Secondo itinerario fra storia e arte nel centro storico di Trento. Una passeggiata tra stemmi aralSdici, ville, chiese, affreschi da via del Suffragio a Largo Carducci, passando per via San Marco, via Bernardo Clesio con castel del Buonconsiglio e via S. Pietro. Chi ha fretta può andare subito al video di Televignole con la galleria fotografica che, sotto, riporta in sintesi nelle didascalie la storia di queste testimonianze artistiche del capoluogo trentino. Magari dopo aver visto quello sul concilio tra storia e arte proposto qui sotto.
Infine due appunti. Il primo: le foto (e relative descrizioni) si riferiscono alla situazione del 1983 di queste opere d’arte. Già allora si denunciavano degradi, incurie. Che spero, nel frattempo, siano stati risolti in meglio. Il secondo: emerge dalla storia la costante “immigrazione” di nobili a Trento. Da tutte le parti d’Italia oltre che dall’estero. Così come si nota la “brutta fine” che ebbe il tentativo di fondare la “Repubblica trentina” contro lo strapotere dei principi vescovi stranieri.
VIA DEL SUFFRAGIO – VIA SAN MARCO – VIA BERNARDO CLESIO
CASTEL DEL BUONCONSIGLIO – VIA SAN PIETRO – LARGO CARDUCCI
Via del Suffragio. Dal “Canton”, uno dei punti più pittoreschi e scenografici di Trento, va verso nord in maniera irregolare via Suffragio, così chiamata per la presenza della barocca chiesetta del Suffragio. Alcuni bellissimi palazzi le conferiscono una grande dignità artistica, ma grande è anche la suggestione dei suoi portici, delle larghe gronde di molti suoi edifici, dei suoi portali
Lungo la scala marmorea all’interno del palazzo del Monte è scolpito anche lo stemma primitivo della famiglia Migazzi, elevata a dignità nobiliare nel 1458
Le insegne araldiche della famiglia Rohr, che subentra ai del Monte nel possesso del palazzo. Ha il campo dello scudo al leone che tiene fra le zampe un ramo o una pianta, ed è visibile anche all’interno della magnifica dimora, scolpita sugli stipiti delle porte e lungo la scala marmorea, di puro stile lombardo
Un manto di edera e di altre piante rampicanti copre ampi tratti delle pareti della corte, in specie della parete del lato ocidentale
Circa a metà di via del Suffragio, sul suo lato orientale, un lungo andito conduce in una piccola corte. Una corte oggi semplice, dimessa, avvilita dal tempo e dall’oltraggio dell’uomo. Ma lo sguardo è subito attratto da due stemmi di pietra alla sommità della volta di due massicci portali, stemmi di pietra nei quali si riconosce l’insegna araldica della nobile famiglia a Prato
Si è piacevolmente sorpresi alla vista di bellissime finestre ogivali di probabile fattura trequattrocentesca. Un angolo della Trento antica che richiama alle gotiche delizie della bella Verona
All’altro capo di via Suffragio appare, in tutta la sua imponente e decrepita bellezza, un’altra delle perle architettoniche della contrada. E’ l’antico palazzo dei Trautmannsdorf, oggi conosciuto come uno dei palazzi Salvadori, il quale, oltre la facciata occidentale in via del Suffragio, ha quella settentrionale su piazza Raffaello Sanzio e quella orientale su piazza della Mostra. Tre facciate di grande attrattiva, scandite da tre ordini di finestre e segnate da altrettanti imponenti portali, uno per ogni facciata
Sui muri di palazzo Trautmannsdorf si spiega la più alta concentrazione di mascheroni di Trento su una singola costruzione. Mascheroni di diverse dimensioni; e ogni mascherone con la sua espressione diversa da ogni altra, a significare la grande versatilità, la fantasia e l’impegno dell’artista
Guarda via del Suffragio con la sua facciata principale, il palazzo cosiddetto “del Monte”, completamente affrescato nel Cinquecento con le “fatiche di Ercole” e altre scene allegoriche della mitologia greca. La facciata su via del Suffragio è di chiaro gusto veneziano sormontato da due ordini di trifore, ciascuna con verone che sostiene piccoli scudi contenenti le insegne araldiche dei Rohr e dei Migazzi
I tre portali hanno ognuno un grande mascherone sul concio di chiave, scolpito ad altorilievo
Altri mascheroni li affiancano, di media grandezza e di un rilievo meno marcato, scolpiti sui piedritti dei balconi marmorei
Una vera dovizia di queste singolari sculture è su ogni singola finestra del palazzo.
E’ interessante e divertentem diversivo soffermarsi dinnanzi ai muri dell’antico palazzo Trautmannsdorf, passare in rassegna ad una ad una tutte le finestre ed individuare i mascheroni con le espressioni più inconsuete, le smorfie più innaturali, il ghigno più aberrante
I Trautmannsdorf trentini sono un ramo dell’omonima famiglia nobiliare altoatesina. In un libro settecentesco sulle famiglie nobiliari della contea del Tirolo si legge che “i cavalieri e i conti di Trautmannsdorf sono derivati da più linee genealogiche, però tutte del Tirolo e del castello di Trautmannsdorf”, Nicolò Trautmansdorf, il capostipite della linea trentina della famiglia, si fregiava di uno stemma inquartato con in posizione d’onore una rosa (è da rivelare che la madre di Nicolò Trautmansdorf apparteneva alla dinastia dei signori di Malosco, la cui insegna era rappresentata da una rosa). Egli fu investito nel 1532 della signoria sulla “Corte Franca” di Mattarello
Alla “Corte Franca” di Mattarello fu apposto un po’ ovunque lo stemma del casato Trautmannsdorf, ripetuto infatti sui portali d’ingresso e sulle porte interne, sulle torri angolari, sulle finestre e nella cappella della corte. I Trautmannsdorf trentini ebbero per un certo tempo anche il dominio sui castelli di Selva e di Castellalto in Valsugana
Dal “Canton” si diparte in direzione orientale, verso il castel del Buonconsiglio, via San Marco, una denominazione che essa aveva fin dal lontano Trecento. Poco più avanti della facciata meridionale di palazzo del Monte, c’è la nuda parte della casa Clotz-Salvetti, fino al 1902 abbellita dal pennello del Brusasorci con una serie di riquadri raffiguranti scene di natura mitologica e visioni di battaglie roteanti di cavalli. Questo ciclo di affreschi è considerato fra i più preziosi di quanti, ed erano molti, ne vantasse Trento durante il Cinquecento: perciò lo hanno staccato dalla facciata e trasportato, lontano dalle ingiurie del tempo e dell’uomo, sulle pareti dello scalone d’onore del Municipio. Sul concio di chiave del portale è rimasto il piccolo scudetto al quale un tempo era applicato lo stemma dei Clotz, distrutto o levato, come tanti altri stemmi di Trento, durante o dopo la rivoluzione francese. Si può pensare, al primo suono del nome, che questa famiglia abbia origine nel paese anaune di Cloz, dove fin dal Mille sono conosciuti dei “signori di Clotz” (de Clauze o de Clauz) vassalli dei conti di Appiano o dei conti d’Arsio.
