2ª GUERRA MONDIALE, SEGRETI AMERICANI – 12

a cura di Cornelio Galas

Domenica, 26 luglio, il PBY Catalina W. 6416 del Comando Costiero della R.A.F. planava sulle acque calme di Loch Lomond, dopo dure settimane di fatiche e di ricognizioni lungo le rotte nordoccidentali tra la Scozia e l’Islanda.

Il personale di bordo poteva finalmente fare qualche buona nuotata e darsi buon tempo allestendo uno spuntino all’aria aperta nel suggestivo scenario delle montagne sotto l’abbagliante sole d’estate.

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Era ormai un’abitudine quella di pendersi, periodicamente, una mezza giornata di vacanza, facendo un breve volo dalla costa ai laghi per un buon bagno nell’acqua fresca e l’equipaggio lo considerava un giorno di riposo. Ma quella volta il riposo fu assai breve.

Alle 4 del mattino si affacciò all’orizzonte un aeroplano da ricognizione e per mezzo di segnali luminosi ordinò al comandante del Catalina, luogotenente dell’aviazione D. C. McKinley, di tornare immediatamente alla base, a Oban sulla costa occidentale della Scozia.

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Convocato a rapporto all’arrivo, McKinley ricevette l’ordine di proseguire per Invergordon, base navale ed aerea della costa orientale, per una missione d’alta importanza. Egli ebbe subito la percezione esatta del compito che doveva assolvere, perché Invergordon era la base da cui i Catalina spiccavano il volo per la Russia, lungo la rotta aperta di recente.

Il giorno seguente, lunedì, egli era a Invergordon e veniva informato del viaggio da compiere per trasportare in Russia tre passeggeri americani, Mr. Harry Hopkins il generale Joseph T. Mc Narney e il tenente John R. Alison dell’aviazione statunitense.

Joseph T. Mc Narney

Joseph T. Mc Narney

Le condizioni del tempo non erano buone e la partenza fu rimandata. Hopkins fu condotto a fare un giretto per le lande scozzesi e sostò in un alberghetto dove stava per andare a pranzo, invitato da ufficiali della R.A.F. e da un gruppo di Americani che erano già sul posto come istruttori. Ma il messaggio da Londra lo avvertì che l’apparecchio aveva ricevuto l’ordine di partire con qualsiasi tempo ed era pronto a decollare subito.

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Quando Hopkins giunse allo scalo, vide il Catalina a largo, non poté frenare un moto d’orgoglio e di soddisfazione. Se il Catalina era li pronto a riceverlo, era merito suo, ché per inviare questi PBY in Inghilterra egli aveva dovuto lottare aspramente più che per qualsiasi altro apparecchio, poiché la Marina degli Stati Uniti tendeva a rinunciare ad un apparecchio da bombardamento e da ricognizione prezioso come quello.

Circa un’ora dopo il decollo, McKinley disse all’ufficiale pilota C. M. Owen di andare un po’ a vedere “come stava Mr. Hopkins – quel tipo delicato con il cappello grigio in testa”. – “E chi è Mr. Hopkins?” – chiese Owen. – “Un personaggio importante. Ti basta questo, per ora”.

Harry Lloyd Hopkins

Harry Lloyd Hopkins

Il cappello che portava Hopkins era adesso un Homburg grigio, dignitoso e di buona forma, con dentro le iniziali W.S.C. Aveva perso il suo vecchio cencio durante un viaggio fuori di Londra (e chissà che qualcuno no glielo abbia fatto perdere!) e il Primo ministro gliene aveva dato uno dei suoi. Per ore ed ore, durante il volo, Hopkins sedette sul seggiolino girevole di una mitragliatrice, vicino alla coda, spiando se apparisse il nemico.

L’apparecchio volava circa un centinaio di miglia a largo dalla costa norvegese, ma a bassa quota e a velocità ridotta e se fosse stato scorto da un aeroplano tedesco da esplorazione o da un caccia, sarebbe stato facilmente abbattuto. S’aggiungeva inoltre la visibilità, che era purtroppo ottima, perché durante tutto il viaggio in quella latitudine nordica, non ci fu praticamente notte. In caso di attacco da parte di un aeroplano nemico, Hopkins avrebbe potuto essere invitato appostarsi alla mitragliera e l pensiero lo esaltava e lo eccitava assai.

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Per fortuna, non dovette essere messo alla prova: ma servì come cuoco e dispensiere in mancanza del sesto membro dell’equipaggio. Per la fretta e le segretezza con cui era stato preparato il viaggio, l’apparecchio si trovava nel normale assetto di guerra e chiunque abbia percorso un lungo tragitto su un PBY sa che è davvero una bela scomodità, perché i voli di esplorazione durano sino a trenta ore.

Su una di queste cuccette Hopkins tentò di fare qualche pisolino, ma non ci riuscì perché soffrì parecchio per i freddo artico che si fece sentire assai pungente nell’ultima parte del viaggio.

Il PBY fece una prima tappa a Punta Kanin, sulla costa nord-est del Mar Bianco. E qui, l’ufficiale di rotta, G. J. D. Bryand (che doveva morire più tardi in combattimento), commise un errore, perché partendo da Punta Kanin, prese una rotta più a nord di quella fissata e così per centocinquanta chilometri finché no fu in vista dell’isola di Kolznev.

Virò allora a sud verso la Baia Cheshkaya, pensando che fossi il Mar Bianco. Ci si sarebbe potuti anche perdere, mancando di carte precise della zona, se non si fosse ricevuto il debole segnale della radio di Arcangelo, riuscendo a “localizzarlo”.

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Owen, il primo pilota, aggiunse che durante i giorni di permanenza ad Arcangelo, in attesa del ritorno di Hopkins da Mosca, l’equipaggio restò confinato su un battello galleggiante sulla Dvina.

Venne loro assegnata come interprete una donna, che tempestarono di domande per ottenere il permesso di scendere in città e visitare un po’ di gente. Ma la risposta fu sempre negativa. Insieme ad essi sullo stesso zatterone c’era l’equipaggio di un altro Catalina, ammarato pochi giorni prima.

“Ma noi – disse Owen – eravamo trattai molto meglio di loro ed anche a viveri stavamo così bene che non tardammo ad accorgerci che Mr. Hopkins doveva essere davvero un personaggio assai influente”.

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Ad Arcangelo Hopkins fu accolto dai rappresentanti delle Ambasciate americana e inglese, da ufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione russi, da commissari locali e dall’immancabile polizia segreta. Notò più tardi che gli uomini di questa apparivano ovunque per le strade e vi sembravano altrettanto naturali dei passanti abituali in America.

Gli venne presentata l’interprete, una bellissima donna, da cui venne subito informato che, purtroppo, per quella sera il viaggio a Mosca era impossibile, ma si sperava di poterlo effettuare la mattina seguente, con partenza alle 4.

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Credo che egli non abbia mosso alcuna obiezione alla notizia, anzi, ne sia stato felice, perché sentiva il desiderio di fare un lungo sonno dopo un viaggio così estenuante. Ma il Comandante della piazza lo invitò a cena con gli altri funzionari americani a bordo del suo yacht.

Hopkins sperimentò allora, per la prima volta la proverbiale ospitalità russa verso i dignitari in visita. E più tardi fece questa descrizione di quel desinare:

Una cena monumentale. Durò quasi quattro ore. Si diffondeva dappertutto un delicato aroma, con verdure fresche, burro, crema, frutta. Mi sorpresero, in un certo senso, i cetrioli e ii rapanelli, perché coltivati nelle fattorie ai margini della città. Continuavano a passate piatti, uno dopo l’altro.

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C’era l’inevitabile pesce freddo, il caviale e la vodka. Questa è fortissima, non si può scherzare con lei. A berla come da noi il whisky c’è da sentirsi male e da prendere una solenne sbornia.

Non c’è che un rimedio: spalmare una fetta di pane con il caviale (il pane era ottimo) e mangiarlo mentre si beve tutto d’un fiato il bicchiere di vodka.

Guai a bere senza mangiare. Almeno questo fa un po’ da assorbente.

Data la lunghezza della cena, Hopkins non si poté concedere che due ore di sonno prima di recarsi all’aeroporto. L’apparecchio lo doveva portare a Mosca, pilotato da Russi, era un Douglas da trasporto americano con posti molti comodi.

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Partendo, Hopkins provò in che consisteva lo “speciale saluto” che i Russi davano ai loro distinti ospiti: l’aeroplano sorvolò il campo, scivolò prima su un’ala, poi sull’altra, infine come egli scrisse: “parve che si impennasse salendo in verticale d’un balzo solo”.

Questa fu la sua impressione del segno di saluto che gli era stato riservato: fu una cosa fatta a posta per rovesciare le budella. Il volo fino a Mosca durò quattro ore e lungo il percorso Hopkins cominciò a rassicurarsi quanto all’avvenire della Russia. Vedeva sotto di sé le enormi distese di foreste e pensava che Hitler, con tutte le sue “panzer-Divisionen” della Wehrmacht non sarebbe mai riuscito ad avere ragione di un paese come quello.

