CENTRO DI STUDI STORICO – MILITARI
“Generale Gino Bernardini”
LE CAUSE OCCULTE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Conferenza tenuta dal Dott. Aldo Stoico
1934 – prima parte
In quell’anno accadono due fatti importanti, del tutto trascurati dalla storia ufficiale e da poco venuti alla luce. Sono due fatti fondamentali per capire gli avvenimenti che avverranno in seguito. Il primo si riferisce al fatto che un cardinale di Santa Romana Chiesa si imbarca verso il Sudamerica. Durante il viaggio via mare la nave con l’alto prelato a bordo fa una sosta all’isola di Gran Canaria, territorio spagnolo, per consacrare la patrona dell’isola.

Il generale Franco
Si ferma per qualche giorno a Las Palmas, la capitale, presso l’ Arcivescovado. Ma, a qualche centinaio di metri, ha sede il comando del Generale Franco, il futuro Caudillo, qui mandato per tenerlo lontano dal centro del potere a Madrid. Non sappiamo, o non si è voluto far sapere, se abbia avuto luogo un incontro tra i due personaggi. È il caso di ricordare che, nel 1933, era salito al potere Adolf Hitler e che, nel 1938, esploderà la Guerra di Spagna.
Da ricerche da me espletate durante un recente soggiorno alle isole Canarie, giunge la conferma di quell’ incontro e non è fantapolìtica supporre che, direttamente o indirettamente, il Vaticano abbia dato via libera all’Alzamiento del Generale Franco e alla Cruzada antibolscevica. Quel rappresentante di Santa Romana Chiesa era il cardinale Eugenio Pacelli, poi salito al Soglio Pontificio con il nome di Pio XII.

PIO XII
Ma non è tutto, il cardinale Pacelli prosegue il suo viaggio verso l’Argentina. A Buenos Aires incontra le comunità ecclesiastiche. L’incontro è fondamentale e viene interpretato anche dalle autorità politiche e dal popolo come una scelta di campo. Roma e il Vaticano sono una cosa sola e Roma vuol dire Mussolini che, in tutto il Sudamerica, incontra uno straordinario successo, al punto che alcuni lo paragonano a Simon Bolivar, “el Libertador”.
Sorgono movimenti ispirati al fascismo in tutta l’America Latina, in Perù con Benavides, in Uruguay con De Herrera, in Paraguay con Raphael Franco. In Cile sorge il partito di Gonzalez Von Merr, di chiara impronta nazista. A Bariloche, nel dopoguerra, si formerà una colonia di fuggiaschi nazisti, tra i quali Priebke, colui che sarà condannato all’ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine.

Óscar Raymundo Benavides Larrea
Intanto, emissari tedeschi, politici, diplomatici, militari, giungono in Argentina, mentre in Germania si aggira tra le stanze del potere una bellissima e giovanissima ragazza bionda, Maria Duarte che, si dice, fosse una spia nazista. Questa ragazza diventerà famosa come Evita Peron, entrando nella leggenda anche per la sua morte prematura. Peron, il marito di Evita, di origini italiane, si era formato in Italia politicamente e militarmente e non nascondeva la matrice fascista del suo modo di governare.

Evita Peron
Non a caso, nel dopoguerra, l’Argentina e il Paraguay, dove governerà a lungo il dittatore Strossler, daranno asilo a profughi fascisti e nazisti. Strossler, peraltro di origine tedesca, instaurerà nel dopoguerra un regime dittatoriale di stampo nazista. Altrettanto ispirato al fascismo il governo dì Getulio Vargas in Brasile, con uno statuto dei lavoratori fotocopia di quello corporativo di Mussolini.
Quanto succedeva in quel periodo non poteva non mettere in allarme gli Stati che, come vedremo, entreranno ben presto nel gioco dalle parti che non sta interessando più solo l’Europa, ma il mondo intero.