I Clotz provenivano invece da Klausen, come è chiamata in tedesco la cittadina di Chiusa in Val d’Isarco, e si stabilirono a Trento sul finire del Seicento esercitandovi la mercatura. Essi dovevano avere a Sprè di Povo una villa accogliente, oggi chiamata villa Lubich. La strada che conduce al Cimirlo divide la villa padronale propriamente detta da un’altra costruzione, adibita un tempo a masseria, dimore della servitù. Una costruzione che, nonostante l’avanzato degradamento, rivela tracce consistenti del suo primiero decoro
Degno di nota nel palazzo dei Salvetti è il giroscale interno con i suoi monumentali scaloni abbelliti da grosse pigne marmoree
Imparentata con i Clotz era la famiglia Salvetti di San Lazzaro, che aveva dimora in via San Marco in un austero palazzo rinnovato nel 1792 da Domenico Salvetti, console di Trento, il quale abbellì la semplice facciata, in alto, con un artistico cornicione a rilievo di grottesche rinascimentali
Oltre alle pigne marmoree su un pianerottolo del giroscale si trova scolpito nel marmo lo stemma dei Salvetti
I Salvetti avevano un loro cenotafio nel cimitero della chiesa di San Bartolomeo, incastrato sulla facciata principale del tempietto, vicino alla porta
A metà di via San Marco domina sulla piazzetta degli Agostiniani la chiesa dedicata a San Marco; una chiesa antichissima, risale al Duecento, nel corso dei secoli fu più volte ampliata, riedificata, restaurata, manomessa. Contiguo al suo lato meridionale s’apre un chiostro ampio, elegante e armonioso, dalle lunette una volta affrescate con episodi raffiguranti la vita di S. Agostino e di altri santi agostiniani. L’aspetto rinascimentale del chiostro gli sarebbe stato dato a metà del Cinquecento dal cardinale Sarpando, in quel periodo “maestro generale dell’Ordine degli Agostiniani”, che nel convento di San Marco visse durante il primo periodo dei lavori conciliari. Gerolamo Seriprando fu sepolto nel 1563 in quella chiesa presso l’altare maggiore: ora la sua lapide si trova sulla parete del catino absidale di S. Maria Maggiore
Sull’impalcatura dell’altare minore, lungo la parete meridionale della chiesa di San Marco, è applicato lo stemma dei Bevilacqua, famiglia di Malè elevata alla dignità nobiliare nel 1613 dall’imperatore Mattia
Conoscendo il passato storico e artistico di San Marco, l’interno della chiesa, come lo vediamo oggi, desta subito un senso di perplessità e delusione. Ne è stata profondamente alterata l’intima identità, specialmente con l’altare del 1942 e il catino absidale affrescato nel 1947 secondo un modulo stilistico esageratamente moderno. Uno stile che rende ancora più anacronistici due personaggi ritratti che tanta parte hanno avuto nelle vicende del convento agostiniano: il già ricordato Girolamo Seripando e il beato Stefano Bellesini. Nè valgono a mitigare l’impressione sfavorevole che si prova all’interno di San Marco i pochi ricordi del passato: lungo la parete meridionale frammenti della originale decorazione a fresco quattrocentesca; vicino alla porta d’entrata principale una lapide nera del 1640 a ricordo dei due delegati vescovili Francesco e Lodovico Particella; due altari barocchi minori con lo stemma della famiglia committente presso l’altare maggiore
Anche il monstero di San Marco in Trento godette fin dal 1302 del privilegio di seppellire i morti nella propria chiesa; avvalendosi di questa facoltà molte famiglie nobiliari trentine, confraternite, corporazioni artigianali, stabilirono di porre le loro tombe nella chiesa di San Marco. La chiesa non è molto grande, ma le lapidi sepolcrali erano così numerose da tappezzare completamente il pavimento e la superficie inferiore delle pareti: pareva di trovarsi in un piccolo museo. Riferisce uno studioso di storia trentina, il Weber, della presenza di oltre una sessantina di monumenti funebri, dai più semplici ai più sontuosi, con le insegne gentilizie e le sembianze dei defunti. Il lavoro demolitore del tempo, le continue manomissioni, i restauri hanno contribuito in modo determinante alla dispersione e alla distruzione della maggior parte di questi monumenti funebri. Ne rimangono solo una ventina, qualcuno collocato in altre chiese o nei palazzi della città, gli altri murati all’esterno della sagrestia di San Marco e i più nell’atrio antistante alla chiesa. Sostando nell’atrio della chiesa di San Marco, pare quasi di non avvertire più il trambusto della vita moderna, e di cogliere solo l’eco del tempo passato; tale intensa sensazione si prova anche in un altro posto molto simile: nel chiostrino della chiesa di S. Maria dei Carmelitani a Rovereto