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All’aeroporto di Mosca erano ad attenderlo l’ambasciatore americano, Lawrence A. Steinhardt ed un vasto stuolo di funzionari russi. Egli scrisse: “In Russia dovetti stringere più mani di quel che mi fosse capitato in vita mia. Mi sorpresi spesso a ridere con me stesso, chiedendomi se per caso non fossi qui per un campagna elettorale. Però non baciai nessun bambino”.

Steinhardt lo condusse all’Ambasciata americana, a palazzo Spasso e lo invitò a riposare. Ma Hopkins era troppo eccitato dal pensiero di sentirsi a Mosca per poter prendere sonno. Non voleva perdere un minuto della sua breve visita nella capitale sovietica e voleva far tesoro di tutto il tempo disponibile, per vedere, osservare, ascoltare, imparare.

Lawrence A. Steinhardt

Lawrence A. Steinhardt

Si trovava ora all’altra estremità del filo da cui gli Stati Uniti e il Governo britannico avevano appreso quel poco che sapevano sui misteri di questa grande Russia. Disse a Steinhardt che la sua visita aveva lo scopo di sapere se veramente la situazione era disastrosa come si immaginava al Dipartimento di Stato e come segnalavano i cablogrammi dell’addetto militare, maggiore Ivan Yeaton.

Steinhardt rispose che bastava conoscere un po’ di storia russa per convincersi che era ben difficile che i Tedeschi ne potessero fare un boccone solo. I soldati russi possono sembrare inetti quando vanno all’offensiva, come è stato dimostrato dalle guerre napoleoniche e dalla recente guerra in Finlandia. Ma quando si tratta di difendere il proprio suolo sono combattenti magnifici e danno prova di sublime eroismo.

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Tuttavia, precisò, era difficilissimo per chi non era addentro alle segrete cose in Mosca potersi fare un’idea esatta della realtà della situazione. Lui e gli altri diplomatici di Mosca si erano visti frustrare tutti i tentativi di sapere qualche cosa direttamente dalle autorità sovietiche. Esse nutrono la diffidenza più assoluta verso gli stranieri e quindi adottano la congiura dl silenzio.

Hopkins rispose che era deciso, in un modo o nell’altro, a rompere la barriera del sospetto. Riposò profondamente quella notte e il giorno dopo si fece accompagnare da Steinhardt per dare uno sguardo alla città. Alle 6,30 del pomeriggio, Steinhardt lo accompagnò a Cremlino dove era fissato il primo colloquio con Stalin.

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La relazione che Hopkins ne fece al Presidente è degna di essere riportata nella sua integrità:

Dissi a Stalin che ero venuto come rappresentante personale del Presidente. Roosevelt considerava Hitler come il nemico del genere umano e desiderava aiutare la Russia nella lotta impegnata contro la Germania.

Gli disse che la mia non era una missione diplomatica, nel senso che io non ero venuto a proporre nessuna intesa ufficiale o accordo di qualsiasi genere e grado. Gli espressi il pensiero del Presidente che attualmente il compito più importante dell’umanità fosse di sconfiggere Hitler e l’hitlerismo.

E gli garantii che il Presidente e il Governo degli Stati Uniti erano decisi a concedere all’Unione Sovietica ogni aiuto nel più breve tempo.

Dissi a Stalin di essere latore di alcuni messaggi del Presidente e gli spiegai quali fossero le mie relazioni con l’amministrazione di Washington. Gli feci sapere d’avere appena lasciato Londra, dove Churchill in persona mi aveva pregato di esprimergli gli stessi sentimenti che gli avevo espresso da parte del Presidente.

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Stalin rispose che era lieto di darmi il benvenuto nell’Unione Sovietica; era già stato informato della sua visita. Venendo a Hitler e alla Germania, Stalin parlò della necessità di raggiungere un minimo d’intessa morale fra le nazioni, perché senza di ciò le nazioni non avrebbero più potuto coesistere.

Dichiarò che gli attuali caporioni della Germania non avevano la minima moralità e rappresentavano nel mondo una forza antisociale. I Tedeschi erano un popolo che senza pensarci un momento potevano firmare oggi un trattato per romperlo domani e firmarne uno nuovo il giorno dopo.

Le nazioni devo osservare gli obblighi dei trattati o la società internazionale avrà finito di esistere. Quando ebbe terminato questo suo sguardo a volo d’uccello all’attività internazionale e sull’atteggiamento russo verso la Germania, aggiunse: “Vedo, dunque, che e nostre idee coincidono”.

Harry Lloyd Hopkins con Stalin

Harry Lloyd Hopkins con Stalin

Dissi a Stalin che la questione degli aiuti all’Unione Sovietica si presentava sotto un duplice aspetto. Primo, quali erano i bisogni più importanti della Russia e che cosa le avrebbero potuto offrire subito gli Stati Uniti? Secondo, quali sarebbero state le richieste russe, nel caso che la guerra si prolungasse?

Stalin comprese nella prima categoria il bisogno immediato di cannoni anticarro di medio calibro, da 20 a 37 mm, con le lor o munizioni. Dichiarò di averne bisogno, per la loro rapidità di fuoco e mobilità. In complesso ne sarebbero occorsi circa 20.000 pezzi.

Credeva che, una volta in possesso della quantità richiesta, avrebbe potuto disimpegnare quasi 2.000 apparecchi da caccia, di cui oggi doveva servirsi per proteggere gli obiettivi militari alle spalle delle linee russe e impiegarli come forze attaccanti contro il nemico.

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Secondo, chiese grosse mitragliere e cannoni per la difesa delle città. Terzo, disse di aver sentito che gli Stati Uniti possedevano molti fucili e credeva che il loro calibro corrispondesse a quelli in uso nell’Armata Rossa. Dichiarò di averne bisogno di un milione e più.

Gli chiesi se desiderasse anche le relative munizioni ed egli ripeté che se il calibro era lo stesso di quello russo, non occorreva perché “ne avevano in quantità”.

Passando alla seconda categoria, cioè agli aiuti per una lunga guerra, egli ricordò innanzi tutto di avere un gran bisogno di carburante per l’aviazione e di alluminio per la costruzione di aeroplani; inoltre le voci già menzionate nella lista al nostro Governo a Washington.

A questo punto Stalin fece una improvvisa osservazione: “Dateci cannoni antiaereo e alluminio e noi potremo combattere per tre o quattro anni”. Gli riferii dunque che già 200 Curtis P-40 erano pronti a partire per la Russia e ad una sua domanda confermai che di essi, 140 sarebbero stati consegnati via Inghilterra mentre gli altri 60 sarebbero venuti direttamente dagli Stati Uniti.

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Gli feci anzi rilevare, che dell’arrivo di questi aeroplani si poteva incaricare il tenente Alison che era a Mosca, un grande esperto di quel tipo di apparecchi. Gli chiesi se non credesse opportuno che Alison si fermasse ad Arcangelo in qualità di consigliere ed egli rispose affermativamente.

Disse anzi che sarebbe stato ben lieto se gli avessimo mandato dei tecnici, poiché l’Unione Sovietica ne aveva un bisogno estremo, per istruire i suoi piloti nell’uso di quegli aeroplani.

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Stalin dichiarò che sarebbe stato lieto dell’invio di nostri tecnici per l’addestramento dei piloti russi su tali apparecchi, aggiungendo che i suoi aviatori ci avrebbero mostrato tutte le novità dell’equipaggiamento russo, che avremmo trovato molto interessante.

Pur senza entrare in particolari, come fece il giorno dopo, mi descrisse ampiamente i tipi di aeroplano di cui era in possesso l’Unione Sovietica. E disse di sentire particolarmente la mancanza di apparecchi da bombardamento a breve raggio, capaci cioè di operare entro un raggio di 600 – 1.100 chilometri o con un’autonomia di volo di 1.200 – 2.200 chilometri.

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Chiesi a Stalin quale fosse la rotta migliore per allacciare gli Stati Uniti all’Unione Sovietica. Mi rispose che la via del Golfo Persico era da scartare, per la troppo limitata capacità delle ferrovie e delle vie di grande comunicazione dell’Iran. E aggiunse: “D’altra parte, non abbiamo elementi sufficienti per conoscere il pensiero dell’Iran in proposito”.

Né più favorevole si dimostrava la linea di Vladivostok. Io rilevai il pericolo che essa venisse interrotta dai Giapponesi e Stalin di rimando, sostenne che in tutti i casi era troppo distante dal teatro di battaglia.

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Stalin con Molotov

Stalin credeva insomma, che la via migliore fosse quella di Arcangelo. Tanto lui che Molotov mi dissero che il porto di Arcangelo poteva essere tenuto sgombro anche d’inverno con l’aiuto di rompighiaccio. E Stalin fece notare che i soli due porti assolutamente liberi di ghiaccio, nel nord, erano Murmansk e kaldalaksha.

