Terza ed ultima puntata sui tesori d’arte e le testimonianze storiche della città di Trento. Ricca come sempre la galleria fotografica tratta dal libro “Trento da vedere” di Gianmaria Rauzi, edito nel 1983. Speriamo che la situazione di degrado descritta nelle didascalie (originali) sia stata superata in questi decenni da interventi di restauro. Ma il dubbio permane …
Oggi ci occupiamo di via S. Maria Maddalena, via Marchetti, via Oriola, piazza Lodron, piazza Pasi, via Oss Mazzurana, via Calepina, via SS. Trinità, via Mazzini, Borgo Santa Croce e via Madruzzo.
Prima della galleria fotografica alcuni video. Uno, di Televignole, con la rassegna veloce delle foto riprodotte. E uno sul centro storico di Trento.
il video su trento
LA GALLERIA FOTOGRAFICA
- Dal limite orientale di Largo Carducci si diparte una strada che mena quasi dirimpetto a porta Aquila: il primo tratto è chiamato via S. Maria Maddalena, il secondo via Marchetti
- Il breve tratto di via S. Maria Maddalena è dominato, sul lato settentrionale, quasi interamente dalla facciata del palazzo Consolati, sulla quale attrae l’attenzione un non comune portale d’ispirazione classica, abbellito ai lati da due colonne scanalate con capitelli ionici
- Al di sopra del portale è collocato lo stemma della famiglia Consolati, affiancato da una coppia di cornucopie colme di fiori. Scendendo negli scantinati del palazzo si possono ammirare i cospicui resti dell’anfiteatro romano, dal quale hanno preso il nome il vicolo adiacente e la vicina piazzetta
- Dei Consolati era la villa classicheggiante di “Fonta Santa”, costruita nel 1815 sulla collina a oriente della città, lungo l’antica strada che va da Trento a Cognola. Lungo questa strada si incontra, poco prima della chiesa di Cognola, anche la dimora villereccia dei Travaglia, una famiglia originaria di Cavedine, elevata alla nobiltà nel 1715 dall’imperatore Carlo IV. E’ una delle più tipiche ville rurali costruite dalla nobiltà trentina, singolare nella disposizione del suo corpo principale, dei locali riservati alla servitù e ai contadini, delle stalle, del cortile segnato da un muretto merlato. Il corpo principale della villa guarda sulla strada dove è rivolto anche il bel portale adorno dello stemma marmoreo dei Travaglia
- La dinastia dei Wolchenstein-Trotsburg ha derivato il nome dal castello abbarbicato ai ripidi pendii della val d’Isarco, all’imboccatura della val Gardena. In lingua italiana castel Trotsburg è chiamato Castelforte, anche se la traduzione letterale sarebbe “rocca della consolazione”. Pochi castelli in tutto l’arco alpino hanno il fascino di castel Trotsburg. Fra le sue mura dovevano esserci veri tesori d’arte come è dimostrato ad esempio dagli stupendi intagli del soffitto in una stanza adibita ad alloggio della servitù. E’ stato scritto che i Wolchenstein di castel Trotsburg amassero non solo le manifestazioni artistiche del genio italico, ma anche la sua lingua, della quale si servirono fino alla metà dell’Ottocento nella corrispondenza di famiglia e nelle relazioni d’affari. A Trento essi costruirono nel Cinquecento il bel palazzo vicino al castel del Buonconsiglio: vi si scorge ancora, scolpito nel marmo sopra il portone d’ingresso, lo stemma dei Wolchenstein-Trotsburg, il quale differisce da quello dei Wolchenstein-Rodenegg per la mancanza dello scudetto “in cuore” con l’antica insegna dei signori di Rodengo
- Dal lato orientale del palazzo dei Wolchenstein si sporge verso porta Aquila una specie di rivellino pensile sopra una elegante arcata
- L’arcata è sorretta da due coppie di artistici capitelli
- Alla sommità dell’arcata ecco un altro stemma marmoreo del casato, il cui campo dello scudo ha però uno scudetto “in cuore” al mezzo giglio e alla mezza rosa, divisi e uniti in senso verticale
- A metà del Seicento i signori di Wolchenstein-Trotsburg con Gaudenzio Fortunato figlio di Alberto di Wolchenstein e di Giovanna Madruzzo e capitano della “terra di Trento” per i conti di Tirolo, entrano in possesso di due fra i più celebri castelli del Trentino: castel Ivano in Valsugana e castel Toblino in val del Sarca. Castel Ivano era un ottimo punto strategico lungo la Valsugana, con quella poderosa cinta che gli girava completamente attorno. Ma castel Toblino rappresentava la perla dei possedimenti dei Wolchenstein, un fascinoso scrigno d’arte e di storia, posato su una piattaforma rocciosa lambita per tre quarti da acque lacustri, dove il tiepido soffio mediterraneo proveniente dal lago di Garda mitiga la fresca brezza delle rocce e delle montagne circostanti. Castel Toblino fu nel Medioevo proprietà dei signori di castel Campo nelle Giudicarie, poi divenne feudo vescovile, cioè alle dirette dipendenze della Chiesa tridentina. Così il principe vescovo e cardinale Bernardo Clesio iniziò un radicale lavoro di ricostruzione e di restauro, per togliere al castello il suo disordinato aspetto ed elevarlo in tal modo a sua signorile residenza. Verso la metà del Cinquecento castel Toblino passò ai signori di Madruzzo, il potente casato nobiliare che dal 1539 al 1658 diede alla cattedra di San Vigilio una serie ininterrotta di quattro principi vescovi, fra i quali spicca la figura di Cristoforo Madruzzo. Ma dopo la scomparsa nel 1658 del principe vescovo Carlo Emanuele, ultimo rampollo maschio dei signori di Madruzzo e noto per la sua relazione con la bella Claudia Particella, castel Toblino, passa, come detto, attraverso Giovanna Madruzzo, al casato dei Wolchenstein-Trotsburg
- Il solitario e accogliente ritiro di castel Toblino era particolarmente caro al nipote di Giovanna Madruzzo e figlio di Gaudenzio Fortunato, Domenico Wolchenstein-Trotsburg, prima canonico del duomo di Trento e poi, dal 1725 al 1730, principe vescovo tridentino; in suo onore venne costruita a castel Toblino la cappella dedicata a S. Antonio. L’avvicendarsi a castel Toblino delle illustri dinastie dei Clesio, dei Madruzzo e dei Wolchenstein, è confermato dalla presenza dei rispettivi stemmi dipinti sulle pareti della cosiddetta “sala grande” adibita oggi a ristorante con terrazza sul lago
- Via Oriola è la sola strada di Trento riservata unicamente al passaggio pedonale (1983 ndr), quindi è un animato luogo di ritrovo e di passaggio. Prende il nome da una porta del periodo romano, della quale dovrebbero esistere ancora oggi resti evidenti ad una profondità di circa sei-otto metri. L’ultima guerra ha inferto a via Oriola profonde ferite, per cui la contrada è oggi in gran parte moderna, forse la più moderna del centro storico. Quindi tanto più si distinguono e si notano quelli che sono praticamente i soli palazzi antichi di un certo pregio che guardano la via: il lato meridionale del palazzo già Bertolazzi e l’imponente caseggiato barocco-rinascimentale che fa angolo con via Malpaga. Il lato meridionale del palazzo già Bertolazzi ha un severo portale col suo aristocratico mascherone, il quale conferisce dignità e prestigio ad uno dei tanti negozi che hanno trovato sistemazione in antichi locali.
