a cura di Cornelio Galas
Relazione di Giuseppe Bottai
per Benito Mussolini
su come strutturare la pace
- i documenti raccolti da Enzo Antonio Cicchino
CHI ERA GIUSEPPE BOTTAI ?
20 luglio 1940
Duce,
ritengo mio dovere farTi un rapporto, desunto da mie osservazioni e deduzioni circa l’attuale momento politico e il compito particolare della cultura italiana nella preparazione della pace, desunte da miei contatti d’ufficio con il mondo universitario italiano. Forse, non avranno alcun interesse per lo svolgimento del Tuo pensiero; ma le vorrai considerare per quel poco che valgono.
Prima di entrare in argomento occorre premettere alcune osservazioni sulle tendenze politiche della nostra cultura e sul suo atteggiamento nei riguardi del Fascismo. Poiché, se è vero che in venti anni di Fascismo le nuove concezioni hanno sempre più inciso sulla vita del Paese trasformandola radicalmente, è pur vero che, per quel che riguarda la cultura, si è venuto via via approfondendo un contrasto, che ha irrigidito gli intellettuali in uno sterile conservatorismo.
Di un movimento culturale fascista si è potuto parlare nei primi anni della rivoluzione, sulla base di alcuni elementi nazionalistici e idealistici, concretatisi nelle riforme del 1925 e poi sboccati nelle prime affermazioni del corporativismo, prima e dopo la Carta del Lavoro. Col declino del nazionalismo e dell’idealismo il movimento culturale fascista si è orientato poi in senso sempre più corporativistico, sviluppando il lato più propriamente rivoluzionario della nuova concezione sociale.
È stato, forse, questo il periodo più fecondo della collaborazione: quella frazione della cultura italiana che vi ha partecipato è riuscita a porsi davvero su un piano rivoluzionario e a costringere la più grande frazione conservatrice a scendere sul terreno della polemica e a collaborare anch’essa indirettamente. Gli anni che vanno dal 1932 al 1935 sono da questo punto di vista i più ricchi di risultati e la nostra ideologia rivoluzionaria ha avuto allora un’influenza notevole anche all’estero, in primo luogo sul nazionalsocialismo, che, giunto al potere nel 1933, si rivolgeva al Fascismo per seguirne l’esempio.
Ma, sopravvenuta la guerra d’Etiopia, la cultura italiana ha taciuto rinunciando a ogni ulteriore collaborazione. Sul piano speculativo la critica sempre più rigorosa condotta contro l’idealismo lo ha estraniato definitivamente dal processo rivoluzionario. Sul piano sociale la fine della discussione intorno ai principi del corporativismo ha arrestato l’elaborazione della nuova scienza politica ed economica. Messa a tacere la minoranza rivoluzionaria, la vecchia cultura conservatrice si è trovata senza avversari e si è rafforzata nelle sue posizioni, mascherandosi in gran parte con un ossequio estrinseco e adulatorio nei confronti del Regime.
Siamo giunti così al settembre scorso. Quattro anni di silenzio ostile della cultura non potevano non influire sulla coscienza della Nazione. Sempre più antirivoluzionaria, la classe intellettuale si ritirava nelle posizioni più tradizionali: liberalismo e cattolicismo. D’altra parte le esigenze della rivoluzione sul piano politico, non secondate dal movimento culturale, erano costrette a far leva sulle ideologie del nazionalsocialismo, che procedeva rapidamente nel suo cammino.
Questa necessità di fatto accentuava a sua volta l’ostilità della cultura e alimentava un movimento di reazione che si estendeva fino alle classi popolari. Nulla di strano quindi, se, scoppiata la guerra, pressoché tutta l’Italia si è trovata anglofila e francofila, antitedesca e antirivoluzionaria.
[Mancano nove righe illeggibili per deterioramento nell’originale].
