(dal volume di Gianmaria Rauzi – Luigi Reverdito editore – stampato nel mese di novembre 1983 dala Printers srl – Lamar di Gardolo)
Fotocomposizione Publistampa Image-Arco, Fotolito Quadrifoglio-Lavis, Design Studio G. Weber-Trento
Le fotografie sono di Gianmaria Rauzi, Mauro Pedrotti e di Rudy Reverdito.
Altre foto sono state concesse dall’Archivio fotografico del Museo Provinciale d’Arte della Provincia Autonoma di Trento
Un interessante viaggio, un tuffo nella storia che si “respira” nel centro storico di Trento. Comincio con piazza Duomo e il girotondo dei suoi edifici sacri e profani. Quindi sarà la volta di via Belenzani, via Cavour con la chiesa e la piazza di Santa Maria Maggiore, Via Roma e via Manci. L’itinerario – con ampie didascalie e riferimenti storico-artistici – proseguirà poi con le altre vie del capoluogo trentino ricche di testimonianze dell’illustre passato.
Allego due video. Il primo rende più agevole la visione della galleria fotografica (dove le didascalie avranno maggiore spazio). Si tratta di immagini del 1983 o di anni precedenti. Sarebbe interessante vedere cosa è cambiato (anche rispetto alle descrizioni di allora) in questi oltre trent’anni. Temo spiacevoli sorprese … Il secondo video invece ha come tema un approfondimento ulteriore di quella che è definita la “città dipinta”.
TRENTO, ARTE E STORIA – 1
Particolare della fontana del Nettuno
Le vie del centro storico dove sono state scattate le foto
Piazza Duomo con la fontana del Nettuno, costruita nel 1768 dallo scultore Giongo di Lavarone; una stupenda fontana barocca . La statua bronzea del dio Nettuno e una serie di vasche, che a diverse altezze, ricevono le acque zampillanti da delfini, cavalli marini, putti e tritoni. Nettuno sostiene con la mano sinistra il tridente, allusivo al nome originario della città: Tridentum
Piazza Duomo, una delle più belle e caratteristiche d’Italia
Nel settore nord-occidentale di Piazza Duomo attrae lo sguardo la penultima casa verso via Cavour, di un leggiadro barocco, sempre ingentilito, durante la bella stagione, da variopinti fiori
La decorazione sulla facciata di casa Balduini è la più antica e semplice di quante sono state eseguite a Trento
Sopra l’ampia arcata dei portici, un delizioso balcone in ferro battuto, ricamato al centro dallo stemma della famiglia de Negri di San Pietro
Piazza Duomo è un piacevole saloto delimitato non dalle pareti domestiche ma dalle mura e dalle facciate dei suoi edifici monumentali
Il lato nord-orientale di Piazza Duomo è dominato dalle due case ex Cazuffi: quella contigua alla chiesa dell’Annunziata ha la facciata dipinta a chiaroscuro, mentre l’altra è ricoperta da una ricca gamma di colori sgargianti
I Balduini, una famiglia originaria di Maderno sulla riva occidentale del Garda, si trasferirono a Trento nella prima metà del Trecento. La loro insegna araldica si ripete scolpita nel marmo per le vie della città. Nei dintorni campeggia sugli spigoli della settecentesca villa edificata dai Balduini a sud di Villazzano, oggi conosciuta come Villa Tambosi e sede di importanti istituti culturali
Sulla muraglia della chiesa di S. Bartolomeo c’è anche una lastra tombale dei Saracini, gli antichi dinasti di Belfort e Molveno
La chiesa di S. Bartolomeo sorge in posizione panoramica sull’omonimo colle a sud di Trento
La famiglia Gerloni, originaria di Salò, acquisto insieme alla farmacia tutto il palazzo che ora porta il suo nome, e sulla cui facciata è stata posta la lapide che ricorda la nascita di Cesare Battisti. Fra le volute e gli svolazzi della incorniciatura lignea della farmacia quanti hanno mai fatto caso a due piccoli stemmi? Quello di sinistra, per chi guarda, è quello della famiglia Gerloni; quello di destra appartiene invece alla famiglia Marchetti, qui accoppiato probabilmente per motivi di parentela. Fanno parte dell’incorniciatura lignea anche quattro piccole teste di animali fantastici
Questa insegna degli Eggen che riprodotta artisticamente nel ferro battuto doveva fare da richiamo all’entrata dell’osteria di piazza Duomo, non è scomparsa dalle vie della città. La ritroviamo su un cenotafio di un certo “Ser Stephanus Ludovisi de Cortacia hospes a Duobus ensibus Tridenti”, posto nell’atrio della chiesa di San Marco
Domina il lato meridionale di piazza Duomo l’imponente cattedrale di San Vigilio. La costruzione del maggior tempio trentino iniziò praticamente nel 1212 per desiderio e munifica liberalità del vescovo Federico Vanga, il quale si giova della genialità e dell’opera dei maestri comacini d’Arogno. Si costruisce prima la parte absidale, seguendo un’usanza in voga nel Medioevo per cui si erigeva un edificio e quindi anche un tempio incominciando dal lato più utile
La fine del Duecento e la prima metà del Trecento vedono il completamento del fianco meridionale, delle volte del braccio maggiore, della pavimentazione, delle torri e della facciata principale, che si adornò della magnifica finestra a rosa gotica
Spiccano nella parte absidale le colonne ofitiche (colonne abbinate, annodate fra di loro nel fusto, proprie dell’architettura romanica) posate sui grifoni della finestra centrale dell’abside maggiore e sulle cariatidi del vicino protiro
Sulla fiancata meridionale del duomo appaiono alcuni logori capitelli a mensola: dovrebbero indicare l’esistenza remota del chiostro canonicale
Il completamento della fiancata meridionale della cattedrale di Trento è ricordato da due memorie litiche; l’insegna araldica dei Castelbarco vicino alla cappella del Crocefisso e un’epigrafe in latino incastonata sullo spigolo destro della facciata, dal lato della torre incompiuta
Il casato dei Castelbarco è ricordato nel duomo di Trento, oltreché per un atto di munificenza, anche per un episodio di cieca violenza. Nel transetto meridionale del tempio c’è il massiccio sarcofago del principe vescovo Adalpreto che nel 1177, mentre in pieno periodo di lotta fra Guelfi e Ghibellini lottava per recuperare i diritti usurpati alla chiesa tridentina, fu ucciso presso Rovereto dal feudatario ribelle Aldrighetti di Castelbarco
Il primo guasto all’armonia compositiva della cattedrale si compie verso la fine del Settecento lungo la sua fiancata meridionale, con l’apertura di una cappella-mausoleo di stile barocco dove viene posto il Crocefisso testimone delle solenni definizioni del Concilio di Trento. La cappella, egregiamente affrescata dal pittore Giuseppe Alberti, reca sulla sua parete esterna un’epigrafe con stemma a ricordo della sua inaugurazione. Il testo latino dell’epigrafe ricorda, oltre all’anno di compimento dell’opera, il committente, cioè Francesco Alberti Poja, principe vescovo di Trento dal 1667 al 1689. Lo stemma sovrastante il cartiglio con l’epigrafe è del casato Alberti Poja
Fra le tante manomissioni e i tanti guasti del duomo anche lo smembramento di arche vescovili e di quelle di famiglie nobiliari tridentine. I loro coperchi vennero collocati qua e là lungo il perimetro interno della basilica, e anche all’esterno. In molti casi la loro diaspora fu ancora più dispersiva raggiungendo nel migliore dei casi il museo lapidario al castel del Buonconsiglio. Nel “cortivo dell’Aquila al Magno Palazzo” andò a finire la lastra tombale del “Sepulcrum nobilis militis domini Nigri de Nigris de sancto pedro et suorum eredum” che si trovava con tutta probabilità nella navata meridionale del duomo all’altezza della cappella del Crocefisso. Allorchè questa parte di chiesa è stata manomessa per la costruzione della cappella, l’avello dei de Negri venne rimosso e trasportato nei sotterranei adiacenti. Qui lo trovò il Gerola, benemerito studioso di storia ed arte trentina. Però ne rimaneva solo un pezzo, cioè la parte superiore della lastra tombale con la scritta, la data 1311 e metà del leone simbolo del casato