- Il palazzo barocco rinascimentale che fa angolo con via Malpaga attira l’attenzione dei passanti soprattutto per quel gioiello di portale civettuolo nelle sue volute e nelle movimentate linee barocche, ora artistico ed elegante richiamo ad un negozio di moda. Nello scudetto sul concio di chiave il primo stemma applicato fu quello dei Pompeati, committenti del palazzo
- I Pompeati, antica famiglia di Trento, arrivarono nel 1790 alla dignità comitale, col predicato di “Oltrecastello”, com’è chiamato un gruppo di case di origine molto antica vicino al castello di Povo. Oltrecastello i Pompeati costruirono una villa accogliente, con la chiesetta blasonata che guarda una raccolta piazzetta
- Di fronte alla barocca facciata del palazzo già Pompeati s’erge su via Oriola una muraglia antica, nella quale recenti restauri hanno scoperto una piccola monofora e brandelli di affreschi. Che siano i resti dell’abitazione di “messer Hieronimo del Sale” il quale “aveva casa in contrada Oriola e dietro ad essa, nell’androne di Schivabriga, uno stabio, un torchio ed altre comodità”? Messer Gerolamo del Sale con la sua famiglia arrivò da Brescia nel Trentino durante il Quattrocento: egli esercitava la professione di notaio, e quindi rappresentava una categoria di cittadini che insieme agli artisti e agli artigiani facevano di contrada Oriola un centro animato di vita intellettuale e commerciale. Contrada Oriola era insomma come oggi un settore della città dove maggiormente pulsava il ritmo della vita quotidiana, anche per la diretta comunicazione, attraverso l’androne di Schivabrighe, con la “piazzola delle Opere”, oggi piazza Pasi.
- Di tanta parte di questo antico rione di Trento, compreso fra via Oriola e piazza delle Opere, di tante pregevoli dimore e vecchie case medievali dai notevoli portali, dei tanti ambienti caratteristici quali l’antica osteria “Aquila nera”, oggi esiste ben poco. Sulle sue macerie è rinata una piazzetta anonima, piazzetta Lodron, attorniata da costruzione moderne poco o nulla rispettose della dignità del centro storico: un allinearsi di dubi di cemento privi di armonia e di buon gusto che hanno ulteriormente contribuito al progressivo abbruttimento della città. Rimane presso il vicolo Schivabriga, casa Maestranzi, con i resti ancora incorporati della duecentesca torre dei Gandi, tutta in laterizi, ad eccezione del basamento in pietra, e con la merlatura ghibellina, così come le coeve torri dei Vanga e dei Negri de S. Pietro
- I Gandi, provenienti con tutta probabilità dai Grigioni, entrano nella storia di Trento con Dominicus Gando de Gandi de Porta Auriola, il quale aveva l’incarico di sorvegliare questa porta orientale della romana Tridentum che comunicava con la parte alto-medievale di Trento verso l’odierno Largo Carducci. Nel Duecento fra i Gandi si distingue Ottone de Gandi detto il riccio, proprietario di numerose miniere e mulini, che diede al suo casato grande lustro e potenza economica. Rimane all’inizio dell’attuale piazza Lodron la vecchia casa del conte F. Lodron, oggi casa Zippel, confinante con la cinquecentesca casa casa Gelpi. Al suo suggestivo interno si accede per un portale a bugnato, certamente fra i meglio conservati e fra i più importanti del centro storico
- Rimane di antico in piazzetta Lodron anche la facciata meridionale di uno dei palazzi Gallicioli, con la facciata principale in piazza Pasi. Dei Gallicioli era anche il palazzo cinquecentesco sul lato occidentale dello stretto passaggio che mena da piazza Pasi a via Oss Mazzurana. I Gallicioli, famiglia nobiliare distintasi soprattutto durante il Sei-Settecento per aver dato a Trento valenti giurisperiti e consoli, si fregiavano di uno stemma con la figura araldica del gallo
- Ed ecco anche una vecchia costruzione che spicca per i suoi barbacani ed un originale sporto in pietra, accanto al quale si nota una piccola pianta di fico, quasi a ricordare il nome popolare Scorzafichi, attribuito una volta all’androne e alla piazzetta scomparsa. Era questo forse il retro della casa della famiglia nobiliare de Ponte, con la loro farmacia su via Oriola pressapoco nel posto dove oggi si trova una nuova pellicceria (1983 ndr)?
- Sul lato meridionale di piazza Pasi, nella casa oggi conosciuta come casa Santoni, abitò, sino alla sua estinzione avvenuta alla fine del Seicento, la famiglia Gelpi, discendente da un “Ser dominicus quondam ser antonide valtelina”. I gelpi, divenuti cittadini di Trento nella seconda metà del Quattrocento, diedero alla comunità trentina valenti notai, consoli, uomini d’armi e di chiesa. La facciata principale del palazzo, ingentilita da un grazioso balconcino in ferro battuto sotto il quale è posto lo stemma marmoreo dei Gelpi, era un tempo dipinta a fresco dal pennello del Romanino. Il Bartoli, che ammirò le pitture nel 1780 ancora intatte, così annota: “Sulla facciata vengono espresse in alto le quattro stagioni, nel mezzo tre donne, Eva, Susanna e Virginia, inferiormente quattro eroi a cavallo”. Malauguratamente questo prezioso manto di colori venne cancellato nel 1833
- Invece è ancora in ottimo stato di conservazione la parte interna dell’edificio col suo ampio giriscale dove, sull’architrave di ogni singola porta dei tre piani, si ripete rozzamente scolpito lo stemma Gelpi, insieme ad un gran numero di iscrizioni latine, riecheggianti voci di personaggi della famiglia Gelpi che hanno voluto esprimere nella Trento del dopo Concilio massime di vita religiosa e morale
- Nella casa della contrada della Piazzola (piaza Pasi) che fa cantonata per mezzo alla torre di Piazza, alal quale sebra voglia congiungersi con la sua gronda fortemente aggettante, abitavano i Crivelli, famiglia originaria del Tesino. Nel Cinquecento si distinse a Trento Andrea Crivelli, uomo di grande ingegno, il quale esercitava la professione dello speziale, il farmacista di allora, tenendo bottega sotto i portici di piazza Duomo, esattamente dove oggi si trova la farmacia dall’Armi. Andrea Crivelli si dedicò anche al governo della cosa pubblica, divenendo fra il 1525 e il 1551 per tre volte “console” della città di Trento. Era particolarmente versato anche nel campo dell’architettura: Bernardo Clesio si valse infatti della sua collaborazione nella costruzione del castello del Buonconsiglio, nel restauro di castel Selva nelle vicinanze di Levico e del palazzo vescovile di Cavalese, poi sede della Magnifica Comunità di Fiemme. In questo campo specifico Andrea Crivelli ottenne anche degli incarichi di prestigio a Bolzano ed Innsbruck. La figura araldica principale dello stemma Crivelli è un crivello d’oro in campo azzurro
- Sul lato a sera dell’odierna piazza Pasi abitavano durante il Cinquecento i Bernardelli, famiglia proveniente dal villaggio di Lardaro in val Rendena. Nella seconda metà del Cinquecento e nella prima metà del Seicento abitavano nelle loro case di piazza Pasi i notai “Antonius e Alexander Bernardellus”. I Bernardelli possedevano sopra le rupi di Gocciadoro una villa circondata da un ampio parco, entro il quale su un cocuzzolo roccioso faceva bella mostra la singolare costruzione di una chiesetta che contiene ancora due lastre tombali stemmate di membri della famiglia. Villa Bernardelli fa parte oggi del moderno villaggio del fanciullo nostra Signora d’Europa, e nella rupe sotto la chiesetta di stile romano è stato ricavato un recinto per orsi bruni
- Via Oss Mazzurana è una delle vie più centrali e signorili di Trento. Già nel lontano Duecento e per molti secoli, venne chiamata “contrada di S. Benedetto”, dall’omonima chiesa demolita nella prima metà dell’Ottocento. Nella sua parte settentrionale si chiamò anche “contrada della morte” per la presenza della chiesa della Confraternita della “Buona morte”: poi in seguito alla costruzione nel 1819 del teatro Sociale, il medesimo tratto di via venne denominato “contrada del teatro”. Finalmente tutta l’antica contrada di S. Benedetto assunse il nome di “via Paolo Oss Mazzurana”, in omaggio al benemerito podestà particolarmente distintosi per aver dato a Trento un impulso edilizio notevole