Dissi a Stalin che il mio soggiorno a Mosca sarebbe stato breve e desideravo occupare intensamente il poco tempo a disposizione. Gli chiesi quindi, se preferiva continuare personalmente le nostre conversazioni o desiderava che io discutessi le questioni secondarie con altri funzionari del Governo sovietico.

Non mancai naturalmente di affermare che preferivo conferire direttamente con lui, ma capivo che egli aveva molte responsabilità da assolvere e non mi avrebbe forse potuto dedicare molto tempo. Gli dissi che avevo alcuni messaggi personali del Presidente da consegnare a tempo opportuno.

Roosevelt con Stalin

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Stalin rispose: “Voi siete nostro ospite: no avete che da comandare”. Mi disse che sarebbe stato a mia disposizione tutti i giorni dalle sie alle sette. Acconsentì poi che io conferissi con i rappresentanti dell’Armata Rossa quella sera alla dieci.

Ripetei a Stalin i sensi della stima di tutto il popolo americano per la splendida resistenza dell’Armata Sovietica e riaffermai la decisione di fare tutto l possibile per aiutare l’Unione Sovietica nella valida lotta contro il Tedesco invasore.

Stalin, rispose esprimendola gratitudine del Governo sovietico. Dissi a Stalin che pensavo di ricevere i rappresentanti della stampa anglo-americana, dopo il colloquio e gli chiesi se avesse qualche particolare desiderio da esprimere in merito a quel che avrei potuto dire o se addirittura preferisse che io non tenessi alcuna conferenza stampa. Dissi comunque, che i resoconti della stampa sarebbero stati sempre sottoposti a censura.

Ma Stalin rispose che l’unico suo desiderio, se ne doveva esprimere uno, era di non lasciare assolutamente che quei resoconti andassero soggetti alla censura del suo Governo. Espressi a Molotov il desiderio di fargli visita e fu stabilito che andassi da lui alle tre del giorno dopo.

Alexander S. Yakovlev

Alexander S. Yakovlev

Sul tardi di quella stessa sera, Hopkins ebbe alcune discussioni tecniche con il generale d’Artiglieria dell’Armata Rossa, Yakovlev, con il generale McNarney e il maggiore Yeaton. La discussione verté essenzialmente sui mezzi chiesti da Stalin – cannoni antiaerei, alluminio, fucili , ecc– Quando fu esaurita, Hopkins propose l’invio di una Commissione permanente russa a Washington, per discutere giorno per giorno i problemi che si potevano presentare. Yakovlev rifiutò di prendere in considerazione la proposta, dicendo che un decisione non poteva venire che da Stalin.

Per Hopkins questo fu il primo esempio del livello molto basso in cui era compressa l’iniziativa personale nel sistema sovietico: nessuno osava dire una parola più del necessario, oltre quanto era stabilito dagli argomenti in discussione.

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Ciononostante Hopkins chiese ancora a Yakovlev se non fosse a conoscenza di altre necessità dell’Armata e Yakovlev – certo a malincuore – rispose negativamente, perché tutte le cose più importanti ormai erano state discusse.

Fra gli appuntamenti del colloquio appare questo passo rivelatore:

Hopkins dichiarò di essere sorpreso che il generale Yakovlev non facesse il minimo cenno né a carri armati né a cannoni anticarro. Il generale Yakovlev rispose: “credo che l’esercito ne abbia a sufficienza”.

Hopkins insisté che erano necessari molti carri armati per combattere il nemico che si aveva di fronte. Il generale Yakovlev annuì. Ma quando gli si chiese il peso del carro armato più pesante in dotazione all’esercito russo, rispose. “È un buon carro”.

Fu chiesto al generale Yakovlev se l’artiglieria russa fosse in grado di fermare i carri armati tedeschi. Rispose: “La nostra artiglieria tira contro qualsiasi carro. I risultati variano”.

Finalmente dopo altre discussioni, il generale Yakovlev ammise che i Russi avrebbero potuto usare anche carri armati e cannoni anti-carro stranieri, se l’America li poteva fornire alla Russia. Ma, con tutto ciò concluse, “non ho il potere di dire se abbiamo o meno bisogno di carri e di cannoni anticarro”.

Hopkins fu assai colpito dell’oscuramento di Mosca, ancora più impenetrabile di quello di Londra e fu impressionato dallo spaventoso concentramento del fuoco antiaereo, durante un’incursione tedesca. Era stato posto a sua disposizione un rifugio e vi scese insieme a Steinhardt.

Lo sorprese la quantità di champagne, di caviale, di cioccolato e di sigarette di cui era stato fornito il rifugio e se dobbiamo credere a Steinhardt, “rise di cuore quando gli dissi che nessun rifugio antiaereo era stato messo a mia disposizione e che dovevo la possibilità di proteggermi, quella sera, alla sua presenza”.

Il giorno seguente, 31 luglio, Hopkins ebbe un colloquio con Stafford Cripps, ritornato in fretta dall’Inghilterra dopo l’attacco di Hitler alla Russia. Discussero soprattutto della prossima conferenza tra Roosevelt e Churchill e degli aspetti che potevano interessare praticamente la Russia.

Si trovarono d’accordo nel proporre che il Presidente e il Primo ministro mandassero alla fine della conferenza un comune messaggio di solidarietà a Stalin e ne discussero perfino i termini. Cripps ne fece una copia, basandosi su quanto si era stabilito nel colloquio e Hopkins la portò con sé alla Conferenza atlantica.

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Il messaggio inviato a Stalin da Argentia, tranne qualche taglio,non subì modifiche sostanziali e mantenne la stessa forma, compreso il periodo iniziale che diceva:

“Abbiamo colto l’occasione offertaci dalle considerazioni contenute nel rapporto di Mr. Hopkins, al suo ritorno da Mosca, per deliberare di comune accordo il mezzo migliore per aiutare il vostro Paese nella magnifica resistenza di cui dà prova contro l’attacco nazista” (l’unica variante a voler essere precisi, era: “di cui dà prova” al posto di “sostenuta”).

Quel pomeriggio, Hopkins e Steinhardt tornarono al Cremlino per presentarsi a Molotov, come era stato convenuto. Nel colloquio si trattò principalmente della situazione in Estremo Oriente e della crescente minaccia giapponese. Nel suo rapporto al Presidente, Hopkins non ricorda ciò che disse per avviare il colloquio, stimandola cosa di poco interesse per Roosevelt.

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Il rapporto di Hopkins dice:

Molotov pur riconoscendo che le relazioni russo-giapponesi erano tuttora determinate dalle clausole fissate con Matsuoka e dal patto di neutralità firmato tra i due Paesi, affermò di non essere affatto certo dell’atteggiamento del nuove Governo giapponese verso l’Unione Sovietica e di seguire attentamente gli sviluppi della situazione, essendo pressoché all’oscuro delle intenzioni di quel Governo.

Dichiarò tuttavia che, a suo parere, l’unica cosa che poteva trattenere il Giappone dal compiere qualche nuova aggressione, era un messaggio del Presidente, che servisse, come ebbe a dire, di “monito”.

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Per quanto Molotov non si sia espresso chiaramente, era facile comprendere che questo “monito” avrebbe dovuto essere una dichiarazione in cui gli Stati Uniti si impegnassero a scendere in aiuto dell’Unione Sovietica se questa fosse stata attaccata dal Giappone.

Molotov non disse di essere molto preoccupato di un immediato attacco giapponese alla Russia e affermò che, da parte russa, non si aveva alcune intenzione di creare delle difficoltà con il Giappone.

Pure mi lasciò l’impressione che l’argomento fosse fonte di parecchie preoccupazioni per lui, poiché capiva che i Giapponesi non avrebbero esitato a muovere guerra alla Russia, se appena l’avessero vista in difficoltà.

Questa la ragione del suo grande interesse per l’atteggiamento americano nei confronti del Giappone. 

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Dissi a Molotov che il Governo degli Stati Uniti era turbato dall’avanzata giapponese nell’Estremo Oriente e che il popolo americano no avrebbe certo visto con favore il Giappone prendere piede su altri territori siberiani: il lungo periodo di amichevoli relazioni tra la Russia e gli Stati Uniti che non distavano fra loro più di cinquanta miglia, era un indice esatto del nostro interesse alla stabilità dell’Estremo Oriente, compresa la Siberia.

Gli dissi che il Governo seguiva con grande attenzione gli sviluppi della situazione in Estremo Oriente e riprovava assolutamente l’atteggiamento minaccioso del Giappone, sia verso sud che verso nord. Dissi però che ci sentivamo dominati da un alto senso di responsabilità e non desideravamo compiere alcun passo che sapesse di provocazione.

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Gli dissi che avrei recato al Presidente il messaggio consegnatomi e gli avrei espresso senz’altro il desiderio del ministro sovietico perché facesse una dichiarazione di non tollerare ulteriori abusi.

Chiesi a Molotov quali fossero le attuali relazioni con la Cina e se la Russia avrebbe continuato ad offrire tutto il proprio appoggio a Ciang Kai-scek o ne fosse impedita dalle necessità della guerra contro la Germania.