La lastra tombale dell’avello della famiglia Crosina e lo stemma antico del casato: è stata trasportata all’esterno del duomo e murata sulla parete orientale della cappella del Crocifisso detta anche cappella Albertiana
Durante gli anni dell’università patavina con Giovanni Hinderbach, principe vescovo tridentino. Vincenzo di Montfort, poco prima di morire, donò alla cattedrale di San Vigilio, una delle spine della Corona di Cristo, probabilmente una reliquia della sua famiglia
Quando i Crosina nel 1675 venneroeletti alla dignità baronale, inquartarono lo stemma avito introducendovi anche la nera aquila bicipite degli Asburgo. Questo stemma inquartato è scolpito nel marmo sul portale di casa Crosina in via Garibaldi, quasi di fronte all’abside della cattedrale
Giulio degli Alessandrini,patrizio trentino del Cinquecento, fu uno dei medici più ricercati durante il Concilio di Trento e venne chiamato come archiatra alla corte di tre sovrani: Ferdinando I, Massimiliano II e Rodoldo II, presso i quali ebbe modo di distinguersi pure come umanista componendo numerose ed apprezzate poesie in latino. Ma col tempo si stufò e della vita di corte e dei viaggi intrapresi a scopo di studio in ogni parte d’Europa. Fece quindi ritorno nella sua terra, dove trascorse serenamente gli anni della maturità e delle vecchiaia esaminando le opere di numerosi medici dell’antichità, allo scopo di poterne poi divulgare le scoperte più importanti. Ben meritò quindi l’iscrizione che il figlio fece scolpire sul suo cenotafio nel duomo di Trento “Patris plura merentis”. Sopra l’iscrizione campeggia, scolpito nel marmo, uno stemma dal campo dello scudo inquartato, che reca in posizione d’onore l’insegna araldica primitiva degli Alessandrini, dalle fasce bianche e rosse, delle quali la rossa al centro accoglie tre mele d’oro
Giulio degli Alessandrini ottiene nel 1573 da Rodolfo II il permesso di elevare la residenza damiliare in Civezzano a “curia nobile” col titolo di “Newenstein”, Il palazzetto Alessandrini a Civezzano è un esempio fra i più tipici di residenza nobiliare villereccia del Cinquecento trentino, con un’ampia corte cui fanno corona le stalle, i locali adibiti ai servizi, la residenza nobiliare. L’insegna araldica degli Alessandrini la vediamo scolpita nel marmo in alcune vie della città, come in via S. Maria Maddalena, sul portale di una casa quasi dirimpetto al palazzo Consolati. Numerosi stemmi marmorei della famiglia Alessandrini sono allineati nel cortile antistante al “Magno Palazzo” e nel “cortivo dell’Aquila”
Continuando lungo la parete settentrionale del duomo, non lontano dal cenotafio rinascimentale di Giulio degli Alessandrini, è collocato il monumento barocco del senese Ludovico Piccolomini con lunghe iscrizioni nel marmo nero
Lungo la parete meridionale del duo ecco la pietra tombale, con epigrafe e stemma, di Battista Melchiori, arcidiacomo della cattedrale, morto nel 1640
Battista Melchiori apparteneva alla famiglia Melchiori di Cles, trasferitasi a Trento sul finire del Quattrocento. I Melchiori di Cles avevano casa in via Calepina, di fronte al palazzetto Lodron. L’edificio mostra tuttora sulla facciata lo stemma marmoreo del casato, che reca nel campo dello scudo le figure araldiche del leone e della stella cometa. Ma la parte più interessante del palazzo già Melchiori è all’interno, in due locali del primo piano, che ci danno una chiara indicazione dello stile, del gusto, della signorilità delle abitazioni nobiliari trentine. La stanza di soggiorno è interamente rivestita in legno; le pareti sono scandite da una successione di colonne scanalate di chiara fattura rinascimentale e al centro del soffitto domina un grande stemma ligneo a colori della famiglia Melchiori. Nella stanza da letto è invece rivestito di legno solamente il soffitto che ha nel centro un ovale con due stemmi abbinati: uno è dei Melchiori, l’altro, ancora indecifrabile, ha nel campo dello scudo una figura araldica singolare, un grosso grappolo d’uva
Nella crociera meridionale del duomo, fra numerosi avelli e lastre tombali medievali, si distingue un cenotafio di gusto rinascimentale, la cui fattura ha molti punti di contatto con gli antichi sarcofaghi di epoca romana. Vi sono scolpite le effigi di Giuliana Crotta, morta di peste nel 1575, e di suo marito Giovanni battista dei signori di Coredo, massaro vescovile delle Valli di Non e di Sole. Affiancano le effigi dei due coniugi le insegne nobiliari delle rispettive famiglie
Lungo i muri settentrionale e meridionale e nel catino dell’abside, si allinea una serie di finestre monofore, attraverso la cui complessa, sottile e nitida struttura filtra la luce nella silenziosa penombra dell’interno. Le artistiche vetrate sono state offerte nel corso dei secoli da molte famiglie nobiliari tridentine, le quali hanno voluto incidere il proprio blasone a loro ricordo. Ecco lo stemma inquartato della famiglia Rungg, di origine tedesca, elevata nella scala nobiliare fino alla dignità comitale
Anche la famiglia Mersi fece segnare il proprio stemma su una vetrata del duomo, dopo essersi trasferita dal Veronese nel Trentino sul finire del Cinquecento. Il campo inquartato dello stemma Mersi contiene due figure araldiche singolari: un grappolo d’uva e un riccio, alludendo alla campagna con la sua flora e la sua fauna. I Mersi infatti possedevano a Villazzano una bellissima villa circondata da giardini, campi e vigneti, fatta costruire durante il Seicento da Antonio Mersi “console” di Trento. Villa Mersi è situata non lontano dal colle e dalla chiesetta di S. Bartolomeo, alla cui muraglia è appoggiata una lastra tombale con lo stemma Mersi abbinato a quello della famiglia imparentata dei Manci
Anche la famiglia Salvadori ha donato una vetrata policroma per il decoro artistico del duomo di Trento. I Salvadori erano una delle più importanti e facoltose famigliedi Trento e alcuni fra i più bei palazzi della città portano il loro nome: come casa Salvadori in via Manci, ricostruita nel 1515 in piena epoca clesiana, e il bel palazzo barocco al limite settentrionale di via Suffragio, conosciuto col nome di palazzo Trautmannsdforf ora Salvadori. A Ravina, antico villaggio a sud di Trento, i Salvadori possedevano una grande casa settecentesca; e da Ravina, per qualche chilometro, si sale al pianoro di Margon dove si trova una splendida residenza cinquecentesca. I Salvadori si fregiano di uno stemma dal campo dello scudo troncato alla fascia caricata di tre pere: in alto due chiavi poste in decusse, accompagnate in capo da una stella. In basso una zampa di volatile. Nello stemma che i Salvadori hanno segnato sulla vetrata policroma del duomo le tre pere situate nella fascia sono state sostituite da due cappelli di alpino. Probabilmente una licenza quantomai originale, a testimonianza del particolare legame affettivo del committente della famiglia Salvadori al Corpo degli Alpini
Prima di lasciare l’interno del duomo saliamo una delle due suggestive logge rampanti costruite nel XII° secolo e precisamente quella di settentrione dalla parte della cella campanaria. Arrivati in cima alla scala illuminiamo con un fascio di luce la parte alta della parete che ci sta dinanzi, cioè del lato settentrionale interno della facciata principale. Chi potrebbe immaginare che in quella penombra si trova fin dagli inizi del Duecento un angelo scolpito ad altorilievo in atto di stringere e di tirare una corda che dal basso saliva alla torre campanaria per far dondolare le campane?