- Sulla casa all’angolo fra via Oss Mazzurana e via Oriola figuravano ancora agli inizi del Settecento le “Virtù teologali”, disegnate a chiaroscuro ai lati del suggestivo balcone in ferro battuto. Vi abitavano i Busetti, famiglia di Rallo in val di Non, elevata alla dignità nobiliare già al tempo dell’imperatore Carlo V. Il personaggio più noto dei Busetti è Cristoforo, il primo poeta trentino che compose versi in italiano, a differenza di altri poeti conterranei cinquecnteschi che rimarono in latino. Della sua vita travagliata è conosciuto l’ardente ma contrastato amore per Dorotea dei conti d’Arsio, al cui padre, fiero e superbo della propria nobiltà castellana, non garbava l’idillio della figlia con un giovane di nobiltà inferiore. Sembra che i Busetti abbiano fissato il loro domicilio a Trento ai primi del Cinquecento proprio nella persona di questo Cristoforo
- Uno dei ventidue medaglioni a rilievo allineati lungo le due cornici superiori di palazzo Tabarelli
- Uno dei ventidue medaglioni a rilievo allineati lungo le due cornici superiori di palazzo Tabarelli
- Il palazzo Tabarelli è il più bel edificio di via Oss Mazzurana e uno fra i più rinomati di Trento. L’armoniosa facciata di palazzo Tabarelli desta a prima vista una sensazione di classica grandiosità, con lo zoccolo rastremato basale, l’elegante bugnato di pietra, i due portali stemmati, le tre serie di finestre a monofore e a bifore, i pronunciati marcapiani, le lesene laterali, il cornicione a mensole di pietra
- Durante i lavori nei sotterranei di palazzo Tabarelli, specialmente al di sotto dell’androne occupato un tempo dal ristorante Pavone, sono venuti alla luce anche reperti archeologici di somma importanza per la miglior conoscenza della storia millenaria di Trento. Immediatamente sotto il palazzo cinquecentesco si notano strati di terreno bruciacchiato e altro materiale che ci parlano della Trento longobarda: più sotto ecco una vasta costruzione d’epoca romana, sul cui livello c’è un pozzo quasi intatto e, si direbbe, ancora funzionale. In fondo allo scavo, uno strato di terreno che potrebbe rivelare ad una accurata analisi la vera identità dell’origine di Trento: Trento è nata romana sopra il materiale di riporto del fiume Adige, o possiamo ipotizzare anche una Trento preromana? Il palazzo Tabarelli tramanda ai posteri il nome, o meglio, il soprannome di una illustre famiglia nobiliare di Terlago. Il suo capostipite sarebbe un personaggio di nome Fato, morto nel 1307, il quale faceva parte dei “liberi milites” che vantavano una comune proprietà su castel Terlago (domus de Trilaco). Così i discendenti di Fato di Trilaco si chiamarono “de Fatis” per distinguersi da altri signori di Terlago. Col nipote di Fato, Paolo, soprannominato “il tabarello” per via di un tipico tabarro da lui abitualmente usato, viene anteposto a “de Fatis” il soprannome di Tabarelli. Tommaso Paolo Tabarelli de Fatis è l’iniziatore del ramo della famiglia fiorito a Trento. Sue sonole iniziali “T.H.O.F.T.” incise nel concio di chiave di uno dei portali di palazzo Tabarelli. Tommaso Paolo è anche il capostipite del ramo Tabarelli de Gatis di Vigolo Vattaro. Ma è il figlio di Tommaso Paolo, Antonio, giurisperito e canonico, l’iniziatore della costruzione del palazzo Tabarelli. La figura araldica principale dello stemma Tabarelli de Fatis, un veltro nero in campo d’argento, è ripetutamente scolpita nel marmo sia a palazzo Tabarelli che al maniero di Vigolo Vattaro
- La costruzione di palazzo Tabarelli ebbe inizio verso il 1511 per volontà del canonico Antonio Tabarelli e venne affidata ad Alessio Longhi. I lavori, varie volte interrotti, furono da ultimo ripresi nel 1791 con il conte Domenico Tabarelli. Se la parte esterna del palazzo ha conservato praticamente intatta nel tempo l’antica magnificenza, l’interno si è via via sempre più trasformato e degradato. Molti ambienti vengono adattati alle più varie funzioni: appartamenti di affitto sui diversi piani, sale di spettacolo, caffè, ristoranti, negozi. Si alterano scalinate, passaggi, pianerottoli, androni e si copre con aggiunte indecorose il cinquecentesco cortile interno, caratterizzato da una serie di archi e di decorazioni somiglianti a quelli della loggia dell’Alessi al castel del Buonconsiglio. Oggi fortunatamente un intelligente e provvido restauro sta lentamente riportando palazzo Tabarelli agli antichi splendori
- Il lato orientale di via Oss Mazzurana accoglie un altro notevole esemplare di dimora patrizia tridentina, il palazzo abitato nel Cinquecento dal canonico Francesco Cazuffi. I Cazuffi, una delle più facoltose famiglie cinquecentesche di Trento, erano proprietari di palazzi anche in via S. Pietro e all’inizio di via Belenzani, e soprattutto, lo abbiamo già visto, delle famese case affrescate di piazza Duomo
- Quante interessanti attrattive sfuggono camminando distrattamente per le vie di Trento. Così si passa in via Oss Mazzurana indifferenti alla barocca facciata del palazzo oggi Lorenzi, che durante il Seicento era proprietà della famiglia Alberti e successivamente fu acquistato dai Zambelli
- Anche il palazzo Cazuffi di via Oss Mazzurana aveva la facciata completamente affrescata con riquadri ispirati al ventiquattresimo libro della Genesi. Ma questi dipinti di Lattanzio Gambara, genero del Romanino, sono oggi in gran parte deperiti ed alcuni del tutto svaniti. L’unico riquadro in qualche modo ancora riconoscibile è quello in alto a sinistra, con la scena di “Rebecca ed Elizier alla fonte”, rievocata nel corso dei secoli da una folta schiera di artisti, pittori e scultori
- Eleganti cimase delle cinque finestre al primo piano di palazzo Lorenzi ornate da altrettanti mascheroni
- Eleganti cimase delle cinque finestre al primo piano di palazzo Lorenzi ornate da altrettanti mascheroni
- Via Calepina, fino alla metà dell’Ottocento denominata via San Vigilio, congiunge il sagrato del duomo, con la sua magnifica abside romanica, a piazza Venezia. Il nome odierno le viene dal Medioevo, quando al posto dell’attuale palazzo, sede dell’Istituto di Credito fondiario, sorgeva la residenza fortificata della famiglia Calepini, proveniente da Fiavè nel Lomaso. La residenza dei Calepini ha modificato nel tempo i suoi elementi più antichi: il suo attuale aspetto esterno, specialmente della facciata di via Calepina, si può far risalire alla metà del Cinquecento, quando Bonaventura Calepini l’abbellisce con finestre bugnate a quadrato e a rettangolo e soprattutto con un magnifico portale
- Il personaggio più rappresentativo dei Calepini è un certo Calepino, che intorno alla metà del Quattrocento teneva a Trento una rinomata cattedra di giurisprudenza. Alla sua morte nel 1485 il fratello Donato gli erige un sarcofago di squisita fattura rinascimentale, posto in una nicchia all’interno della cattedrale di S. Vigilio; in esso è particolarmente apprezzabile il coperchio, sul quale è scolpita la figura dell’estinto con cappuccio, toga forense e anello dottorale infilato nel dito. Degno di nota anche il pluteo in marmo bianco, al centro del quale appare un piccolo genio alato recante l’insegna araldica della famiglia Calepini, e l’araba fenice, mitico uccello dell’Arabia, simbolo dell’immortalità dell’anima e della resurrezione dei corpi: si favoleggiava infatti che esso ogni cinquecento anni bruciasse da sè stesso e rinascesse dalle proprie ceneri
- Lo stemma composito dei Salvotti si può vedere sulla parete meridionale della loro magnifica villa situata sul colle detto di S. Giorgio, a oriente di Trento, ben visibile dalla strada che serpeggiando sale da Piedicastello a Montevideo per proseguire lungo la “valle dei laghi”
- All’estinzione della famiglia Calepini, verso la fine del Cinquecento, subentra nel posseso del palazzo la famiglia Felz-Colonna, antico casato di origine altoatesina. I Felz-Colonna si imparentarono con i Firmian, i Thun, i Trapp, gli Arco, i Lodron, i Cazuffi, i Taxis de Bordogna. Fra essi ci furono uomini d’arme e di chiesa: canonici del Capitolo, capitani di Stenico e di tutte le Giudicarie, capitani della rocca di Riva, come quell’Egidio Felz-Colonna il cui stemma è applicato vicino all’insegna clesiana sulla porta rivana di S. Marco, già detta “porta Mantovana”. Ai Felz-Colonna subentrano gli Alberti d’Enno, che durante il Settecento apportano varie modificazioni alla parte interna del palazzo dei Calepini. Agli inizi dell’Ottocento il palazzo cambia nuovamente padrone con la famiglia Salvotti, e Giovanni Salvotti fa subito rimuovere dal massiccio portale bugnato lo stemma degli Alberti d’Enno per sostituirlo con uno scudo coronato contenente le sue iniziali
- Lo stemma composito dei Salvotti
- Palazzo Sardagna è la costruzione più maestosa di via Calepina e uno degli edifici trentini più significativi del tardo Rinascimento.
