, 1921, provincia di Asti, alpino;
    • 17) Luigi Oberto, 1919, provincia di Torino, alpino;
    • 18) Felice Nevissano, 1909, provincia di Asti, alpino;
    • 19) Giovanni Giovanetti, 1915, provincia di Asti, alpino;
    • 20) Mario Bussone, 1921, Torino, alpino;
    • 21) Stefano Tribaudino, 1917, provincia di Cuneo, alpino;
    • 22) Giuseppe Roccia, 1917, provincia di Torino, alpino;
    • 23) Antonio Di Iorio, 1914, provincia di Torino, alpino;
    • 24) Edoardo Burzio, 1919, provincia di Torino, alpino;
    • 25) Giovanni Comollo, 1912, Torino, alpino;
    • 26) Enevino Aglì, 1916, provincia di Torino, alpino;
    • 27) Giuseppe Griffi, 1915, provincia di Torino, alpino;
  • 28) Clemente Perino, 1918, provincia di Torino, alpino.

Tutti appartenenti alla 326ª Compagnia presidiaria alpina (costituita nell’ambito del 3° Reggimento alpini, il che spiega l’omogeneità del reclutamento) del 10° Battaglione costiero, che dipendeva dalla Divisione Bergamo, gen. Emilio Becuzzi (Spalato, Split) e quindi dal XVIII Corpo d’Armata, gen. Umberto Spigo (Sebenico, Sibenik).

La compagnia presidiava il piccolo abitato di Bol, sulla costa sud dell’isola di Brazza (Brac), che faceva parte della nuova provincia italiana di Spalato. Secondo il gen. Becuzzi e il col. Fantino, comandante del reggimento che occupava l’isola, il presidio (una settantina di alpini e sei carabinieri) era «in perfetto stato di efficienza»; dalle indagini risulta invece che era composto da militari meno atti alle fatiche di guerra per età o malattie, armati di fucili modello 91 di terza classe in condizioni di non perfetta efficienza, con poche munizioni e una sola mitragliatrice Fiat modello 35 che si inceppava al secondo o terzo colpo.

10 settembre 1943. Le truppe italiane del presidio di Novo Mesto consegnano automezzi ai partigiani

Fino all’inizio di luglio, il presidio era acquartierato in un grande edificio isolato, atto alla difesa. Poi per ordine del col. Fantino e del ten. Col. Boschi, capo di stato maggiore della Divisione Bergamo, si era spostato in locali dispersi nel centro del paese. Il collegamento con il comando di battaglione, a pochi chilometri, era affidato a una linea telefonica precaria.

Le preoccupazioni espresse dal cap. Banzi erano state respinte, gli abitanti del paese avevano comportamento amichevole e i presidi dell’isola non erano in stato di allarme. Il 5 agosto a Bol si celebrava la festa della “Madonna della neve”, con un’orchestrina e la gente che ballava per le strade. Alle 20 scattò l’attacco dei partigiani che sorprendeva gli alpini dispersi e disarmati; il capitano Banzi e il sottotenente Raffo venivano sopraffatti mentre cenavano in un ristorantino come tutte le sere e gli alpini fatti prigionieri dopo brevi sparatorie, in cui un comandante partigiano venne ucciso e due italiani gravemente feriti.

La mattina dopo il cap. Banzi accettava di scrivere un biglietto per invitare alla resa la vicina batteria costiera, in realtà per metterla in allarme e chiedere aiuto. Invece di insistere nell’azione, i partigiani fuggivano verso l’interno con le armi e i muli, ingiungendo agli alpini lasciati liberi di sgombrare subito il paese, cosa che fecero nel pomeriggio imbarcandosi su un peschereccio. Il col. Fantino, che stava sopraggiungendo con un piroscafo, li raccolse e li inviò subito a Spalato senza curarsi di svolgere un’inchiesta né di stendere un rapporto (4).