Una delle lapidi più lise appartiene a Giorgio di Ebenstein (Pietrapiana) come testimonia la scritta in tedesco antico. La lapide reca cinque piccoli stemmi dei quali il mediano è dei signori di Ebenstein, gli altri di famiglie imparentate. I signori di Pietrapiana (Ebenstein) traggono il nome dall’omonima rocca che anticamente sorgeva su un dosso dei pendii vitati di Gocciadoro, tra i villaggi di Povo e Villazzano. I primi Pietrapiana mantennero questo fortilizio, come feudatari della Chiesa tridentina, sino alla fine del Duecento, poi vennero sostituiti dai Belenzani, che lo tennero per più di un secolo. Questi a loro volta, dopo la sfortunata ribellione del 1407 da loro capeggiata contro l’autorità vescovile, lo dovettero cedere ad Enrico di Rottemburgo, il duca tirolese corso in aiuto del principe vescovo di Trento Giorgio di Lichtenstein. Nel 1420 Enrico di Rottemburgo diede il feudo di Pietrapiana al suo daziere di Trento, Michele Stempfel di Monaco di Baviera, al quale era stato affibbiato l’appellativo di “de la muda”. Gli Stempfel o signori de la muda” tramuteranno, per la loro origine tedesca, la denominazione originale della rocca di Pietrapiana nel corrispondente vocabolo tedesco “Ebenstein”. A questa generazione appartiene Giorgio di Ebenstein, nipote di Michele Stempfel, il personaggio cui è dedicata la lastra tombale nell’atrio di San Marco. Giorgio di Ebenstein godeva fama di uomo molto valoroso. Aveva preso parte attiva alla guerra delle Fiandre, e nel 1487, nella sua qualità di capitano del castel del Buonconsiglio, ebbe parte determinante nella famosa vittoria riportata a Calliano dalle milizie tridentine e tirolesi contro i veneziani
La chiesa di San Marco dava ospitalità anche al “Sepulcrum ingenuae stirpis de Contzin”, una delle più antiche famiglie anaunensi. Il “sepulcrum” all’interno di San Marco dovrebbe essere stato commissionato da Bartolomeo Concini che, ottenendo e aggiungendo feudi e priviligi nuovi ai vecchi, portò la famiglia al suo massimo splendore. L’imperatore Massimiliano I, oltre a numerose onorificenze, gli affidò nel 1500 le giurisdizioni del castello di Belfort, di Andalo e parte di Molveno, feudi sui quali Bartolomeo Concini e poi i suoi figli mantennero la signoria fino al 1540. Facevano parte del “sepulcrum” dei Concini anche due pietre tombali con lo stemma della famiglia, oggi murate nell’atrio della chiesa. Lo stemma dei Concini era ed è uno dei più conosciuti, perchè questa famiglia ebbe feudi e beni non solo in val di Non (Tassullo, Sanzeno, Taio, Malgolo, oltre a Belfort, Andalo e Molveno) ma anche in val di Sole, in val di Cembra, a Lavis, a Faedo, in Valsugana. A Trento i Concini avevano case in piazza del Castello, oggi piazza della mostra
Anche la famiglia Particella aveva nella chiesa di San Marco una cappella, iscrizioni e pietre tombali. I Particella, oriundi di Fossombrone nel Lazio, vennero a stabilirsi a Trento nella prima metà del Cinquecento. Erano stati elevati alla dignità nobiliare fin dal Trecento e Francesco Particella, quando giunse a Trento nel 1540, godeva già del titolo comitale col predicato di “Montevetere” o “Montevecchio”. Diversi personaggi della famiglia Particella esistiti nella seconda metà del Seicento sono stati sepolti nella chiesa di San Marco; dal già ricordato Francesco, considerato il capostipite trentino della famiglia, a Ludovico, capitano di castel Stenico dal 1633 al 1640, padre di Claudia Particella, sulla cui relazione col principe vescovo Carlo Madruzzo tanto è stato detto e scritto; da Vincenzo, annegato nel lago di Toblino nel 1653, ad un altro Francesco, consigliere aulico dal 1625 al 1656, e ad un altro Francesco, sepolto in San Marco nel 1733. Nessuna meraviglia quindi che in San Marco lo stemma dei Particella fosse ripetuto più volte
Un alto caseggiato fronteggia la piazzetta degli Agostiniani e la chiesa di San Marco; fra le sue antiche mura sorgeva forse fin dal Trecento un ospizio ricordato come “albergo di San Marco”. Gli ospizi a Trento erano numerosi e abbelliti spesso all’esterno e all’interno da cicli di affreschi. Dovrebbero appartenere al ciclo dipinto sulla facciata dell’antico “albergo di San Marco” quei brandelli di affreschi scoperti di recente sulla facciata del vecchio albergo San Marco che guarda la via, nei quali si intravede una figura di angelo, alcuni svolazzi e uno stemma inquartato probabilmente del principe vescovo Bernardo Clesio
Via San Marco sbocca al centro di via Bernardo Clesio, la quale serpeggiando unisce piazza Raffaello Sanzio a piazza Venezia. E’ giustamente dedicata al più grande principe vescovo del plurisecolare Principato tridentino, che in questo punto della città edficò l’opera sua più bella, il “Magno palazzo”.
Il “Magno palazzo” è solo una parte, ma certamente il punto focale, il cuore del vasto complesso del castel del Buonconsiglio, che nella sua possente disposizione a semicerchio comprende praticamente la”torre Verde”, il Castelvecchio, la “Giunta albertiana”, il “Magno palazzo” e la “torre dell’Aquila”. La figura di Clesio aleggia in ogni parte dell’imponente edificio da lui congiunto e racchiuso verso l’abitato cittadino da una possente cortina a bastioni lunati, sovrastanti l’ampio spiazza, piazza della Mostra, così chiamata perché nei secoli passati si svolgevano frequenti “mostre” o parate militari. Al centro della piazza, dove erano situate le capaci stalle del castel del Buonconsiglio, s’ergeva una grande fontana, punto di riferimento, di sosta, per processioni, cortei, feste. Narrano le cronache che durante i festeggiamenti in occasione dell’investitura di Bernardo Clesio a principe vescovo tridentino e della sua entrata al castello del Buonconsiglio, dalla fontana in piazza della Mostra sgorgasse abbondante il vino generoso dei vigneti vescovili.