- Lungo la facciata principale di palazzo Sardagna su via Calepina corrono tre ordini di finestre, al piano terra di bugnato e ai piani superiori di forme e stili tendenti al barocco. Ai lati del portale a bugnato due cariatidi in sembianza di membruti giganti sostengono un marmoreo balcone a colonnine, con tre putti disposti simmetricamente sul davanzale. Sopra la porta di accesso al balcone, il solito stemma marmoreo sostenuto da altri due puttini sdraiati
- La facciata laterale di palazzo Sardagna sulla breve via Roccabruna non è allo sguardo meno bella e piacevole di quella principale, con quell’ampia loggia in alto che rompe il ritmo monotono di tante finestre, allarga il respiro di tutta la parete e le conferisce nel contempo leggerezza e dignità. Sul soffitto dell’andito di ingresso è dipinto un grande cerchio che racchiude l’insegna araldica della famiglia Sardagna sovrastante quelle delle famiglie imparentate dei Ceschi e degli Onofri di Cillà
- Dei Ceschi è lo stemma inquartato con la “croce scorciata” e il grifone coronato; degli Onofri quello con le tre teste di moro bendate. La famiglia Onofri discende dall’antico casato nobiliare dei signori di Cillà, padroni della rocca al centro dell’omonimo paesetto adagiato di fronte a Stenico nel Bleggio, rocca passata, successivamente, in proprietà ad un’altra famiglia della zona i Levri. Sempre nell’andito d’ingresso di palazzo Sardagna, due massicci portali con mascheroni, uno di fronte all’altro, immettono in altrettante sale simili fra di loro e dal soffitto a volta interamente decorato di affreschi. Nella sala di sinistra si ammirano: nelle lunette all’attacco della volta, vari paesaggi, soprattutto di vita agreste, e nella volta le dodici figure dello Zodiaco
- Nella sala di destra un tempo cappella gentilizia, destano interesse gli episodi che illustrano, nelle sedici lunette arcuate, la vita di Costantino
- Nella sala di destra un tempo cappella gentilizia, destano interesse gli episodi che illustrano, nelle sedici lunette arcuate, la vita di Costantino
- Ma lo sguardo è subito attratto al centro della volta dalla Madonna col Bambino attorniata da paffuti angioletti immersi in vaporose nuvolette, delimitate da tondi e ottaedri, e reggenti con le manine ramoscelli di ulivo e corone di fiori. Soffermandoci con un po’ di attenzione sul riquadro centrale della volta, ci si avvede, proprio sotto la Madonna che lo guarda con occhi amorevoli, della presenza di un moretto intento a suonare il flauto in compagnia di due angioletti bianchi. E’ un particolare davvero curioso, forse una specie di firma contestataria del Fogolino, un pittore, un artista versatile, estroso, misantropo, il quale si riteneva a torto o a ragione una pecora nera in una comunità, quella trentina, che lo disdegnava e non lo capiva
- La famiglia Sardagna, fra le più facoltose del Trentino, aveva in città numerosi altri edifici e altrettante ville nel contado. Ci si imbatte quindi ancora spesso nel suo stemma, il quale, nelle posizioni in due e tre del campo dello scudo ha come figura araldiica l’imponente cascata che precipita dal pianoro di Sardagna nella valle dell’Adige. Un bel stemma marmoreo dei Sardagna si trova nel recinto cimiteriale della chiesetta di San Bartolomeo
- Entrati nell’arioso cortile di palazzo Sardagna, la vista corre sulle facciate settentrionale e occidentale col loro doppio ordine di poggioli, e sulla facciata orientale con la doppia serie di loggiati
- A ricordare l’edificio rinascimentale, fantasma inglobato dal palazzo delle Poste, in esso sono stati applicati sulla muraglia alcuni moderni stemmi con le insegne della famiglia a Prato
- Il salone al primo piano di palazzo Sardagna è ancora adorno del massiccio caminetto stemmato, e nel salone al secondo piano un sapiente restauro ha ridato la giovinezza ai bellissimi stucchi
- Sulla bassa parete del lato meridionale del cortile di palazzo Sardagna si può gustare la fattura di tre curiosi medaglioni a testa di cavallo, che certamente ricordano le scuderie di palazzo Sardagna
- Il salone al primo piano di palazzo Sardagna è ancora adorno del massiccio caminetto stemmato, e nel salone al secondo piano un sapiente restauro ha ridato la giovinezza ai bellissimi stucchi
- Dal palazzo rinascimentale a Prato, vanto e decoro della Trento cinquecentesca, rimane oggi ben poco: il bel portale rinascimentale della faccata principale, che passa quasi inosservato, e infatti non tutti quelli che transitano in quel tratto di strada lo notano; e all’interno un sorprendente cortile con porticato a snelle arcate cinquecentesche, una trifora di squisita fattura, monofore e bifore antiche
- la massima floridezza economica e politica durante il Cinquecento: nella prima metà del secolo gli a Prato entrano in possesso della signoria e del castello di Segonzano, costruito agli inizi del Duecento da Rodolfo Scancio in cima ad un dirupo porfirico nella parte alta della val di Cembra. Il castello passò poi ai Rottembrugo, quindi ai conti del Tirolo, ai Liechtenstein di Castelcorno, i quali, tramite il principe Cristoforo Filippo lo ipotecarono per 8000 fiorni a Giovanni Battista a Prato. Ma l’ipoteca non potè essere saldata, e Giovanni Battista a Prato acquistò la rocca di Segonzano aggiungendo all’ipoteca altri 1800 fiorini. Nel 1535 il principe vescovo Bernardo Clesio investì del nuovo feudo la famiglia a Prato, alla quale sempre nello stesso anno, l’imperatore Ferdinando I concesse il titolo di signori di Segonzano con la facoltà di abbinare lo stemma di famiglia all’insegna araldica degli antichi signori di Segonzani, una sega. Le insegne degli a Prato e dei Segonzano, inquartate con l’insegna dei signori d’Arsio, si trovano scolpite su una grande lastra marmorea nel museo lapidario del castel del Buonconsiglio, ivi trasportata dalla chiesa di S. Maria Maggiore dopo l’incendio del 1800
