2ª GUERRA MONDIALE, SEGRETI AMERICANI – 2

a cura di Cornelio Galas

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Adolfo Hitler divenne cancelliere il 30 gennaio 1933 e alcuni Americani i quali avevano letto Mein Kampf e ne avevano valutato la portata, guardarono con terrore le nubi che s’addensavano sul futuro. Non già che la minaccia di guerra fosse immediata, poiché la Germania sembrava ancora a terra dal punto di vista militare e persisteva ancora la fede nelle misure preventive nel trattato di Versailles.

Una minaccia molto più immediata era nell’inquietante sospetto di quel che poteva avvenire qui in casa nostra. I denti del drago fascista e comunista erano sparsi per tutto il mondo e in quell’inverno con le banche chiuse, cambiali in protesto e code alle cucine economiche era facile temere che quei semi distruttori potessero attecchire sul suolo americano.

Il popolo in genere, sapeva ben poco del vero carattere dell’uomo che sarebbe salito alla Casa Bianca il 4 marzo. Che cosa sarebbe avvenuto se anche lui si fosse rivelato un “condottiero”? Date le circostanze, non gli sarebbe stato difficile accaparrarsi poteri dittatoriali.

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Gli Americani avevano addirittura fame di essere guidati. Herbert Hoover, che era perso avere qualità eccezionali per la Presidenza, era miseramente fallito sotto la pressione di circostanze eccezionali. Benché gli fosse stato attribuito il titolo di “grande umanitario”, l’opera sua, come Presidente di una nazione depressa, fu quella di un uomo commoventemente privo di buon senso e di comprensione umana.

Dapprima assicurò nel modo più certo il popolo che la depressione era un’illusione e che era dovere patriottico ignorarla; quindi, quando si verificò in Europa il crollo economico, denunciò aspramente la depressione come qualcosa di estraneo all’America, da cui dovessimo isolarci. In ultimo, sgridò violentemente il popolo che aveva fatto cadere la colpa della depressione sul partito repubblicano, il quale s’era per altro addossato il merito della precedente prosperità.

Ebbe a dire allora un eminente repubblicano, Dwight Morrow: “Quelli che si sono presi i meriti della pioggia, non devono lamentarsi se li si incolpi della siccità”. La disgrazia fu che Herbert Hoover era, per valerci della definizione che ne dette saggiamente George Ade, “viscido”.

Sotto la sua disgraziata amministrazione il prestigio della Presidenza e la fede popolare nell’intero nostro sistema costituzionale e specie in quello che Hoover medesimo proclamava a gran voce “il modo di vivere americano” erano caduti così in basso da destare ogni preoccupazione. Il sentimento popolare era paurosamente e aspramente risentito, in modo quanto mai pericoloso.

Esiste da parte di quelli che più son propensi a cianciare di un “modo di vita americano” una tesi ostinata, secondo la quale l’Americano medio è un accanito individualista, per il quale qualsiasi concezione “direttiva” si presenta come straniera e spiacevole.

Harry Lloyd Hopkins

Harry Lloyd Hopkins

Tale tesi corrisponde senza dubbio alla nostra tradizione nazionale di uomini senza legge e senza rispetto per l’autorità. Ma ha il torto di non adattarsi esattamente alla verità dei fatti. Noi Americani nutriamo un’inveterata adorazione per l’eroe, per l’uomo rappresentativo, molto più degli Inglesi e dei Francesi.

Ci piace personalizzare gli ideali e la causa per cui lottiamo. Nelle nostre organizzazioni politiche, industriali e sindacali, ci consola sapere che vi è in cima un “padrone”, che siamo liberi di venerare o di odiare e sul quale possiamo fare affidamento quando vi siano da adottare decisioni improvvise nei momenti difficili.

La stessa cosa è vera dei nostri reparti di giovani esploratori e delle bande criminali. Ed è ancora più evidente nel nostro “tifo” per le competizioni sportive. Sin dall’infanzia siamo abituati a rivolgere il nostro sguardo all’allenatore, perché intervenga nei casi difficili.

In tempi di pace e di prosperità, invero, quando gli Americani pensano di spicciarsela bene da soli, non si preoccupano molto della personalità dell’uomo che sta alla Casa Bianca, soddisfatti se il Presidente rientri puramente e semplicemente nella cornice abituale, come fu di Warren G. Harding e che magari si presenti con aria abbastanza austera sui francobolli sempre meno in uso.

Ma quando arrivano le avversità e i problemi sono troppo grandi o troppo difficili perché i singoli bastino a risolverli, allora nel cittadino medio si ridesta l’antico “spirito di squadra” ed egli comincia a guardarsi ansiosamente intorno, perché l’allenatore gli dia l’imbeccata.

È allora che il Presidente degli Stati Uniti esce dalla sua cornice e deve rivelarsi un uomo indispensabile per vitalità e umanità. La fede degli Americani nel rinnovarsi di tale miracolo è sconfinata. V’è nella loro coscienza la convinzione profondamente radicata che comparirà sempre sulla scena un grande Presidente, tutte le volte che ne “avranno veramente bisogno”.

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Huey Long

Negli anni 1929-1933, la domanda che tutti ripetevano con costante apprensione era: “Ma dove si trova adesso?”. Nessun drammaturgo celebre avrebbe potuto escogitare un’entrata in scena migliore per un nuovo Presidente – o un nuovo “dittatore “ o un nuovo Messia che fosse – di quella che si trovò ad avere Franklin Delano Roosevelt.

L’eterna ironia della sorte volle che il palcoscenico non gli fosse stato così fastosamente preparato dagli amici e sostenitori, persone allora relativamente oscure, ma da quelli che dovevano diventare i suoi più accaniti nemici. Per dirla nel gergo della rivista, quello di Herbert Hoover era “un quadro che si adattava bene per un seguito”.

Roosevelt arrivava sulla sedia a rotelle anziché sul cavallo bianco, ma il rullare dei tamburi e i tuoni che l’accolsero erano un commento veramente wagneriano e inoltre un monito angoscioso di quanto potesse accadere alla democrazia americana, qualora il nuovo Presidente avesse rivelato le qualità di un Hitler o anche di un Huey Long.

