a cura di Cornelio Galas
- documenti raccolti da Enzo Antonio Cicchino
Rapporto sulle ultime vicende della
relazione tra Mussolini e la Petacci
trasmesso, dopo la liberazione di Roma,
dal generale Giacomo Carboni all’OSS
CHI ERA GIACOMO CARBONI?
Office of Strategic Services
Nella prima quindicina di maggio 1943 la Petacci veniva ripudiata per la prima volta da Mussolini. Riammessa a Palazzo Venezia qualche giorno dopo (malgrado il clamoroso scandalo suscitato da lei stessa quando un sottufficiale di P.S. la fermò all’ingresso di Piazza S. Marco), mentre vi si recava, all’ora solita (ore 15) nel suo tassí messogli a disposizione dalla ditta Garagnani (tassí Roma 77637), fermava in via Baiamonti un certo Donadio che si trovava con me sotto il portone del suo domicilio.
Il Donadio, individuo losco, persona di fiducia di Buffarini e della Petacci, «trait d’union» fra quest’ultima e tutte le personalità del vecchio regime, che si erano a lei agganciate onde ritrarne favori, era anche bene accetto a Casa Savoia, ove era riuscito a guadagnare la fiducia del Principe che egli affermava di conoscere da moltissimi anni, per essere stata l’Altezza Reale cliente di un suo negozio d’antichità.
Al Principe il Donadio aveva presentato le stesse personalità che aveva presentato alla Petacci (fra le altre, Buffarini, Galbiati, Frattari, De Cesari…) Il piú delle volte però Donadio giungeva al Principe tramite un suo segretario, tale Anselma, al quale il Donadio aveva fatto ottenere dal Buffarini uno stipendio di L. 4000 al mese come informatore del sottosegretario agli interni.
Per necessità di servizio – e per consiglio dello stesso Capo del SIM che desiderava io arrivassi fino alla Petacci onde sorvegliarla – io riuscii a stringere relazione col Donadio, il quale mi era preziosissimo come involontario informatore.
Avevo piú volte espresso il desiderio al Donadio di conoscere personalmente la Petacci e il Donadio, che aveva in me una illimitata fiducia e una grande considerazione, approfittò del caso di quel giorno in cui la Petacci – ritornata all’ovile – appariva euforica e trionfante, per presentarmi a lei. Il Donadio fu talmente largo in elogi verso le mie capacità da svegliare in lei la curiosità di conoscermi meglio. Mi promise quindi di permettermi di rivederla piú a lungo.
Nei pochi minuti che io stetti nel suo tassí, la Petacci si lamentò del trattamento riservatole da Mussolini quando era stata letteralmente messa alla porta di Palazzo Venezia. La Petacci mi apparve come un esserino insignificante, con un naso all’insú, due occhi piccoli neri vispi, il viso pallido e senza trucco, le labbra sottili. Aveva un cappello bianco eccentrico che la sorella, l’attrice Miriam di S. Servolo, aveva tentato di lanciare nel suo primo film; sulle spalle due vistose magnifiche volpi argentate.
Quando il 14 luglio seppi dallo stesso Donadio che la Petacci era stata – per la terza volta – scacciata da Palazzo Venezia, insistetti affinché mi accompagnasse da lei, come mi aveva promesso. Annunciato per telefono, ottenni un appuntamento alla Camilluccia per l’indomani a mezzogiorno. L’indomani il Donadio, con la scusa che doveva recarsi dal Principe, mi lasciò andare solo. In effetti il Donadio, preoccupato dalla piega che avevano presi gli avvenimenti dopo la caduta del piú forte suo sostenitore finanziario Buffarini, si era un po’ allontanato anche dalla Petacci.
Prima della telefonata in cui il Donadio chiedeva un appuntamento per me, non essendo riuscito a trovarla al telefono, egli le scrisse una lettera per raccomandarmi affermando che ero una persona preziosa per lei (voleva alludere alla necessità che aveva la Petacci di conoscere il maggior numero di persone in vista e quindi contava di sfruttare la mia speciale attitudine a conoscere vita e miracoli di tutte le personalità).
Alle ore 12 del 15 luglio mi recai alla Camilluccia. La domestica, Ersilia, riuscí a stento a spingere uno dei grandiosi cristalli scorrevoli che, su tutta la facciata della villa, facevano assumere all’immobile l’aspetto di una grande scatola su una sbarra di ghiaccio.