Il Palazzo disteso dal duomo fino alla “torre civica” è stato la prima residenza dei principi vescovi tridentini fino al 1255, quando venne trasportata al castello del Manconsej, più tardi detto Buonconsiglio. Dalla metà del Quattrocento fu sede anche della Corte di Giustizia e della prima autorità giudiziaria del Comune tridentino, il Podestà o Pretore, per cui il palazzo vescovile fu chiamato pretorio, attributo che conserva tuttora. Ma il passaggio della residenza principevescovile e dei suoi uffici dal centro cittadino al “dossum Malconsej”, segna per il primitivo palazzo del vescovo di piazza del duomo l’inizio della decadenza. Ad incaute alterazioni si susseguono inadatte opere di restauro, si fa posto negli antichi locali alle prigioni femminili e al Monte di Pietà. Così l’edificio perde sempre più quel dignitoso e solenne aspetto medievale assunto fra i secoli XI e XIII, soprattutto per merito del vescovo Vanga, per assumere uno stile tardo rinascimentale e barocco. Il più grande restauro e la maggior manomissione fu compiuta nel 1676, quando il principe vescovo Sigismondo Alfonso Thun, d’accordo con le autorità laiche della città, sostituì con dei finestroni rettangolari le bifore romaniche, che vennero tolte o murate. In ricordo di questo avvenimento il principe vescovo Sigismondo Alfondo Thun fece applicare sulla parete di Palazzo Pretorio che guarda la piazza una complessa memoria, composta da una epigrafe marmorea ovale e dal suo stemma composito sovrastato dalla mitra con spada e pastorale
La rassegna delle insegne araldiche marmoree e policrome della cattedrale continua in un ampio vano a volta, compreso nella estrema parte meridionale di Palazzo Pretorio, oa adibito a sagrestia. Questo locale rettangolare contiene una successione di artistici, preziosi mobili di stile barocco, alla cui sommità si allineano altrettanti stemmi policromi dipinti entro un ovale, ligneo, la cui identità è da riferire a rappresentanti nobiliari del Capitolo del duomo
Sopra i due arconi del lato settentrionale di palazzo Pretorio stanno due grandi stemmi marmorei dei Clesio e dei Madruzzo
Ecco l’insegna araldica della famiglia Pilati
Ecco l’insegna dei Trapp. Poche famiglie di origine tedesca hanno intrecciato come i Trapp così profondamente le loro vicende con la storia del Principato vescovile tridentino. Feudi dei Trapp furono castel Beseno e castel Pietra in Vallagarina; Caldonazzo, castel Selva Telvana, castel Ivano in Valsugana, castel Campo nelle Giudicarie inferiori
Fra il palazzo Pretorio e il duono, s’erge l’austera costruzione merlata del Castelletto, voluto agli inizi del Duecento dall’attivo e lungimirante principe vescovo Federico Vanga, il quale pensava di contenere vittoriosamente l’urto dei suoi nemici con la costruzione di un rifugio d’emergenza, un castello alto e di arduo accesso, contiguo al tempio principale della città e al palazzo vescovile. Questo palazzotto, più rispondente ad una architettura militare che ad un intento civile, è giunto fino a noi praticamente intatto. Esso è la sintesi di tre diverse costruzioni sovrapposte l’una all’altra. La parte più bassa, che si trova attualmente a circa tre metri sotto il piano stradale, è il battistero o cappella dedicata a San Giovanni. Al di sopra di questo vano è costruita la chiesa di San Biagio, adibita a sagrestia della cattedrale. Infine s’erge il Castelletto vero e proprio coronato da una serie di venti merli ghibellini, traforato e alleggerito su tutti i quattro lati nella parte superiore da una decina di finestroni romanici, otto a trifora e due a bifora. Il principe vescovo Federico Vanga non ebbe però l’occasione di sperimentare l’efficienza difensiva di questa sua opera, essendo morto nel 1218 durante un pellegrinaggio in Terra Santa; neppure se ne giovarono molto i suoi successori, dato che la residenza vescovile cambiò sede nel 1255.