Getulio Vargas
1934 – seconda parte
Il secondo fatto è emerso da studi recentissimi, analizzando i dossier segreti dell’ex Unione Sovietica. Ebbene, nel 1934, in Polonia, è al potere il maresciallo Pildsuski che impone un regime autoritario, con qualche simpatia per la Germania, particolarmente sotto il profilo culturale.
La Polonia è uno stato emergente e ha grandi ambizioni, ma si trova quasi schiacciata da due giganti, la Germania a ovest e l’Unione Sovietica a est. E così il maresciallo stringe un patto di amicizia polacco-tedesco che avrebbe salvaguardato la pace a occidente e sancito un’alleanza anti-sovietica.

maresciallo Pildsuski
Inoltre sono venuti alla luce patti segreti frale due nazioni, in virtù dei quali si promuovevano azioni destabilizzanti nel Caucaso, dove gli stati di quella regione, Georgia, Azerbaijan, Armenia, Cecenia, mostravano segni d’insofferenza verso il regime oppressivo sovietico. Documenti davvero sconvolgenti che dimostrano come in quel 1934 Hitler era ancora propenso a cercare un compromesso su quello che sarà il nodo centrale dello scontro tedesco-polacco su Danzica e che porterà allo scoppio della seconda Guerra Mondiale.
In quel 1934, quindi, si potevano gettare le basi per una pace duratura? Ma nel 1935 Pildesuski muore in circostanze misteriose, prevalgono le forze politiche anti-tedesche, la pace si allontana e l’Europa corre a precipizio verso la guerra. Ma cosa c’era e chi c’era dietro quella morte e il fallimento di quell’alleanza?
È sin troppo facile pensare alte due grandi potenze occidentali, Francia e Gran Bretagna, che vedevano in quell’alleanza un punto a favore di quella odiata Germania, di cui non volevano la rinascita. E si fa anche il nome del tessitore di questa strategia, Campbell, un maestro dell’intrigo e del sovvertimento delle alleanze. Nel 1941, infatti, con un ben costruito complotto, staccherà la Jugoslavia dal patto tripartito con Germania e Italia, spostandola nel campo opposto e costringendo Hitler e Mussolini a intervenire nella penisola balcanica per colmare quella voragine che si era aperta nel fronte sud dell’Europa.
Questi documenti ci dicono, quindi, che la guerra era ancora evitabile in quegli indimenticabili, irripetibili e drammatici anni Trenta? Ai posteri l’ardua sentenza, chiedendo scusa ad Alessandro Manzoni.
Gli Stati Uniti
Sono entrati in guerra nei 1941. Teniamoci stretti il santino che ci siamo creati nel dopoguerra circa la lotta della democrazia americana contro la tirannide e rendiamo onore ai ragazzi americani che sono morti combattendo sulla nostra terra. Non è in discussione la nostra amicizia con quella grande nazione, ma lo scenario che si presentava in quegli armi era molto diverso e diversa è la verità storica.

Churchill e Roosevelt
Quali erano allora le ragioni vere per le quali gli Stati Uniti sono entrati in guerra? Gli USA erano già saliti ai vertici della storia dopo la vittoria nella prima Guerra Mondiale, mancava il salto di qualità. Già negli anni Venti vi era un progetto di egemonia mondiale americana e Theodor Roosvelt aveva parlato di un destino sui due oceani, Pacifico e Atlantico. Ma sul Pacifico il Giappone avanzava pretese egemoniche e la sua industria bellica aumentava in modo impressionante. Lo scontro era inevitabile.
Dall’altro versante la potente espansione economica tedesca minacciava i mercati. Ancora una volta, l’economia trainava il carro detta storia. Due ragioni sufficienti per entrare in guerra, una guerra epocale che avrebbe sconvolto gli equilibri mondiali Una terza ragione era l’America Latina. Gli Stati Uniti, per così dire, tenevano alla cavezza il Sudamerica che, a sua volta, non aveva soltanto una sudditanza psicologica, ma anche una dipendenza economica nei riguardi dal colosso nordamericano.
Questo diffondersi dell’ideologia fascista nel continente americano era visto come una sorta di ribellione allo strapotere statunitense, incominciarono cosi le intimidazioni, i ricatti e soprattutto gli embarghi per condizionare gli orientamenti politici dei vari governi. Cercarono di trascinare il Sudamerica nella guerra, ma vi riuscirono solo con il Brasile nel 1942, costringendo Vargas a mandare i suoi soldati in Europa.
I brasiliani saranno gettati anch’essi nella mischia, pagando un grande tributo di sangue anche sulle nostre montagne dell’Appennino, per la grandezza degli Stati Uniti. Ma essi avevano anche una quarta ragione per entrare in guerra, una ragione occulta che può anche sembrare paradossale, il nemico non era soltanto il ribollente calderone sudamericano, ma anche il suo stesso alleato britannico.
Gli Stati Uniti, questa nazione imperialista senza impero (perché l’impero lo aveva già al suo interno) non avevano mai dimenticato di essere stati una colonia dell’impero britannico e di avergli combattuto contro per liberarsi del suo domìnio. Pertanto, odiavano il colonialismo e, intervenendo a fianco della Gran Bretagna, avrebbe inciso in modo determinante sulle sorti della guerra, imponendo poi la decolonizzazione e lo sfaldamento dell’immenso impero britannico.
Tutto ciò, naturalmente, inalberando lo stendardo della libertà dei popoli, ma al tempo stesso sostituendosi nel controllo economico delle nazioni liberate. Come sono impervie, contorte e imprevedibili le strade della storia!
Il Giappone
Il Giappone era stato invitato alla Conferenza di Parigi del 1919, ma veniva sistematicamente ignorato e spesso sbeffeggiato dalle grandi potenze. Clemenceau, in una riunione ufficiale, disse ad alta voce, facendosi bene udire da tutti, “e pensare che al mondo ci sono donne belle e bionde e noi siamo qui a perdere tempo con questi giapponesi che sono così brutti”. Il tutto, ovviamente, tra te risate generali; e pensare che il rappresentante del Giappone, Principe Sajani, era innamorato della cultura occidentale, soprattutto francese e diceva che, prima di addormentarsi, leggeva Voltaire, Verlaine e Rousseau.

