a cura di Cornelio Galas
L’azione giudiziaria condotta nel dopoguerra dalle Corti d’assise straordinarie contro collaborazionisti e fascisti fallì per una serie molteplice di ragioni. Nel «caso trentino», si può distinguere tra motivazioni di carattere «endogeno» ed «esogeno». Si è già visto come i giudizi emessi dalla CAS di Trento fossero influenzati, entro un certo limite, sia dal «moderatismo» delle giurie popolari sia dalla presenza maggioritaria di avvocati difensori democristiani.
Un’ulteriore «variabile» fu il costante «frazionamento» dei procedimenti giudiziari. In altre parole, la CAS di Trento trattò e giudicò separatamente in processi diversi e tenuti a distanza di tempo l’uno dall’altro crimini che risalivano a determinati episodi.
In relazione all’eccidio del 28 giugno, ad esempio, furono istruiti ben dieci procedimenti differenti soppesando quasi singolarmente l’effettiva colpevolezza o meno dei soggetti coinvolti.
Per avere un quadro più preciso e definitivo sui fatti e sui responsabili, sarebbe stato utile considerare globalmente tutto il materiale probatorio e le testimonianze relative alla strage chiamando a risponderne tutti quelli che, a vario titolo, erano stati implicati nella vicenda.
Un unico processo sarebbe riuscito a porre in evidenza i vari livelli di responsabilità. In questo modo, sarebbero emerse più facilmente le complicità tra fascisti, spie, informatori e organi di sicurezza tedeschi, anche se non sarebbe stato possibile chiamare a deporre quegli ufficiali della Gestapo e delle SS che, in quanto cittadini tedeschi, non potevano essere estradati in Italia.
Un singolo processo avrebbe potuto rivelare metodi, strumenti, obbiettivi e connivenze impiegate dalle autorità di sicurezza tedesche in quel frangente. Sarebbe stato in grado di mettere l’uno di fronte all’altro, quasi in un confronto all’americana, i delatori e gli esecutori materiali degli omicidi con gli ufficiali nazisti – ad esempio, gli altoatesini Amorth e Hölzl.
Un procedimento condotto in maniera unitaria e organica avrebbe potuto chiarire in maniera decisiva le reali responsabilità di ogni imputato e infliggere forse condanne più severe. Al contrario, quel frazionamento che contraddistinse i processi relativi all’eccidio del 28 giugno 1944 caratterizzò anche gli altri.
Essendo stato il collaborazionismo trentino, come si è appurato, un fenomeno eminentemente territoriale, corrispondente cioè a determinate zone della provincia, sarebbe stato conveniente accorpare i vari crimini compiuti in una determinata area attraverso uno sguardo d’insieme.
In assenza di prove documentate scritte, ciò avrebbe permesso di utilizzare le deposizioni di vittime e testimoni in maniera più efficace e produttiva per le giurie chiamate a giudicare. L’anello più debole dell’attività giudiziaria della CAS trentina fu proprio l’insufficiente documentazione a disposizione.
Il questore Pizzuto osservava che «il blando andamento dei processi politici trentini [era] dovuto […] alla sommarietà delle istruttorie e delle denunce». Tale difetto era così evidente che la mancanza di «elementi probatori» comprometteva l’emissione di «esemplari condanne».
La conseguenza più stupefacente di questa fragilità oggettiva era che, in alcune occasioni, comparvero dinnanzi alla CAS partigiani e membri della Resistenza accusati per reati di collaborazionismo! Sebbene alla fine fossero prosciolti, si faceva strada nell’opinione pubblica l’impressione di un’azione giudiziaria debole e incompetente soprattutto nella fase preparatoria, di acquisizione delle prove.
All’assenza o debolezza delle prove a carico dei collaborazionisti, si univa spesso l’intromissione di «pseudo partigiani» che, intervenendo alle udienze, testimoniavano a favore degli imputati «provocando con le loro deposizioni un capovolgimento totale della situazione processuale e la conseguente assoluzione o notevole diminuzione della pena».
Si prenda ad esempio il processo contro il partigiano Renato Bandinelli, accusato di aver segnalato alle autorità tedesche un dirigente della Società aerea Caproni. In realtà, l’uomo era stato denunciato per il comportamento assunto nello stabilimento nei confronti degli operai e perché ostacolava l’«opera sabotatrice» di Bandinelli.