Via Belenzani. Da piazza Duomo, all’altezza della fontana del Nettuno, si allunga verso nord, descrivendo una leggera curva, via Belenzani, la più bella e monumentale arteria del centro storico
La gente trentina, agli inizi del Quattrocento, pressata dalle continue soperchierie dei funzionari vescovili quasi sempre stranieri, diede violento sfogo all’ardente aspirazione di indipendenza e libertà. Sotto la pressione della sollevazione popolare, che si era estesa rapidamente anche alle valli di Non e Sole, gli insorti, guidati dal nobile Rodolfo Belenzani, ottengono, unitamente ad altri vari privilegi, il riconoscimento di una repubblica trentina. Poi Rodolfo Belenzani, in seguito alle violenze ed agli intrighi dei capitani ducali, deve fuggire con i suoi seguaci dalla città e riparare a Rovereto, e di lì, quale capitano della neo repubblica di Trento, chiede aiuto alla repubblica di Venezia a quel tempo già padrona del Trentino meridionale. Svanito l’aiuto della Serenissima, il Belenzani ed i fuorusciti trentini decidono di tentare per proprio conto la conquista di Trento. Ritornano quindi nel capoluogo trentino dove pochi giorni dopo sotto la pressione fortissima delle milizie tirolesi guidate da Enrico di Rotemburgo, i repubblicani non riescono a resistere e sono travolti a porta San Martino, presso la quale viene ferito gravemente e catturato anche l’eroico animatore della rivolta: il Belenzani. Secondo certe cronache del tempo, il Belenzani fu poi decapitato sulla pubblica piazza. E la sua presunta decapitazione venne ritratta pare dal pennello del Fogolino, sulla facciata del palazzo di stile gotico che, all’inizio di via Belenzani, ospitò la vecchia sede del municipio di Trento. La facciata in seguito fu rifatta fra il 1836 e il 1838, nel suo attuale e freddo stile neoclasico, dall’allora podestà di Trento Benedetto Giovanelli, il quale fece apporre alla sommità dell’attico, una grande aquila marmorea, simbolo di Trento e quattro statue (foto seguente). Sotto l’aquila è scolpita la frase latina risalente al XIII° secolo che chiama in causa, per la derivazione del nome di Trento, l’argento delle vicine montagne, nonchè i tre dossi di San Rocco, Sant’Agata e la Verruca
Una delle quattro statue che si trovavano un tempo lungo la roggia, ora coperta, di piazza Duomo
Durante il Medioevo via Belenzani venne chiamata dapprima “contrada di piazza” e poi ” contrada dei Belenzani”. Quando il principe vescovo Bernardo Clesio, in epoca rinascimentale, la fece “adrizzar e salezar”, le fu dato il nome di “via Larga”. Oggi la via è intitolata a Rodolfo Belenzani, uno dei personaggi più noti della famiglia che le aveva dato il nome nel Quattricento e in essa aveva la sua abitazione.
Sul lato orientale di via Belenzani, qualche caseggiato più a sud del vecchio municipio di Trento, s’impone la facciata del settecentesco palazzo dei conti Malfatti, con portali bugnati, quattro simmetrici ordini di finestre e un grande balcone in pietra
Nel cortile attiguo al vecchio municipio di Trento sta irrazionalmente addossato ad una muraglia il portale che abbelliva la facciata principale della chiesa di S. Maria Maddalena, abbattuta ai primi del Novecento
Nella parte inferiore della facciata del palazzo Malfatti si distingue il piccolo volto ghignante di un mascherone. Sulla facciata risultano, alla sommità di portali e finestroni del piano terra anche altri mascheroni di maggiore grandezza. I mascheroni, posti soprattutto sul concio di chiave dei portali o anche fra gli stipiti e le volute delle finestre, sono un’altra tipica e singolare espressione artistica del tessuto cittadino di Trento. La loro fattura non è mai dozzinale: anzi, l’artista che ha scolpito quei volti uno diverso dall’altro, ha impresso nella loro grande espressività il sigillo della sua bravura e del suo impegno
Il cognome Malfatti è comune a tre gruppi familiari, distintisi ognuno con insegne araldiche diverse, ma tutti e tre originari da un unico ceppo, quello di Brentonico. Lo stemma dei Malfatti di Trento, insigniti dei predicati di “Thiesfeld” e “Steigenberg” (Campo Marzio e Monte della Scala), ha nel campo dello scudo una figura araldica davvero singolare: un leone che azzanna un riccio, già per metà entro le fauci della fiera
Nell’autunno del 1981 è stata fatta una scoperta molto importante per la migliore comprensione del tessuto urbanistico della Trento romana. Nel corso dei lavori di un caseggiato situato circa a metà fra le vie Belenzani e Oss Mazzurana, conosciuto come casa Winkler, è venuta alla luce, ad una profondità di 3-4 metri dal mato stradale, un tratto cospicuo di selciato romano formato da grossi lastroni di pietra rossa trentina
Sul lato occidentale di via Belenzani contiguo al palazzo Alberti Colico, ecco una facciata con due tipici balconi trentini in ferro battuto e un portale cinquecentesco. Sotto uno dei balconi si intravede uno stemma marmoreo, già attribuito alle famiglie Balzani o Rovereti. Esso dovrebbe appartenere invece alla famiglia Perotti, che si fregiava di una insegna dal campo dello scudo ad un albero di pere “caricato” in capo da due stelle. Questa insegna è riprodotta anche su un caminetto in un ambiente al primo piano del palazzo, abbinata all’insegna della famiglia Consolati. Infatti l’ultimo discendente della famiglia Perotti, Pietro Antonio, uomo molto ricco, morì nel 1763, lasciando tre figlie: una andò appunto sposa a Vincenzo Consolati. Un’altra figlia sposò il conte Filippo Sizzo al quale portò in dote la villa di Covelo nei pressi di Terlago: questa magnifica residenza, già della famiglia Perotti, rimase ai Sizzo fino agli anni Settanta
I Perotti avevano la tomba di famiglia nella chiesa di San Marco: la pietra tombale si trova nell’atrio antistante all’entrata della chiesa
Quasi a metà del lato occidentale di via Belenzani, spiega la sua bellissima facciata affrescata palazzo Alberti Colico, il quale porta il nome di una delebre famiglia nobiliare, appunto gli Alberti Colico, giunti nel Trentino agli inizi del Seicento provenienti da Colico, un paese nei pressi di Bormio.L’ornamentazione pittorica della facciata (parte sinistra) ha l’emblema del giglio che si ripete più volte. Il giglio alluderebbe all’insegna araldica del celebre giureconsulto Antonio De Lillis o dei Gigli di Quetta, consigliere e cancelliere dei principi vescovi Bernardo Clesio e Cristoforo Madruzzo, il quale abitò ed ebbe lo studio in questo palazzo fino al 1550. Lo stemma della famiglia dei Gigli di Quetta, famiglia nobilitata dal principe vescovo di Trento nel 1483, campeggia riprodotto nel marmo sull’architrave del sontuoso portale, al di sotto del monogramma di San Bernardino