La conferenza di Parigi del 1919
Per contro, l’arroganza di Francia e Gran Bretagna, alle quali si associarono subito gii Stati Uniti, arrivò al punto di mettere in dubbio l’uguaglianza razziale con i popoli asiatici, in particolare con quello giapponese. Gli americani nutrivano un vero e proprio disprezzo verso l’impero del Sol Levante, non riconoscendo i valori di quella antichissima e raffinata civiltà.
Hitler riteneva gli ebrei degli Untermenschen, dei sottouomini, gli americani, nel loro odio giapponese, discutevano addirittura se sì potesse riconoscere a quel popolo … la natura umana! E così come i nazisti riconoscevano l’inferiorità della razza ebraica dai tratti somatici (la fronte, il naso adunco, la miopia), altrettanto gli americani ravvisavano la diversa natura dei giapponesi nella bassa statura, negli occhi a mandorla, nella rima palpebrale stretta. Insomma, gli “sporchi musi gialli” dei film del dopoguerra.
Tutto ciò, oggi, ci fa sorprendere e indignare, ma è doveroso ricordare che l’America degli anni Trenta non era proprio un modello di giustizia e di uguaglianza, come l’immaginario collettivo continua a trasmetterci. Era sì il Paese della libertà, ma era anche quello del Ku Klux Klan, delle croci di fuoco, dei neri linciati senza processo, degli italiani come Sacco e Vanzetti, condannati solo perché erano italiani e quindi sovversivi e colpevoli. Non dobbiamo dimenticare che il processo a Rosa Parks, la donna di colore che rifiutò in autobus di cedere il posto a un bianco, è del 1954!

Rosa Parks
Nessun paragone, ovviamente, con la Germania nazista, ma la decisione di F. D. Roosvelt di abbattere sia ia Germania che il Giappone non scaturiva dai suoi principi democratici. Egli non era affatto quell’ingenuo e sprovveduto idealista che la vulgata storica ci ha proposto. Sapeva benissimo che la Russia sovietica era quella dell’arcipelago Gulag, ove morivano milioni di persone. La prova ci viene dalla certezza che tutti i rapporti inviati dagli emissari politici, diplomatici e militari, contenenti notizie terrificanti su quanto avveniva, venivano regolarmente secretati.
La tirannide sovietica, negli anni Trenta, era molto più feroce di quella nazista. Solowsky, l’isola degli orrori e della morte, precede di circa vent’anni Auschwitz e Buchenwald, ma la dittatura sovietica allora non oscurava le stelle della bandiera americana, mentre quella germanica ostacolava l’espansione egemonica ed economica statunitensi, così come l’impero nipponico era un pericolo per il dominio dei mercati dell’oriente, a cui gli Stati Uniti aspiravano.