- Il lato meridionale di piazza Vittoria lungo via Calepina è occupato dal moderno edificio delle Poste, costruito nel 1934 sul posto dell’antica dimora rinascimentale della famiglia a Prato, decaduta nel tempo e incendiata nel 1845. Era il più bello e sontuoso palazzo degli a Prato a Trento (ne possedevano anche, ad esempio, in via Roma, l’attuale palazzo Bacca, e lungo via Suffragio) e venne edificato da Giroldo a Prato su sollecitazione del principe vescovo Bernardo Clesio. La facciata principale del palazzo guardava su via SS. Trinità; come ci appare da un disegno riprodotto nell’incartamento che si conserva all’Archivio di Stato, “aveva cornici orizzontali, ricorrenti all’altezza dei singoli piani e dei bancali delle finestre, sostenuti da quattro ordini di lesenature con capitelli ad ogni piano. Aveva iinoltre il portale decorato di statue e stemma, finestre rettangolari al primo piano e arcuate nei piani superiori abbinate nel corpo centrale. La facciata era abbellita da uno sporto nell’angolo di sera del primo piano e da una loggia con balaustra di pietra al secondo. La grande gronda del tetto era di legno lavorato. I pregi di architettura, di disposizione interna, di vastità e di situazione di questo palazzo erano tali da offrire una sede principesca, che più onorevole difficilmente potrebbesi trovare in città”. Infatti il palazzo a Prato conobbe durante il Concilio un’epoca di grande splendore, ospitando sovrani, cardinali, legati pontifici, in onore dei quali si succedevano feste sfarzose e solenni ricevimenti. Nel suo salone si tennero nei primi due periodi conciliari anche le congregazioni preparatorie. Di fronte alla facciata principale di palazzo a Prato si ammassarono la mattina del 13 dicembre 1545, quattro cardinali, quattro arcivescovi, ventun vescovi, cinque generali di Ordini religiosi, quarantadue teologi, otto dottori in legge, molti “oratori” di principi e sovrani, una moltitudine di nobili tridentini, di popolo minuto, di clero e salmodiando iniziarono la processione di apertura del famoso Concilio ecumenico tridentino, così importante per la storia della Chiesa e del Cattolicesimo. Nell’atrio del palazzo delle Poste, verso via SS. Trinità, questa processione è ricordata da un grande affresco di L. Bonazza dipinto nel 1933
- Giovanni Battista a Prato sposò in seconde nozze una contessa d’Arsio, la famiglia anaune benefattrice, essa pure, della chiesa di S. Maria Maggiore. Oltre a Giovanni Battista, primo signore di Segonzano, altri membri della famiglia a Prato sono degni di particolare menzione: Innocenzo, nato a Segonzano nel 1550, che favorì l’introduzione a Treno dell’arte della stampa; Vincenzo Domenico “console” di Trento per ben sette volte; un altro Giovanbattista abate, nominato nel 1848 deputato alla Costituente di Francoforte, strenuo difensore e propugnatore dei diritti e delle aspirazioni della gente trentina. Dall’annoso tronco degli a Prato fiorì durante il Quattrocento un virgulto che mise stabili radici a Pergine, estinguendosi solo alla fine del Settecento. A Pergine, lungo l’attuale via Mayer, gli a Prato avevano il loro bel palazzo, dove campeggia ancora lo stemma della famiglia
- Di fronte al palazzo delle Poste, sul lato settentrionale di piazza Vittoria, dà nell’occhio la facciata del palazzo oggi conosciuto come Slucca Matteoni, ma che fu già dei Bertolazzi e ancor prima dei Voltolini, una famiglia di Trento la quale fu elevata nel 1582 dall’imperatore Rodolfo II alla dignità nobiliare, e nel 1790 ottenne anche il titolo comitale. La dignità del palazzo Voltolini è manifesta nelle monofore e bifore a bugnato, ma soprattutto nei due magnifici portali con i loro eleganti battenti originari
- Portali di palazzo Voltolini lavorati nella parte superiore con grottesche ad altorilievo; un lavoro che ricorda i massicci battenti di legno finemente intagliato sul portone di palazzo Galasso
- Il Tratto di via Calepina compreso fra piazza Vittoria e piazza Venezia è occupato per un buon tratto nella sua parte meridionale da un caseggiato ad un piano rialzato, di aspetto piuttosto dimesso, in contrasto con la finezza del portale di stile primo rinascimento aperto sulla sua facciata, dall’architrave incisa con la scritta “Ludovicus come Lodroni paridis filius 1577”
- Ecco nella terza stanza in fondo frse l’opera pittorica più complessa e armoniosa del singolare caseggiato: “il giudizio di Paride”
- L’atrio d’ingresso del caseggiato che occupa il tratto di via Calepina tra piazza Vittoria e piazza Venezia è dimesso e con poca luce: una scala conduce ad un pianerottolo a loggia con vetrate. Ma dopo un ambiente tanto modesto ecco in forte contrasto la successione di stanze e saloni di una tale signorilità da lasciare il visitatore altamente stupito e quasi incredulo. La parte più intima e confortevole del buio e basso palazzotto è il salone rivestito in legno, con un massiccio caminetto in pietra rossa trentina. Sul suo soffitto domina al centro, velato dal fumo e dal calore, la pittura ad olio con l’allegoria del dio Apollo in compagnia del Tempo e delle Muse; intorno a questa composizione segue il trionfo fi Alessandro Magno e quello di Scipione l’Africano, l’esaltazione di Carlo V e di Cristoforo Colombo, e altre allegorie delle Stagioni e dei Venti
- Guardano su via Calepina, oltre al salone, altre tre stanze, nelle quali l’appassionato delle eleganti grottesche diseminate negli spazi geometrici, delle fantasie mitologiche e allegoriche, delle sensuali morbidezze e delle lascive opulenze proprie di tanti nudi cinquecenteschi, ha di che bearsi. Ecco nella prima stanza il sorriso di Venere e di Marte, mentre un roseo Cupido svolazza sulle loro teste; ecco nella seconda stanza la ninfa Galatea divincolarsi dall’amplesso del dio Nettuno
- Scene del “Cavallo di Troia” e della fuga di Enea e di Anchise sullo sfondo della città in fiamme. Queste scene sono state dipinte sicuramente in onore di quel tale Paride Lodron, padre di Ludovico, costruttore del palazzetto
- I Lodron deriverebbero il nome dal paese di Lodrone in val delle Giudicarie e pare abbiano avuto la loro culla nella soprastante rocca di S. Barbara, poderoso fortilizio a dominio della piana alluvionale del fiume Chiese e di buona parte del lago d’Idro. La loro storia di “audaci feudatari” è intessuta di liti, prevaricazioni, guerre secolari per l’espansione e il rafforzamento dei propri privilegi. Essi estesero la loro signoria in val delle Giudicarie, su castel Lodrone, castel S. Giovanni, castel Romano, castel Mani, castel Restor, castel Campo, spingendosi fino a Caderzone in val Rendena. Della stirpe dei Lodron, divisa nel corso del tempo in più linee genealogiche, spicca innanzitutto il già nominato conte Ludovico, condottiero dell’esercito imperiale, cui si deve la costruzione del palazzetto di via Calepina. Egli morì nel 1604 e venne sepolto nel transetto meridionale del duomo di Trento, dove gli venne dedicato un bel monumento funebre con lo stemma del casato
- Accompagnano le pitture mitologico allegoriche ritratti di vari membri del casato Lodron, con visioni di città marinare e di campi di battaglia dove i Lodron guerreggiarono
- Da via Calepina, oltrepassata la grande vasca spartitraffico, si è subito all’inizio di via Grazioli, dove ora sulla destra c’è il convento delle Canossiane, subentrate nella sede dei frati conventuali soppressa nel 1813 dall’imperatore Francesco II.