Avvicinandosi al nuovo ingresso principale del castel del Buonconsiglio si nota subito sul torrione angolare della facciata del “Magno palazzo”, l’insegna araldica marmorea del principe vescovo Hinderbach. Il torrione infatti fu voluto dall’Hinderbach e faceva parte, fino alla costruzione del “Magno palazzo”, della cinta muraria che si ergeva intorno al Castelvecchio: incorporato nel lato orientale del nuovo edificio, presenta due magnifiche sale circolari
Le insegne araldiche non sono la sola nota dominante del lapidario nel “cortivo dell’Aquila”. Grandi lastroni stemmati sono allineati in lunga fila lungo l’interno dei bastioni, e segnato di molti stemmi è l’esterno e l’interno del “Magno palazzo”, della “Giunta albartiana”, del Castelvecchio. Seguendo gli stemmi si potrebbe quindi dare una più esauriente e originale chiave di interpretazione della storia e dell’arte del castel del Buonconsiglio
Notevole il valore storico-artistico del castel del Buonconsiglio. Esso in ogni sua parte desta nel visitatore il più vivo interesse; non esclusa la profonda emozione da cui si è presi nella “stua della famea”, affrescata dal pennelo del Dossi, dove nel 1916 il tribunale militare austriaco condannò a morte mediante capestro l’ultima grande figura del Risorgimento italiano, Cesare Battisti
Merita speciale attenzione anche il recinto del cosiddetto “cortivo dell’Aquila”, dove sono raccolte in un lapidario tante preziose testimonianze del passato di Trento, soprattutto insegne araldiche staccate via via per diversi motivi dalle mura della città.
E qual è la sorpresa del visitatore quando lungo il camminamento di ronda, entrato nella “torre dell’Aquila”, si spiega davanti ai suoi occhi stupefatti il celeberrimo affresco del “ciclo dei mesi”?
Sale circolari del torrione dell’Hinderbach. Quella denominata “camera da basso del torrione” è magnificamente decorata in epoca clesiana. Fra le decorazioni desta particolare attenzione, nelle lunette, il girotondo delle figure a cavallo rappresentante una curiosa serie ad affresco di imperatori romani. Nella lunetta a destra della finestra volta a nord, lo ricorda il cartiglio accanto, Flavius Sabinus, cioè l’imperatore Tito
Giovanni Hinderbach de Rauchenberg, di nobile famiglia tedesca, originaria dell’Alsazia, resse le sorti del Principato vescovile tridentino dal 1465 al 1486. Influenzato dal soffio rinnovatore della cultura rinascimentale, si curò di far assumere a Castelvecchio, la seconda dimora fortificata dei principi vescovi tridentini, un aspetto più dignitoso e monumentale. Così fece levare dalla suggestiva corte a pianta trapezoidale le primitive strutture in legno e laterizio, sostituendole con una teoria di archi e loggiati in pietra elegantemente lavorata; in più aprì nella nuda e alta muraglia orientale del maniero una stupenda loggia veneziana, variopinto cespuglio fiorito sbocciato sull’orlo di uno strapiombo roccioso. Il grande impegno dell’Hinderbach nell’ingentilire l’aspetto severo del Castelvecchio è confermato anche dal grande numero della sua insegna araldica, scolpita nel marmo o dipinta
Ma il castel del Buonconsiglio in generale e il “Magno palazzo” in particolare sono il regno dell’insegna araldica, o neglio delle insegne araldiche, di Bernardo Clesio. E di questo se n’ha subito un’avvisaglia dinanzi alla “porta dei Diamanti” o “porta del Giardino”, che si apre a lato del torrione hinderbachiano, dove ci coglie subito un fioritura di stemmi clesiani fuori del comune. Lo stemma clesiano ricorre dappertutto nel “Magno palazzo” , sovrasta portoni e porticine, scandisce fascioni e cornicioni, segna scale, balaustre, poggioli, sporti, lacunari, caminetti
Bernardo Clesio amava usare, e con una certa frequenza, anche altri emblemi oltre a quello di famiglia, dei quali il più noto è il fascio a sette verghe, legato da un nastro sul quale spicca la parola “Unitas”. Questo emblema, che probabilmente gli ricordava gli stretti legami d’affetto con i suoi numerosi fratelli, Clesio lo aveva in tanta considerazione da usarlo in cortei e sfilate di una certa importanza, come a Bologna quando ricevette da papa Clemente VII il cappello cardinalizio
Un terzo emblema caro a Bernardo Clesio, dopo i due leoni e il fascio di verghe, è la palma unita alla quercia. Le vediamo dipinte nell’andito di accesso alle cucine e ai bagni del Magno palazzo, un corridoio lungo e buio, illuminato però dalla mirabile decorazione pittorica del Romanino. Nelle sette crociere, lasciate a intonaco naturalem reggono la palma e la quercia clesiane, deliziosi amorini, mentre dalle lunette laterali si affacciano altrettanti busti di imperatori romani. La palma e la quercia sono scolpite anche sui capitelli delle colonne nella loggia, sotto i medaglioni con l’effige di Massimiliano d’Asburgo e dei suoi discendenti
Grande e meritoria è stata l’opera di Bernardo Clesio per il bene della regione tridentina, del suo popolo e della sua chiesa. Così la sua insegna non si trova solamente a castel del Buonconsiglio. Lo stemma del Clesio, nella sua qualità di principe vescovo, campeggia sulla muraglia della vicina porta Aquila o Aquileia, dove l’insegna dipinta è accompagnata da altri stemmi minori, fra i quali si riconoscono quelli di Francesco Castellalto e di Giorgio Firmian, amici e collaboratori del grande presule