La gente non dovette attendere perché gli si manifestasse qual’era, in un modo chiaro e irrevocabile. Come fu impressionante l’entrata in scena, così lo fu il modo come vi si mantenne. Harry Hopkins che contribuì in seguito a preparare tanti fra i discorsi presidenziali, dopo la morte dii Roosevelt ebbe a scrivere che: “per conto mio, penso che il suo primo discorso d’insediamento sia stato il migliore”.

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Harry Hopkins con Churchill

Fu certo quello più espressivo della sua personalità. In circa duemila parole mise nettamente in chiaro che si sarebbe agito su svariati fronti: “e subito”. La frase più famosa e meritatamente, fu: “l’unica cosa che dobbiamo temere è la paura” e se si pensa alla carriera di Roosevelt e a tutta la sua dottrina ci si rifà sempre a quelle parole.

Ma ve ne furono altre di meritevoli, che acquistarono valore man mano che si attuavano:

I banchieri sono caduti dal trono nel tempio della nostra civiltà. Dobbiamo riportare questo tempio alle sue antiche verità…

Si dovrà porre un termine alla speculazione su denaro altrui…

Sono favorevole ad una direttiva pratica, che è quella di cominciare dal principio…

Il nostro primo e maggior compito è di trovare lavoro…

In ogni ora oscura della nostra vita di nazione una guida schietta e vigorosa ha riscosso la comprensione e l’aiuto del popolo stesso, essenziali per vincere…

Abbiamo fiducia nel domani della democrazia. Il popolo degli Stati Uniti non ha mai fallito.

Ora che la situazione nazionale è ancora critica… chiederò al Congresso l’unico mezzo col quale si possa ancora affrontare la crisi: vasti poteri all’esecutivo per muover guerra alle difficoltà, poteri uguali a quelli che mi verrebbero accordati se il nostro paese fosse invaso dallo straniero…

Per quanto si riferisce alla politica mondiale, l’indirizzo che darò alla politica nazionale è quello della politica di buon vicinato…

La nostra Costituzione è così semplice e pratica, che è sempre possibile fare fronte ai bisogni eccezionali mutando l’accento e l’ordine dei paragrafi senza intaccare in nulla la sostanza…

Nel volume The Roosevelt Revolution, l’autorevole Ernest K. Lindley ha preso in esame i primi sei mesi del New Deal ed è interessante notare che non abbia ritenuto di dover dedicare ad Hopkins più d’un periodo, menzionandolo soltanto tra quelli che si trovavano a Washington.

Le figure eminenti della prima annata del New Deal furono: Raymond Moley, Rexford G. Tugwell e Adolf Berle. Del “trust dei cervelli”, Louis MacHenry Howe, intimo amico e consigliere di Roosevelt, Henry Morgenthau jr., altro suo vecchio amico che fu dapprima governatore della Farm Credit Administration, Lewis Douglas, direttore del bilancio, Hugh S. Johnson, della N.R.A.

E tra i membri del Governo, William H. Woodin, Harold L. Ickes, Frances Perkins e Henry Wallace.

Tuttavia già dalla prima Presidenza, Hopkins, venne considerato il maggiore apostolo del New Deal attirandosi maggiori odi da quelli che l’avveravano, onore che credo si sia meritato.

Entrò far parte del Governo il 22 marzo, quando già erano trascorsi settantanove dei primi “cento giorni” roosevelliani, con la nomina ad amministratore dei soccorsi straordinari federali e a quanto ritengo, egli non fu scelto per primo, come già s’era verificato due anni prima per la nomina alla T.E.R.A.

Roosevelt

Roosevelt

Roosevelt ebbe a scrivere in seguito:

Assolse stupidamente il suo compito. Si sapeva poco a Washington dell’efficienza delle organizzazioni assistenziali degli Stati Uniti e dei Comuni in tutto il paese. Alcuni Stati e alcune Contee ne erano affatto privi.

Non si avevano statistiche attendibili né sui bisogni, né sulle spese di carattere assistenziale.

Bisognava agire senza indugio. E così venne fatto. Il giorno dopo il suo insediamento, (Hopkins) mandò i primi telegrammi ai governatori e prima di sera aveva già accordato somme al Colorado, all’Illinois, Iowa, Michigan, Mississipi, all’Ohio e al Texas.

Proprio sin dall’inizio si profilarono due importanti vie da seguire:

1) l’attuazione del programma parte certe norme fondamentali, doveva essere decentrata, mantenendole un carattere locale;

2) si doveva preferire far lavorare anziché sussidiare gente mantenuta nell’ozio.

Il contributo originario, secondo lo statuto, era di un dollaro sui fondi federali per ogni tre dei fondi locali, già spesi nel trimestre precedente. Lo statuto prevedeva anche che una parte dei fondi potesse essere spesa negli Stati, indipendentemente dalla proporzione stabilita, quando i fondi locali fossero stati insufficienti per far fronte ai bisogni dell’assistenza.

Il giorno dopo che Hopkins iniziò il suo lavoro al Governo, la Washington Post pubblicò un titolo alquanto allarmante: “Il denaro vola”, affermando: “Il mezzo miliardo di dollari per l’immediato aiuto agli Stati non durerà neanche un mese nelle mani di Harry L. Hopkins, nuovo amministratore, se costui manterrà il ritmo seguito nella giornata di ieri, quando ha sborsato più di cinque milioni di dollari nelle prime due ore che s’è trattenuto in ufficio”.

Hopkins era lanciato: si sedé al tavolo, iniziando a diramare telegrammi a destra e a manca prima ancora che gli avessero trasferito lo scrittoio dall’ingresso allo studio destinatogli.

Disse: “Qui non ci duro neanche sei mesi, quindi, faccio quel che mi pare”. Gli era stato detto da Roosevelt che il suo lavoro consisteva nell’aiutare i bisognosi, senza immischiarsi di politica.

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Prima ancora della T.E.R.A., s’era fatto un tentativo di varare un programma assistenziale. Dinanzi all’evidenza della stragrande necessità di aiuti governativi per le vittime del crollo economico, messe alla fame e prive di lavoro, Hoover s’era trovato a dover risolvere uno dei molti dilemmi che l’angustiavano: il sistema del sussidio gli ripugnava, ma l’unica altra soluzione sarebbe stata un contributo governativo per i lavori pubblici, soluzione che sapeva di socialismo di Stato.