Fui introdotto in un vastissimo salone con porte di cristallo, grandi quanto le pareti e con finestre che, come per l’ingresso, formavano un tutto unico di cristalli da uno spigolo all’altro del muro. Una ventina di soffici poltrone. Un pianoforte a coda ed una arpa in un angolo. Contro il muro un quadro bruttissimo di una brutta bambina. Un muro affrescato divideva il salone da un salotto con caminetto e divano lunghissimo con cuscini di piuma. Sulla destra una grande porta di legno. Tutti i pavimenti in marmo.
L’attesa fu lunga, tanto lunga che, trovandomi solo, mi avventurai per la parte di destra. Mi trovai in una camera da letto principesca. Ogni parete era ricoperta di specchi; anche al soffitto doveva esserci stato uno specchio che poi era stato staccato, probabilmente per desiderio dell’eccezionale amante! I mobili rosa; il letto basso su una base di legno scuro, era ricoperto di veli rosa e di coperte finissime imbottite di piuma. Un ambiente da film americano, ma di evidente cattivo gusto. Capii di trovarmi nell’alcova.
Spingendo una porta di specchio, mi trovai in una sala da bagno tutta in marmo nero. Al centro una piscina a livello decorata con mosaici. Un muretto di separazione celava il gabinetto pure in marmo nero. Luci in tutti gli angoli. In un angolo della piscina una presa per il telefono. Uno sfarzo da nuovi ricchi!
Alle ore 13 circa la domestica mi venne a chiamare e mi condusse lungo un ponte rivestito di tappeti (in quella casa non si notavano scale, ma ponti lunghissimi per evitare la fatica di salire gradini) fino al piano superiore in una sala da pranzo ove feci un’altra anticamera. Anche qui passai il tempo ad osservare i lussuosi mobili e mi spinsi fin sulla terrazza che dava sulla grande piscina esterna; sulla terrazza v’erano degli attrezzi da ginnastica.
Alle ore 13,15 venivo finalmente ricevuto dalla Petacci nella sua camera da letto privata. Un grande letto con coperte di seta e biancheria finissima; un comodino su cui v’era una grande fotografia di Mussolini a colori; un armadietto con un gran quantitativo di medicine (la Petacci mi confidò poi di essere afflitta da molti mali immaginari); una libreria; una toletta.
In vestaglia molto scollacciata, che le scopriva una parte del seno, la Petacci mi invitò a sedere sul letto ove ella stessa sedeva. La madre, un donnone, stava in un angolo, sfogliando corrispondenza che ammucchiava in [un] cassetto. Si trattava di suppliche di cui alcune recavano l’indirizzo «all’Eccellenza Petacci Clara». La Petacci inviava poi, per evasione, le suppliche a Buffarini e a De Cesari.
Cominciò a parlare nuovamente dell’affronto ricevuto la prima volta che fu cacciata da Palazzo Venezia. Cercai di consolarla dicendole che, date le preoccupazioni del momento, bisognava scusare la procedura inelegante del suo amante. Ella protestò affermando che egli era stato sempre cosí con lei, sempre privo di attenzioni, sempre burbero.
«L’altro giorno – disse la Petacci – mi fece dire da Navarra che non desiderava vedermi perché di cattivo umore. Vi sembra decente mettere al corrente dei nostri rapporti gli uscieri?»
Essendo uscita dalla camera la madre, ne approfittai per rivolgere qualche domanda alla Petacci, soprattutto per scoprire chi erano i suoi amici. Cominciai col chiederle, in quali rapporti era con Galbiati, facendole credere che avevo bisogno di una raccomandazione per il Capo di S.M. della Milizia. La Petacci cadde nel tranello e mi rivelò che Galbiati doveva tutto a lei. Ella, per mesi interi, aveva soffiato il suo nome al Duce come successore di Starace.
Il nome di Galbiati glielo aveva suggerito il Seniore Marinelli, divenuto poi ufficiale d’ordinanza di Galbiati, amico intimo della Petacci, della quale fu anche l’amante. «Il Duce non voleva saperne di nominare Galbiati – disse la Petacci – ma io che avevo promesso a Peppino (Marinelli) di accontentarlo, insistetti tanto che un bel giorno si decise. La pratica però andava per le lunghe e a Starace intanto non succedeva Galbiati.
Domandai a lui (a Mussolini) come mai tanto ritardo e lui mi rispose che Galbiati era irreperibile. Allora inviai Peppino in Albania in aereo perché conducesse subito a Roma Galbiati e l’indomani potetti annunciare al Duce che il nuovo capo di S.M. della Milizia attendeva i suoi ordini a Roma.