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Molotov rispose che senza dubbio le necessità attuali della Russia avrebbero fatto sentire il loro peso nella continuazione di regolari aiuti alla Cina, poiché la situazione era tale che bisognava convogliare tutti gli aiuti sovietici sul fronte russo; ma non si desiderava affatto tagliare tutti i ponti con la Cina e si sarebbe continuato ad offrirlo, nei limiti del possibile, tutto quanto era lecito.

Espresse tuttavia la speranza che gli Stati Uniti potessero intensificare il ritmo delle loro spedizioni per sopperire al diminuito aiuto della Russia.

Dissi a Molotov che il popolo americano provava una grande ammirazione per la resistenza dell’Armata Rossa e gli garantii che tutto sarebbe stato fatto per poterle rendere un aiuto tangibile nel più breve termine di tempo.

Molotov mi chiese di trasmettere al Presidente i ringraziamenti del Governo sovietico per aver inviato in missione un suo rappresentante personale.

Churchill

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È interessante notare che Molotov espresse quasi lo stesso parere manifestato già da Churchill e da questi ribadito alla Conferenza atlantica: che cioè, gli Stati Uniti dovessero assumere un atteggiamento più fermo nei riguardi del Giappone, poiché era l’unico mezzo per impedire l’estendersi della guerra all’Asia.

Hopkins, tornando al Cremlino per le 6.30 di sera a continuare i suoi colloqui con Stalin non si fece accompagnare né da Steinhardt né da altri. Il suo interprete fu Maxim Litvinov, l’ex Commissario sovietico degli Esteri all’epoca di Ginevra e della “sicurezza collettiva”, che era stato messo in disparte dopo il patto nazi-sovietico dell’agosto 1939.

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“Ora – disse Hopkins – sembrava un abito che fosse stato messo nella naftalina quando la Russia si allontanò dall’Occidente e tirato fuori, rispolverato per l’occasione e stirato come simbolo di mutate condizioni”. Hopkins divise in tre parti il rapporto su questo nuovo colloquio. La prima che riporto integralmente è questa:

PARTE I

Dissi a Stalin che il Presidente desiderava conoscere il suo punto di vista sulla guerra tra la Germania e la Russia. Stalin descrisse così la situazione:

Allo scoppio della guerra l’esercito tedesco poteva avere sul fronte russo 175 divisioni, ma già attualmente ne contava 232; egli riteneva che tedeschi potessero mettere in campo fino a 300 divisioni.

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La Russia all’inizio della guerra, aveva 180 divisioni, ma molte di esse si trovavano assai lontane dalla linea di combattimento e non potevano venire mobilitate in fretta; perciò all’inizio della loro invasione, i tedeschi non trovarono alcuna efficace resistenza.

La linea attuale è certamente più propizia di quelle più avanzate, che avrebbero potuto essere tenute solo se si fosse potuto disporre subito di divisioni ben preparate.

Ma dopo l’inizio del conflitto, le divisioni erano state schierate su posizioni meglio rispondenti; anzi, al momento attuale, la Russia aveva sul fronte qualche divisione di più dei Tedeschi, circa 240, più 20 di riserva.

Un terzo di esse si trovava per la prima volta alle prova del fuoco. Stalin dichiarò in seguito di poter mobilitare funi a 350 divisioni, numero che sarebbe stato certo raggiunto per l’inizio della campagna primaverile del maggio 1942.

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Egli si dimostra ansioso di portare il maggior numero di divisioni a contatto con il nemico, perché le truppe imparino che anche i Tedeschi possono venire uccisi e non son dei superuomini. 

Questo contribuisce a far nascere nei soldati la stessa fiducia del pilota che ha affrontato il suo primo combattimento aereo. Stalin è convinto che in guerra “nulla vale quanto l’esperienza diretta del combattimento” e vuole avere il massimo di truppe “collaudate” per la grande campagna della prossima primavera.

Aveva l’impressione che le truppe tedesche fossero stanche e mi diceva che parecchi uomini e ufficiali avevano detto di “essere nauseati della guerra”.

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Le riserve tedesche sono a più di 400 chilometri dietro le linee del fronte e trovano estrema difficoltà di comunicazioni tra le linee avanzate e le retrovie. Le necessità dei collegamenti e dei rifornimenti richiedono l’impiego di molte migliaia di uomini a protezione delle vie di comunicazione.

Nella battaglia in corso – disse Stalin – molte truppe tedesche e russe hanno dovuto combattere troppo lontano dalle rispettive linee, in seguito alle profonde puntate delle loro forze meccanizzate. Aggiunse che i suoi soldati non consideravano persa la battaglia solo per il fatto che i Tedeschi avevano potuto sfondare, qua e là, con le forze corazzate.

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Le truppe russe motorizzate potevano passare all’attacco in altri punti, avanzando profondamente entro le linee stesse del nemico. Che i Tedeschi riescano a far ripiegare le linee russe non significa affatto che i Russi abbiano perso.

Anzi continuano a combattere alle spalle dei Tedeschi e si dimostrano perfettamente allenati alla guerriglia, nascondendosi di giorno, per combattere di notte, di sorpresa. E poi, aggiunse, anche i carri armati tedeschi vanno a benzina!

Ad ogni modo questa è una semplice fase della moderna tecnica di guerra e spiega a meraviglia come mai sia tanto piccolo il numero dei prigionieri da una parte e dall’altra. I Russi hanno dunque, molte truppe “insorte” dietro le linee del fronte tedesco.

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Esse attaccano incessantemente gli aerodromi e le linee di comunicazione del nemico. I Russi conoscono a meraviglia il terreno e sanno dove siano i nascondigli naturali offerti dalle varie località, assai meglio dei Tedeschi. Gli “insorti” costituiscono un grave minaccia per l’offensiva tedesca.

Stalin crede chela Germania sottovaluti la forza dell’esercito russo e non possieda al fronte reparti sufficienti per condurre una vittoriosa offensiva bellica e proteggere nello stesso tempo le sue estese linee di comunicazione.

Ripeté più volte, con calore, che i Tedeschi sono costretti ad impiegare numerose truppe a protezioni di tali linee. In definitiva crede che i Tedeschi dovranno porsi, presto o tardi, sulla difensiva. Più di un indizio dimostra che già lo stiano facendo.

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I Russi hanno già trovato più di 50 postazioni costruite a scopo difensivo. Secondo Stalin, Hitler teme d avere troppi uomini sul fronte russo e ciò spiega questi suoi preparativi di difesa, per far rientrare un congruo numero di divisioni in Germania e trasferirle a copertura di un eventuale fronte d’operazioni occidentale.

Egli pensa che i Tedeschi abbiano attualmente sul fronte circa 70 divisioni tra motorizzate e carriste. Ed afferma che la guerra ha già fatto mutare profondamente il concetto d’impiego delle divisioni tedesche: i Tedeschi hanno snellito le loro enormi divisioni corazzate, facendo nuovi gruppi autonomi, che egli chiama divisioni carriste e motorizzate.

La guerra ha ormai dimostrato a sazietà che le divisioni di fanteria devono avere molti mezzi e unità motorizzate. La Russia ha un gran numero di divisioni così formate, tutte minori delle divisioni corazzate tedesche, ma assai più forti delle altre divisioni della Wehrmacht.

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Di qui la gran pressione esercitata sulle divisioni di fanteria tedesche, che provocò i provvedimenti per raggiungere una più equa distribuzione di mezzi corazzati su tutto il fronte.

Stalin crede che la Germania, all’inizio della guerra contro la Russia, avesse 30.000 carri armati. La Russia ne aveva 24.000 e sessanta divisioni carriste con circa 350 – 400 carri armati per divisione. Inoltre, fin dall’inizio, ogni divisione di fanteria possedeva 50 carri.

Stalin crede che sia intenzione dello Stato maggiore tedesco snellire le proprie massicce divisioni ed afferma che, con il procedere della guerra, gli effettivi di ogni divisione finiranno col decrescere da una parte e dall’altra.

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La pressione avversaria negli ultimi dieci giorni è diminuita sensibilmente e Stalin ne vede la ragione nel fatto che con tutta probabilità i Tedeschi non hanno potuto rifornire di carburante i mezzi motorizzati e le forze aeree.

Sostenne e dimostrò le grandi difficoltà incontrate dagli eserciti tedeschi nel far confluire al fronte le necessarie enormi quantità di carburante; e le difficoltà cresceranno col tempo, anziché decrescere.

Questo non per deficienza di carburante, ma per difficoltà di trasporto, per mancanza di strade e soprattutto per l’efficace opera di sabotaggio svolta dietro le linee tedesche.

Stalin dice che pur essendo la guerra solo alla sua sesta settimana, le truppe sovietiche incontrano già al fronte nuove divisioni tedesche, mentre le precedenti sono state ritirate. Il morale delle sue truppe è altissimo, mi dice e ciò in massima parte è dovuto al fatto che stanno combattendo per le loro case e per il territorio d’origine.