Dato che la tradizione era per il sussidio, tanto che risaliva alla legge sui poveri sotto il regno della Regina Elisabetta, Hoover finì per preferirlo, pur non piacendogli, soltanto perché in armonia con la tradizione. Così i cittadini americani, ai quali tanto di recente era stato garantito che avrebbero avuto due auto per ogni rimessa e una gallina per ogni pentola, ricevevano in sostanza, il trattamento che si faceva ai poveri nell’Inghilterra del Cinquecento.

Hoover cercò di risolvere questo problema, come tanti altri, nominando alcune commissioni di studio (di cui la principale era presieduta da Walter S. Gifford della società dei telefoni e dei telegrafi). Ma la situazione era eccezionale ed esigeva, prima, che si agisse, poi che si studiasse.

Finalmente nell’estate del 1932, avvicinandosi le elezioni, Hoover appoggiò una legge che concedeva in prestito duecento milioni di dollari, all’interesse del tre per cento, da attribuirsi dall’Istituto finanziario per la ricostruzione ai diversi Stati, per iniziative assistenziali. Il governo federale avrebbe amministrato il fondo, senza però entrare nel merito della ripartizione.

L’iniziativa andò sotto il nome di “Atto per l’assistenza straordinaria e la costruzioni”, formando l’embrione di organizzazione regionale che venne rilevata da Hopkins all’inizio della sua attività. Ma era priva di fondi, che già erano sfumati quando s’incominciò a provvedere ai bisogni di circa diciassette milioni di perone, iscritte nelle liste dei sussidi.

Con la nuova disposizione della T.E.R.A. i contributi che erano in totale di cinquecento milioni di dollari, erano concessi agli Stati a fondo perduto anziché a titolo di prestito, ma a parte ciò, non ci discostava sostanzialmente dal principio del sussidio. Il carico maggiore pesava ancora sulle autorità locali, cui i bisognosi si rivolgevano, col cappello in mano, per ricevere la carità.

Fu questa la situazione che trovò Hopkins e che modificò profondamente rivoluzionando l’intera concezione dei compiti e delle responsabilità del Governo. Altri due importanti principi vennero successivamente caldeggiati con successo da Hopkins all’inizio della T.E.R.A.. Uno era di pagare in denaro anziché in buoni viveri; l’altro che venne ritenuto assolutamente rivoluzionario e inattuabile dai più conservatori tra gli addetti all’assistenza, fu l’estensione di questa non solo ai viveri, ma anche al vestiario, alla casa e alle cure mediche.

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Tali principi sono stati in seguito mantenuti, influendo su tutta la concezione in materia di assistenza sociale, specie per la salute pubblica. Si può a questo punto osservare che mi sono spesso chiesto se fosse esatta la famosa affermazione, attribuita a Thomas Corcoran, che “noi avevamo tracciato quel piano”.

Roosevelt aveva tracciato nelle grandi linee il progetto per la centrale della valle del Tennessee, la riforma agraria, il programma dei lavori pubblici e demaniali, il controllo sui cambi e qualcosa del genere dell’“Atto sulla ripresa dell’industri nazionale” (N.I.R.A.), sin da un anno prima di diventare Presidente e attuava profondamente tutto ciò.

Ma il programma di assistenza, come amministrato da Hopkins, non seguì certo nessun piano preciso, presentandosi piuttosto come una successione di notevoli improvvisazioni, imposte dal carattere stesso dei molteplici problemi che s’affacciavano giorno per giorno.

Attraverso attente ricerche e anche una buona dose d’intuito, Hopkins riusci a rendersi conto della vera situazione complessiva, facendola conoscere al Presidente, prospettando in modo vivo i problemi a lui e, cosa ancora più importante, alla signora Roosevelt, la quale aveva sposato la causa dei diseredati.

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Qualsiasi valutazione dell’Amministrazione rooseveltiana deve riferirsi prima di tutto ai risultati raggiunti dal Governo di Washington negli anni che seguirono il 1933, nel riconoscere aspirazioni, timori e necessità del popolo, conoscenza che manifestò tutta la sua importanza quando quello stesso popolo fu chiamato a sostenere gli sforzi senza precedenti della seconda guerra mondiale.

Gli studi richiesti per dare inizio al programma furono moltiplicati nelle diverse e vaste ricerche che accompagnarono in seguito l’attuazione di quel programma.

Benché Hopkins non abbia mai avuto fama di buon amministratore, né sia stato celebrato come il campione dell’intangibilità del denaro dei contribuenti, v’era tuttavia un aspetto in cui era estremamente economo: faceva andare avanti il suo ufficio con spese minime. Diverso dalla maggior parte dei burocrati, odiava dii circondarsi di una quantità di funzionari.

Quel che voleva e quel che ottenne, fu un piccolo gruppo di persone tanto zelanti da ammazzarsi di lavoro.

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L’organizzazione assistenziale guidata da Hopkins al termine del primo anno aveva iscritto sulle proprie liste-paga circa diciassette milioni di persone, spendendo un miliardo e mezzo di dollari, ma l’organizzazione dal canto suo non contava più di centoventuno persone, con una paga complessiva di ventiduemila dollari al mese.

A chiunque abbia qualche familiarità con il normale andamento degli uffici, cifre tanto basse appariranno addirittura incredibili, ma Hopkins era riuscito a circondarsi di persone per le quali lavorare sessanta ore alla settimana era addirittura un passatempo.

Il suo stesso stipendio era inferiore a ottomila dollari, invece dei quindicimila che guadagnava prima d’andare al Governo. Nella sua perenne premura, Hopkins aveva in dispetto i normali procedimenti burocratici e quando gli ispettori del bilancio chiedevano di vedere il “regolamento organico”, veniva loro risposto che non esisteva, dato che Hopkins non permetteva ce ne fosse uno.

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“Non voglio – diceva – che nessuno perda qui tempo a fare degli organici. Capita sempre che chi ha l’incarico di farli, metta se stesso al posto migliore”. Disprezzava anche i formalismi o il “decoro” di cui ogni alto funzionario ritiene di circondarsi: uffici ben arredati con spessi tappeti e due bandiere incrociate dietro l’ampio scrittoio in mogano.

Hopkins non possedeva né giacche a coda, né calzoni a righe, che si fece imprestare quando andò a fare visita a re Giorgio VI e alla regina Elisabetta a Washington, mentre era membro del Gabinetto. V’era in lui come un fanatismo nel perseguire gli scopi che si era proposto. E tale fanatismo ispirava anche ai suoi collaboratori, che avevano l’impressione di combattere una guerra santa contro il bisogno.