Prima dell’avvento di Bernardo Clesio sulla cattedra di San Vigilio palazzo Alberti Colico era diviso in due case distinte: una proprietà di Andrea Regio, uno dei più valenti amministratori del Principato tridentino; l’altra di Odorico da Povo. Per volere e con l’aiuto finanziario di Bernardo Clesio le due case verranno restaurate, abbellite e fuse in un unico palazzo, acquistato in seguito da Antonio dei Gigli di Quetta. Quando il Romanino dipinge l’intera facciata dalla base fino al tetto sporgente, rispetterà in un certo senso la primitiva divisione del palazzo, decorando diversamente le sue metà della facciata. Sulla parte sinistra si notano due stemmi, oltre a quello dei Gigli di Quetta: il più grande, in alto, dal campo dello scudo d’argento al leone “scaccato” d’oro e d’azzurro è sicuramente d’Odorico dei signori di Povo
Sul lato occidentale di via Belenzani fa coppia con palazzo Alberti Colico casa Geremia. Il nome deriva dall’omonima famiglia di origine veronese, dove era denominata Pona. Nel Trentino, dove giunse nella seconda metà del Quattrocento, si chiamerà Pona “de Geremia” e quindi Geremia, dal nome del figlio maggiore dei primi Pona trentini. Sulla facciata di palazzo Geremia di particolare pregio l’impostazione architettonica con la sequenza delle mensole a lunetta della gronda, le monofre, le finestre ad inferriata, i due ordini di quadrifore, il piccolo poggiolo traforato
Un grande contributo al decoro architettonico della facciata di palazzo Geremia è dato dai bassorilievi sui vari tipi di finestre: figure geometricge, rose clesiane, medaglioni
L’insegna dei Geremia è scolpita nel marmo sul portale d’entrata del palazzo che immette in un vasto atrio selciato e dal soffitto ligneo a medaglioni dipinti, fra i quali si ripete ancora lo stemma dipinto dei Geremia, alternato con quello della imparentata famiglia degli a Prato
L’altare dela cappella nella chiesa di San Marci impreziosito da un grande quadro dipinto dal Fogolino, rappresentante “Lo sposalizio mistico di S. Caterina con S. Michele Arcangelo, S. Chiara, S. Dorotea, S. Francesco e i donatori genuflessi Andrea Borgo e Dorotea Thun”. Il quadro del Fogolino passò dalla chiesa di S. Marco in quella di S. Trinità, per andare all’estero, pare in Boemia, da dove è ritornato in patria come proprietà del Museo provinciale d’Arte che lo ha fatto restaurare
Quasi di fronte a palazzo Geremia si trova la solida costruzione cinquecentesca che per oltre 500 anni fu la dimora principale di uno dei più potenti e conosciuti casati nobiliari tridentini, i signori de Tono o Thun. Il palazzo, ora sede del municipio di Trento, ospita alcuni importanti reperti artistici, qui trasportati da vari punti della città per salvaguardarli dal logorio del tempo. Al piano terra c’è ad esempio la statua originale del dio Nettuno, scolpita dal Giongo per la fontana di piazza Duomo.
Sulle pareti dello scalone d’onore di palazzo Thun è stato collocato il ciclo di affreschi che dal 1551 al 1903 abbelliva la facciata di casa Clotz Salvetti in via San Marco. La vasta composizione pittorica concepita dal Brusasorci, um pittore veronese che lavorò al decoro di tante ville venete, ha qui un particolare: l’ordine di Scipione quando condottagli la donzella prigioniera, la cui bellezza faceva l’ammirazione dei Romani, volle che il suo riscatto servisse d’aumento alla sua dote, lasciandola in libertà gire in isposa ad un Celtibero Signore cui era stata promessa in sposa
Altro particolare dei tre ordini di pitture sylla facciata di casa Clotz Salvetti: la Dovizia e la Primavera
I Thun erano signori non solo del palazzo ora sede del municipio ma anche di tutta quella quinta di caseggiati compresi fra via delle Orne e via Manci. Quante persone saranno entrate nella costruzione all’angolo con via Manci per recarsi nella sede del Festival, un salone dominato da un grande caminetto con lo stemma dei Thun? Percorrendo l’andito d’ingresso del palazzo avranno forse gettato uno sguardo distratto ad una bellissima lastra marmorea a rilievo, incastrata nella parete quasi a livello del terreno. E’ la pietra tombale di Dorotea Thun, figlia di Antonio e sorella di Sigismondo, legato imperiale al Concilio di Trento. Dorotea era andata sposa ad un nobile cremonese, Andrea Borgo, consigliere presso la Santa Sede. Quando essa morì, il marito le fece erigere nella chiesa di S. Marco una cappella, dove pose un monumento da cui proviene l’artistica lastra marmorea con epigrafe e parole toccanti messe in bocca a Dorotea: “Perché piangi? Perché tanto lutto per la mia morte felice? Le tue lacrime turbano la mia gioia. Lascia, te ne prego, i mesti lamenti: la vita m’ha sorriso. Non era nel mio destino un’esistenza più lunga. Sono scomparsa immatura, ma a te, ottimo coniuge, conceda la vita più lunghi anni”. La lapide fu trasportata dai Thun di castel Bragher nel loro palazzo di via Belenzani quando il convento degli Agostiniani venne soppresso agli inizi dell’Ottocento
Dal lato occidentale di piazza Duomo va verso nord via Cavour, una strada non molto lunga che attraversa una delle zone più antiche della città di Trento. E’ stata chiamata “contrada di S. Maria Maggiore” perchè conduce alla bella chiesa chiamata per antonomasia la chiesa del Concilio
Via Cavour conserva con i loro piacevoli portali alcuni palazzi cinquecenteschi fra cui si distingue la casa della famiglia Gallo, un membro della quale, Andrea Gallo, fu un celebre medico all’epoca del Concilio tridentino. Uno dei portali d’entrata del palazzo ha ancora sul concio di chiave l’emblema dei Gallo
In un altro portale l’insegna araldica del gallo è stata del tutto scalpellata al tempo della rivoluzione francese. Per il portale con l’insegna scalpellata si entra in un atrio dal quale alcuni scalini conducono ad un massiccio portale sulla cui architrave sta incisa un’iscrizione latina datata 1541, dettata probabilmente dallo stesso medico Andrea Gallo: “Labore et non ambitionenconvenit devenire ad laudes” (mediante il lavoro e non con l’ambizione conviene arrivare alla gloria)
Circa a metà di via Cavour si staglia solenne la “torre della tromba”, dal cornicione in laterizi con i merli ghibellini in pietra bianca. L’agile fortilizio doveva far parte di un complesso sistema di torrioni e case-torri caratterizzanti fin dal primo medioevo, e forse già all’epoca romana, la zona di Trento compresa fra via Cavour, piazza S. Maria Maggiore, vicolo Colico, via Belenzani e piazza Duomo
Oggi quello che rimane di questo antichissimo complesso di fortificazioni si riduce a ben poca cosa: La “torre della tromba”, così chiamata probabilmente perché dalla sua sommità era comodo dare alla cittadinanza con la tromba determinati sefgnali; e la “torre mozza” all’inizio di via Belenzani, il cui interno è stato adibito a moderno albergo