Un altro stemma che si ripete più volte al castel del Buonconsiglio, e non solo nella “Giunta albertiana”, è quello della famiglia Alberti d’Enno che deriva dagli antichi signori di Enno o meglio di Denno, paesino della bassa val di Non. Gli Alberti d’Enno diedero al Principato vescovile tridentino due presuli: Giuseppe Vittorio (1689 – 1695) e Francesco Felice (1758 – 1762). Il principe vescovo Francesco Felice Alberti d’Enno abitò in castel del Buonconsiglio per pochi anni; ma gli bastarono, preso com’era da una incauta mania di trasformare l’opera altrui, per alterare malamente vari ambienti del “Magno palazzo”, modificazioni anacronistiche che portano tutte il suo sigillo, lo stemma della famiglia Alberti d’Enno. Eccone alcuni esempi significativi. Nella “camera del torrione de sovra” lo stemma ad intarsio degli Alberti d’Enno altera l’originale pavimento circolare commissionato da Bernardo Clesio allo Zacchi. Nella “sala grande” superbo, magnifico ambiente, lo stemma Alberti d’Enno invade il bellissimo fregio del Dossi, dove gruppi di putti si trastullano con aquile, simbolo di Trento, e i vari simboli di Bernardo Clesio
Ecco ancora lo stemma Alberti d’Enno nella famosa “libreria” di Bernardo Clesio a testimonianza della sua manomissione in due comparti, in uno dei quali, “foderato di tela a fiori turchini” Felice Francesco Alberti d’Enno aprì un caminetto di stucco, la cui parte superiore stemmata si conserva tuttora in loco
Ecco lo stemma clesiano, associato all’aquila di Trento, riempire l’ovale marmoreo che contrassegna in piazza d’Arogno la vecchia e trasandata casa del Capitolo, ora adibita a canonica del duomo
Dal quadrivio del “Canton” va verso sud via S. Pietro, anch’essa, come buona parte delle vie di Trento, ad andamento irregolare. In questo caso l’irregolarità, evidente soprattutto per la leggera gobba nel mezzo, sarebbe dovuta al sovrapporsi delle macerie del distrutto quartiere medievale “extra moenia” di “Borgo S. Pietro”
A metà circa della via sorge una delle maggiori attrattive architettoniche di Trento, l’antica casa-torre dei de Negri de S. Pietro, costruita probabilmente insieme alla torre Vanga, forse dagli stessi muratori e artigiani, per il motivo che le famiglie Vanga e de Negri erano imparentate fra loro. I de Negri di S. Pietro adornarono la loro torre con un tabernacolo alla maniera delle torri medioevali fiorentine, e lì presso costruirono una chiesetta dedicata a S. Pietro. Infatti non esiste alcun documento che attesti la preesistenza della chiesa di S. Pietro rispetto alla torre feudale dei de Negri. Nella sua veste di cotto e di pietra e con la pronunciata merlatura ghibellina, la torre svettava fin dall’inizio maestosa sopra i tetti embriciati del capoluogo tridentino, come il Dürer, uno dei massimi pittori della Rinascenza tedesca, la ritrasse in uno dei suoi rinomati acquarelli, con la città di Trento vista da nord. All’inizio del Quattrocento si registra la ribellione all’autorità principevescovile ormai da tempo in mano a presuli stranieri, poco curanti dei bisogni della popolazione, e il conseguente tentativo dell’istituzione di una repubblica trentina. Negro de Negri de S. Pietro è uno dei vessilliferi della rivolta insieme a Rodolfo Belenzani e ad altri animosi amici, e alla testa della gente assalta il palazzo vescovile gridando “Viva il popolo e el Signore e mora i traditori”. Ma una dura repressione soffocherà ben presto questo grido di libertà e la famiglia de Negri de S. Pietro dovrà lasciare la sua casa-torre. Dopo qualche tempo la casa-torre ritorna ancora in possesso dei de Negri, ma successivamente è acquistata dai Busio Castelletti di Nomi, i quali devono a loro volta cederla alla “Mensa vescovile” di Trento. Nel 1491 il nuovo proprietario, il Municipio di Trento, la destina a pubblico macello; poi, all’inizio del Cinquecento, torna nuovamente ai suoi primi padroni, ricomprata dalla famiglia de Negri da Giovanni Battista Osvaldo, che aveva sposato la figlia del ricco commerciante Antonio Zurletta, il finanziatore del celebre organo di S. Maria Maggiore.
Siamo ormai nel Cinquecento e Bernardo Clesio, con la sua grande sensibilità artistica e l’elevato senso pratico, cerca di abbellire il capoluogo tridentino in vista del grande Concilio ecumenico. In questa occasione anche la casa-torre dei de Negri de S. Pietro, così nuda nella sua veste di mattoni e di pietra, così severamente medioevale, deve cambiare aspetto. L’incarico di farle assumere una serena sembianza rinascimentale, con quell’aereo balcone marmoreo, spetta al figlio di Giovanni Battista Osvaldo, Bartolomeo, ben noto agli studiosi di antichi documenti col nome di “notarius Bartolomeus de Nigris”
La quasi millenaria presenza dei de Negri de S. Pietro nel Principato vescovile tridentino è confermata da una specie di scudetto in pietra, sul quale sono scolpiti un cerchio sostenente una croce a tre braccia e quattro lettere (DNNA), due interne e due esterne al cerchio stesso. Il significato di esse è: “Domus Nigra Navigatio Athesis”, La pietra si trovava infissa su un pilastro dell’antico ponte di Ravazzone nei pressi di Mori, ma dopo la demolizione di questo nel 1884 fu consegnata ai de Negri perchè la custodissero fra i cimeli di famiglia. Perchè sul ponte di Ravazzone? Nel 1188 il vescovo e principe Alberto I di Madruzzo investì del diritto di navigazione sul fiume Adige fino a Bolzano e del diritto di riscuotere il dazio su questo fiume Morfino di Rambaldo e una società di Mori. A questa società quali soci di maggior rilievo figuravano i Nigri de Sancto Pedro e godettero di questo feudo vescovile per quasi cent’anni. Lo perdettero per colpa dei Castelbarco
Da oltre un secolo i Negri e S. Pietro hanno portato la loro insegna araldica, antica e recente, a Calavino, nel bel palazzo che fu dei Travaglia, una delle famiglie nobiliari più note della val di Cavedine. Sul portale d’ingresso al palazzo sta infatti ancora l’antica insegna dei Travaglia, uno scudo con cuore e tre stelle, mentre nella parte superiore del cancello in ferro appaiono a colori gli stemmi abbinati dei Negri de S. Pietro e dei Brenken von Erpenburg, famiglia materna dell’unico rappresentante dei de Negri