Anni dopo, quando lo conobbi, ebbi modo di constatare come egli stimolasse quelli che lavoravano con lui. Era l’estate del 1940 ed io ero impegnato attivamente nel Comitato William Allen White per l’aiuto all’Inghilterra. Lo trovai una domenica a Long Island, in casa della signora Harvey Cushing; mi prese in disparte per chiedermi: “che state combinando, voialtri guerrafondai?”

Ritenni che scherzasse usando quell’epiteto e risposi che ci stavamo dando da fare per ottenere i trasferimento all’Inghilterra di cinquanta cacciatorpediniere antiquati. Hopkins con una smorfia di disgusto: “Volete dire – interruppe – che chiederete pubblicamente al Presidente di dare cinquanta nostre navi da guerra ad un belligerante?”

il generale Marshall

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Dissi che i caccia non ci servivano immediatamente e che da anni erano inutilizzati. “Ma – replicò – non vi rendete conto che una richiesta ufficiale come questa costituirebbe un grave imbarazzo per il Presidente, specie ora che si avvicinano le elezioni?”

Feci presente che alcuni di noi si davano da fare in vita privata per ottenere il consenso di Wendell Willkie alla proposta che si armonizzava con le direttive di Roosevelt.

Hopkins ribattè: “Che ne sapete delle direttive del Presidente. Ignorate forse che questo nostro paese è neutrale?”

Mi stavo sempre più adirando ed ero anche avvilito nel vedere che quest’uomo tanto intimo di Roosevelt si rivelasse un arrabbiato isolazionista e gli manifestai il mio pensiero.

“Tutto quanto il paese è isolazionista – fu la sua risposta – tranne pochi fanatici anglofili come voi. Come potrebbe il Presidente giustificarsi presso il popolo se desse via cinquanta cacciatorpediniere?”

Dollfuss

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Gli risposi con una tirata molto più violenta ed eloquente di quanto sia nelle mie abitudini. Dissi che la popolazione era molto meno neutrale di quanto egli ritenesse, che odiava i nazisti e che se Roosevelt avesse parlato chiaro, col suo abituale coraggio, l’avrebbero appoggiato e così via dicendo.

Quando ebbi conclusa la mia appassionata orazione, Hopkins mi fece un risolino: “Va benone; e perché state a sprecare il tempo venendo a gridare queste cose proprio a me? Perché non andate fuori a dirle al popolo?” Aveva soltanto voluto rendersi conto se avessi buoni argomenti a sostegno dei miei sentimenti.

Risultato dell’intervista fu che Hopkins mi condusse alla Casa Bianca a lavorare con lui e Sam Rosenman, alla preparazione del primo discorso che Roosevelt doveva pronunciare.

La stessa tattica l’impiegò con tanti per scoprire quanto fossero fondate le loro tesi e quanto sincero ne fosse patrocinio. E non c’era mai da fidarsi perché certe volte era questo il metodo cui ricorreva per calmare i bollori agli zelanti.

Nell’ottobre del 1933, Hopkins sapeva che con l’arrivo dell’inverno il problema della disoccupazione si sarebbe fatto ancora più tragico e riteneva che l’unica soluzione adatta fossero dei grandi lavori. Aubrey Williams e altri suoi collaboratori insistevano perché tale programma fosse sottoposto al Presidente, ma Hopkins era sicuro che non l’avrebbe accettato.

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Sapeva che le opposizioni non sarebbero venute soltanto dai conservatori: anche i dirigenti sindacali erano nettamente ostili ad un programma di lavori pubblici escogitato per la circostanza. Fu questa una delle volte in cui Hopkins si dimostrò impaziente ed irascibile con quelli che insistevano per fargli fare proprio quel che desiderava.

Sabato 28 ottobre, Hopkins andò a Chicago dove fu invitato a colazione da Robert Hutchins, rettore di quella università e andò ad assistere ad una partita di calcio. Da Chicago raggiunse Kansas City per pronunciare un discorso. Tra le persone con le quali si consultò in quella circostanza sui problemi assistenziali, figurava il giudice Harry S. Truman, direttore federale per la lotta alla disoccupazione nel Missouri.

Williams telefonò ad Hopkins mentre si trovava a Kansas City per annunciargli di aver appena visto il dottor John R. Commons, una delle massime autorità per tutto quello che si riferiva al sindacalismo, il quale, appena seppe come la pensava Williams, andò a far ricerche nei suoi voluminosi archivi, pescandovi un ritaglio che portava la data del 1898, con una dichiarazione di Samuel Gompers.

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Il padre del sindacalismo americano appoggiava precisamente quel genere di programma di lavori che ora si vedeva proporre, ponendoli anzi, sotto l’insegna del “piano di lavoro quotidiano”. Era proprio quello che Hopkins sperava.

Egli fu infatti costantemente del parere che si può sempre trovare un precedente ad una idea nuova, per rivoluzionaria che possa apparire, a patto di cercarlo a fondo. Per gli affitti e prestiti si trovò un precedente in una legge secondaria, approvata dal Congresso nel 1982, durante la Presidenza di Benjamin Harrison.

Quando, quindi, Hopkins venne a sapere quel che aveva detto Gompers, si sentì sicuro di avere in mano un argomento persuasivo, di cui Roosevelt aveva bisogno per superare le opposizioni sindacaliste al programma di aiuti. Telefonò alla Casa Bianca, ottenendone un appuntamento a colazione per il giorno del suo ritorno.

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Durante la colazione, Roosevelt gli chiese quanti sarebbero stati gli uomini da occupare e Hopkins rispose: circa quattro milioni. “Vediamo un po’ – rispose Roosevelt – quattro milioni, di persone fanno circa quattrocento milioni di dollari”, e pensò che si sarebbero potuti trovare nei fondi dei lavori pubblici amministrati da Harold Ickes, che non nutrì, né allora né mai, molto entusiasmo per Harry Hopkins e per i suoi sistemi. Quando dopo colazione, lasciò la Casa Bianca, Hopkins aveva le ali ai piedi.

Chiamò al telefono Williams, che stava tenendo un discorso a New Orleans e glielo fece interrompere per comunicargli la notizia che il programma dei lavori pubblici sarebbe cominciato disponendo di quattrocento milioni di dollari.