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La Germania ha già scoperto che “muovere le sue forze meccanizzate in Russia è assai diverso che avanzare lungo i boulevards del Belgio e della Francia”. Egli afferma che l’esercito russo si è trovato di fronte a un attacco improvviso: egli stesso non credeva che Hitler avrebbe attaccato, ma aveva preso tutte le precauzioni per mobilitare l’esercito al momento opportuno.

Hitler non aveva mai dimostrato di avere pretese sulla Russia ed i Russi furono quindi costretti ad organizzare una linea difensiva. Ma ora sono passati in più punti al contrattacco.

Finora l’esercito russo non aveva dovuto affrontare molti carri armati da 70 tonnellate, ma questo è forse dovuto alla scarsa portata dei ponti russi che non ne potevano sostenere il peso.

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Stalin dice anche che il terreno è troppo difficile per l’impiego di quei giganteschi tanks. E quei pochi che si sono visti furono immobilizzati dai cannoni russi da 75 mm. Egli non pensa quindi, che il carro armato tedesco possa assolvere una parte molto importante nella guerra in Russia, anche se in alcune zone del fronte sud esso potrebbe manovrare a meraviglia.

Le strade sono troppo cattive per poterlo fare. Stalin crede che i suoi carri armati più grossi siano migliori di quelli tedeschi ed abbiano dimostrato ripetutamente le loro superiorità nella guerra in corso. I carri armati maggiori posseduti dalla Russia sono di 48 e di 52 tonnellate, con corazze d 75 mm e cannoni da 85 mm.

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Tali carri sono circa 4.000. Il carro russo medio è di poco più di 30 tonnellate ed ha una corazza di 45 mm e cannoni da 75 mm. Il carro armato della fanteria è di 13 tonnellate, con corazza da 37 mm e cannoni da 45. Son circa 8.000 quelli medi e 12.000 i leggeri. Se ne producono attualmente mille al mese, divisi tra medi e pesanti da una parte e leggeri dall’altra.

Ma sarebbe presto mancato l’acciaio per costruirne altri e bisognava avere assolutamente altre forniture di questo materiale. Egli preferiva anzi, che i carri armati venissero costruiti direttamente negli Stati Uniti e desiderava anche acquistane il maggior numero possibile di nostra fabbricazione diretta, per la campagna di primavera.

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Costruire carri armati, disse, ecco l’imperativo di questo inverno. Le perdite erano state grandi da una parte e dall’altra, ma la Germania aveva il vantaggio di poterne produrre un numero maggiore della Russia, durante l’inverno. Per cui l’aiuto degli Stati uniti era essenziale, nel campo dei carri armati e dell’acciaio.

Sarebbe stato lieto di poter inviare un esperto di carri armati negli Stati Uniti ed aveva intenzione di mandare i disegni dei propri carri armati.

Rilevò poi il fatto che la Germania aveva una forte e potente aviazione e calcolò che essa potesse produrre circa 2.500 aeroplani al mese, tra caccia e bombardieri, ma certo non più di 3.000.

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La Germania ha attualmente più apparecchi della Russia al fronte, ma non sono tutti di qualità eccelsa. Sono apparecchi di difficile manovra, brutti e guidati da piloti non sempre allenati.

Alcuni di essi, fatti prigionieri, hanno dichiarato di aver avuto un periodo d’istruzione brevissimo e limitato ad un “corso pratico”. Evidentemente i Tedeschi usano sul fronte russo un gran numero di apparecchi che non escono dalle proprie fabbriche.

Stalin pensa che in definitiva la Germania sottovaluti la forza dell’aviazione russa e crede che questi apparecchi di seconda categoria bastino per operare con successo contro di essa. I Russi non hanno trovato grande difficoltà nel distruggerli. Il tipo Henkel era più veloce dei nuovi Messerschmitt.

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Nel complesso il miglior aeroplano usato dai Tedeschi contro i Russi si è rivelato il Junkers 88, che è il migliore d’ogni tipo posseduto dai Russi. Egli dice che i Tedeschi stanno armando i loro caccia di cannoni da 20 mm; alcuni di essi hanno già mitragliere da 12 mm.

Tutti i caccia, secondo Stalin, devono avere dei cannoni nella guerra moderna. I suoi sono armati di cannoni e di mitragliatrici pesanti e i Russi hanno l’intenzione di costruire tutti i caccia con cannoni o mitragliere di grosso calibro.

I Russi hanno al fronte i loro vecchi caccia, che hanno una velocità di soli 440 chilometri orari, ma si sono dimostrati efficacissimi contro molti degli apparecchi messi in linea dai Tedeschi. Il loro numero ascende attualmente a sette o ottomila.

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I nuovi caccia son di tre tipi. Al fronte ce ne sono circa 2.000 e se ne producono circa 1.200 al mese. I più veloci di questi monomotori sono gli M.I.G.3 con corazzatura pesante e cannoni ed una velocità di 650 chilometri. Il secondo tipo è il L.A.G.3 che porta un cannone e una mitragliatrice, con una velocità di 590 chilometri orari. Il terzo tipo, lo J.K.1 è armato di un cannone ed una velocità di 590 chilometri.

I Russi hanno poi tre nuovi tipi di apparecchi da bombardamento medi. Il primo è il monomotore, che fa 510 chilometri orari e serve per il bombardamento e stretto raggio. Il secondo è un aeroplano da bombardamento in picchiata, ha due motori, con una velocità di 540 chilometri ed una autonomia di volo di 800 chilometri.

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Il terzo tipo, che si sta ora producendo in quantità, è un bimotore a tuffo, con una autonomia di 2.200 chilometri e una velocità di 610 e porta normalmente una tonnellata di bombe, ma può raddoppiare il carico se gli si fa fare solamente la metà del percorso. Ha sette mitragliere.

Stalin ne parlava come di un “ottimo apparecchio”. Mi disse poi di avere altri tre tipi da bombardamento a grande raggio. Uno, a due motori, che è molto lento, poiché fa solo 440 chilometri, con una autonomia di 3.000. Il secondo, pure esso bimotore, è in via di costruzione con un motore Diesel: autonomia 5.000 chilometri, portata una tonnellata (2 tonnellate a 4.000 chilometri), velocità 500 chilometri orari. Il terzo è un bombardiere quadrimotore, di cui si inizia appena la produzione, autonomia 3.500 chilometri, carico 3 tonnellate di bombe.

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Attualmente questi bombardieri pesanti a grande autonomia sono circa 600. La produzione totale di aeroplani raggiunge attualmente i 1.800 al mese: con il primo gennaio si sarebbe arrivati a 2.500. Il 60% di questi sono caccia, il 40% bombardieri.

Bisogna aggiungere naturalmente gli apparecchi d’allenamento, con una media di 15 al mese e sono circa 3.500. Il corso d’addestramento per piloti dura otto mesi. Stalin si interessò vivamente all’addestramento dei piloti in America e mi lasciò l’impressione che temesse di trovarsi presto ad avere una gran penuria di piloti.

Mi disse che le cifre date dai Tedeschi sulle perdite aeree dei Russi sono assurde. I Russi inizialmente persero più apparecchi dei Tedeschi, ma ora il vantaggio, a quanto afferma, è dalla loro parte. Non mi volle indicare il numero delle perdite, se non con un vago: “sono molte da ambo le parti”.

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Disse che si erano avuti parecchi danni alle fabbriche d’aeroplani, ma si era provveduto tempestivamente a evacuare gli impianti prima della loro distruzione. (Ho visto io personalmente due fabbriche, appena fuori di Mosca, che il nostro ambasciatore disse essere fabbriche d’aeroplani completamente distrutte).

Chiesi a Stalin dove si trovassero le fabbriche di armi e munizioni. Non mi rispose dettagliatamente, ma mi disse che circa il 75% si trovava nelle zone di Leningrado, di Mosca e di Kiev, con una percentuale variante a seconda dei vari tipi di fabbriche.

Ebbi comunque l’impressione che se l’esercito tedesco potesse avanzare fino a 150 miglia ad est di questi centri, distruggerebbe d’un solo colpo il 75% della capacità industriale della Russia.

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Stalin mi disse che si era provveduto a decentrare buona parte delle fabbriche e ad avviare verso est la maggior parte dei macchinari per sfuggire agli attacchi aerei.

Mi dichiarò infine di non sottovalutare affatto la forza dell’esercito tedesco. Esso aveva un’organizzazione pressoché perfetta e probabilmente larghe riserve di viveri, uomini, mezzi e carburante.

Egli pensa che noi non abbiamo forse l’idea esatta delle vaste riserve di petrolio della Germania e fonda questa sua presunzione sul fatto che nei due anni dell’accordo russo-tedesco, Hitler gli chiese meno carburante di quello che era previsto per il periodo 1940-41.

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Egli pensava che gli Inglesi avessero la debolezza di sottovalutare il nemico e non gli sembrava questo il caso. Con i mezzi a propria disposizione, l’esercito tedesco può affrontare tranquillamente una campagna invernale in Russia.