10 settembre 1943. Soldati italiani entrano a far parte delle formazioni partigiane jugoslave

Dalla batteria costiera avvisata dal cap. Banzi la notizia della resa era già giunta alla vicina isola di Lesina (Hvar) e da qui un colombo viaggiatore l’aveva portata fino al comando di Corpo d’Armata in Sebenico (grazie a questo colombo il comando più lontano fu informato
prima di quelli sull’isola). La reazione del gen. Spigo fu immediata: poiché il gen. Becuzzi, comandante della Divisione Bergamo, era in licenza, inviò a Spalato il gen. Pelligra con l’ordine di tradurre a Sebenico i militari che si erano arresi e convocò per l’indomani un Tribunale militare straordinario.

La sentenza rileva che neanche il gen. Pelligra si preoccupò di condurre un’inchiesta sui fatti, né interrogò gli arrestati, ma si limitò a compilare un elenco dei nominativi (5). «Dalle risultanze dibattimentali è emerso che il Tribunale Militare Straordinario convocato dal Generale Spigo giudicò i militari senza che del fatto venisse redatta una circostanziata denunzia e senza che fosse stata compiuta una regolare inchiesta.

Infatti il semplice rapporto redatto dal Colonnello Fantino il giorno 7 agosto nella località di San Martino nell’isola di Brazza non poteva giungere al Tribunale Militare Straordinario convocato in Sebenico nella stessa giornata del 7, né il Comando della Divisione Bergamo, come ha affermato il Capo di Stato Maggiore Boschi, redasse alcuna denunzia a carico del Capitano Banzi e degli altri militari del Presidio di Bol.

Al processo, inoltre, non vennero escussi testi né vennero chiamati a deporre il Comandante del Reggimento Colonnello Fantino e il Comandante del Battaglione 1° Capitano Varaldi. Il Generale Spigo, evidentemente, avuta notizia della resa del Presidio di Bol e ritenendo, a suo avviso, che tale resa – della quale però non conosceva i particolari – fosse dovuta a mancanza assoluta di spirito combattivo, ritenne suo dovere convocare il tribunale Militare Straordinario per far dare sui fatti un giudizio immediato e esemplare» (6).

Non abbiamo particolari sullo svolgimento del processo il giorno 7, conosciamo soltanto le condanne emanate l’indomani 8 agosto (7). «Le condanne alla pena di morte vennero eseguite immediatamente e dal dibattimento è risultato che il contegno dei condannati a morte di fronte al plotone di esecuzione fu superiore ad ogni elogio”. Il Banzi prima di morire scrisse al padre il seguente biglietto:

“Caro papà, è terribile quando devo comunicarti. In seguito ad una disgraziata faccenda la mia compagnia è stata sopraffatta. Io, il mio tenente e buona parte dei miei soldati saremo fucilati stamani. Benedici la mia memoria e ricorda che non ho mancato al mio dovere. Penso a te. Leo”.

Poi, dopo aver chiesto inutilmente di essere fucilato al petto, affrontò serenamente la morte.

Gli altri alpini, nel consegnare i loro oggetti personali ai commilitoni affinché li portassero
ai loro familiari, raccomandavano di dire ai loro cari che morivano innocenti. Il S. Ten. Raffo, che aveva visto piangere alcuni militari del plotone di esecuzione composto di bersaglieri, volle assumere il comando del plotone e rincuorando gli alpini disse ai bersaglieri di mirare bene perché aveva la pelle dura. Morì gridando a voce alta: “Viva l’Italia”.

Il Tribunale conclude che «dal complesso delle risultanze processuali emerge in modo inequivocabile che i fatti addebitati ai militari in questione non sussistono». Il 5 agosto a Bol non ci fu reato di sbandamento perché non ci fu un combattimento: gli alpini furono sopraffatti di sorpresa da forze soverchianti dopo aver fatto il possibile per resistere. Il capitano Banzi fu catturato per primo, quindi non poteva ordinare la resa che gli venne imputata; il biglietto che fu costretto a scrivere alla vicina batteria costiera non era idoneo a provocarne la resa, anzi valse a diffondere l’allarme.

Il Tribunale dichiarò quindi tutti i fucilati non colpevoli dei reati loro addebitati e li assolse (8) ordinando che ciò venisse registrato sui loro atti di morte (9).