- Nell’estate del 1950 vi è stato fortunatamente scoperto un tratto di parete affrescat appartenente alle strutture murali dell’antico convento francescano. La superficie affrescata, staccata e trasportata al castel del Buonconsiglio, presenta un brano pittorico di scuola giottesca risalente con ogni probabilità al Trecento; vi è raffigurata la scena della Natività e il gruppo degli Apostoli, con Maria nel mezzo in atto di contemplare l’Ascensione del Salvatore
- Sopra l’ingresso di un moderno palazzo nella parte alta di via Grazioli, poco prima che da essa si diparta via Benedetto Giovanelli, appare un grande stemma marmoreo, che a prima vista si può confondere con quello dei Sizzo de Noris, posto sulla facciata del palazzo barocco di via Manci, oggi albergo Savoia. Lo stemma di via Grazioli è l’emblema della famiglia Giovanelli, proprietaria della vecchia abitazione qui esistente prima della costruzione del nuovo edificio. Sulle mura del vecchio stabile era applicata una lastra marmorea dedicata a Benedetto Giovanelli e lo stemma in questione, che le autorità preposte alla salvaguardia del patrimonio storico e artistico hanno saggiamente voluto si lasciasse in loco
- In fondo a via Grazioli sta alto sulle balze del declivio a sinitra il convento dei Francescani, costruito fra il 1691 e il 1698 per ospitare i frati che avevano abbandonato il loro vecchio convento di S. Bernardino in località “alle giare”, una zona troppo infida perché esposta alle ricorrenti piene del Fersina. I frati ripararono su una posizione più sicura presso la vicina “torricella madruzziana”, in località, come riferisce il Mariani, situata “in eminenza di un colle o promontorio bagnato ai piedi dal torrente Fersina” e “favorito al tempo de’ principi Madruzi, che la tenevano per loro deliciosa e ritirata e religiosa, essendovi la chiesa o sacello per la messa”. La “torricella madruzziana” è ancora ricordata da un portale con lo stemma dei Madruzzo, all’inizio della scalinata che porta al sagrato del convento. I frati trasportarono con sè dal convento demolito di S. Bernardino vecchio le cose più antiche e i pezzi di maggior pregio artistico. Nella nuova chiesa, nei locali adiacenti e nei due chiostri spiccano qua e là artistiche pietre tombali, diverse di epoca e di stile, appartenenti a personaggi di chiesa e d’arme, desiderosi di riposare consolati dalla pietà dei poverelli di S. Francesco
- C’è una bella lastra tombale, stile primo rinascimento, in una delle due cappelle contigue alla chiesa, con la figura del giureconsulto Antonio Tabarelli de Fatis di Terlago, morto nel 1479, a cui per i grandi meriti acquisiti verso la sua città fu conferito il nominativo di “padre della patria”
- Alla lastra del complesso tombale di Antonio Tabarelli de Fatis è accostato l’altare secentesco con l’effige di Cristo Re dipinta da Martino Teofilo Polacco, pittore di Corte dei principi vescovi tridentini, che nella chiesa dei Francescani ha lasciato altre importanti opere. La cornice del quadro è ornata da due stemmi della famiglia Trapp, committente del dipinto
- Del complesso tombale di Antonio Tabarelli de Fatis di Terlago fa parte anche una lastra marmorea con due genietti, sostenenti le insegne araldiche dello stemma Tabarelli de Fatis
- Nel primo chiostro del convento è collocata la pietra tombale di Arcangelo Balduini con lo stemma di famiglia. Il Balduini, morto nel 1507, oltre che medico personale dell’allora principe vescovo Hinderbach, fu anche archiatra dell’imperatore Federico III e del principe Alberto di Baviera
- Veramente notevole è la biblioteca del convento situata in un’ampia sala foderata di legno e ricca di oltre 30 mila volumi, compresi pergamene, codici e incunaboli di valore inestimabile
- Nella biblioteca dei Francescani fu portata la campanella risalente al 1566, che scampanellò per molti anni finanzi alla porta del convento di S, Bernardino, vecchio, abbandonato per le piene ricorrenti del Fersina
- Dal convento dei Francescani in fondo a via Grazioli eccoci fra le antiche case che serrano la prima centrale idroelettrica di Trento. In un ambiente e in un’atmosfera d’altri tempi la strada attraversa il ponte settecentesco ad una arcata sul Fersina, ricordato già nel lontano Trecento, quindi essa bruscamente si impenna col suo grosso selciato costeggiato da file di cipressi, e dopo qualche tornante giunge alla cappella del Crocefisso, costruita nel 1711 dalla Comunità di Povo
- La cappella venne successivamente ampliata dal conte Filippo Francesco Manci, il quale fece applicare sopra il portale lo stemma marmoreo del suo casato
- Dei Manci, famiglia trentina molto nota e oriunda delle Marche, esiste un altro stemma, quello modellato nello stucco e applicato alla parte inferiore dell’altare del Rosario lungo la navata meridionale del duomo di Trento
- Via SS. Trinità è una delle più pregevoli e signorili vie di Trento, dove si avverte un senso di tangibile ordine e di misura che si riflette nel suo spirito calmo e tranquillo, ormai sconosciuto ad altre vie della città. Non è eccessivamente llunga e delimitata da case e palazzi di composto volume, è scandita dalla presenza di un bel cedro dalla chioma folta e vigorosa, ha un indovinato fondale con la picola e graziosa chiesa della SS. Trinità. La chiesetta sorse nel 1519 in un limpido stile rinascimentale, del quale rimangono ancor chiari segni nel portale, e solo nel 1696 il gusto dell’epoca modificò la primitiva fisionomia facendo acquistare alla facciata il colorito ed agile volto barocco
- All’inizio di via SS. Trinità si innalza la casa-torre chiamata Conci, una delle case murate che caratterizzavano una volta il rione Borgonuovo, probabile fortilizio nella seconda cinta urbana della porta rivolta a Verona. Questa casa-torre era fino al Cinquecento molto più alta, ma in seguito la mozzarono parecchio per adattarla ad abitazione: il suo aspetto è piuttosto snello e poco austero, grazie anche alle eleganti finestre e al magnifico portale in legno intagliato
- Il portale della casa-torre Conci è veramente degno di ammirazione e meritano di essere osservati con attenzione i magnifici battenti con le grottesche a basso ed altorilievo. Come si può constatare dallo stemma scolpito nel legno del portale, la casa-torre Conci appartenne alla famiglia Gaudenti, che trae il nome dal paese di Godenzo (in latino: Gaudentum) nelle Giudicarie, dove fin dal XIII secolo godè di feudi e altre signorili onorificenze. Divenuti cittadini di Trento sul finire del Trecento, i Gaudenti diedero alla città vari “consoli”. Nel 1783, quando furono creati baroni, i Gaudenti ereditarono il nome, l’insegna e i beni dell’estinta famiglia Roccabruna. Così lo stemma avito dei Gaudenti (dal campo dello scudo “partito” d’azzurro e d’argento al levriero rampante “dell’uno nell’altro) si inquartò con quello dei Roccabruna (dal campo dello scudo d’oro alla torre di nero)
- La medesima sorte di decapitazione riservata alla casa-torre Conci toccò anche alla vicina casa-torre Massarelli, che fa angolo con il vicolo della Storta che mena in piazza Garsetti. Essa deriva il nome da Angelo Massarelli, segretario generale del Concilio ecumenico tridentino, che vi abitò fino alla sua conclusione. La casa-torre Massarelli, imponente, a pianta rettangolare, tutta di viva pietra, doveva rappresentare la parte centrale, il cuore di un sistema fortificato in contrada Borgonuovo, dominio di una delle varie “consorterie” che, a somiglianza di quanto avveniva a Firenze, incuotevano timore e rispetto alla città. La consorteria faceva capo ad uno dei casati più illustri del Trentino, i Roccabruna: infatti la casa-torre Massarelli è accostata al palazzetto Roccabruna, il cui nome deriva dall’omonima famiglia. I Roccabruna erano signori, fin dall’inizio del Duecento, del castello di Fornace, ridente paese lungo la strada provinciale Fersina-Avisio, così chiamato per la presenza da tempo immemorabile di numerose fornaci che fondevano e fucinavano l’abbondante minerale scavato nei dintorni. Da questo castello, già abitato prima del Mille da una potente famiglia denominata dei “signori di Fornace”, la fama e l’influenza dei Roccabruna si estese con la ramificazione del casato dal territorio di Pinè alla zona di Civezzano e alla conca di Pergine