Ciò che influì in modo determinante nella severità o meno delle condanne emesse fu l’atteggiamento del presidente della Corte. A quest’ultimo spettava la decisione di concedere o meno le attenuanti generiche che, come si è visto, contribuivano a limitare la condanna in prima istanza. Come se non bastasse, in molti casi intervenne modificando l’articolo del reato previsto dal CPMG.
Se l’art. 51, «aiuto al nemico nelle sue operazioni militari», poteva giungere ad infliggere nei casi più gravi la pena di morte, l’art. 58, «aiuto al nemico nei suoi disegni politici», poteva sanzionare una pena compresa tra i dieci e i 20 anni di reclusione. Sostituire l’art. 51 con l’art. 58 nel corso di un procedimento significava quindi ridurre drasticamente la potenziale condanna.
Tale intervento trova riscontro, peraltro, nelle sentenze della CAS di Belluno dove, degradare gli art. 51 o 54 all’art. 58, rappresentò «una facile ed incruenta via d’uscita per imputati di rilevante spessore collaborazionistico». L’orientamento di chi presiedeva la giuria doveva risultare decisivo.
Sebbene composta da quattro giudici popolari, l’ultima parola spettava al presidente che aveva la possibilità di redigere una «sentenza ‹suicida›» atta a provocare l’«annullamento» da parte della Corte di cassazione «per contraddizione fra motivazione e dispositivo».
Anche nell’ambito della magistratura ordinaria, d’altra parte, operavano e risultavano evidenti forse più che in ogni altro settore le deficienze di un mancato rinnovamento di strutture ed apparati dello Stato. La magistratura non era stata epurata e «l’ambiguità e l’incoerenza delle sentenze» dimostravano che la questione rivestiva un ruolo fondamentale nell’insuccesso della giustizia antifascista.
Era inevitabile che un personale giudiziario compromesso con il passato regime fascista non potesse garantire l’equilibrio necessario a giudicare i reati di collaborazionismo. Gran parte dei giudici del Ventennio che avevano attraversato senza conseguenze il momento transitorio tra fascismo e democrazia furono gli stessi che si trovarono a giudicare i fascisti/collaborazionisti.
Inoltre, il mancato allontanamento del personale compromesso con il passato regime fu accompagnato dalla «mitizzazione – del tutto ideologica – dell’apoliticità e del ruolo tecnico del giudice». Ciò che si evidenziava era la pressoché totale continuità del potere statale non solo negli uomini ma pure nell’ordinamento giudiziario-culturale fascista.
A questi elementi, si sommarono la troppo frequente emanazione di leggi, disposizioni, circolari e direttive che contribuirono a rendere ancor più caotica l’assunzione di procedure chiare ed univoche nei giudizi. Già il DLL 22 aprile 1945 che stabiliva la costituzione delle CAS ne comprometteva l’attività sin dall’inizio.
Rispetto alle disposizioni del CLNAI che prefiguravano la creazione di Corti d’assise del popolo, il decreto legge governativo sottopose le CAS al controllo della magistratura ordinaria, a professionisti del diritto cresciuti e formatisi nel fascismo.
Inoltre, mentre il CLNAI aveva negato qualsiasi tipo di appello, il decreto emanato dal governo di Roma concesse la possibilità di ricorrere in Cassazione. Nonostante questi dispositivi, in linea generale, la classe giudiziaria mostrò comunque una certa insofferenza nei confronti degli organi di giudizio politici inaugurati a livello centrale.
Una posizione che, peraltro, era condivisa dalle forze politiche moderate che miravano a chiudere nel più breve tempo possibile i conti con il passato. Contemporaneamente, i deboli risultati raggiunti dalle CAS furono sottoposti sulla stampa al fuoco di fila «degli ambienti antifascisti più radicali per i quali […] l’azione repressiva delle CAS, e della magistratura in generale, si dimostrava troppo ‹tenera› e indulgente».
Ciò che emergeva era, in realtà, la volontà di risolvere definitivamente la questione. A Roma, lo spostamento dell’asse governativo verso posizioni moderate e conservatrici indicava il lento ma irreversibile profilarsi di soluzioni tese a ridurre ulteriormente l’attività delle CAS svuotandole del loro significato.