La colpa del disorientamento ricade nella massima parte sul mondo intellettuale; e ben si spiega il disprezzo con cui la cultura è guardata da chi ha fede rivoluzionaria. Ma è pur vero che, nel campo della cultura, esistono degli elementi preparati ideologicamente e scientificamente ai compiti della Rivoluzione e che su di essi si potrebbe far leva per rinnovare dall’interno, un mondo da cui non si può prescindere.
Chi vive nella scuola sa che escono ogni anno da essa tanti giovani che attendono invano di essere orientati per lavorare, con serietà scientifica, a un’opera di ricostruzione. Accompagnando con un atteggiamento di diffidenza tutto il mondo della cultura e non discriminando in esso il vecchio e il nuovo, si corre il rischio di abbandonare i giovani alla forza della tradizione e di alimentare in essi lo stesso spirito di ostilità che anima i vecchi.
Questa premessa mi è sembrata necessaria per chiarire quello che a me sembra il compito di oggi. Spiritualmente impreparati e disorientati siamo forse alla vigilia della pace, con la coscienza che vincere la pace è cosa affatto diversa dal vincere la guerra. Ora credo che si possa senz’altro affermare che vincerà la pace chi saprà meglio fare la Rivoluzione, chi saprà offrire al mondo, in termini precisi e concreti, ideologicamente e tecnicamente, il programma rivoluzionario più comprensivo, che, saldando il processo tra il vecchio e il nuovo, riesce a guadagnare la fiducia dei vincitori e dei vinti. E per far questo occorre uscire subito dal disorientamento, mettersi al lavoro e presentarci accanto alla Germania, anzi prima di tutto alla Germania, con idee chiare e di ampio respiro.
Ma, intanto, per quel che mi pare di vedere attraverso qualche sintomo, sia pure vago ed impreciso, e qualche commento ai piani di ricostruzione circolanti nella stampa tedesca, si va delineando una tendenza a chiudere il problema della pace nel problema particolaristico della pace italiana e a giuocare senza chiara consapevolezza su un concetto equivoco di autarchia. Ho timore, insomma, che si ripeta sul piano della pace quello stesso errore che, senza il Tuo energico intuito si poteva compiere sul piano della guerra: lasciare sola la Germania e lasciarci sfuggire l’iniziativa rivoluzionaria.
La Germania ha due modi di fare la pace e di realizzare la propria vittoria: uno conservatore e plutocratico, l’altro rivoluzionario e corporativo. Nel primo caso resterà la Germania imperialista di fronte a un’Europa più o meno vassalla, in una nuova sorta di equilibrio instabile e in un’irriducibile contrapposizione di ideologie e di programmi. Nel secondo, assolverà una funzione di carattere internazionale – europea e più che europea – realizzando un ordine nuovo, in una comunanza di principi ideali e di interessi, per cui il benessere della Germania sarà condizionato dal benessere degli altri Paesi.
Quale dei due modi prevarrà? Il pericolo della prima soluzione è evidente: il vincitore arricchito delle spoglie del nemico tende a diventare conservatore e a mantenere la superiorità raggiunta nei confronti del vinto. Ma non è detto che questo criterio debba trionfare ed anzi ci sono serie ragioni per pensare il contrario.
Una prima è data dalla spinta rivoluzionaria, collettivistica, che ha condotto la Germania alla vittoria, sul fondamento di una struttura sociale e di una tecnica che non possono venire arrestate nel loro processo organico. Una seconda ragione può essere data – e in modo decisivo – dall’azione del resto dell’Europa, ma soprattutto dell’alleato vincitore, dell’Italia. Se, infatti, l’Italia solleciterà dalla Germania la seconda soluzione e agirà sul resto dell’Europa nel senso di questa più intima collaborazione, contribuirà ad attenuare e poi ad eliminare le tendenze tedesche conservatrici e a raggiungere la fine della politica di equilibrio.