Il campo di Solowsky
Roosvelt agì con cinismo e spregiudicatezza e la storia gli darà ragione. Ma allora c’era un impedimento insuperabile, l’opinione pubblica era contraria alla guerra e annoverava personaggi di rilievo in campo politico e diplomatico. Basti ricordare Joseph Kennedy, il padre di John e Bob, uccisi poi negli anni Sessanta, ma anche un eroe popolare come Charles Lindbergh, il trasvolatore atlantico.
Durante un mio soggiorno alte Hawai, nell’isola di Maui, mi fu indicato un luogo appartato, lontano dai grandi itinerari turistici. In un boschetto solitario e silenzioso sorgeva in stato di abbandono una tomba semicoperta dalle sterpaglie, senza un fiore e senza che nessun turista andasse a visitarla. Era proprio la tomba di Charles Lindbergh, l’eroe dell’aria che doveva essere dimenticato perché contrario alla strategia di Roosvelt.
Ma anche parte della cultura americana era contraria atta guerra. Un nome su tutti, Ezra Pound, il grande poeta americano che, dopo la guerra, sarà chiuso in una gabbia come un animale da circo, per poi finire in un manicomio criminale secondo il puro stile sovietico.
Per indurre il popolo americano alla guerra ci voleva qualcosa di clamoroso, qualcosa che colpisse il suo orgoglio e la sua fama di invincibilità. E venne Pearl Harbour. L’aggressione giapponese era l’occasione buona per scatenare il conflitto. Ma fu davvero aggressione imprevista o non fu invece provocata? L’embargo sul petrolio avrebbe strangolato l’economia giapponese e l’ambasciatore nipponico aveva avvertito la Casa Bianca che, se non avesse tolto l’embargo verso il Giappone entro breve tempo, sarebbe stata guerra. La Casa Bianca non rispose.

Pearl Harbour
Andando a visitare Pearl Harbour, dopo essermi documentato sui fatti, mi vennero spontanee alcune domande. Perché la flotta era stata concentrata proprio in quel punto, molto favorevole all’attacco? Perché molto personale dirigente non era presente all’attacco? Perché molti marinai erano in licenza? Perché non era stata preventivata alcuna allerta? Perché non erano attivi i sistemi di protezione? Domande che ancora oggi non hanno trovato risposte esaurienti.
L’Italia
Entrò in guerra in virtù del Patto d’acciaio firmato a Berlino da Von Ribbentrop e Galeazzo Ciano. Il patto venne poi allargato al Giappone, formando così il patto tripartito con la sigla Ro-Ber-To (Roma – Berlino – Tokyo). Durante un mio viaggio in Giappone chiesi a una guida turistica il perché di tanta simpatia da parte del suo popolo verso l’Italia, ritenendo scontata la risposta che ciò era dovuto alla ammirazione verso la nostra grande cultura.

Il ministro Ciano firma il patto d’acciaio nel salone degli Ambasciatori sotto lo sguardo di Hitler
La guida invece mi rispose che l’Italia era stata la prima nazione europea a stringere un’alleanza con una nazione asiatica, mettendole entrambe sullo stesso piano. Evidentemente erano ancora vivi i ricordi dell’umiliazione e delle derisioni subite da parte delle grandi nazioni europee alla Conferenza di Parigi dei 1919.
Chiusa questa parentesi extra-europea, più che soffermarsi sulle clausole del Patto d’acciaio, ritengo più opportuno cercare di spiegare il perché di questo patto. Che cosa avevano in comune Italia e Germania? Apparentemente nulla, storicamente il mondo latino e quello germanico erano sempre stati divisi da una forte conflittualità e poi l’Impero Austro-Ungarico, il Risorgimento e infine la prima Guerra Mondiale che ci aveva visti l’uno contro l’altro solo venti anni prima.
L’ideologia, si dirà? Ma non fu quella la ragione. Nazismo e fascismo avevano in comune solo la vocazione alla dittatura. Mussolini non amava l’ideologia nazista, la considerava una sorta di religione cupa e pagana, fatta di simboli lugubri ed esoterici, mentre egli proponeva un’ideologia solare e mediterranea, fatta di cieli azzurri e non da brume nordiche.
Ciò che li univa era invece la cosiddetta sindrome da accerchiamento. Italia e Germania, nazioni sconfitte al tavolo della pace del 1919 (anche se l’Italia era uscita vincitrice dalla prima Guerra Mondiale) temevano di essere schiacciate, vedendo così infranta la loro ambizione di grandezza.
La Germania, a ovest, dalla Francia (e la Gran Bretagna alle spalle) e a est dalla risorta Polonia (e l’URSS alle spalle). L’Italia aveva il Mediterraneo occidentale presidiato da Francia e Gran Bretagna; quest’ultima deteneva gli estremi, Malta e Gibilterra, in mezzo i porti francesi di Marsiglia e di Tolone, oltre che la Corsica.
L’intervento dell’Italia nella Guerra di Spagna aveva impedito che anche i porti spagnoli, caduti in mano ad un regime comunista, completassero l’accerchiamento, considerando che la Francia, allora, era governate dalla sinistra di Leon Blum. Sul versante orientale, l’Adriatico Italiano, con la sua costa piatta e indifendibile, era fronteggiato da Jugoslavia e Grecia, avverse all’Italia e che disponevano, specialmente la prima, di una costa frastagliata con golfi, insenature, fiordi, molto più adatti alla difesa.