Considerato che la mole di procedimenti avviati e in corso era tale da non permetterne la soppressione, il DLL 5 ottobre 1945, n. 625, trasformò le CAS in Sezioni speciali delle Corti d’assise ordinarie. Perdendo l’iniziale carattere di straordinarietà, i processi rientravano sotto la supervisione «normale» degli organi giudiziari «tradizionali».
Nell’aprile 1946, un altro decreto (DLL 12 aprile 1946, n. 201) modificò in maniera pressoché definitiva le stesse Sezioni speciali. Il presidente togato fu affiancato da un altro magistrato, mentre il numero dei giudici popolari salì da quattro a cinque. Di fatto, «la giuria popolare […] fu sottratta al controllo esclusivo dei Comitati di liberazione» ed il peso della magistratura divenne preponderante.
Lo svuotamento di organi e dispositivi di legge andava di pari passo a quella «normalizzazione istituzionale» condotta principalmente dal primo governo De Gasperi, sostenuta dagli ambienti conservatori e dagli apparati burocratici.
La sensazione che si volesse chiudere i conti con il fascismo al più presto si era resa evidente già nel dicembre 1945. Su Liberazione nazionale, Attilio Teglio aveva lanciato un grido d’allarme invitando la classe politica a riflettere sulle conseguenze negative di una troppo affrettata smobilitazione della giustizia antifascista e sulla concessione di un perdono inopportuno.
“Crediamo sia troppo presto parlare di perdono – e soprattutto di concederlo – ai nemici di ieri e di oggi. […] Si vorrebbe che si desse un frego sul passato, che non si parlasse più di epurazione, che non si istruissero più processi contro i delinquenti politici, che una larga amnistia rimettesse magari in circolazione i superstiti delle bande nere [Brigate nere] che commisero orrendi delitti, che si aprissero le porte delle prigioni a coloro che non hanno ancora avuto, dal di fuori, aiuti sufficienti per aprirsele, da soli, dal di dentro”.
Il crollo del fascismo, avvenuto nel luglio 1943, non era stato seguito da un rapido ed efficace giudizio delle responsabilità oggettive ed individuali. Al momento della cattura di Mussolini, i fascisti si erano dileguati diventando «agnelli» o scantonando «per non farsi vedere, per farsi dimenticare».
L’armistizio del 9 settembre aveva consentito loro di serrare le fila nell’ultima, tragica avventura della RSI. Ora che il conflitto era concluso, condannare severamente coloro che avevano contribuito a quell’esperienza avrebbe costituito l’irripetibile opportunità d’impedire agli ex fascisti di riprendere «nei diversi settori della vita, le leve di comando, cacciando i benemeriti che combatterono e soffrirono per la causa della libertà».
A rendere necessario, tuttavia, un indulto di carattere generale contribuivano anche deficienze di natura strutturale. Il sistema carcerario, reso fragile dalla distruzioni belliche, non era in grado di sostenere un alto numero di detenuti. Considerato l’afflusso consistente di delinquenti politici e comuni, le strutture carcerarie evidenziavano in quel secondo dopoguerra «tutti i loro limiti».
La debolezza ed inefficienza delle prigioni «costituivano l’anello finale di un processo che aveva nel cattivo funzionamento degli altri apparati dello Stato (forze dell’ordine, giustizia) le premesse negative alla lievitazione dei problemi».
«Una misura di clemenza», come ha osservato Mimmo Franzinelli, era d’obbligo per «sfoltire il numero dei reclusi» e «per esigenze di sicurezza». Sulla stampa locale, la questione non fu affrontata in questi termini. Al contrario, numerose furono le proteste da parte degli ex detenuti antifascisti e dei partiti di sinistra sul trattamento di favore concesso dal personale del carcere di Trento a fascisti e collaborazionisti.
«Notizie ben fondate e facilmente controllabili» attestavano che i carcerati vivevano «nel mondo dell’abbondanza» e «che i colloqui con i famigliari» erano «assai frequenti se non giornalieri». Corrompendo le guardie, i detenuti riuscivano ad ottenere tutto quello che desideravano da organici che non erano stati sostituiti ed erano gli stessi che avevano ricoperto tali mansioni durante il fascismo e l’occupazione tedesca.
A livello nazionale, il problema delle condizioni carcerarie era un’arma nelle mani dei critici delle sanzioni nonostante fosse evidente che la concessione della grazia sarebbe dipesa in maniera decisiva da ragioni politiche.