Ora, purtroppo, il criterio che comincia a prevalere in Italia è in completa antitesi con questa seconda soluzione. Sulla base di una iniziale diffidenza verso la Germania e del terrore del suo predominio, si auspica una vittoria dell’Asse nel senso della costituzione di due sfere separate d’influenza, di due unità economiche autarchiche, di due autonomie cioè, che consentano all’Italia un futuro giuoco politico eventualmente antitedesco.
Ma non si considera, così facendo, che circoscrivere la sfera d’influenza tedesca in una nuova forma di equilibrio europeo significa potenziarne il razzismo nel suo significato più materialistico e il suo imperialismo nel senso della maggiore prepotenza. Una Germania circoscritta non potrà non volere subordinare a sé gli interessi dei paesi confinanti, non volere giungere, prima o poi, al Mediterraneo attraverso Trieste, non avviarsi a una influenza sempre maggiore in questo mare, non far dilagare, in altri termini, il suo dominio a danno delle altrui sfere d’influenza.
E questa necessità intrinseca al suo imperialismo – comune a ogni imperialismo, ma tanto più forte quanto più legato all’orgoglio razzista – sarà aggravata dalla piena consapevolezza che la Germania avrà della nostra diffidenza e del nostro programma. La diffidenza si paga con la diffidenza, e la diffidenza sui piano politico ed economico si traduce nel desiderio di diminuire e di boicottare. La nostra azione sarà ostacolata in tutti i sensi, la nostra industria menomata, i nostri mercati circoscritti.
Date le diverse posizioni di partenza, la concorrenza sarà tutta a nostro danno e il rapporto di dipendenza non potrà essere evitato. L’ideale dell’autarchia troverà cioè in se stesso la propria negazione e ciò che si vuole evitare sarà banalmente sollecitato. Dal punto di vista sociale, poi, le reciproche autarchie non potranno non dare luogo alla costituzione di due plutocrazie e particolarmente di una plutocrazia italiana al servigio di quella più forte. Il fine rivoluzionario, frustrato sul terreno internazionale, sarà a maggior ragione negato nella politica interna.
Alla politica autarchica si contrappone il pericolo della economia complementare, quale risulterebbe da un piano tedesco già delineato. La Germania sarebbe circondata da paesi agricoli e il suo dominio si eserciterebbe non nella contrapposizione dall’esterno agli altri paesi, bensì nell’organizzazione dall’interno della nuova Europa. Ma è qui, su questo piano appunto, che l’Italia e poi il resto di Europa possono operare correggendo il concetto di complementarità a beneficio proprio e degli stessi tedeschi.
Accettato il concetto di collaborazione, la forma e i risultati di essa dipendono dai collaboratori. E dipenderà proprio da noi se sapremo convincere i tedeschi che nell’interesse nostro e loro il criterio della complementarità implica lo sviluppo industriale massimo di tutta l’Europa, e se, in conseguenza, sapremo indurli a favorire il potenziamento delle nostre industrie.
Riassumendo, credo che i principi fondamentali della nostra azione politica dovrebbero essere i seguenti:
I. Lealtà massima con i Tedeschi. Solo sul piano della lealtà si può costruire un programma rivoluzionario e farne propaganda internazionale. La politica di equilibrio implica la contrapposizione tra ciò che si pensa e ciò che si dice, quindi la diplomazia, quindi la classe dirigente che ha il segreto e che si contrappone alla massa, quindi il malcostume, il borghesismo, la plutocrazia.
II. Ingrandimento del campo di azione dei vincitori in un’opera di carattere internazionale, che modifichi il concetto di razza e di autarchia, trasportandolo dal terreno materialistico a quello spiritualistico.
III. Preparazione di un piano rivoluzionario corporativo che, per il principio ideale e per le sue determinazioni tecniche, risponda alle più profonde esigenze spirituali di oggi e possa guadagnare la fiducia dei vincitori e dei vinti.