Williams, Brownlow e Bane vennero immediatamente convocati a Washington dove si riunirono la sera del sabato, una settimana dopo la gita a Chicago, insieme con Hopkins, Howard, Hunter, Jacob Baker, Julius F. Stone, Clarence M. Bookman, Ellen Woodward, Robert S. McClure, Corrington Gill, Pieree Williams e T. S. Edmunds. Lavorarono la notte di sabato e la domenica a tracciare i piani dell’amministrazione dei lavori civili (C.V.A.) che già nei suoi primi trenta giorni di vita, avviò al lavoro quattro milioni di persone e che in meno di quattro mesi dette inizio all’attuazione di centottanta mila progetti per una spesa di oltre novecentotrentatré milioni.

Da qui nacque la W.P.A. segnando il riconoscimento effettivo del principio del diritto al lavoro, principio che non doveva più essere revocato.

Re Giorgio VI

Re Giorgio VI

La C.W.A. giunse tempestiva: l’inverno 1933-34 fu veramente terribile, raggiungendo i 14 sotto zero in alcune regioni della Nuova Inghilterra e i 4 sotto zero a Washington, dove anche i parlamentari potevano sentirli. Fu la prima di una lunga serie di calamità, tra cui figurarono siccità, inondazioni e uragani, che si seguirono in quegli anni, come per mettere alla prova l’Amministrazione Roosevelt e il programma di ricostruzione nazionale.

Hopkins dovette raddoppiare di sforzi per far fonte alle generali sofferenze. A metà gennaio, circa venti milioni di persone per le loro prime necessità dovevano far conto sui sussidi federali e i quattrocento milioni di dollari accordati alla C.W.A. erano quasi sfumati. Hopkins con il consenso della Casa Bianca ne chiesero al Congresso altri novecentocinquanta.

Il Comitato nazionale repubblicano accusò lui e la C.W.A. di “sperperi” e di “autentica corruzione”, mentre un democratico, il rappresentante George B. Terrell, del Texas, saltò su a dire: “La Costituzione è violata quotidianamente poiché in essa non figura una sola parola che autorizzi a spendere il denaro federale, tranne che per compiti di carattere federale… Credo che la C.W.A. provocherà una guerra civile e una rivoluzione quando dovremo interromperla… Gli altri (del Congresso), se vogliono, possono seguire iniziative del genere come un branco di pecore, ma… io non sacrificherò la mia indipendenza ad un incarico qualsiasi”. 

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Louis Howe con Roosevelt

Ma la sua voce rimase isolata. I membri del Congresso avevano appreso dai loro elettori quel che Frank Walker aveva fatto noto a Washington, su i risultati del suo viaggio attraverso il Paese; per di più nel 1934 ci sarebbero state le elezioni. Hopkins ottenne così i fondi.

Durante quegli anni, Hopkins scrisse ben poche lettere di carattere privato e per lo più di scarso interesse, ma sul finire del giugno 1934 egli ebbe a manifestare alcuni aspetti del suo stato d’animo scrivendo al fratello Lewis:

Mi propongono di salpare per l’Europa mercoledì 4, se non succede nulla all’ultimo momento, cosa che qui è sempre possibile. Stento a rendermi conto che un anno è già passato da quando collaboro al Governo.

Non avevo l’intenzione di fermarmici di più, ma mi pare di essere avviato a rimanerci anche il prossimo inverno. Ritengo che tu sappia come una delle maggiori difficoltà in un posto simile sia quella finanziaria.

Quando mi decisi a venire, la cosa sembrava semplice, perché il consiglio d’amministrazione dell’Associazione antitubercolare di New York decise di corrispondermi un anno di stipendio, per i miei dieci anni di lavoro.

Le finanze dell’Associazione andarono male e il presidente morì. Uno dei membri del consiglio mi riferì che desideravano darmene almeno una parte e ho buone speranze di poter avere abbastanza denaro, per lo meno tanto da non ingolfarmi completamente nei debiti.

L’altro aspetto della questione è nell’appassionante esperienza che ho avuto campo di fare.

Varrebbe la pena di pagare molto per occupare una delle prime file di poltrone, qui. Ne ho imparato abbastanza da sapere che ci si dovrebbe impegnare a fondo, soltanto per qualche mese e di tanto in tanto.

Per quanto il lavoro sia affascinante e sia magnifico lavorare per il Presidente non ho nessun desiderio di trattenermi qui indefinitamente.

Hopkins in quel tempo si mostrava molto sofferente nel fisico e il viaggio in Europa fu compiuto soprattutto dietro le insistenze di Roosevelt, anzi, per suo ordine esplicito. Roosevelt, che fu sempre maestro nell’arte di distrarsi, era capace di costringere al riposo un suo dipendente sovraccarico di lavoro, assegnandogli qualche i relativamente trascurabile, preferibilmente oltremare.

Egli scrisse ad Hopkins:

Desidero facciate un viaggio all’estero, non appena sarete in grado di partire, per esaminare i sistemi di assicurazione sociale in Inghilterra, Germania, Austria e Italia, poiché ritengo che potreste ricavarne qualche spunto che torni utile allo sviluppo del nostro piano per la stabilità dei lavoratori americani.

Tra l’altro, in considerazione allo sforzo, cui siete stato sottoposto, ritengo che un viaggio per mare vi farà bene.

Hopkins disse ad un amico che il Presidente gli aveva anche chiesto di dare un’occhiata al personale delle Ambasciate e delle Legazioni, riferendogli in proposito in via confidenziale.

Roosevelt aveva allora l’impressione che nel servizio diplomatico-consolare ci fossero alcuni che non simpatizzassero completamente con le sue direttive e col passare degli anni e dopo i rapporti di Hopkins e di altri che si recarono all’estero, si confermò in questa sua idea.

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Hopkins e la moglie salparono il 4 luglio a bordo del Washington, facendo ritorno il 23 agosto. Durante quell’estate si verificò la sanguinosa epurazione nazista, seguita dalla dichiarazione di Hitler dinanzi al Reichstag spaurito: “Durante queste ventiquattr’ore la Corte Suprema del popolo germanico sono stato io!”.

Ciò sarebbe bastato, per dare a chiunque un’idea abbastanza precisa di quel che ci si poteva attendere dal regime nazista. Nella stessa estate i nazisti assassinarono a Vienna il Cancelliere Dollfuss e morì Hindenburg, ultimo ostacolo a che Hitler si impadronisse di tutto il potere.