È difficile però che i Tedeschi possano compiere altre azioni offensive dopo il 1° settembre quando cominciano le piogge e dopo il 1° ottobre, quando il terreno diventa così cattivo che non si può pensare assolutamente ad operazioni d’attacco.

Sperava quindi, che durante i mesi invernali il fronte si mantenesse davanti a Mosca, Kiev e Leningrado – forse a non più di cento chilometri dalle attuali posizioni. I Russi si trovavano ad avere attualmente un grande vantaggio. Questo: che i Tedeschi “sono stanchi” e non hanno la forza di lanciare una nuova offensiva.

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Egli sa benissimo che la Germania può formare ancora 40 divisioni ed elevare a 275 il numero di quelle di cui dispone attualmente sul fronte russo, ma sa anche molto bene che queste nuove divisioni non potranno giungere in linea prima dell’inverno.

Mi riaffermò quindi, che era di estrema necessità per l’esercito russo cannoni leggeri antiaerei da 20, 25, 37 e 50 mm in grande quantità per la difesa delle linee di comunicazione contro gli attacchi aerei a bassa quota.

In secondo luogo, l’alluminio, per la costruzione di aeroplani. Terzo, mitragliatrici da 12,7 mm e quarto, fucili di calibro 7,62. Un gran numero di cannoni antiaerei era necessario anche per la difesa delle città.

Per quanto riguarda le munizioni, era del parere chela produzione russa fosse più che sufficiente. L’esito della guerra in Russia poteva dipendere essenzialmente dalla possibilità d’iniziare la campagna di primavera con mezzi adeguati, soprattutto in aeroplani, carri armati e cannoni antiaerei.

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Espresse il desiderio di avere presto gli aeroplani promessi dagli Inglesi, per poter bombardare i campi petroliferi romeni e notò la necessità d’inviare anche tecnici specializzati e piloti.

Uno dei problemi più difficili da risolvere, mi disse, era quello dei porti dove sbarcare i materiali che arrivavano: Arcangelo presentava delle difficoltà, ma non insormontabili, poiché era convinto che i rompighiaccio avrebbero potuto tenere sgombro il porto per tutto l’inverno.

03-00119925 - FOTO CHE RITRAE DEGLI UOMINI ALL' INTERNO DI UNO STABILIMENTO IN CUI SI COSTRUIVANO DELLE ARMI DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE, GERMANIA, EUROPA, IMMAGINE TRATTA DA "DER GROSSE KRIEG IN BILDERN", ORIZZONTALE, B/N, 390003206 $$$ Interior view, Krupp works, Essen, Ruhr, Germany, World War I, 1917. Krupp enjoyed a monopoly on arms manufacturing in Germany during World War I. From "Der Grosse Krieg in Bildern" (The Great War in Pictures).

Vladivostok era pericoloso perché poteva venire bloccato dai Giapponesi quando l’avessero voluto; e temeva che le ferrovie e le strade della Persia si dimostrassero inadeguate. Ma per il momento ci si poteva servire di tutto.

Stalin espresse ripetutamente la fiducia di poter mantenere le linee russe entro un raggio di no più di cento chilometri di distanza dalle posizioni attuali.

Nessuna delle informazioni datemi è stata confermata da altra fonte.

Fu durante questa conversazione che Stalin strappò un foglietto da un piccolo taccuino e vi segnò a matita le quattro principali richieste russe, prima di consegnarlo a Hopkins.

Un altro passo del colloquio, che Hopkins aveva tralasciato nel rapporto e aggiunto più tardi era il seguente:

Chiesi a Stalin se avesse visto al fronte le divisioni italiane e i volontari di Franco, come avevano affermato i giornali.

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Stalin rise e disse che i suoi uomini non avrebbero chiesto di meglio che poter vedere questi Italiani e questi Spagnoli.

L’esercito sovietico non si preoccupava che dei Tedeschi, al fronte. Finlandesi, Romeni, Italiani o Spagnoli non contavano niente e per conto suo era ben sicuro che né gli uni né gli altri avrebbero mai fatto la loro apparizione.

Aggiunse che Hitler forse nutriva per loro un disprezzo anche maggiore del suo.

Il rapporto di Hopkins continuava:

PARTE II

Dissi a Stalin durante il colloquio, che il nostro Governo e quello britannico (Churchill mi aveva autorizzato a parlare anche a nome suo), erano disposti a fare di tutto nelle prossime settimane per inviare in Russia il materiale richiesto.

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Materiale tuttavia già finito, per necessità di cose, e che nel migliore dei casi non sarebbe giunto a destinazione prima della fine della brutta stagione.

Gli dissi che noi preparavamo piani e programmi per una lunga guerra; e che dovevamo fare fronte alle nostre esigenze di difesa, oltre agli impegni già assunti con l’Inghilterra, con la Cina, e con le Repubbliche dell’America del Sud.

Gli dissi che tutti i piani e le decisioni già prese in merito al problema degli aiuti potevano essere modificati e corretti solo se il nostro -governo fosse stato pienamente al corrente non solo della situazione militare della Russia, ma dei tipi , del numero e della qualità delle armi usate, delle materie prime di cui poteva disporre e della sua capacità industriale.

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Gli feci sapere che il nostro Governo e quello britannico non erano disposti a rifornire la Russia di armi pesanti, come carri armati, aeroplani e cannoni antiaerei, se prima i nostri tre Governi non avessero tenuto una conferenza per stabilire le linee di un’azione comune e discutere a fondo insieme le necessità strategiche di ciascun fronte e di ciascun paese.

E a mio parere egli non poteva concedere troppo tempo né prestare molta attenzione a tale problema prima della fine della battaglia in corso. Stalin mi aveva appena detto che il fronte avrebbe potuto consolidarsi non più tardi del 1° ottobre.

Ora io pensavo che fosse inopportuno tenere una conferenza a Mosca prima di conoscere l’esito della battaglia, poiché non mi sembrava prudente il farlo mentre si viveva ancora nell’incertezza.

Perciò gli suggerii di tenere la conferenza al più tardi possibile, quando cioè avessimo potuto sapere con certezza se c’era o non c’era un fronte capace di resistere per tutti i mesi dell’inverno.

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Stalin rispose che gradiva il mio consiglio, ma naturalmente fece rilevare che non avrebbe potuto partecipare ad una eventuale conferenza in un altro luogo che non fosse Mosca. Sarebbe stato lieto di dare al nostro Governo tutte le informazioni richieste e si offrì di farci conoscere tutti i disegni sovietici e i modelli dei loro aeroplani, carri armati e cannoni.

Gli dissi tuttavia che non avevo l’autorizzazione di proporre ufficialmente questa conferenza. Stalin rispose allora che se il nostro Governo fosse venuto determinazione di tenere una simile conferenza, avrebbe accolto con piacere la proposta dedicandole personalmente la sua attenzione.

Stalin finora non ha dato informazioni di nessun genere né alle Ambasciate né agli addetti militari dei governi esteri. L’addetto navale britannico ha ricevuto delle informazioni relative alla marina russa, ma solo limitatamente alla necessità di alcune operazioni in corso.

Nessuno fuorché Stalin in tutto il Governo, ha la possibilità di concedere tali informazioni. Perciò ritengo che se si terrà la conferenza proposta, essa sia inutile a tutti gli effetti se non vi parteciperà Stalin in persona.

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Credo che egli vi parteciperebbe. Consiglio di non tenerla prima del 1° ottobre, ma non oltre il 15 dello stesso mese. 

Copia delle parti I e II di questo rapporto fu mandata ai segretari di Stato alla Guerra e alla Marina. Seguì la parte III, su cui Hopkins scrisse: “Solo per il Presidente”.

Ne fece una sola copia e raccomandò al Presidente di non lasciarla vedere a nessuno, comunicandone verbalmente il contenuto al segretario Hull. La ragione di tanta segretezza era che vi si parlava apertamente dell’opportunità di una entrata in guerra degli Stati Uniti contro la Germania. Il testo completo della parte III è il seguente:

circa 1914: A woman at work in an armaments factory. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

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Finito il suo giro d’orizzonte sulla situazione militare, Stalin mi espresse la sua viva riconoscenza per l’interessamento del Presidente in questa dura lotta impegnata contro Hitler. E mi disse di volergli inviare personalmente un messaggio, che aveva stabilito di mandagli per iscritto, ma che ora pensava di trasmettergli a voce per mezzo mio.

Mi disse dunque, che la maggior debolezza di Hitler era data dal gran numero di popoli oppressi che lo odiavano e odiavano i metodi immorali del suo Governo. Ora questi popoli e gli infiniti altri milioni di uomini ancora liberi dall’oppressione, secondo lui, non potevano ricevere incoraggiamento e conforto che da un’unica fonte, gli Stati Uniti.

Il prestigio mondiale del Presidente e del Governo americano era enorme. Il morale stesso dell’esercito e del popolo tedesco, già molto basso, a suo parere, avrebbe ceduto del tutto all’annuncio che gli Stati Uniti entravano in guerra con gli altri, contro la Germania.