Facendo scivolare il discorso su Buffarini, capii che l’amico piú dovuto, il piú utile per lei, era l’ex sottosegretario agli interni. Ella dichiarò che Buffarini era il piú fedele servitore di Mussolini e mi confessò che stava adoperandosi affinché egli risalisse al potere. Ella disse testualmente: «Buffarini è un fedelissimo. Invece di tenerselo vicino il Duce lo ha disgustato allontanandolo. Ma a me non disse nulla quando lo mandò via, perché se lo avessi saputo glielo avrei impedito. (Ricordiamo che Buffarini fu liquidato improvvisamente, come Ciano e gli altri, con comunicazioni scritte di pugno di Mussolini e nessuno ne fu informato).
Giorni fa parlando con lui (Mussolini) di Buffarini, lo qualificò di profittatore dicendo che aveva aiutato gli ebrei. Mi citò il caso di Sacerdoti, attribuendo la sua arianizzazione a Buffarini. Gli risposi che non aveva memoria poiché fu proprio lui (Mussolini) a procedere all’arianizzazione del Sacerdoti poiché gli avevano riferito che, per alcuni lavori urgenti della Marina, non v’era un tecnico capace come Sacerdoti».
Parlando di Bastianini la Petacci disse che aveva ricevuto molto cortesemente tempo fa suo fratello Marcello (il famigerato fratello della Petacci che ha accumulato milioni all’estero e in Italia) trattenendolo a conversare per circa un’ora. «Bastianini è un nostro amico” – concluse la Petacci.
Di Cerica – allora ancora comandante della divisione di Roma dell’Arma – la Petacci parlò con molta simpatia dicendo testualmente: «Ieri sera è stato da me Cerica, inviato da Hazon, e mi ha trattenuto fino alle tre di notte a parlarmi di personalità, facendomi capire chiaramente di chi il Duce si poteva fidare. È la seconda volta che viene da me Cerica e mi sembra una simpatica persona, abbastanza sincera verso il Duce. Mentre quel delinquente di Pièche è capace di arrestare il Duce ed il RE. Anzi ho saputo che ha a Grottaferrata una villa con sotterranei blindati ove avrebbe intenzione di metterci il Duce in caso di cambiamento di regime!»
(Ricordiamo a tale proposito che il generale Cerica, la sera precedente alla sua nomina a comandante dell’Arma fu visto alla Camilluccia ove si trattenne a lungo). Parlando di Senise la Petacci fu feroce, concludendo che tutta la Polizia era antimussoliniana e avrebbe presto tradito il Duce.
Su Chierici non si pronunciò molto. (Si sa che Chierici fu nominato su suggerimento di De Cesari e poiché quest’ultimo fu nominato su suggerimento della Petacci, è logico che anche Chierici doveva appartenere alla schiera simpatizzante per la Petacci).
Di Scorza parlò malissimo definendolo un energumeno ed un chiacchierone di cui c’è poco da fidarsi (si spiega questa avversione quando si pensi che Scorza era una creatura di Ciano). Non fu molto favorevole verso Albini, al quale attribuiva l’iniziativa di aver presentato a Mussolini il «dossier» del fratello Marcello che serví di pretesto al Duce per scacciarla la prima volta da Palazzo Venezia.
Fu molto cordiale verso Farnesi definendolo un genio incompreso e facendo chiaramente capire che era stata lei ad aiutarlo a salire. Appresi che il prefetto di l’Aquila, Cortese, fu nominato da lei, anche quello di Varese, Radogna fu nominato da lei in seguito a consiglio di Donadio. Anche dei federali furono nominati da lei (imposti a Vidussoni).
Giunta a parlare di Ciano, la Petacci dette la stura al suo odio accusandolo di tradimento e affermando che, pochi giorni prima, mentre il nemico sbarcava in Sicilia, Ciano dava un grande banchetto. Alle 13,55 circa l’apparecchio telefonico rosa, che ella trascinava dappertutto grazie al lungo metraggio del filo ed alle innumerevoli prese telefoniche che si trovavano in ogni angolo della villa, squillò. Accennai per discrezione ad allontanarmi, ma ella mi fece segno di rimanere seduto.
Udii chiaramente la voce di Mussolini:
– Ti prego di lasciarmi tranquillo. Non posso interessarmi ora del tuo caso personale. Ho bisogno di rimanere solo.