La basilica di S. Maria Maggiore è seconda solo alla cattedrale di S. Vigilio per importanza storica e dignità architettonica ed artistica. E’ stata edificata per volere del grande principe vescovo Bernardo Clesio nella prima metà del Cinquecento sulle fondamenta e nelle immediate adiacenze dell’antichissima chiesa di S. Maria ad Nives, fin dal Millecento la pieve della città. S.. Maria Maggiore present, sia all’interno che all’esterno una chiara impronta rinascimentale di influenza lombarda, un modulo di costruzione che, secondo il volere del suo munifico costruttore, doveva epsrimersi in una decisa contrapposizoone all’influenza gotica che dominava a quel tempo nella regione tridentina. L’evento della nascita è ricordato nella parte absidale dall’insegna araldica di Bernardo Clesio, unita all’aquila di Trento. Più sotto, inciso in una pietra della muraglia, è ricordato anche il nome dell’architetto e costrutore “Antonio Medalia Lapicida de Pelo superiore della Val d’Intelvi, comacino, questa opera presiedette, 1524”
Dove via Cavour continua in via delle Orfane, s’allunga verso oriente la piazzetta dedicata al gesuita spagnolo Diego Laynez. Una piccola piazza per uno dei più grandi personaggi della Compagnia di Gesù. Diego Laynez venne inviato dalla Spagna a Trento da S. Francesco Saverio in occasione del grande Concilio, diventandone uno dei più famosi protagonisti. Ma la sua profonda intelligenza, la sua vasta cultura, la sua inarrivabile sapienza dottrinale, erano inversamente proporzionali alla semplicità e alla modestia della sua vita. Durante il Concilio abitò infatti molto poveramente alla “Cà di Dio”, un edificio sorto nel 1340 e retto dalla Confraternita dei Battuti, soccorrendo tanta povera gente nel corpo e nello spirito
Nella Trento medievale, per l’inurbamento della nobiltà terriera, s’ergevano verso il cielo, vigorosi, i fusti di pietra gareggianti fra loro in altezza; così l’aspetto della città assomigliò sempre di più al panorama tipico delle montagne che la circondano, e che si vedono non appena ci si alzi un po’ al di sopra del solco vallivo dell’Adige. Le case-torri, alte e in nmero cospicuo, pare ve ne fossero più di trenta, si inserivano armonicamente nel paesaggio dolomitico trentino, irto di guglie e di vette poderose
Sulla facciata meridionale di S. Maria Maggiore si impone un portale egregiamente lavorato nel marmo che, dalla fattura dello stemma al centro del suo architrave, possiamo constatare sia stato offerto in dona alla chiesa dalla nobile famiglia a Prato. Essa giunse nel Trentino da Borzio in Valsassina nella prima metà del Quattricento e nel capoluogo tridentino raggiunse ben presto una posizione di grande prestigio. Fin dal periodo rinascimentale suoi illustri esponenti contribuirono al decoro di Trento, favorendo la costruzione e l’abbellimento di edifici sacri e profani
Sulla facciata principale di S. Maria Maggiore è applicato il fastoso portale madruzziano, dal quale emana un forte senso di classica maestà sebbene sia già del Seicento. Nella conchiglia sopra la grande architrave spiccano due vistosi stemmi raffiguranti l’aquila di Trento e l’insegna dei Madruzzo; e altri tre stemmi sono stati applicati sotto l’architrave
Dei tre stemmi , sempre sulla facciata principale di S. Maria Maggiore, sotto l’architrave., quello di sinistra deve appartenere alla famiglia Dorigati, oriunda del Tesino, zona del Trentino ai bordi della Valsugana inferiore. Lo stemma contiene una scimmia che tiene fra le zampe anteriori un libro, e appresso stanno tre lettere: I.A.D. Uno stemma simile viene usato dalla famiglia Dorigati di Mezzocorona che lo pone anche sulle etichette che contraddistinguono la sua produzione enologica. Si apprende che Bernardo Clesio elesse una commissione di sorveglianza per la fabbrica del tempio: fra i suoi componenti figurava anche un certo “Antonio detto il Tecino, perchè figlio di Paolo Dorigati, oriundo della valle di Tesino”. Probabilmente il capostipite dei Dorigati di Mezzocorona è quell'”Antonio detto il Tecino, perché figlio di Paolo Dorigati”. A lui avrebbero concesso di porre la propria insegna araldica e le proprie iniziali sulle mura di S. Maria Maggiore, come ai grandi benefattori del tempio
Anche S. Maria Maggiore, insieme alla cattedrale di San Vigilio, rappresentò una specie di “pantheon” per l’aristocrazia trentina. Ma anche qui la diaspora di avelli e cenotafi ne risparmiò ben pochi. Uno di questi, di lato alla porta maggiore, è il monumento funebre cinquecentesco del medico Gerolamo Mirana, vissuto ai tempi del Concilio. I Mirana erano una famiglia di notai e giurisperiti fiorita a Trento durante il Cinquecento.
Elevati alla dignità nobiliare alla fine del Quattrocento dall’imperatore Federico III, i Mirana, possedevano in città, nella contrada Malpaga, un palazzotto contrassegnato ancor oggi dallo stemma di famiglia e da una epigrafe recente, con la scritta “palazzo Mirana-Galasso” (primo municipio di Trento). Una scritta inesatta perché il palazzotto in questione non è mai stato il municipio di Trento, e per quell’accostamento del nome Galasso a quello Mirana, dovuto con ogni probabilità all’errato scambio di stemmi delle due famiglie, molto simili fra di loro
Nei due comparti laterali della cantoria, delimitati dai mensoloni, campeggiano due graziosi puttini ad altorilievo, i piedi posati su piccoli piedistalli, segnati dall’aquila trentina: hanno un’aria assorta nel viso reclinato sul palmo della mano e puntano mollemente il gomito su una specie di scudo bordato da svolazzi
Nello spazioso, luminoso respiro dell’abside di Santa Maria Maggiore, applicato al suo lato nord, si trova forse il capolavoro della sculturaa classica trentina, la celebre cantoria di Vincenzo Grandi, detto il “Vicentino”. La scritta “Vincent. Vincentin. Faciebat” è infatti tuttora ben visibile sulla fascia marmorea ai piedi dei mensoloni della cantoria
Vicino alla celebre cantoria marmorea sopra laporta di sttentrione, desta curiosità una graziosa edixola marmorea stemmata, sulla quale si distinguono delle superfici in marmo nero con evidenti tracce di pittura, tipica dell’ambiente veronese durante il Seicento. Una scritta in latino incisa a mezzo dell’edicola informa che essa venne murata in S. Maria Maggiore durante il 1634, per l’offerta alla chiesa di duecento fiorini da parte di Giovanni Armani e di sua moglie Maria Felicita Rottenbuch. Chi era Giovanni Armani? Di un Giovanni Armani presente a Trento fra il 1561 e il 1578 scrive il Weber che era un pittore oriundo di Verona, più volte incaricato con altri pittori di dipingere archi ed insegne in occasione di passaggi di principi ed arrivi di legali al tempo del Concilio. Ma il Giovanni Armani dell’edicola marmorea, probabilmente discendente dell’omonimo pittore veronese, è quello menzionato come abitante a Hall in Austria, al servizio dell’arciduca Leopoldo e committente per sè e per la propria discendenza di un sepolcro con lastra tombale nel mezzo di S. Maria Maggiore. Di Giovanni Armani è anche, all’interno di S. Maria Maggiore, il tempietto in legno dorato, del 1621, collocato sopra la porta di mezzogiorno, esattamente di fronte all’edicola marmorea. Il tempietto in legno incorniciava un’antica Pietà, oggi mancante, sotto la quale, quasi in un fregio, era dipinta la Resurrezione del Salvatore, che esiste ancora