Si faceva strada anche tra i partiti di sinistra la necessità di pacificare il Paese dopo le distruzioni morali e materiali del conflitto ed il trauma della guerra civile. In questo contesto, il ruolo svolto dal PCI fu ambiguo. Nonostante il Partito ed i suoi esponenti di spicco avessero sempre sostenuto la necessità di severe sanzioni, col passare dei mesi l’atteggiamento divenne più morbido.
Alla strategia di unità nazionale adottata da Togliatti dopo il suo rientro in Italia nel 1944, si unì una condotta più pragmatica diretta a recuperare al PCI anche coloro che, durante la dittatura, «non avevano avuto altra possibilità di scelta politica che quella del PNF». Un ragionamento che, peraltro, era condiviso dagli altri partiti di massa, DC e PSIUP.
Le pressioni che emergevano da una parte consistente della società su una soluzione definitiva della questione incontrarono così il favore del ministro di grazia e giustizia del primo governo De Gasperi, Palmiro Togliatti. All’avvento della Repubblica (2 giugno 1946) e per festeggiarne la nascita, questi, d’accordo con il governo, emanò il Decreto presidenziale 22 giugno 1946.
Il dispositivo approvato, più noto come amnistia Togliatti, concedeva la grazia e sostanziali sconti di pena a coloro che si trovavano in carcere per reati comuni, militari e politici compiuti all’indomani dell’8 settembre 1943.
È storiograficamente condiviso che il decreto d’amnistia fu mal congegnato dal punto di vista tecnico permettendo alla magistratura così «ampi spazi interpretativi» da condurre al fallimento gran parte dell’attività giudiziaria condotta dalle CAS e dalle Sezioni speciali.
L’amnistia fu applicata immediatamente e, a partire dal luglio 1946, le porte delle prigioni si spalancarono per la maggior parte dei fascisti incarcerati. Non si trattò di scarcerare solo i gregari della RSI o i collaborazionisti di minore spessore, ma l’indulto giunse a porre in libertà anche i personaggi più noti.
Le ripercussioni del provvedimento furono immediate. Togliatti fu criticato da una parte dell’opinione pubblica e dalla stessa base del PCI. Sull’altare della pacificazione nazionale il ministro comunista sacrificò di fatto i «sentimenti» di militanti e partigiani dimostrando di non comprendere effettivamente «la profondità delle ferite umane, morali e psicologiche della guerra civile 1943-1945 e i loro strascichi».
Anche l’opinione pubblica trentina si occupò del decreto d’indulto. A Trento, «quasi tutti i cinquanta detenuti per reati di collaborazionismo» riacquistarono la libertà, «scarcerati mano a mano che gli ordini della sezione speciale della Corte d’assise [furono] inoltrati al direttore delle carceri».
Entro pochi giorni «tutti i detenuti politici, condannati in base agli articoli del codice penale militare di guerra» sarebbero rientrati nella vita civile. Tra coloro che usufruirono dell’amnistia fin dall’inizio ci furono Mario Paoli, Italo Lunelli e Guglielmo Panzer.
Carlo De Stefani commentò amaramente il significato e la portata «politica» del decreto emanato a Roma. L’esponente socialista demoliva fin da subito la «tesi troppo astratta della generosità del popolo italiano». L’amnistia era apparentemente il risultato di una valutazione di natura «politica» che aveva ritenuto opportuno liberare decine di ex fascisti.
In realtà, era «ancora la sostanza antidemocratica del vecchio stato italiano e della sua struttura» a determinare l’esito di «questi atti politici», era «l’antidemocrazia appaiata al malcostume politico». I partiti e le forze di sinistra fino al referendum istituzionale del 2 giugno avevano condotto un’aspra battaglia politica affinché giustizia fosse fatto e l’organismo nazionale depurato dalle scorie del passato regime.
Secondo i dati riportati da Franzinelli furono amnistiate oltre 219 mila persone condannate per reati comuni, più di 7.000 fascisti furono posti in libertà assieme ad altri 2.202 condannati politici. Coloro che non furono amnistiati immediatamente, uscirono di prigione grazie all’intervento della Cassazione nel corso dei mesi successivi.
Per De Stefani, la verità era un’altra. La repubblica era nata «vitale». Tuttavia, essa era una creatura ancora «gracile» che necessitava di «assidue cure e difese», considerato «che troppi consiglieri della monarchia [erano] oggi i medici della giovinetta repubblica».