Oggi dalle mura del palazzo di Calavino il leone simbolo de de Negri de S. Pietro sembra scrutare la non lontana rocca dei signori di Madruzzo, quasi a voler ricercare in quegli spalti maestosi e solitari la sua remota fierezza castellana, di quando vegliava su castel Muro nei Grigioni e su castel S. Pietro nell’Anaunia
Quasi di fronte alla casa-torre de Negri, c’è la chiesa di S. Pietro, la quale deve aver dato il nome all’antichissimo borgo di D. Pietro quando questo rione restava appunto, al di fuori della prima cinta urbana fortificata. La chiesa ha avuto nel corso dei secoli riedificazioni e restauri; dalla riedificazione del vescovo Hinderbach nella seconda metà del Quattrocento a quella dopo l’incendio del 1624, al restauro del 1855
Nell’interno della chiesa di S. Pietro, a tre navate, vi sono interessanti opere artistiche. Al lato destro del catino absidale è accostato il grande monumento funebre dedicato a Gaspare Wolchenstein e a sua moglie Elisabetta Longia, come è testimoniato anche dalla presenza dell’insegna araldica delle rispettive famiglie
D’epoca più recente è l’altare maggiore barocco, fatto costruire nella chiesa di S. Pietro nel 1731, dal conte Ludovico Bertolazzi, il cui stemma è scolpito su ambedue le porte
Chiesa di S. Pietro: sulla parete meridionale è applicata la lastra tombale della famiglia Ciurletti con lo stemma di famiglia. I Ciurletti sono una famiglia originaria di Dimaro, in val di Sole, che diede alla chiesa due vescovi suffraganei. Il più conosciuto è Giovanni Paolo Ciurletti, che prima di essere consacrato nel 1619 vescovo di Bibla con l’incarico di “suffraganeo” dell’allora vescovo di Salisburgo Paride Lodron, fu per un certo tempo pievano nella chiesa di S. Pietro. Il vescovo Giovanni Paolo Ciurletti possedeva una bella residenza a Villazzano, vicino alla quale fece erigere nel 1623, dotandola munificatamente, la chiesetta che va sotto il nome di “Maria V. Lauretana alla grotta di Villazzano”. Venne sepolto nel duomo di Trento
Contiguo al lato meridionale della chiesa di S. Pietro è l’Oratorio di S. Anna del primo Cinquecento. Su uno degli stipiti del suo caratteristico portale rinascimentale, che rileva la parrticolarità del gotico della chiesa di S. Pietro, è scolpito nella rossa pietra l’insegna araldica del committente, il principe vescovo Udalrico IV di Liechtenstein
Dinanzi all’abside di S. Pietro si allarga la piazzetta Anfiteatro, così chiamata perchè fin dal 1847 vi furono scoperti nei pressi cospicui resti dell’anfiteatro della Trento romanica, il quale, a forma di ellisse con cinquanta metri di asse maggiore e trentacinque di asse minore, poteva contenere perlomeno otto-diecimila spettatori. Su piazzetta dell’Anfiteatro guarda casa Ambrosi, uno dei molti edifici di Trento che conserva nascoste entro le sue mura preziose testimonianze di storia e di arte. Nell’appartamento al primo piano, l’altrio, il salone e alcune stanze sono decorate da un pregevole ciclo di affreschi di stile goticizzante, che copre lo spazio delle lunette arcuate all’attacco del soffitto a volta
I locali affrescati facevano parte di un ospizio per viandanti e pellegrini, di un lazzaretto, di un ospedale? Si potrebbe propendere per l’ultima ipotesi. Il ciclo di affreschi è di contenuto eminentemente religioso, con gli episodi più significativi della passione e morte del Salvatore, e sono illustrati da scritte in tedesco antico
Sul lato orientale di via S. Pietro, nella quinta di caseggiati fra la chiesa e Largo Carducci, si impone l’austera facciata del palazzo dei Gentilotti. La famiglia venne a Trento dalla Valcamonica all’inizio del Cinquecento, come si legge in un rogito del 1539
I Gentilotti si costruirono nella seconda metà del Seicento, in località Novaline, sulla collina di Mattarello, una stupenda villa di stile barocco, molto piacevole a vedersi e per la facciata dove s’impone il timpano con tre statue, e per l’arioso cortile di particolare effetto scenografico. Passata successivamente alla famiglia Trentini, oggi la villa ha il nome dei Gerloni
Elevata alla nobiltà nel 1592 dall’imperatore Rodolfo II, la famiglia Gentilotti fu per lungo tempo madre feconda di uomini chiari ed illustri. Sopra la volta del portale del palazzo Gentilotti uno scudo marmoreo contiene una delle figure araldiche dello stemma del casato, il giglio; le altre figure araldiche, il cavallo e la sirena, si ripetono alle finestre dei vari piani
Contiguo al palazzo Gentilotti c’è palazzo Parisi, anch’esso con un decoroso portale settecentesco. Ma mentre gli altri portali vicini hanno dovuto assumere la modesta funzione d’ingressi a negozi, il portale di casa Parisi assolve ancor oggi, solitario fra i molti portali dignitosi della via e fra i pochi dell’intera città, al suo antico compito di ingresso principale al vetusto, sobrio palazzo, dove pare che il tempo si sia fermato e faccia rivivere la vita dei secoli scorsi. Quante case della vecchia Trento hanno conservato così bene come palazzo Parisi la loro primaria identità, con i pavimenti magnificamente intarsiati, i sontuosi soffitti impreziositi di grottesche e dipinti, le varie suppellettili e i mobili fatti e disposti con un gusto irripetibile? Un tempo si trovava in palazzo Parisi una preziosa raccolta di quadri: la piccola pinacoteca privata poteva essere anche visitata, dietro richiesta e il versamento di una certa somma in denaro, da associazioni culturali, scolaresche, autorità e gruppi di cittadini.