- Il palazzotto di via SS. Trinità costruito nel Cinquecento dalla famiglia Roccabruna era di dimensioni ridotte, però molto equilibrate e piacevoli. Ma ben poco rimane della originaria nobiltà estetica dell’illustre dimora, un tempo evidente anche nelle manifestazioni artistiche meno rilevanti, quali, ad esempio, l’insegna araldica del casato ripetuta su pavimenti, pareti, soffitti, porte: era inciso un artistico stemma anche sul battente della porta d’entrata, tanto piacevole a vedersi da indurre l’imperatrice Vittoria, vedova dell’imperatore Federico II di Germania, di passaggio a Trento, ad offrire una somma rilevante pur di entrarne in possesso
- La cappella gentilizia di palazzo Roccabruna è uno dei più singolari monumenti artitici di Trento, quasi del tutto sconosciuto. Ai tempi del suo splendore era la parte più ammirata del palazzo: aveva il soffitto ricoperto di stucchi e il pavimento rivestito di bellisime mattonelle di maiolica colorate; le pareti erano completamente affrescate, in basso da una serie di finti spazi intervallati da snelle ed eleganti colonne, in alto da quattordici scene rievocanti episodi della vita di S. Girolamo. La cappella, pensile su vicolo Gaudenti, sta andando inesorabilmente in rovina di anno in anno, nonostante tanto si sia perorato nei suoi confronti: una fine avvilente per un illustre monumento essere ridotto a deposito di sedie polverose e ammuffite, di tavoloni, di attrezzi rurali ricoperti da escrementi di colombi
- Dal portale d’ingresso a bugnato si è subito nell’atrio a corridoio dal soffitto lunato, ai lati del quale si possono gustare delle graziose lunette occupate da busti in stucco di diversi imperatori romani
- Nella grande sala al primo piano, aperta sul balcone marmoreo della facciata principale, c’è una porta di stile rinascimentale che reca lungo l’architrave la scritta “Oratorium B. Hieronimo Dicatum”. L’oratorio è la cappella gentilizia di palazzo Roccabruna, dedicata al canonico Gerolamo Roccabruna, il cui ritratto si trova in uno dei finti spazi della parte inferiore della cappella, rivolto all’altare in atteggiamento di preghiera. Al canonico Gerolamo Roccabruna appartiene il caratteristico cenotafio con un angioletto orante applicato sulla parete settentrionale del duomo di Trento
- Di fronte alla porta d’ingresso al salone con lo stemma madruzziano in stucco, un’altra porta reca alla sommità un altro stemma di stucco con le insegne degli Spaur. Ignoto il ruolo che questo casato della Piana Rotaliana ebbe nelle vicende di palazzo Roccabruna
- Con l’estinzione della famiglia Roccabruna il palazzetto passò per breve tempo ai Madruzzo, i quali fecero apporre il loro stemma in stucco sulla porta d’ingresso del salone. Un altro stemma madruzziano, oggi molto sciupato, venne applicato dal cardinale Ludovico Madruzzo sopra il balcone della facciata principale
- L’antico palazzetto Roccabruna passò dai Madruzzo ai Gaudenti Roccabruna, che diedero il nome al vicolo adiacente
- Curiosando all’interno di una boutique lungo il lato meridionale di via SS. Trinità, fra vicolo Gaudenti e via Mazzini, si nota sul suo soffitto una specie di grande ovale affrescato dominato da un’insegna araldica, dalla quale si apprende che l’austero palazzo, di cui il locale con la boutique era probabilmente l’andito di ingresso, apparteneva alla famiglia nobiliare de Eccher. La famiglia Eccher è di antichissima origine, se in un documento del 1285 sono nominati un Janese e un Bruno da Eco, e in una carta del 1366 si trovano citati un “Matteo Quondam Cristano” e un Pietro da Eco. Gli Eccher, chiamati “dall’Eco” fin dal Seicento, furono ministeriali e vicari dei signori di castel Beseno sull’altopiano di Folgaria. Erano essi ministeriali dei primi signori di Castel Beseno? Certamente lo furono per conto dei Trapp, la potente dinastia feudale che si impadronì di castel Beseno nel 1487, dopo la battaglia di Calliano, e la conseguente disfatta delle truppe veneziane guidate da Roberto da Sanseverino. I Trapp cercarono subito di riportare sotto la giurisdizione di castel Beseno la Comunità di Folgaria, alla quale nel 1440 il doge Francesco Foscari aveva concesso una larga autonomia e la facoltà di eleggere i propri rappresentanti presso l’autorità superiore. La dimora dei dall’Eco a Folgaria era situata in località “La Guardia”, punto strategico all’imbocco della vallata che scende stretta e ripida alla val d’Adige in una zona dominata dall’acrocoro sul quale si staglia castel Beseno. I dall’Eco erano padroni a Folgaria anche di una località in cui si trovava un’edicola con l’effige della Madonna e il Bambino, oggi nella chiesa parrocchiale. Quando nel 1693 gli Echher furono elevati alla nobiltà del Sacro Romano Impero, aggiunsero al loro titolo nobiliare il predicato di “Marienberg”, che allude per l’appunto al loro feudo ov’era l’edicola con l’immagine della Madonna e il Bambino
- Lungo via Gaudenti, sul lato meridionale del palazzetto Roccabruna, corre ancor oggi in buono stato, un basso muretto merlato che ne delimitava gli orti e le stalle, cui si accedeva dall’androne per un rustico portale stemmato
- Il trivio formato da via SS. Trinità, via Vigilio e via Mazzini è dominato dalla mole del palazzo ora chiamato Larcher Fogazzaro, che pare incombere con la sua mole sul dorso delle poderose cariatidi a sembianza di giganti. Dal trivio si può godere uno degli scorci più belli della città con la vista unica sul Castelletto, la “torricella di S. Romedio” e la “torre civica”
- Il monumentale edificio barocco costruito nel Settecento dalla famiglia Guarinoni ha delle caratteristiche finestre oblunghe, un movimentato balcone marmoreo con le ringhiere in ferro battuto e un pronunciato cornicione a mensoloni
- Dal fianco meridionale di palazzo Larcher Fogazzaro si stacca un antico muro merlato che si salda alla cinquecentesca casa degli Alessendrini di Newenstein, ingentilita da eleganti monofore rinascimentali. L’entrata alla casa degli Alessandrini è all’interno di un pittoresco cortile, cui si accede da un grande portale ogivale aperto nel muro merlato: il portale reca ancora sul concio di chiave il marmoreo stemma inquartato degli Alessandrini di Newenstein. La muraglia nerastra potrebbe essere il rudere di un edificio medievale, dimora dei conti del Tirolo
- I portali rappresentano una delle caratteristiche più tipiche e genuine dell’aspetto artistico di Trento; in essi però non è da ammirare solo la dignità litica, ma anche quella metallica, essendo molto spesso le roste delle vere opere d’arte, dei gioielli d’arte minore. Il gruppo dei portali semplici e modesti in via Mazzini offre un campionario di roste che vanno dall’inizio del Cinquecento alla fine del Settecento: dal tipo semplicissimo delle prime roste che concedevano poco o nulla al gusto estetico, al tipo secentesco tutto grazie e fantasia, al tipo tardo settecentesco che ritorna a forme meno elaborate, più convenzionali, ripudiando in buona parte i capricci del barocco. Ecco la rosta sul portale al numero 42 di via Mazzini; è della seconda metà del Cinquecento, con un motivo in ferro battuto “a quadrello a grandi ovali allacciati”, motivo scarno, ridotto all’essenziale.