Tuttavia non trovo traccia dell’effetto che ebbero su Hopkins tali avvenimenti sensazionali, né di quanto vide o udì negli Stati retti da un regime di polizia. Negli unici commenti che pubblicò sul viaggio in Europa, si limitò ad esprimere il proprio entusiasmo per i programmi di assicurazione sociale e di edilizia popolare in Inghilterra, dicendo che persino i conservatori erano molto più avanzati sul terreno sociale di quanto Fosse il New Deal.

Il giorno stesso in cui ritornò a Washington fu a colazione dal Presidente, trascorrendo, quindi, la domenica ad Hyde Park, ma non lasciò appunti di queste conversazioni.

È possibilissimo che, dato che lo stesso Roosevelt era appena di ritorno da una crociera di diecimila miglia a bordo della nave da guerra Houston, che l’aveva portato dal mare dei Caraibi e dal canale di Panama alle isole Cocos e alle Hawai, facendo quindi, ritorno a Portland, nell’Oregon, la conversazione non sia stata precisamente sostenuta da Hopkins.

Si avvicinava la data delle elezioni per il congresso che costituivano la prima prova diretta dello stato d’animo degli elettori verso il New Deal. Le elezioni vennero stravinte dai democratici e i repubblicani si trovarono ad avere al Congresso la più esigua minoranza che avessero mai avuto dal tempo della guerra di Secessione.

Fu un significativo voto di fiducia per il New Deal e in special modo per il programma di lavori assistenziali. Roosevelt avviò immediatamente la discussione per estendere enormemente tale programma, secondo le linee già seguite per la C.W.A.

Dwight Morrow

Dwight Morrow

La stella di Hopkins era decisamente avviata allo zenit. All’apertura del settantaquattresimo Congresso, un mese dopo, Roosevelt annunciò il nuovo programma di lavori assistenziali, affermando:

Il Governo federale deve abbandonare questo sistema di aiuti…

Si deve trovare lavoro quanti, fisicamente capaci, ne sono sprovvisti…

Non intendo che la vitalità della nostra gente venga oltre minata dalla elargizione di sussidi in denaro o in natura o attraverso poche ore di lavoro pesate a tagliare l’erba e a raccogliere foglie o rifiuti di carta nei giardini pubblici.

Dobbiamo proteggere dall’avvilimento, non soltanto il corpo, ma anche la dignità, la fiducia in sé stessi, il coraggio e la decisione dei disoccupati.

Questo mi porta ad affrontare il problema di quel che il Governo debba fare di circa cinque milioni di disoccupati, iscritti attualmente nelle liste dei sussidi.

A mio giudizio, eccezion fatta per alcune delle normali attività edilizie governative, tutti i lavori pubblici di carattere straordinario dovranno essere coordinati in un solo piano di grandi proporzioni.

Con l’istituzione di questo nuovo sistema, dovremo sostituire alla Federal Emergency Relief Administration un organo di collegamento che provveda alla normale liquidazione delle attuali attività assistenziali, sostituendole con uno statuto a carattere nazionale per assegnare il lavoro.

Non so se Hopkins prese parte alla preparazione di questo messaggio presidenziale, ma esso certamente rivela di essere stato influenzato da lui. Il Presidente enumerò sei principi fondamentali per i lavori a carattere assistenziale.

1) Le opere devono avere carattere di utilità.

2) Debbono essere di natura tale che una parte notevole della spesa totale debba essere corrisposta per i salari.

3) Dovranno essere realizzate opere il cui definitivo compimento faccia prevedere che una parte notevole della spesa venga rimborsata al Tesoro federale.

4) Gli stanziamenti per ogni singolo progetto dovranno essere impiegati effettivamente ed immediatamente senza trattenerli per anni successivi.

5) In ogni caso, le opere devono essere tali da procurare lavoro agli iscritti nelle liste dei sussidi.

6) I lavoratori saranno assegnati alle località nelle diverse zone dell’assistenza, in proporzione al numero dei lavoratori che vi figureranno nelle liste dei sussidi.

Quando venne sottoposta al Congresso la legge sui lavori assistenziali, che prevedeva una spesa di circa cinque miliardi di dollari, grida di protesta si levarono dalla minoranza repubblicana e si ebbero segni di rivolta da parte dei democratici del Sud, ma la legge venne immediatamente approvata a stragrande maggioranza dalla Camera dei rappresentanti.

Al Senato, tuttavia, incontrò maggiori difficoltà. I giorni in cui le leggi venivano approvate con lo “stampino” erano decisamente tramontati. Si parlò molto, al Senato e sulla stampa repubblicana, della necessità che il potere legislativo mantenesse intatte le proprie prerogative e si abusò allora, come del resto inseguito, delle espressioni “dittatura comunista” e “fascista”, ancorché la questione non avesse nulla a che fare con le ideologie.

Harry Lloyd Hopkins con Stalin

Harry Lloyd Hopkins con Stalin

Non si discusse veramente se il denaro dei contribuenti dovesse o meno essere impiegato in lavori di così vasta scala e a scopo assistenziale, ma ci si limitò a chiedere perché mai il Congresso dovesse cedere alla Casa Bianca il controllo assoluto sull’impiego di tanti miliardi, che avrebbero formato una tanto vasta clientela politica.

In ciò si distinsero i democratici più dei repubblicani, paghi, questi, com’erano, di appoggiare chiunque fosse contrario a Roosevelt. L’opposizione alla legge venne ancora rinvigorita dall’incontrovertibile pretesa del Presidente che gli rilasciassero una cambiale in bianco. Hopkins venne chiamato a riferire davanti alla Commissione senatoriale per gli stanziamenti di bilancio, ma evidentemente non fu di grande aiuto nel chiarire la situazione, se l’Associated Press ebbe a riferire che la confusione fu tale, davanti alla Commissione, da indurre uno dei membri, che desiderò mantenere l’incognito, a predire che la legge sarebbe stata rifatta da cima a fondo.

La verità è che neppure Hopkins sapeva con esattezza quel che Roosevelt avesse in mente di fare. Dopo una conversazione privata col Presidente egli ebbe a scrivere: “Abbiamo passato in rivista l’organizzazione del programma di lavori – ancora altri progetti sula carta, gli piacciono sempre – e uno non è mai uguale all’altro, cosa alle volte alquanto imbarazzante”.