Del resto, «le stesse contrastate vicende che [avevano] accompagnato la nascita della repubblica», se da una parte evidenziavano il valore dell’«affermazione popolare», dall’altra dovevano evitare «eccessivi ottimismi» proprio perché si trattava di «creare una nuova struttura dello stato».
Nessun dubbio che quelle classi o caste che furono largamente risparmiate da una parodia di epurazione ed ora stanno per essere riabilitate in toto, se appena riescano a mettere nella nuova costituzione il veleno disintegrato del loro passatismo, saranno domani i mastini d’una repubblica addomesticata ai loro voleri e interessi.
Quella di De Stefani era senz’altro una riflessione acuta che sottolineava sia i difetti sia i pericoli di un perdono prematuro di fronte ad uno Stato repubblicano ancora fragile e imperfetto. Ancora una volta, tuttavia, gli esponenti di sinistra commettevano un fondamentale errore di valutazione politica. Il deus ex machina dell’amnistia e della fallimentare epurazione non erano i circoli di potere vicini alla monarchia.
Altri erano i mandanti dell’azione demolitrice e restauratrice, gli apparati e le amministrazioni dello Stato non epurate e soprattutto le forze politiche moderate guidate dalla DC che non dimostrarono alcun interesse nel condurre un deciso e decisivo rinnovamento complessivo dello Stato italiano.
Il dato più preoccupante era l’emergere di un senso reale di sconfitta. Secondo Egidio Bacchi, si correva il rischio di vedere presto o tardi lo stesso «antifascismo alla sbarra». La delusione per ciò che accadeva in Italia era un sentimento quasi tangibile. Si avvertiva la sensazione di una forza etica e morale in ripiegamento su sé stessa e sulle spalle degli antifascisti andava «addensandosi […] la responsabilità di tutte le nostre presenti sciagure».
La concessione dell’amnistia e soprattutto la sua applicazione metodica ebbero immediate ripercussioni sull’ordine pubblico, risvegliando nella coscienza popolare e negli ambienti partigiani una «forte ondata di risentimento».
Nei mesi precedenti, i partigiani avevano assistito al naufragio degli organismi nati dalla Resistenza, i CLN, la cui soppressione aveva rappresentato parallelamente la continuità degli apparati di gestione e controllo tradizionali. Non vi erano state rotture evidenti con il passato e, dopo poco tempo, erano ritornati i funzionari di carriera che avevano ricoperto gli stessi incarichi negli anni precedenti.
L’epurazione si era risolta in un fallimento. L’amnistia, concessa per di più dal leader del Partito comunista, e la clamorosa scarcerazione di fascisti e collaborazionisti, colpevoli di vari crimini ed efferatezze, rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso.
Nell’estate del 1946, gruppi di partigiani ritornarono in montagna in numerose zone dell’Italia settentrionale, nei luoghi in cui il movimento partigiano era stato più forte ed attivo. Ad esempio, nel Veronese, ai confini meridionali della provincia di Trento, circa 300 partigiani salirono nell’alta vallata dell’Alpone, dove avevano operato durante la lotta di liberazione.
In Trentino, al contrario, non si verificò alcun episodio di tal genere nonostante fossero circolate voci di un’effettiva e solidale adesione ai fermenti in atto nelle province vicine. L’azione dei partigiani trentini si limitò così ad alcuni articoli di protesta apparsi sulla stampa e l’ANPI intervenne invitando i propri iscritti a non cedere alle provocazioni.
L’amnistia produsse effetti sia sul breve sia sul lungo periodo. A partire dal luglio 1946, i processi tenutisi dalle Sezioni speciali furono contrassegnati dall’applicazione dell’indulto, dall’estinzione dei reati in istruttoria e nel corso dei procedimenti, oltre che a sensibili riduzioni e sconti di pena. La possibilità del ricorso presso la Corte di cassazione fornì agli imputati l’opportunità di sfuggire all’eventuale condanna.
La Corte suprema, passata indenne attraverso le maglie dell’epurazione, iniziò una vera e propria opera di demolizione delle sentenze prodotte in primo grado. Nel corso del fascismo, il ruolo di quest’organismo giudiziario era stato notevolmente rafforzato.
Nell’immediato secondo dopoguerra, la Cassazione raggiunse la sua massima influenza. Secondo Guarnieri, all’indomani della liberazione, i magistrati di Cassazione non sembravano avere pregiudizi di sorta nei confronti del nuovo regime democratico. Piuttosto, si mostrò in maniera evidente la capacità di adattamento alle mutevoli condizioni della situazione politica italiana.