Joseph E. Davies con Stalin

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Stalin disse di ritenere inevitabile che avremmo finito per venire alle prese con Hitler sul campo di battaglia. La potenza tedesca era tale che, anche se la Russia fosse riuscita a difendersi da sola, sarebbe stato molto difficile per l’Inghilterra e la Russia demolire la macchina bellica germanica.

L’unica cosa che avrebbe potuto sconfiggere Hitler e forse anche senza bisogno di sparare un solo colpo, sarebbe stato l’annuncio dell’entrata in guerra degli Stati Uniti.

Tuttavia, aggiunse, credeva che la guerra sarebbe stata aspra e forse lunga: in caso di nostra entrata in guerra, era convinto che il popolo americano avrebbe insistito perché il suo esercito venisse direttamente alle prese con il tedesco. Mi pregava di dire al Presidente che sarebbe stato lietissimo di accogliere le truppe americane, su qualsiasi punto del fronte russo e sotto il comando statunitense.

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Dissi a Stalin che la mia missione era limitata al problema degli aiuti e che la questione dell’entrata in guerra dell’America, l’avrebbe forse risolta lo stesso Hitler, con i suoi continui soprusi e la sistematica violazione dei nostri interessi fondamentali.

Dubitavo assai che in caso di guerra gli Stati Uniti avrebbero mandato un loro esercito in Russia, pure gli dissi che avrei trasmesso il messaggio al Presidente.

Egli ripeté più volte che il Presidente e gli Stati Uniti avevano un’enorme influenza sul resto del mondo. Infine mi pregò di dire al Presidente che, pur avendo piena fiducia nella resistenza del l’esercito russo, il problema degli aiuti per la prossima primavera era molto serio e il bisogno era estremo.

Questo fu l’ultimo colloquio di Hopkins con Stalin durante il suo breve soggiorno. In due giorni aveva saputo raccogliere una messe imponente di informazioni sulla formazione effettiva della Russia e sulle previsioni per l’immediato futuro.

Stalin aveva certamente preso a cuore le richieste di Roosevelt ed aveva riposto la più completa fiducia in Hopkins. Questi lasciò il Cremlino con la perfetta convinzione che Stalin non avesse parlato a vanvera e fosse stato assai sincero.

Harry Lloyd Hopkins con Roosevelt

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Fu una svolta decisiva nel campo delle relazione del periodo bellico tra Inghilterra e Stati Uniti da una parte e Unione Sovietica dall’altra. I calcoli anglo-americani non dovettero più essere basati sulla previsione di un rapido collasso russo; i colloqui di Hopkins avevano mutato completamente aspetto ai termini del problema.

Più tardi, nell’American Magazine, Hopkins fece questo ritratto di Stalin:

Non una volta si ripeté. Parlava come se fosse persuaso che le sue truppe combattessero una decisa battaglia acerrima. Mi salutò con poche e semplici parole in russo. Mi strinse brevemente la mano, ma con fermezza e cortesia. Mi sorrise benevolmente.

Non fece spreco né di parole né di gesti. Era come parlare ad una macchina perfettamente regolata, a una macchina intelligente.

Giuseppe Stalin sapeva quel che voleva, sapeva quel che voleva la Russia e presumeva che io lo sapessi. Il nostro secondo colloquio durò circa quattro ore. Le domande che mi fece erano chiare, precise, circostanziate.

Stanco com’ero, mi trovai a rispondere perfettamente a tono. Le sue risposte erano pronte, inequivocabili, quelle di un uomo che da anni sapeva quel che avrebbe dovuto rispondere.

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Una sola volta mentre parlavamo, squillò il telefono. Egli si scusò per l’interruzione, dicendomi che doveva ordinare la cena per la mezzanotte e mezzo. Non una volta entrò un segretario con dispacci o promemoria. E quando ci salutammo, ci stringemmo di nuovo la mano con la massima sincerità.

Mi disse un solo “arrivederci”, come mi aveva detto un solo <<buongiorno>>, quando era entrato. E fu tutto. Ebbi soltanto l’impressione che il suo sorriso fosse più amichevole e più caldo della prima volta.

E ciò forse perché, alle parole d’addio, egli aggiunse i saluti per il Presidente degli Stati Uniti. Non dimenticherò mai la sua figura mentre mi stava davanti in piedi a vedermi uscire: una figura austera, severa, decisa, con stivali che brillavano come uno specchio, calzoni ampi al ginocchio e una comoda giacca.

Non aveva decorazioni né civili né militari. È solido e piantato come una colonna, alto circa sei piedi e pesa centonovanta libbre. Ha delle mani enormi e salde come la sua mente. La sua voce è rauca, ma sempre ben modulata. Ciò che egli dice ha sempre l’accento e il tono adatti …

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Se è sempre come l’ho visto io, non spreca mai una sillaba. Se vuole addolcire una brusca risposta o una domanda improvvisa, sorride con un sorriso breve e studiato – un sorriso che può essere freddo, ma è amichevole, severo ma caldo. Non cerca e non chiede il favore di nessuno.

Non ha dubbi di sorta. Garantisce che la Russia resisterà all’esercito tedesco ed è sicuro che neppure noi lo dubitiamo …

Mi offrì una delle sue sigarette e ne accettò una delle mie. Non fuma molto, probabilmente a causa della voce troppo roca nonostante egli la sorvegli attentamente. Ride abbastanza spesso, ma è un riso breve, forse anche sardonico.

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Non dice mai una banalità o una piacevolezza. Ha spirito acuto e penetrante. Non parla inglese, ma parlando un russo rapido e stringato, ignorava l’interprete e mi fissava negli occhi come se dovessi capire ogni parola che pronunciasse.

Ho detto che non ci furono interruzioni durante il colloquio. Ho sbagliato: ce ne furono due o tre. Ma non per chiamate telefoniche o per l’entrata di qualche segretario importuno. Gli feci due o tre volte delle domande cui, dopo un attimo di silenzio, no poté rispondere in modo soddisfacente. Allora schiaccio un bottone. Subito, come se fosse stato allerta dietro la porta, entrò un segretario e si fermò sull’attenti.

Stalin ripeté la mia domanda e il segretario rispose immediatamente. Poi sparì come era venuto. Negli Stati Uniti o a Londra, missioni come la mia possono trovarsi impegnate in una lunga serie di conversazioni con il Dipartimento di Stato o il Foreign Office.

Ma a Mosca non ebbi conversazioni: solo sei ore di colloquio, dopo le quali tutto era stato risolto. Due interviste erano bastate per esaurire tutti gli argomenti.

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Naturalmente Hopkins non poté rendersi conto anche della situazione del fronte russo, nel corso della battaglia in pieno svolgimento. E anche se avesse potuto fare qualche sopralluogo, ben difficilmente avrebbe potuto comprendere quel che succedeva.

Ma acquistò piena fiducia nelle forze di resistenza della Russia, perché le richieste di Stalin erano state tali da far presagire una guerra di lunga durata. Un uomo che avesse temuto una immediata disfatta, non avrebbe elencato l’alluminio fra le sue principali richieste.

E perciò Hopkins si adirò più tardi con gli osservatori militari di Mosca per i loro rapporti pessimistici, che non erano fondati su nessun dato di fatto, tranne il preconcetto o una semplice congettura.

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Hopkins fu dunque incoraggiato dai colloqui avuti con Stalin, ma ne fu anche depresso. Perché aveva potuto rendersi conto d’una cosa che prima non conosceva: la vera natura di uno Stato totalitario. Egli scrisse: “I tre giorni passati a Mosca mi chiarirono la vera differenza che passa tra la democrazia e la dittatura, più di tutte le parole scritte sull’argomento da filosofi, storici e giornalisti”.

Egli aveva visto il timore, implicito nel rispetto con cui ogni subordinato (anche di alto grado come il generale Yakovlev), considerava i superiori. Negli anni che seguirono, Hopkins fu un sincero e pugnace amico della Russia, anche un caldo ammiratore del gigantesco contributo sovietico alla vittoria finale e disprezzò profondamente coloro che si lasciavano prendere dalla paura di trovare sempre qualche comunista nascosto sotto il letto, ma non riuscì mai ad amare un sistema di governo che concentrava un potere così assoluto nelle mani di un solo uomo.

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La sua concezione di governo era basata essenzialmente sul sistema americano dell’equilibrio e del controllo ed aveva potuto constatare di persona come il Primo ministro inglese dovesse rispondere di fronte al Parlamento.

In seguito, come dimostra il suo archivio, quando si cominciò a notare qualche deviazione nella politica sovietica, Hopkins volle illudersi che il potere di Stalin non fosse così assoluto come aveva pensato e desiderò vivamente di poter partecipare a qualche riunione del Politburo, come aveva potuto assistere alle sedute del Parlamento inglese a del Gabinetto di Washington, per potersi rendere conto del fatto.