Giovanni Armani è pure il committente della grande tela, oggi nel museo diocesano in palazzo Pretorio, raffigurante una delle Congregazioni generali del Concilio di Trento, avvenute in S. Maria Maggiore fra il 1562 e il 1563. La tela dipinta nel 1633 dal pittore Elia Naurizio, una delle più antiche e prestigiose raffigurazioni dedicate al Concilio di Trento, si trovava un tempo in S. Maria Maggiore
Fanno corona alla piazza di S. Maria Maggiore alcuni edifici degni di particolare attenzione. La chiesetta di S. Margherita già fin dalla metà del Duecento faceva parte del contiguo monastero delle monache di S. Domenico. la Prepositura del Capitolo del Duomo si sostituì nella seconda metà del Quattrocento al vecchio convento delle Domenicane
Due stemmi con epigrafe figurano sulla nerastra facciata settecentesca della Prepositura. La composizione più alta ricorda il restauro quattrocentesco a cura di Liduino Piccolomini; la più bassa la ricostruzione e l’abbellimento del palazzo dopo la distruzione dell’incendio nel 1727
Casa Ranzi, sul lato meridionale della piazza, offre un chiaro esempio di quella cultura e di quella ricerca del particolare che gli artisti di un tempo mettevano nell’abbellimento della loro città. Le bifore del primo e del secondo piano sono decorate da undici medaglioni di illustri personalità trentine, opera dello scultore Andrea Malfatti. Sono busti in terracotta a tutto tondo, di grande espressività, undici piccoli capolavori che certamente nell’Ottocento, quando sono stati eseguiti, erano oggetto dell’ammirato ossequio dei trentini ai quali ricordavano le sembianze e il nome dei benemeriti conterranei: Andrea Pozzo, Francesco Oradini, Gian Battista Lampi, Francesco Guardi, Fede Galizi, Bianca Laura Saibanti, Nocolò Dorigati, Andrea Rensi, Antonio da Trento, Aliprando Caprioli, Andrea dall’Aquila, Vincenzo Vicentino, Alessandro Vittoria, Vigilio Rubini, Bernardo di S. Agnese
Francesco Oradini
Bianca Laura Saibanti
Alessandro Vittoria
Via Roma e via Manci ricalcano il medesimo tracciato del “decumanus maximus” della Trento romana, cioè di quella strada principale di ogni città romana disposta in direzione est-ovest. Anticamente il tratto di strada fra torre Vanga e l’incrocio con via delle Orfane veniva chiamato “contrada della Portela”, e “contrada del Seminario” il tratto fra l’incrocio e via Belenzani. Tutto il percorso fra la torre Vanga e il castello del Buonconsiglio aveva infine il nome di “contrada Lunga”
Nel tratto di via Roma compreso fra torre Vanga e l’incrocio di via delle Orfane, desta l’attenzione un palazzetto di stile barocco, con portale tendente al rococò, e una graziosa finestrella laterale. Fu costruito dalla famiglia Bertelli, di antica origine tedesca, le cui radici trentine sono a Preore, vicino a Tione. Sul portale d’ingresso del palazzetto campeggia scolpita a tutto tondo la composita insegna araldica dei Bertelli: è rivestita dalla patina del tempo, logora dalle intemperie, ha subito vandaliche offese durante la rivoluzione francese e tuttavia è ancora una delle più belle ed artistiche insegne araldiche che vanti Trento
All’estremità occidentale della “via Lunga” dominava e domina tuttora la mole massiccia della torre Vanga o “torre rossa” per via del vivo colore rosso che le conferiscono i suoi mattoni. Alta più di quaranta metri, ha il coronamento a merli ghibellini; e a merlatura ghibellina è pure il rivellino accostato alla sua parte meridionale, ingentilito da monofore e trifore romaniche. E’ opera duecentesca del principe Federico Vanga, da cui derivò il nome, e faceva parte del caratteristico rione di “piazza della Prtela”, così chiamata per via di un pertugio, una “portela” che fin dal Millecento sbarrava lo sbocco della via Lunga verso torre Vanga.
Il tratto di via Roma compreso fra via delle Orfane e via Belenzani è interamente dominato dall’edificio costruito a metà del Seicento dai Gesuiti, dalla facciata uniforme, monotona, nonostante sia movimentata da quattro ordini di finestre e abbellita da alcuni imponenti ed artistici portali. Il Palazzo dei Gesuitii è ora sede della preziosa e benemerita Biblioteca comunale e dell’Archivio di Stato
Al vecchio edificio dei Gesuiti è accostata la chiesa di San Frncesco Saverio. Fu innalzata ai primi del Settecento su disegno del gesuita trentino Andrea Pozzo, dove prima c’era l’antica casa della famiglia nobiliare de Costede, estintasi a metà del Seicento. La casa dei de Costede comprendeva una torre, che guardava a nord l’Adige e serve oggi da campanile alla chiesa
Il ricco e luminoso interno della chiesa di S. Francesco Saverio è stato abbondantemente affrescato da Gaudenzio Mignocchi, allievo di Andrea Pozzo. Di questa primitiva decorazione rimngono alcuni brani nell’atrio d’entrata
Nel palazzo Galasso sono ancora visibili le insegne araldiche di Giorgio Fugger, il cui ramo genealogico deriva da uno dei due ceppi primitivi della sua stirpe insignito del predicato nobiliare “dal Giglio”. Agli inizi del Cinquecento il ramo genealogico di Giorgio Fugger entrò in possesso della contea di “Kirchberg” e della città di Weissenhorn, presso Ulma sul Danubio. Le insegne sono scolpite nel marmo sopra le finestre al primo piano della facciata
Da via Alfieri, verso la prima parte di via Manci, si distende in tutta la sua imponenza, palazzo Galasso o palazzo del Diavolo. Il palazzo fu costruito molto celermente nel giro di un anno, il 1602, per volontà di Giorgio Fugger, uno fra i più illustri rampolli del potentissimo casato tedesco di Augusta, i cui membri commercianti e banchieri, raggiunsero all’inizio del Quattrocento, una grande floridezza economica, influenzando in maniera determinante le vicende politiche europee della loro epoca. Il palazzo passò nel 1642 al generale Mattia Galasso, grande condottiero e protagonista di storiche battaglie, che gli diedero il nome
Nel palazzo Galasso sono ancora visibili le insegne araldiche di Giorgio Fugger, il cui ramo genealogico deriva da uno dei due ceppi primitivi della sua stirpe insignito del predicato nobiliare “dal Giglio”. Agli inizi del Cinquecento il ramo genealogico di Giorgio Fugger entrò in possesso della contea di “Kirchberg” e della città di Weissenhorn, presso Ulma sul Danubio. Le insegne sono scolpite nel marmo sopra le finestre al primo piano della facciata e nel legno sulle due porte che dall’atrio conducono ai piani superiori; il simbolo del giglio (emblema Fugger del ceppo del “Giglio”) si alterna a quello della dama (emblema della contea di Kirchberg)