Caduto il governo Parri, spentosi il vento del nord e la prospettiva di un mutamento reale delle condizioni sociali e politiche, la Corte suprema assecondò di fatto l’instaurarsi di un regime di governo moderato-conservatore, ostile a qualsiasi svolta politica radicale. Soprattutto, essa riuscì ad approfittare della crisi dell’antifascismo che ormai si profilava all’orizzonte e della rottura del patto d’unità d’azione che, nel corso della lotta di liberazione e fino al 1946, aveva tenuto assieme forze politiche eterogenee.
La vittoria elettorale conseguita dalla DC nel giugno 1946 aveva stabilito quali erano i rapporti di forza reali nella società e tra i partiti politici e quale sarebbe stata la formazione politica di riferimento a cui delegare la guida del Paese.
Il biennio successivo 1947-1948, inoltre, avrebbe visto un «cambiamento radicale della classe politica uscita dalla Resistenza e dalla lotta antifascista» con la fuoriuscita dei socialcomunisti dalla compagine governativa.
Recuperata dopo le vicende belliche una posizione istituzionale di rilievo, il massimo organo giudiziario approfittò delle mutate condizioni politiche e dell’amnistia per esautorare, tra il 1946 e il 1947, i giudizi di prima istanza annullandoli per difetti di motivazione, rinviandoli ad altre Corti o applicando direttamente il decreto d’indulto.
All’amnistia Togliatti seguirono altri provvedimenti di clemenza come il Decreto del Presidente della repubblica (DPR) 9 febbraio 1948, n. 32, ed il DPR 23 dicembre 1949, n. 930, che contribuirono ulteriormente ad attenuare o estinguere le condanne inflitte. Altri condoni furono concessi nel 1953 e nel 1959 ma, come ricordano Borghi e Reberschegg, «in carcere ormai non c’era più nessuno».
Ciò che accadde in Italia non ebbe riscontri in nessun altro Paese europeo interessato dal fenomeno collaborazionista. In Francia, Belgio, Olanda, Norvegia, Danimarca, perfino in Austria, il dopoguerra fu caratterizzato dalla volontà di punire coloro che avevano collaborato con i tedeschi e tradito in qualsiasi modo la propria patria.
In linea generale, come ha rilevato per il caso belga e non solo, «the prosecutions became one of the central means by which Europeans societies debated not only their past failings but also their future character».
Anche nel resto del continente si permise agli ex traditori/collaborazionisti di rientrare nel seno della comunità nazionale ma non così presto come in Italia. Secondo Franzinelli, al periodo 1945-1950, caratterizzato dall’espulsione e dalla sanzione penale nei confronti dei colpevoli, seguì una fase successiva (1950-1955) contraddistinta dalla graduale reintegrazione.
Dalla documentazione giudiziaria a disposizione, dei 58 condannati a varie pene detentive dalla Corte di Trento, tra il 1945 e il 1947, ben 38 furono amnistiati direttamente in primo grado o successivamente dalla Corte di cassazione tra il 1946 e il 1947.
Strideva con il contesto europeo la concessione in Italia di un’amnistia generalizzata «a meno di 14 mesi dalla liberazione» e la successiva «riabilitazione» degli ex fascisti.
Era evidente che, nel quadro politico italiano, le nuove classi dirigenti non pensarono assolutamente al futuro del Paese ma si preoccuparono di mantenere la «continuità» in uomini e apparati rispetto al passato. Come se ciò non bastasse, il fallimento della giustizia antifascista fu accompagnato quasi contemporaneamente dalla persecuzione dei partigiani e da un vero e proprio «processo alla Resistenza».
Il profilarsi all’orizzonte della guerra fredda, la cacciata dei socialcomunisti dal governo e la divisione del Paese in due blocchi ideologici contrapposti furono seguiti dall’«accanimento giudiziario» nei confronti degli ex partigiani.
Forte del sostegno governativo, la magistratura cominciò a perseguire «i reati addebitati ad esponenti del movimento resistenziale applicando le norme del diritto penale comune, senza tenere conto della ‹portata rivoluzionaria o quantomeno eccezionale della guerra di Liberazione›». Ma di questo approfondiremo le vicende trentine nella prossima puntata.