Ma i limiti e l’operato del Politburo non gli riuscirono mai molto chiari e a Roosevelt meno che meno. Con l’andare del tempo e con il decrescere della marea della guerra, dovettero però convincersi entrambi che il Politburo aveva una incomprensibile e poco appariscente, ma forte influenza sullo stesso Stalin e quindi sulla politica alleata in genere.

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La stampa statunitense non diede molto rilievo al viaggio di Hopkins a Mosca. Né Hopkins stimò opportuno sbottonarsi troppo nelle conferenze stampa che egli tenne a Mosca, nonostante la piena libertà concessagli da Stalin.

I commenti furono in genere favorevoli, ma tiepidi. Il Wall Street Journal disapprovò il viaggio dicendo che gli aiuti alla Russia “calpestavano ogni principio morale”. Anche il Journal di Knoxville, nel Tennessee, disapprovò l’operato di Hopkins dicendo:

Egli ha sempre fatto il grande con i soldi degli altri. È un uomo dal cuore tenero che non sa dire di no. Sarebbe stato certamente meglio che Roosevelt avesse scelto un uomo dal cuore meno tenero per mandarlo a fare l’ambasciatore in Europa.

Perché un uomo come Hopkins, così sensibile a tutti i nuovi progetti è capacissimo di concedere più del bisogno alle richieste della Gran Bretagna e della Russia: tireremo un gran sospirone quando tornerà a casa!

Anche il Times Union di Jacksonville, nella Florida, si lamentò che Hopkins avesse promosso troppo, dicendo agli Inglesi che: “gli Stati Uniti avrebbero potuto disporre nel 1942 di 6 milioni di tonnellate di nuovo naviglio mercantile. La cifra, basta essere un po’ al corrente della produzione navale americana per saperlo, è esorbitante … Hopkins ha semplicemente raddoppiato le cifre di quel che è la realtà”. (La produzione delle navi mercantili in America nel 1942 fu invece di oltre otto milioni di tonnellate).

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Ma il Journal di Sioux City, nello Iowa, scrisse:

Gli isolazionisti tenteranno di fare capitale del volo di Hopkins a Mosca … Non c’è alcun dubbio che rivivrà la vecchia storia dei “pizzicotti in letto con Stalin” … ma la maggioranza dell’opinione pubblica americana approverà senz’altro quello che si è fatto.

Mettiamoci bene in mente che la cosa principale è di battere Hitler.

Hopkins fu particolarmente lieto che tali espressioni venissero da una regione che egli aveva sempre creduto isolazionista. E ne fu lieto per una duplice ragione: Sioux City era la sua città natale e il giornale era quello in cui aveva lavorato suo padre come distributore.

Il suo aeroplano lasciò Mosca il 1° agosto. Dopo la sua partenza, l’Ambasciata americana ricevette la visita dell’ambasciatore cinese con il seguente messaggio trasmesso da Ciungking: “Per Hopkins – inviamo da parte del Governo cinese i nostri cordiali saluti e l’invito a visitare Ciungking durante il viaggio di ritorno negli Stati Uniti. Speriamo possiate averne la possibilità. Ciang Kaiseek, H. Kung”.

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Ciang Kaiseek

Hopkins non andò mai a Ciungking, ma ebbe rapporti durante la guerra, con il cognato del generalissimo e di Kung, T. V. Soong. Egli e il Presidente videro Ciang Kai-seek una sola volta al Cairo, nel novembre 1943, ma Hopkins strinse una cordiale amicizia con la signora Ciang, durante una sua visita negli Stati Uniti nel 1942. Steinhardt trasmise al Dipartimento di Stato questa nota riassuntiva della visita di Hopkins:

L’accoglienza accordata a Harry Hopkins dal Governo sovietico e l’insolita attenzione usatagli dalla stampa sovietica dimostra chiaramente quale sia l’importanza che il Governo attribuisce alla sua visita.

Egli fu ricevuto all’arrivo da un folto gruppo di alti ufficiali dell’Esercito e della Marina e dal vicecapo del protocollo che lo accompagnò in volo a Mosca, dove c’era ad accoglierlo una delegazione insolitamente numerosa con a capo Lozovsky.

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Fu prontamente ricevuto da Stalin che gli concesse colloqui lunghissimi, discutendo i vari argomenti con una franchezza che non ha riscontro, a mia conoscenza, nella recente storia russa.

Tutti i giornali sovietici hanno pubblicato fotografie e articoli sulla sua visita, in prima pagina; cosa che ha un significato e una importanza anche maggiori che in qualsiasi altro paese.

Sono certo chela sua visita è stata assai gradita al Governo sovietico che ha esercitato un benefico influsso sulle relazioni generali russo-americane, dando nuovo impulso allo sforzo di guerra sovietico.

Quando l’aeroplano che trasportava Hopkins ritornò ad Arcangelo, anche McKinley e gli uomini del suo equipaggio poterono assistere dal loro capannone galleggiante alla singolare manovra dell’apparecchio, mentre sferzava l’aria ronzando.

Pensarono che l’apparecchio si trovasse in difficoltà e che Hopkins corresse pericolo, ma non era che una manovra con cui intendeva dare l’ultimo saluto al partente.

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Quando Hopkins salì a bordo del PBY Catalina, che aveva caricato platino (una delle esportazioni quasi esclusive della Russia), fu informato da McKinley che gli era stato impossibile avere informazioni sicure sulle condizioni meteorologiche, ma da quanto aveva potuto osservare era certo che avrebbero incontrato forti venti contrari e che il volo sarebbe stato piuttosto duro. Hopkins rispose: “Sia quel che sia, non sarà mai nulla in confronto di quello che ho passato in questi ultimi due giorni”.

McKinley disse ancora che, da quanto aveva potuto sapere, “le condizioni d’ammaraggio sulla costa nord erano molto sfavorevoli” e considerava quindi, prudente rimandare il viaggio finché non fossero sicuri di poterlo effettuare senza incidenti. Ma Hopkins aveva fretta. Sapeva, senza poterlo dire, che tardando un giorno avrebbe potuto perdere la nave da battagli Prince of Wales, che doveva trasportare Churchill alla Conferenza Atlantica.

Hopkins portava sempre con sé di solito le sue medicine, senza di cui era incapace di vivere. Ma inspiegabilmente questa volta le aveva dimenticate a Mosca e il viaggio fu per lui terribile.

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Si aggiunsero i venti contrari che come aveva predetto McKinley si fecero sentire violentemente, riducendo la velocità dell’apparecchio, che dovette impiegare ventiquattro ore per raggiungere Scapa Flow. Hopkins era così sfinito che nonostante tutto riuscì a dormire per sette ore filate.

A un dato momento fu svegliato e gli si disse che l’apparecchio era stato preso sotto il tiro di un cacciatorpediniere non identificato, al largo della costa di Murmansk. McKinley lanciò più volte i segnali russi di riconoscimento, ma in risposta s’ebbe un fuoco anche più intenso. Hopkins non vide assolutamente niente, ma gli dissero che talune esplosioni erano state così vicine da scuotere l’apparecchio.

McKinley aveva avuto troppo vaghe istruzioni per l’arrivo a Scapa Flow e non sapeva dove dirigersi per ammarare. Scelse quindi, un luogo che gli sembrava abbastanza riparato e sgombro di natanti.

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Nel planare, manovrò in modo da mettersi in contatto, mediante segnali luminosi, con un dragamine e ne ebbe in risposta che quello era il luogo peggiore. Il mare era troppo mosso perché l’apparecchio vi potesse galleggiare. Così si sollevò di nuovo finché non scorse la lancia dell’ammiraglio che doveva prendere a bordo Hopkins.

Ammararono in uno stretto tratto di mare fra le navi; nel manovrare la coda del PBY sobbalzò violentemente sulle onde, sballottando no poco il povero Hopkins. L’aeroplano e la lancia manovrarono per abbordarsi, permettendo così a Hopkins di scendere.

Un marinaio lo agguantò con una gaffa mentre scivolava su una passerella, finché non lo mise in salvo sull’imbarcazione. Dopo di lui venne calato il suo bagaglio, con tutte le carte preziose, le note e i documenti riguardanti la situazione sovietica.

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Il rapporto McKinley sulla missione conclude:

Mentre ci salutava noi non potemmo esimerci dal pensare che pochissime persone avrebbero sopportato quello che sopportò Mr. Hopkins dalla partenza da Invergordon il 28 luglio, fino al omento dell’arrivo.

Compiendo un largo cerchio,prima di puntare su Oban per il ritorno, vedemmo una lancia ondeggiare pesantemente lungo le acque del porto e ci domandammo se non ci fosse riposo per un uomo tanto malato eppure incredibilmente coraggioso e sollecito delle fatiche altrui. È stato per noi un grande esempio di abnegazione e di attaccamento al dovere.

Era il 2 agosto, una settimana precisa dal giorno in cui Hopkins aveva chiesto il benestare per recarsi a Mosca; una settimana prima di rivedere il Presidente Roosevelt alla Conferenza Atlantica.

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