I due uomini i cui nomi correvano più frequentemente per la carica di amministratori del programma assistenziale furono, Hopkins e Ickes. Ma rientrava pienamente nei metodi di Roosevelt di non lasciare che nessuno, neanche i due interessati, sapesse chi era il favorito.

Così, nessuno dei due poté essere in grado di prendere apertamente le difese della legge davanti al Senato. Ma passata che fu la legge, Roosevelt ebbe ad affrontare difficoltà politiche che lo toccavano direttamente. Se n’andò in vacanza nel mare dei Caraibi non appena fu sicuro dell’approvazione, alla fine di marzo e quando si riseppe che Hopkins viaggiava sul treno presidenziale diretto al Sud, la stampa saltò subito alla conclusione che l’amministratore della T.E.R.A. aveva trovato la scorciatoia per arrivare alla nomina.

Franklin Delano Roosevelt

Franklin Delano Roosevelt

Larga pubblicità venne data alle liti tra Hopkins e Ickes e Roosevelt sapeva che, qualunque dei due avesse nominato al posto più importante, subito sarebbe stato preso di mira. D’altra parte, l’escluderli entrambi nominando un terzo, sarebbe equivalso al ripudio di tutto quanto il programma assistenziale.

Risolse la questione in modo tipicamente brillante, chiamando a Washington Frank Walker, che era un moderato sul quale poter contare, amico di tutti e che non era mai stato un bersaglio per nessuno, formando un triumvirato composto da Walker, Ickes e Hopkins, perché conducesse in porto quell’impresa gigantesca.

Non posseggo né le cognizioni e neppure direi la forza fisica per descrivere nei complessi particolari tutto il funzionamento di quella nuova organizzazione tricipite. Mi azzarderò soltanto a tracciare, nelle linee generali, quale fosse la divisione dei compiti.

Walker dirigeva il reparto degli stanziamenti e dell’istruttoria delle pratiche, che riceveva tutte le proposte per un opportuno impiego dei fondi statali, qualunque fosse la fonte di tali proposte, le classificava, le controllava, studiava e traduceva in cifre, trasmettendole quindi alla commissione consultiva per gli stanziamenti, di cui era presidente Ickes, per sottoporre le proposte all’approvazione del Presidente.

La commissione doveva riunirsi almeno una volta alla settimana ed era composta dei segretari agli Interni, all’Agricoltura e al Lavoro; dei direttori del consiglio nazionale d’emergenza, della direzione per l’incremento delle opere e di quella finanziaria, dei direttori dell’ufficio del bilancio, dell’ufficio delle acque, dei lavori straordinari per il Demanio, della riforma agraria, dell’elettrificazione agricola e straordinaria; del comandante del Genio militare; del commissario dei reclami; dei capi del servizio forestale, delle strade nazionali, degli attraversamenti pubblici e dell’edilizia urbana; insieme con i rappresentanti del Consiglio consultivo industriale, dei sindacati, della organizzazione degli agricoltori, del Consiglio nazionale delle risorse, dell’associazione bancaria nazionale e della federazione dei sindaci degli Stati Uniti.

Quando questa commissione – che per riunirsi aveva bisogno di un tavolo ben grande – aveva formulato le proprie raccomandazioni, i progetti andavano a finire sullo scrittoio del Presidente per l’approvazione finale.

Churchill e Roosevelt

Churchill e Roosevelt

La terza sezione di questa organizzazione – attribuita ad Hopkins – venne chiamata Works Progess Administration (amministrazione per l’incremento del lavoro). I compiti, se ci si riferisce al titolo attribuitole, non erano chiari. Aveva compiti vari di collegamento, di indagine, di segnalazione, compiti anche normativi e informativi e stando alla proposta di Roosevelt avrebbe dovuto principalmente essere un organismo “contabile”.

Fu soltanto una disposizione successiva del presidente ad attribuire alla W.P.A. il potere di “approvare e attuare opere di minor mole che assicurassero il massimo impiego di mano d’opera in tutte le località”. Era per Hopkins una scappatoia di cui Roosevelt si rendeva ben conto e che venne a prendere proporzioni gigantesche.

Quelle opere di “minor mole”, finirono per importare una spesa effettiva di oltre dieci miliardi di dollari. Per quanto si riferisce all’impiego del personale è il caso che io menzioni un ricordo personale che mi rimase impresso come rivelatore d’uno dei molteplici lati del carattere di Roosevelt, tanto difficile da comprendere.

In principio della guerra, compii un lungo volo per ispezionare uno degli uffici più avanzati del reparto d’oltre mare dell’ufficio informazioni di guerra (O.W.I.O.), da me diretto. Il viaggio di ritorno fu alquanto mosso e ancora mi ritrovo ad avere nelle orecchie la sensazione che si prova dopo aver nuotato, quando andai a trascorrere la domenica a Shangri-la, il ritiro di Roosevelt sulle colline del Maryland.

Ancora seguitavo a piegare il capo e a scuoterlo come per far uscire l’acqua dalle orecchie, tanto che il Presidente mi chiese cosa avessi. Gli raccontai, quindi, del lungo e movimentato viaggio.

“Non sapevo che eravate assente”, mi disse. “Che siete andato a fare?” Gli spiegai che quel nostro ufficio aveva funzionato male, tanto che ero andato per licenziare il dirigente. Mi affrettai ad aggiungere, perché ne fosse informato il Presidente degli Stati Uniti, che la persona in causa non s’era macchiata né di codardia né di corruzione, ma s’era soltanto rivelata inadatta al compito.

Harry Lloyd Hopkins con Roosevelt

Harry Lloyd Hopkins con Roosevelt

Roosevelt mi fissò con quello sguardo assolutamente ingenuo che assumeva quando voleva e mi chiese: “E l’avete cacciato via?” “Sissignore”, gli risposi.

Sul suo viso si leggeva lo stupore dell’incredulo. “Ma come avete fatto?” tornò a chiedermi. La mia risposta fu assai semplice: “Beh; l’ho chiamato in albergo e gli ho detto: Jack, mi dispiace, mi dispiace molto ma sono qui per chiedervi di dimettervi. Per fortuna s’è comportato bene in tutta la faccenda e mi ha rassegnato le dimissioni”.