Quasi di fronte alla polverosa facciata di palazzo Parisi sogghigna il mascherone di pietra dell’alto e solenne portale del palazzo costruito dalla nobile famiglia Mersi
Fa angolo con via Carducci una possente costruzione dalla gronda fortemente sporgente. Abbellisce la sua nuda parete meridionale un orologio solare, ornato di pitture
La facciata verso via S. Pietro è impreziosita invece da un artistico portale, sul quale corre una cordonatura a sagoma prismatica, interrotta da capitelli compositi
L’ampia chiave di volta del portale è decorata di uno stemma gentilizio che mostra scolpito in un piacevole scudetto a cartoccio un volatile, tenente nel becco un ramoscello e posto sopra tre gobbe che dovrebbero rappresentare una montagna di tre cime. Sulla destra e la sinistra del volatile sono incise rispettivamente le lettere M. e B. La B dovrebbe essere l’iniziale del nome Benetti, dato che l’alto caseggiato è oggi conosciuto con questo nome
Largo Carducci è, oggi come una volta, uno dei punti più pittoreschi, frequentati ed animati in ogni ora della giornata
Nella sua parte occidentale, chiamata anticamente “piazza del Macello o delle Beccherie” per la presenza del vicino macello pubblico e di numerose macellerie, si impone la maestosa facciata principale del palazzo eretto nella seconda metà del Seicento dalla famiglia Bertolazzi
Dalla facciata principale del palazzo Bertolazzi si entrava nel cortile interno per un bel portale, affiancato da cariatidi a sostegno del balcone sovrastante. Il cortile è stato trasformato in un ristorante birreria dal nome caratteristico “Ai due giganti”, derivato dalle due cariatidi che insieme al barocco portale ne adornano le sale interne. Fra i vari locali di palazzo Bertolazzi si distingue il salone dove ha sede la Sosat, le cui pareti completamente affrescate, sono intervallate da riquadri dove sono raffigurati i vari possedimenti e le ville della famiglia Bertolazzi. Adorne di stucchi a basso e altorilievo le sale del piano terra
Nella sala occupata oggi dal calzaturificio Conforti sono modellati nello stucco lo stemma dei Bertolazzi (figura araldica principale: una cicogna che solleva con la zampa sinistra un sasso) e di tre famiglie imparentate. Qui i Sardagna (figura araldica principale: la rupe e la cascata di Sardagna)
I Giovanelli. Figura araldica principale: una barchetta a vela contenente due giovinetti affrontati
I Cazuffi : figura araldica, una fascia ondulata
Fra le ville dei Bertolazzi era degna di menzione soprattutto quella dell’Acquaviva, ancora in discreto stato di conservazione, nonostante l’offesa dell’attraversamento della strada nazionale
La cicogna modellata nello stucco appare anche nell’atrio dell’ingresso secondario di via Malpaga. La cicogna, emblema dei Bertolazzi, era scolpita prima della rivoluzione francese sulla facciata principale del palazzo, accanto ad un delizioso poggiolo marmoreo rinascimentale. I Bertolazzi erano una famiglia di mercanti arrivati a Trento da Cornuda di Asolo nel Trevigiano, sul finire del Cinquecento. Ottenuto nel 1650 il titolo di nobiltà imperiale, ed elevati all’inizio del Settecento anche alla dignità comitale con i predicati di “Vattardorf” e “Brunnendorf”, i Bertolazzi profusero molto denaro nell’attività edilizia, costruendo, riedificando e abbellendo palazzi in città e ville nel contado
Chi voglia vedere una sequenza di stemmi Bertolazzi deve recarsi a Vattaro: anzitutto nel caseggiato principale dell’antico complesso vilelreccio ora adibito a Municipio. Poi nella chiesetta di S. Rocco, un tempo ai margini della cinta della villa, dove lo stemma Bertolazzi è scolpito sul portale esterno, e all’interno sulla cimasa dell’altare maggiore
Sul lato di Largo Carducci attira l’attenzione la facciata barocca del palazzetto Valentini, ingentilita da una serie di finestre con cimase di diversa e pregevole fattura. Che si tratti della famiglia Valentini, divisa secondo lo storico Festi in due linee genealogiche, una nobilitata nel 1696 e l’altra nel 1760? I Valentini, insigniti del predicato di “Weinfeld” avevano a Calliano un palazzetto sul qualche spicca ancor oggi l’insegna araldica del casato
Nella parte orientale di Largo Carducci, fra via S. Pietro e via degli Orbi, c’è la vecchia “casa delle Poste” ricostruita in epoca barocca e adibita fin dagli inizi del Cinquecento e oltre il Settecento, dalla nobile famiglia Taxis de Borgogna a sede del suo servizio postale cioè “sede delle poste taxiane”. Lo attesta, sopra il portale di austera classicità, una piccola lastra marmorea segnata da due trombette, insegna del postiglione, dallo stemma dei Taxis e da una scritta
I Taxis erano una famiglia bergamasca proprietaria di vasti possedimenti nelle località di Borgogna e Valnigra nelle vicinanze di Bergamo e in Val Brembana. Agli inizi del Cinquecento si trasferirono a Trento, e nel Trentino organizzarono come avevano già fatto nel Bergamasco fin dal Trecento, un servizio postale che, per la sua particolare efficacia, si estese successivamente dall’Italia a tutta l’Europa. La licenza ottenuta dalla casa imperiale di esercitare il servizio postale lungo la Val d’Adige, permise loro di sbrigare il delicato incarico del sollecito recapito della corrispondenza fra Trento e tante altre città, in special modo Roma, durante il grande e lungo Concilio ecumenico tridentino affollato di tante personalità religiose e politiche. Lo stemma primitivo dei Taxis de Borgogna, dal campo dello scudo azzurro al tasso d’argento, intendeva alludere alle vaste proprietà della famiglia vicino al monte Tasso nel Bergamasco. In seguito, presumibilmente in riconoscenza dei favori imperiali per la loro attività postale, i Taxis introdussero nello stemma anche l’aquila bicipite degli Asburgo. Questa insegna la ritroviamo sul bellissimo superstite portale della sontuosa villa che i Taxis possedevano nei dintorni di Villazzano