Di fronte a palazzo Galasso c’è la facciata della bella dimora già della famiglia Sizzo de Noris, ora albergo Savoia. Anch’essa come palazzo Galasso col suo bravo portale, un mascherone e l’imponente balcone marmoreo
Campeggia sulla facciata lo stemma marmoreo dei Sizzo, fiancheggiato da una coppia di leoni rampanti e sormontato dalla corona comitale con le nove perle visibili
I Sizzo de Noris appartenevano a quella folta schiera di famiglie nobiliari stabilitesi nel territorio del Principato vescovile tridentino, provenendo da altre zone d’Italia, specialmente da quella settentrionale e centrale, oltreché dal Tirolo, dall’Austria, dalla Germania e dalla Svizzera. Si attribuisce al casato Sizzo una origine toscana, e fra le più antiche, tanto che diversi suoi esponenti parteciparono al primo governo democratico del Comune di Firenze. Ma allorché a Firenze le lotte intestine fra le varie fazioni si intensificarono, i Sizzo lasciarono la patria e nel corso del Quattrocento risalirono al nord fermandosi a Trento. Nel Cinquecento si imparentarono per via femminile con la famiglia de Noris, di antica nobiltà normanna, nota nel paese d’origine col nome di “de Norreys”. Nel Trentino i Sizzo de Noris divennero sempre più influenti, economicamente e politicamente, entrando in possesso dei feudi di Ossana, Covelo, Ravina e San Bartolomeo. Il cimitero della chiesetta di San Bartolomeo ha ancora una lastra tombale dei Sizzo con lo stemma di famiglia. Il personaggio più noto dei Sizzo de Noris è certamente Cristoforo II, eletto principe vescovo di Trento, nel 1762. E’ stato definito dagli storici uno dei migliori vescovi che sedettero sulla cattedra di San Vigilio; di cuore nobile e generoso, avverso ad ogni specie d’ingiustizia. Cristoforo Sizzo de Noris si oppose con fermezza ai soprusi del governo di Innsbruck che, per intralciare il proficuo commercio fra la parte meridionale del Trentino e la repubblica di Venezia, impose arbitrariamente anche un gravoso dazio sulle granaglie. Questa decisione, facendo crescere ulteriormente il già alto costo del grano, provocò malcontento, sommosse e devastazioni, con conseguenti ritorsioni ed esecuzioni capitali. L’aspro contrasto con la capitale tirolese e l’incomprensione della corte viennese, dove governava l’imperatrice Maria Teresa coadiuvata dal figlio Giuseppe II, contribuirono evidentemente all’immatura scomparsa del vescovo Sizzo de Noris, sinceramente rimpianto da tutta la popolazione trentina
All’angolo di via Manci con via Oss Mazzurana si spiega la facciata rinascimentale ingentilita da un originale sporto del palazzo già sede del famoso albergo Europa e ora occupata dall’Upim
I primi proprietari del palazzo e probabili suoi costruttori furono i conti Nogarola, il cui personaggio più noto, Leonardo, è l’unico laico che, per la sua cultura, abbia potuto vantarsi di aver parlato dal pulpito ai Padri conciliari presenti all’assise ecumenica tridentina. Il cenotafio di Leonardo Nogarola con le insegne araldiche della famiglia, è applicato alla parete iinterna della facciata principale del duomo
Dopo lo sbocco di via Oss Mazzurana, via Manci prosefue con una fuga di palazzi nobiliari che si allineano in una successione ondulata e suggestiva. Tra questi si distingue il palazzo Trentini: costruito a metà del Seicento, ma la sua facciata è settecentesca. Il suo biancore, il suo sottocornicione, gli ampi finestroni, l’altissimo portale le conferiscono una bellezza classica che pare voglia rivaleggiare, e sembra che l’edificio fosse costruito proprio per questo, con il vicino palazzo Galasso
I Trentini erano una famiglia di Sacco, alla periferia di Rovereto, inurbatasi a Trento verso la fine del Seicento. Alla famiglia Trentini venne concessa la cittadinanza di Trento. Si conoscono più varianti dello stemma Trentini: una di queste è scolpita sulla facciata di palazzo Trentini di via Manci. Il medesimo stemma marmoreo adorna l’altare barocco della trecentesca chiesetta parrocchiale di Meano, dedicata all’Assunta; un’opera di pregevole valore artistico, dono della famiglia Trentini che a Meano aveva case e filande
Contigua a palazzo Trentini c’è casa Pedrotti. Era questa in origine una dele dimore della famiglia Cresseri, di Vermiglio in val di Sole, scesa a Trento verso la metà del Cinquecento. Un rimaneggiamento e un restauro ottocentesco hanno tolto alla facciata la sua genuina impronta cinquecentesca
Dopo il pittoresco “vicolo dell’Adige”, nei pressi del quale passavano le mura orientali della Trento romana, il palazzo Salvadori è riconoscibile per i due medaglioni marmorei ovali sopra i portali, rappresentanti il martirio e l’apoteosi di San Simonino
Il palazzo Salvadori, come lo vediamo oggi, fu ricostruito al tempo di Bernardo Clesio sul posto della sinagoga trentina e delle case di alcuni ebrei, scacciati dal Principato vescovile tridentino dopo l’uccisione ad essi addebitata del piccolo Simone Unverdorben. Al bambino, passato alla storia come San Simonino, è stata dedicata fin dal 1579 la cappella barocca del palazzo, in fondo al bell’andito selciato
Fronteggia palazzo Salvadori un lungo caseggiato barocco, con i locali del cinema Vittoria, che desta l’attenzione per una serie di originali mascheroni. L’edificio appartenne ai Ciani e Migazzi, una famiglia quest’ultima di Cogolo in val di Sole, che pare tragga origine dalla ragguardevole stirpe degli Amigazzi della Valtellina. Ai primi del Cinquecento i Migazzi si trasferirono a Trento, per esercitarvi la professione di spadari.
La primiera dignità di palazzo Salvadori è ancora evidente in alcuni particolari, come le bocchette e i pomelli con bandella che adornano i battenti di ogni porta ai diversi piani del giroscale
Contigua al barocco palazzo Ciani-Migazzi fa angolo con via S. Pietro la casa ora Giupponi, così caratteristicamente trentina nell’aspetto delle sue facciate, dei suoi balconi, della grondaia sporgente, del suo portale con la bellissima rosta cinquecentesca in ferro battito, dei suoi giroscale interni
Il nome dei Giupponi, famiglia di farmacisti originaria della Val Brembana e stabilitasi a Trento nel 1857, è legato ad una bella villa di Cognola che conserva ancora nel portale maggiore e nelle bifore una parte del suo originale aspetto cinquecentesco. La villa ospitò durante i lunghi anni del Concilio ecumenico tridentino, varie personalità laiche e ecclesiastiche, successivamente passò alla famiglia Particella che ne fece la sua sede estiva preferita