Ora sul viso di Roosevelt l’incredulità aveva fatto posto allo stupore più manifesto: “Non ci posso credere. Non posso credere che abbiate avuto il coraggio di licenziare uno. Pensavo che foste anche voi un molle, come me”.

Questo frammento di una conversazione affatto senza importanza, può servire ad indicare perché quanti conobbero bene Roosevelt non poterono mai immaginarselo nei panni di un dittatore. Poteva essere spietato ed implacabile, come fu effettivamente, con quanti ritenesse colpevoli di slealtà, ma fu un “molle” verso quanti nel suo Governo si rivelarono inattivi o retrivi o ancora disperatamente incapaci, ma che tuttavia erano leali.

Sprecò tempo prezioso e una quantità incalcolabile di energia e di astuzia per trovare degli incarichi che servissero a salvare la faccia, oppure per ricorrere al sistema di promuovere per rimuovere, nei confronti di incompetenti, meritevoli d’essere licenziati senza cerimonie.

I sistemi di governo dii Roosevelt, che trovavano la più manifesta espressione nel modo come egli organizzò tutta l’assistenza, erano, a dir poco, non ortodossi. Colmavano di timore e scoraggiavano alcuni osservatori che avevano senso pratico; alcuni poi , s’erano addirittura disgustati, mentre altri ancora li consideravano con stupore reverenziale. Sono certo che ci vorrà ancora molto tempo prima che quei metodi possano essere valutati in modo definitivo, ma già sin da ora è lecito affermare almeno questo:buoni o cattivi che fossero, avveduti o pazzeschi, quei sistemi funzionavano.

Nel corso della preparazione di questo volume, intervistai Harold Smith, che fu direttore del bilancio dal 1939 al 1946. Smith era un uomo modesto, metodico e preciso, assolutamente diverso da Roosevelt e da Hopkins, ma non conosco alcuno del cui apprezzamento, della cui onestà e del cui sano buonsenso il Presidente si fidasse di più.

Franklin Delano Roosevelt

Franklin Delano Roosevelt

Nel corso di una lunga conversazione, Smith ebbe a dirmi: “Pochi mesi or sono, nel primo anniversario della morte di Roosevelt, mi chiesero di scrivere un articolo su di lui, come amministratore. Ci pensai e conclusi che non ero in grado di pronunciarmi.

Da allora, però, ho continuato a pensarci. Quando lavoravo con lui – il che durò sei anni – ero del parere che, come amministratore, fosse assolutamente fuori dalle norme, ma ora, guardandomi indietro, incomincio veramente a valutare la vastità dei suoi programmi, i quali furono di gran lunga i maggiori ed i più complessi che siano mai stati posti in cantiere da un Presidente. 

Quelli che come me avevano la responsabilità di badare al centesimo, vedevano soltanto il cinque, il sei o anche il sette per cento, che per difetto organizzativo o direttivo, andava male, ma ora che il trascorrere del tempo già mi fornisce la prospettiva necessaria, sono in grado di scorgere quel novantatré, novantaquattro o novantacinque per cento che andò bene, compresa la vittoria nella più grande guerra della nostra storia e che andò bene grazie ad una incredibile capacità organizzativa e direttiva.

Se dovessi scrivere adesso quel articolo, probabilmente direi che Roosevelt è stato uno dei più grandi ingegni amministrativi che siano mai esistiti. Quel che allora non riuscimmo ad apprezzare fu che egli era un autentico artista, nell’arte del governare”.

I termine “artista” era felice, poiché richiamava la straordinaria fantasia creativa di Roosevelt. La parola credo non gli sarebbe piaciuta in quanto poteva indicare che era un sognatore e un utopista, mentre gli andava di raffigurare se stesso alla stregua di un prestigiatore che potesse stupire e divertire il pubblico cavando sempre dal cappello un nuovo coniglio.

Ma egli era un artista e non c’era trama che fosse troppo grande per lui. Egli era anche, naturalmente, un politico consumato, ciò che non si può dire della maggior parte degli artisti, mentre poi è difficile che un politico di mestiere commetta l’errore di farsi cogliere a dar vita ad una idea originale.

La fusione di queste due qualità in Roosevelt può trovare conferma nel fatto che, mentre per concepire affitti e prestiti fu necessario avere ampiezza d’immaginazione creativa, per farli approvare dal Congresso si richiese una dose altrettanto grande di “astuzia manovriera”.

Jfk Corcoran

Jfk Corcoran

Quando il generale Marshall divenne nel 1938 sotto-capo di Stato maggior generale, studiò accuratamente gli effetti del programma d’assistenza sull’esercito, scoprendo che la W.P.A. e la P.W.A., fra tutte e due avevano speso circa duecentocinquanta milioni di dollari in opere interessanti il Dipartimento della Guerra.

Tale cifra sembrerà oggi modesta, ma allora parve enorme. (Non era molto lontana da quanto s’era speso per quel Ministero negli ultimi quindici anni, il che conferma quanto si adattasse agli Americani, in tempo di pace, la frase secondo cui essi trattano “l’esercito come un vecchio cane rognoso”).

Quando ebbe a constatare quali fossero state le possibilità offerte dal programma d’assistenza, specie parlandone con ufficiali che avevano collaborato alla W.P.A., il generale Marshall deplorò che il Dipartimento alla Guerra non avesse tratto maggior vantaggio da quelle possibilità, ma i generali più anziani s’erano troppo spaventati delle critiche in cui sarebbero potuti incorrere da parte del Congresso, scendendo a compromessi con tipi di origini tanto umili e di tendenze così sovvertitrici come Hopkins.

Marshall, dal canto suo, non aveva mai avuto paure del genere. Nel numero del 16 maggio 1942, l’Army and navy register ebbe a scrivere:

Negli anni che vanno dal 1935 al ’39, quando gli stanziamenti normali per le forze armate erano così esigui, fu il lavoro della W.P.A. a salvare molti impianti dell’esercito e molte basi navali dall’assoluto abbandono.

Ma più importante ancora per la nostra sicurezza, ancora più importante delle vaste opere a carattere strategico realizzate dalla W.P.A. sotto la direzione di ufficiali del Genio, fu quello che si salvò negli operai medesimi, preservando dalla decadenza la loro dignità, il loro fondamentale patriottismo e, infine, più importante ancora di tutto il resto, la loro capacità.

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