- Lungo via Mazzini merita sostare dinanzi ad un gruppo di portali dignitosi ma di composizione modesta e popolare, soffermando in specie lo sguardo sulle roste, le inferriate che occupano lo spazio al di sopra dell’imposta della porta. La funzione della rosta, fatta per lo più a ventaglio, è soprattutto quella di assicurare la chiusura di un vano, quasi sempre l’andito di entrata alla casa, senza impedire il passaggio dell’aria e della luce
- Ecci la rosta sul portale al numero 32; è della prima metà del Seicento, in uno stile già barocco nel ferro battuto “a tondino a larghe volute nella parte sottostante, allacciamenti stretti nella parte superiore e sovrapposizione di steli e foglie”.
- Via Mazzini attraversa la zona chiamata fin dal Millecento “Borgonuovo”, il sobborgo cittadino sorto al di fuori della seconda cinta urbana di Trento. Al suo limite meridionale corre il tratto superstite delle duecentesche mura vanghiane, dalle caratteristiche merlature ghibelline, le scale rampanti e il passo di ronda.
- Unito alle mura vanghiane era il cosiddetto “torrione di piazza Fiera”, caratteristica costruzione cilindrica eretta a difesa della “porta Veronese” o porta S. Croce. Porta Veronese collegava il Borgonuovo al Borgo S. Croce con un ponte sopra un fosato naturale, a ridosso delle mura vanghiane percorso dalle acque del Fersina
- Procedendo oltre il “torrione” e piazza Fiera lungo via S. Croce, si ammirano altri tipici portali trentini, semplici e modesti, come quello ad esempio che fa da entrata alla vecchia locanda “al volt”. La piazzetta dell’antico Borgo Santa Croce conserva ancora qualche cosa della sua vecchia fisionomia, nonostante sia stata tagliata e alterata dalla strada principale di transito, tumultuosa di macchine e di pesanti autotreni, e malgrado l’ulteriore deturpazione della sua armonica misura causata da sproporzionati caseggiati: una piazzetta abbellita come nel passato dalla presenza de,,e piccole ma solide chiese di Santa Maria e Santa Croce, e rallegrata dal respiro di una graziosa fontanella
- La chiesa di Santa Chiara, appartenente all’Ordine delle Clarisse riformate, nacque in un’umile e possente veste romanica, ma perdette via via a causa di rifacimenti il suo carattere primitivo assumendo da ultimo un aspetto barocco, manifesto soprattutto, all’interno, in porte, altari, balaustre, cancelli, e in una vasta gamma di altri particolari
- La chiesa di Santa Croce, che diede nome all’omonima borgata, fece parte fin dal lontano 1183 del monastero dei Crociferi, un ordine religioso disciolto a Trento nel 1592; la loro sede venne occuoata fino al 1842 dai frati cappuccini, i quali passarono successivamente sulla collina della Cervara
- Durante i restauri iniziati nel 1928 la chiesa ha assunto nuovamente un aspetto severo e dignitoso, al quale non nuoce certamente la coesistenza, l’uno accanto all’altro, di due stili così diversi, il romanico e il barocco. Interessante sulla parte esterna la marcata divisione fra la parte antica e la parte aggiunta posteriormente, anche con quella specie di grondaia che, sulla facciata principale intende accennare al timpano della chiesa originaria e sulla parete merifdionale dà pure risalto al vecchio e al nuovo
- Quasi dirimpetto alla chiesetta di Santa Croce non si può fare a meno di notare uno fra i più caratteristici portoni di Trento, detto comunemente “i tre portoni”, dal quale, pur tocco dal tempo e stretto com’è fra alti caseggiati, emana ancora una precisa sensazione di serena bellezza, respiro di lontani secoli. Il composito portale è stato costruito con molta probabilità nella prima metà del Cinquecento ma, per la pietra corrosa e la patina che i secoli gli hanno dato, lo si potrebbe a prima vista confondere con un arco di epoca romana
- I “tre portoni” erano l’ingresso, sulla via maestra per Verona, al madruzziano “palazzo delle Albere”, al quale si arrivava attraverso l’aperta campagna per un viale dritto e alberato, l’attuale via Madruzzo. Oggi l’antico percorso è stato cancellato dall’espansione della città e dalla linea ferroviaria. Palazzo delle Albere, magnifica residenza suburbana dei Madruzzo, circondata di orti e giardini, decadde al tempo in cui le contrade d’Europa venivano sconvolte dalle armate napoleoniche. Nel 1796 venne seriamente danneggiato da un incendio; scomparvero poi l’ampio giardino all’italiana, i rinomati “orti madruzziani”, convegno di cardinali, di poeti, di uomini di lettere; rovinarono il ponte levatoio, le torri e la cinta di mura merlate che delimitavano il vasto complesso. Devastato il sontuoso arredamento interno, il tempo e l’incuria si accanirono con le decorazioni e gli affreschi che sono stati attribuiti al pennello del Romanino e del Dossi.
- In questi ultimi anni un diligente lavoro di restauro ha cercato di riparare all’incuria secolare, ridonando alla villa madruzziana un po’ del suo antico lustro. Fra tanti brandelli di pitture scolorate sono stati scoperti alcuni affreschi di pregevole fattura ancora in ottimo stato di conservazione, dei quali non si supponeva davvero l’esistenza, dato lo stato di estrema degradazione degli ambienti
- Dinnanzi al già fastoso palazzo madruzziano delle Albere viene spontaneo riandare col pensiero alle vicende della potentissima famiglia dei Madruzzo: il loro castello avito posto a presidio della strada romana che dalla pianura padana conduceva in Germania per la val del Sarca e la val di Cavedine; i primi Madruzzo che tennero il castello, successivamente danneggiato, ricostruito ed ampliato fino alla fine del Trecento; i secondi Madruzzo, il cui capostipite Giovanni gaudenzio non solo ricostruì ed ampliò castel Madruzzo dov’era nato, ma riadattò anche castel Toblino e portò alle classiche forme attuali castel Nanno, la dimora dei suoi avi. Dalla seconda famiglia Madruzzo è derivata la sucessione ininterrotta di principi vescovi che ressero le sorti del Principato tridentino dal 1539, col grande Cristoforo Madruzzo, succeduto a Bernardo Clesio, al 1658, con Carlo Emanuele. Al centro d’Italia, fra le province di Ascoli Piceno e Macerata, si distende l’imponente catena dei monti Sibellini, nella quale svettano picchi particolarmente alti come ad esempio il monte Vettore (2400 metri) e il monte Bove (2113 metri). Ai piedi di quest’ultima cima si trova il piccolo centro di Visso, ricco di storia e di monumenti artistici. A Visso si trovano ancora stemmi della famiglia Madruzzo, perché Cristoforo Madruzzo, fra i vari incarichi di cui fu investito, come ad esempio l’amministrazione apostolica della diocesi di Bressanone o il governo di Milano e di Spoleto, fu anche legato pontificio della Marca di Ancona e di Ascoli, e nelle Marche pure governò la cittadina di Visso dal 1550 al 1578, anno della sua morte. Per l’esattezza Cristofoto Madruzzo governò Visso tramite un commissario generale cui aveva concesso ampi poteri. Dopo Cristoforo Madruzzo Visso perdette l’ampia autonomia che aveva goduto fin dal tempo dei liberi comuni e venne completamente assoggettata al potere temporale della Chiesa. Cristoforo Madruzzo lasciò il governo del Principato vescovile tridentino ancora vivente, nel 1567, e andò a vivere a Roma: a Tivoli lo colse la morte e venne sepolto nella chiesa di S. Onofrio sul Gianicolo, dove fu tumulato più tardi anche suo nipote Ludovico, pure lui principe vescovo di Trento dal 1567 al 1600. Nella cappella madruzziana del tempio romano le sue tombe sono prive di iscrizione, e quella di Cristoforo Madruzzo si può distinguere dall’altra solamente per la fattura dello stemma. Cristoforo Madruzzo, infatti, come amministratore apostolico della diocesi di Bressanone, aveva potuto abbinare, a differenza del nipote Ludovico, l’insegna araldica del suo casato a quelle del Principato vescovile di Bressanone e del Capitolo del duomo di quella città, rappresentate rispettivamente dall’agnello col vessillo crociato e dall’aquila caricata del pastorale