Un mese più tardi, al momento dell’armistizio, il gen. Spigo non dimostrò uguale fermezza: il 9 settembre ordinò al gen. Becuzzi, tornato al comando della Divisione Bergamo, di opporsi ai tedeschi “senza spargimento di sangue”, il 10 consegnò ai tedeschi la città di Zara, il 15 si imbarcò sotto scorta con 250 uomini del suo comando per Venezia, dove poté sottrarsi alla prigionia. A Spalato la Divisione Bergamo riuscì a protrarre la resistenza con una difficile collaborazione con i partigiani; dopo alterne vicende il 23 settembre il gen. Becuzzi riuscì a imbarcarsi per l’Italia con 3.000 uomini, il 28 il grosso della divisione fu sopraffatto.

Un tribunale di guerra tedesco decretò la fucilazione di oltre 60 ufficiali, tra cui il gen. Pelligra che era stato uno degli animatori della resistenza, medaglia d’oro alla memoria (10). Dopo la guerra, il generale Becuzzi, che aveva abbandonato il suo posto comando di Spalato, per consegnarsi ai tedeschi, ebbe a subire un processo da parte dei familiari degli ufficiali uccisi, i cui corpi riposano ora nella chiesa sacrario del Lido di Venezia.

Note

1) Alfonso Bartolini, Storia della Resistenza italiana all’estero, Rebellato, Padova 1965, pp. 33-35.
2) Il fascicolo con le due sentenze e la nota del gen. Marras appresso citata è nel Fondo H/5, b. 40, f.13.
3) Giudice relatore del Tribunale di Bari (e quindi estensore della sentenza) era il col. Floro Roselli, in seguito asceso al vertice della giustizia militare, poi curatore dei 17 volumi di sentenze del Tribunale speciale per la difesa dello Stato pubblicati presso l’Ufficio Storico dell’Esercito tra il 1981 e il 1999.
4) Dalla sentenza non risulta se siano state commesse rappresaglie sugli abitanti di Bol per la loro complicità con i partigiani.
5) Il gen. Spigo non si recò a deporre al processo di revisione, ma inviò un certificato medico che lo dichiarava non in grado di affrontare il viaggio da Torino a Bari. Furono invece sentiti come testi Becuzzi, Fantino, Boschi, Varaldi e gli imputati sopravvissuti (tranne quattro, più uno morto in prigionia e un altro i cui dati anagrafici erano errati). I nomi dei membri del Tribunale straordinario sono rimasti ignoti.
6) Il Tribunale di Bari non era chiamato a valutare il comportamento dei comandi italiani, quindi si limitò a questa fase sufficientemente chiara.
7) In particolare non si può capire con quali criteri siano stati scelti gli alpini da fucilare. Dalla sentenza risulta che quattro di costoro riuscirono a sparare alcuni colpi prima di essere sopraffatti, come altri condannati invece alla reclusione. In un gruppo di dieci alpini catturati senza poter opporre resistenza tre vennero fucilati, gli altri scamparono la vita. Uno dei fucilati era stato sorpreso mentre stava facendo il pane in un forno isolato. Tra i condannati alla reclusione ci sono tre alpini che si barricarono in un edificio sparando fino
a esaurimento delle munizioni e un sergente maggiore che uccise un comandante partigiano con una bomba a mano. Tutto ciò sembra confermare la celerità e superficialità con cui venne condotto il processo.
8) Il Tribunale di Bari non prese in considerazione le colonne alla reclusione delle quali non era stata chiesta la revisione. Queste condanne rimasero valide, ma erano state differite e quindi non furono scontate; vennero verosimilmente cancellate dalle amnistie del dopoguerra.
9) Il sindaco di Angrogna, Jean-Louis Sappé, ha cortesemente messo a disposizione l’atto di morte dell’alpino Enevino Aglì, ivi nato e residente, da cui risulta appunto la trascrizione della dichiarazione che era stato fucilato ingiustamente.


10) Cfr. Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma Ufficio Storico dell’Esercito 1975, pp. 350-359; Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Roma, Ufficio Storico dell’Esercito 1992, pp. 263-266.

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