Palazzo Firmian conserva ancora all’interno qualche traccia del suo antico decoro: volte a stucchi fastosi, caminetti stemmati, mobili, pitture. Degno di particolare menzione è il salone dalle lunette affrescate con il ciclo dei mesi
I caminetti di palazzo Firmian sono fra i più belli di quanti è dato di vedere negli antichi palazzi di Trento. L’ampio camino che un tempo stava nel salone centrale sul lato di via S. Maria Maddalena, e che ora si trova in un altro salone del primo piano, è adorno degli stemmi di Uldarico Firmian e della contessa Elisabetta Sulzer, bavarese: i due stemmi abbinati ricordano il loro matrimonio avvenuto nel 1510
Nel salone del primo piano, di fronte al camino con gli stemmi Firmian e Sulzer, è conservato un mobile di squisita fattura con figure e riquadri scolpiti nel legno a basso ed altorilievo
Nel salone del primo piano, di fronte al camino con gli stemmi Firmian e Sulzer, è conservato un mobile di squisita fattura con figure e riquadri scolpiti nel legno a basso ed altorilievo
Alla sommità del mobile si impone uno stemma, dal campo dello scudo “partito” a due leoni rampanti, nel quale si riconosce l’insegna araldica del casato dei de Cles. Il camino al pianterreno contiene lo stemma dei Firmian abbinato a quello dei Castelcorno del ramo Liechtenstein-Schenna. I Liechtenstein di Bolzano diedero al Principato vescovile tridentino Uldarico IV, il quale sedette sulla cattedra di San Vigilio dal 1493 al 1505. I Schenna erano signori di castel Scena a nord di Merano. Quando si estinsero nel 1346, castel Scena passò in varie mani, fra cui quella dei Liechtenstein, che nel 1700 lo ricostruirono dandogli la forma attuale. I signori di Liechtenstein unirono così il loro stemma avito a quello dei Schenna. Il principe vescovo Udalrico IV di Liechtenstein concesse il feudo di Castelcorno, la rocca inaccessibile su uno sperone roccioso della Vallagarina nei pressi di Lizzana, alla sua famiglia, alla quale appartenne fino a metà del Settecento
Al limite orientale di Largo Carducci, con la facciata principale in via Galilei e la secondaria in via S. Maria Maddalena, predomina il maestoso palazzo che fu dei Firmian. I Firmian sono una antichissima famiglia che fin dal Mille aveva la propria sede in un vasto maniero addossato agli speroni rocciosi della collina a sud di Bolzano, al quale diede il nome, ancor oggi celebre di castel Firmiano, che ebbe successivamente la dizione tedesca di “schloss Sigmundskron”. Il capostipite dei Firmian può essere considerato un cavaliere di nome Leopoldo, inviato nel 933 dall’imperatore Enrico I a combattere contro gli infedeli: il viaggio in Terrasanta avrebbe poi influenzato l’insegna araldica del casato con l’introduzione della mezzaluna, simbolo dell’Islam. Nel 1480 Nicolò Firmian, capitano vescovile della val di Non, sposa Dorotea Kronmetz, ultima discendente dei castellani della “Corona de Mezo” sopra Mezzocorona. Così all’antico stemma Firmian è abbinato quello degli estinti signori di Kronmetz, dal campo dello scudo al corno di cervo con le ramificazioni “caricate” in pinta da altrettante stelle. Il personaggio più noto del casato è certamente Carlo Giovanni Firmian nato a Trento nel palazzo di via Carducci all’inizio del Settecento, uomo di grande cultura e talento, tanto da essere nominato governatore austriaco della Lombardia. Altri Firmian si distinsero durante il Settecento, e specialmente nel campo ecclesiastico: Leopoldo Antonio, ad esempio, fu dal 1727 al 1744 principe vescovo di Salisburgo. Palazzo Firmian venne destinato nel 1896 a sede della “Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto”, che lo fece restaurare
Nella parte alta di Largo Carducci abitavano anche i Rovereti, famiglia di Rovereto stabilitasi a Trento sul finire del Quattrocento, il cui personaggio più noto è certamente Ottaviano Rovereti, pure lui, come Giulio Alessandrini, uno dei medici più illustri della Trento cinquecentesco. Ottaviano Rovereti, nato nel 1555, studiò a Padova ed esercitò la professione a Venezia dove si fece altamente apprezzare per le sue doti di uomo e studioso. La Serenissima lo assegnò in Egitto all’importante consolato del Cairo; di qui Ottaviano Rovereti si recò a Costantinopoli per studiare le manifestazioni della peste, e successivamente in Palestina presso i francescani custodi della Terra Santa. Essi grati lo elevarono alla dignità di “cavaliere gerosolimitano”, titolo ambito perfino da sovrani ed imperatori, che si aggiunse ai vari altri riconoscimenti della Repubblica di Venezia. L’emblema dei Rovereti, un albero di rovere, è egregiamente scolpito su una lastra tombale all’interno della chiesetta di S. Bartolomeo, nelle cui vicinanze anche questa famiglia aveva casa e terreni
Nel lussuoso palazzo Firmian di via Galilei abitò per lungo tempo la famiglia Altenburger, oriunda di Rottenberger nel Tirolo, trasferitasi a Trento verso la fine del Cinquecento. E’ una Altenburger trentina pure la nota attrice cinematografica Alida Altenburger, in arte Alida Valli, una delle più brave dive del cinema italiano. Gli Altenburger si fregiavano di uno stemma inquartato che univa nel campo dello scudo figure araldiche usuali come il leone dalla coda bifida, la montagna e la palma, a figure araldiche davvero singolari come il pesce cefalo e la pietra miliare. Questo stemma si può ancora vedere nell’antico borgo di Martignano che conserva tuttora, fra la generale ed avvilente degradazione dell’ambiente, quasi intatto un lembo del suo antico decoro, con la casa villereccia della famiglia Altenburger e l’attigua chiesetta dedicata a S. Isidoro. La villa rustica ha ancora qualche elemento cinquecentesco come la monofora in pietra rossa; e sul portale della secentesca chiesa campeggia lo stemma marmoreo degli Altenburger