Parlava con calma e con voce stanca. Ella rispose:
– Ma come puoi pensare che si tratti di un caso personale? Io ti ho scritto ieri sera per chiederti di esserti ancora vicino, specialmente in questi momenti!
– Non ho bisogno di nessuno e nessuno ha piú bisogno di me! Perciò lasciami tranquillo!
– Ma quanto durerà?
– Durerà quello che durerà. Una settimana, un mese, un anno…
– Ma io non sono un tiretto che a un dato momento si può chiudere. Io non sono una sgualdrina. Spero che vorrai ricordarti che non sono stata soltanto la tua amante. In fondo non ti chiedo nulla di straordinario se non rivederti!
– Ti ripeto di lasciarmi tranquillo e non costringermi ad adottare dei provvedimenti antipatici.
– Allora dimmi francamente che non vuoi piú saperne di me ed io me ne andrò.
– Sarebbe piú opportuno.
E su questa frase attaccò il ricevitore. La Petacci si sciolse in lacrime e maledicendo Edda Ciano, che, secondo lei era stata pochi giorni prima «a montare la testa del Duce contro di lei» disse: «Vuole accontentare l’opinione pubblica allontanandomi da Palazzo Venezia. Dopo dodici anni si preoccupa dell’opinione pubblica!»
«Io non sono stata la sua amante – diceva la Petacci fra le lacrime. – Sono stata colei che nei momenti piú tristi gli sono stata vicino mentre tutti lo abbandonavano. Ricordo che, parlandomi dell’episodio Matteotti, egli mi diceva che era rimasto solo in quell’occasione; perfino la moglie lo aveva abbandonato, scappando da Roma! Quando dovette sopportare duri colpi io gli fui sempre vicino.
La prima volta fu all’epoca della fuga di Graziani. Egli capí fin d’allora che la partita era perduta per l’Italia e se ne preoccupò talmente che io pensai volesse suicidarsi. Riuscii a consolarlo. Quando Poi perdette il figlio Bruno ebbe un vero collasso. Egli era indeciso fra la rivoltella ed il salto dalla finestra. Nessuno seppe mai la tragedia che lo sconvolse. Sembrava impazzito.
Io, sola, nella stanzetta attigua a quella sua di lavoro, dalle 7 del mattino alle 11 di sera, guardavo il soffitto e attendevo che di tanto in tanto aprisse la porta per apparirmi, trasfigurato e chiedere un mio sguardo di conforto. Mi prendeva le mani. Non pronunciava una parola. La figlia non gli fu mai vicino? Apparve solo dopo qualche settimana per dirgli che poiché il popolo italiano era molto depresso per gli avvenimenti, occorreva aprire di nuovo le sale da ballo».
«Ora – continuò la Petacci – egli si trova nelle stesse condizioni di allora, senza una persona amica, circondato da traditori e non vuole che gli sia vicino». «Mi ha trattato come una donnaccia, come tutte le altre sue donnacce. Probabilmente dopo questa telefonata ne avrà fatta un’altra simile alla Ruspi ed alla Pallottella. Ma esse sono state piú furbe di me che si sono messe a posto finanziariamente, mentre io non ho mai accettato un soldo!” (sic!)
«La Ruspi è stata ancora piú intelligente poiché ha fatto un figlio e gli ha fatto credere di averlo avuto da lui. Giorni fa egli mi telefonava per annunciarmi che il figlio della Ruspi era stato ferito in Sicilia. Che mancanza di delicatezza! Mi viene a parlare del figlio di un’altra sua amante! Non mi ha mai compresa. Mi ha sempre tenuta nella stessa considerazione delle altre. Mentre io ho sacrificato dodici anni della mia giovinezza per lui! Mi lascia senza un centesimo e mi invita ad andarmene. Come faccio le valige? Mi mette alla porta senza darmi il mezzo di sottrarmi all’ira dei suoi e miei nemici!»
La domestica veniva intanto ad annunciare che il pranzo era pronto per cui credetti opportuno congedarmi promettendole di ritornare dopo accordo con Donadio. Ciò non accadde perché Donadio, fiutando il temporale, non volle piú avere rapporti con la Petacci.
IN COLLABORAZIONE CON:
Enzo Antonio Cicchino
Nato a Isernia nel 1956
Vive a Roma.
Matricola Rai 230160.
enzoantoniocicchino@tiscali.it
Autore e regista documentari RAI