Ma, se questi sono i principi che debbono guidare la nostra azione, è chiaro che occorre mettersi subito al lavoro e sollecitare fin d’ora un movimento culturale che abbia la possibilità di pesare ideologicamente e politicamente. I tedeschi si preparano già da lungo tempo e noi siamo assenti: diffidiamo inutilmente di loro e ci mettiamo senza discutere nelle loro mani.
Tutto questo ho voluto dirTi perché Tu non creda che gli esponenti della cultura italiana siano senza eccezione sull’Aventino. Penso anzi che la riserva migliore sulla quale possa fare assegnamento l’Italia sia quella della cultura e che la carta principale per riprendere l’iniziativa della Rivoluzione nel suo gioco politico internazionale sia quella della ideologia.
Penso ancora che, iniziato il movimento, molti giovani studiosi si rivelerebbero improvvisamente e si porrebbero con fede e con insostituibile capacità al lavoro di costruzione scientifica e politica. Ma la condizione imprescindibile per raggiungere questo risultato è che il movimento scientifico possa svolgersi con serenità e continuità, in un’atmosfera che, pure essendo politica, sia sottratta alle vicende troppo contingenti dell’azione politica più immediata.
Preparare un piano corporativo di carattere internazionale significa approfondire la critica dell’equilibrio politico ed economico (liberalismo), il significato positivo e negativo dell’autarchia (organismo economico e protezionismo), il problema della moneta aurea e della sua sostituzione (economia del lavoro e disoccupazione), il problema dell’organismo economico internazionale (corporazione generale o territoriale), il criterio dell’economia complementare (nel significato tedesco e in quello che potrebbe essere il significato italiano), il rapporto tra il sistema europeo e il sistema mondiale (rivoluzione parziale o totale) il rapporto tra Fascismo e Bolscevismo (gerarchia e democrazia), il problema delle materie prime e delle eccedenze demografiche (distribuzione dei territori o circolazione delle masse), il rapporto tra economia rurale ed economia industriale (paesi poveri e paesi ricchi), le riforme istituzionali interne e internazionali (parlamentarismo, società e gerarchia delle nazioni), il significato del razzismo e delle sue conseguenze politiche (germanesimo, ebraismo, popoli latini, razze gialle), ecc.
Basta accennare a questi problemi per intuire subito la complessità e la reciproca interferenza. I Tedeschi li stanno affrontando metodicamente e con una continuità di principi e di ricerche che dura ormai da parecchi anni. In Italia non solo si è fatto pochissimo, ma in generale non si sospetta, anche da chi siede sulle cattedre, che tali problemi esistono e possano essere oggetto di studio. Quelli che potrebbero fare, e che si trovano dinanzi alla incomprensione e alla ostilità misoneistica della scienza accademica, avrebbero bisogno di essere posti nelle condizioni spirituali e materiali di lavorare e discutere su un piano di superiore dignità.
I docenti delle Università italiane considererebbero come loro più ambito privilegio cimentarsi, su Tue direttive, ad una ricognizione generale della dottrina fascista, raggrupparla in settori e prospettare, da un punto di vista rigorosamente teorico, i possibili orientamenti. I temi sarebbero preventivamente sottoposti al Tuo giudizio e il lavoro non dovrebbe, penso, assumere la forma esteriore di un convegno. Sarebbe compiuto a celerissime tappe, in composto silenzio, nel concluso ambito accademico, e Ti sarebbero poi presentate le conclusioni, che potrebbero rimanere riservate fino a che Tu lo giudichi opportuno; od anche essere esaminate e discusse da altri settori del Regime.
La giovane generazione dei docenti delle nostre Università, educata al costume fascista nel clima fascista, si sente anche essa una milizia ai Tuoi ordini e, come tale, chiede di servirli. Se l’esperimento, come io ritengo, sarà fecondo, potrai, successivamente, esaminare l’opportunità di porre i migliori elementi a contatto con i camerati docenti tedeschi per unificare, in feconda e leale collaborazione, taluni principi teorici che dallo studio saranno affiorati e che Tu avrai ritenuti conformi allo spirito della dottrina fascista.
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