Leon Blum
L’Italia di Mussolini rischiava quindi di essere strangolata, prigioniera com’era proprio sul Mare Nostrum, da nazioni straniere e ostili. Il Patto d’acciaio e l’alleanza con la Germania rassicuravano Hitler a sud e davano a Mussolini un potentissimo alleato a nord.
Ma vi erano anche altre ragioni che avevano convinto il Duce a quel passo che poi avrà conseguenze rovinose per il nostro Paese. Innanzitutto ia stima personale di Hitler verso di lui, stima che gli aveva dimostrato in due occasioni. La prima con l’invito a tenere un discorso a Berlino, che ottenne uno straordinario successo, con tre milioni e mezzo di tedeschi che ascoltarono entusiasti per ore e sotto la pioggia le parole del Duce in lìngua tedesca. Forse un record assoluto che convinse Mussolini dell’assoluta lealtà del popolo tedesco; mai, infatti, un personaggio polìtico italiano aveva sollevato tanto entusiasmo in terra tedesca.
Il secondo fatto, che conquistò Mussolini, fu la firma dei trattato con cui la Germani rinunciava al Sudtirolo, un altro attestato di amicizia incredibile, considerando che il Fùhrer riteneva irrinunciabile e prioritaria l’annessione di tutti i territori di lingua tedesca. Il Sudtirolo era, infatti, indubbiamente tedesco, il termine Alto Adige, inventato dal senatore Tolomei, non è mai esistito, come non è mai esistito il toponimo Nice, inventato dai francesi per sostituire il nome legittimo di Nizza. Da quel trattato, che sanciva il confine del Brennero, derivava la dolorosa odissea degli Optanti (coloro che sono partiti) e Dableiber (coloro che sono rimasti), sacrificati da Hitler in omaggio a Mussolini.
Ultimo motivo dell’alleanza italo-iedesca, la convinzione che Hitler non avesse alcun interesse per il Sud-Europa, tutto proteso nei suo Lebensraum (lo spazio vitale) diretto verso est. Una convergenza di interessi, quindi, in un futuro assetto dell’Europa che avrebbe visto dominante il Reich millenario, ma anche come partner privilegiato l’Italia tutta mediterranea.
Italia e Gran Bretagna
La Gran Bretagna, e in particolare Winston Churchill, all’inizio degli anni Trenta manifestava un’aperta simpatia per l’Italia fascista, peraltro ricambiata da Mussolini che, spesso, parlava di “cavalleria britannica”. Ma poi le cose cambiarono, il Duce non si accontenta del rispetto e dell’ammirazione della grande Potenza, ma vuole che l’ltatla stessa diventi una grande potenza, ampliando il suo territorio in Europa, in Africa, in Medio Oriente.

Sir Anthony Eden
Giunge nei nostro Paese sir Antony Eden, elegante, colto e raffinato, ma anche presuntuoso come solo sa essere un baronetto inglese. Amante dell’ Antica Roma e della cultura classica, si dice che si aggirasse tra le rovine del Palatino recitando i versi dì Orazio. Ma Eden non stimava altrettanto gii italiani contemporanei, anzi, dimostrava verso di essi un’antipatia che sconfinava nel disprezzo.
Ci fu un vero scontro con Mussolini, anche dal punto di vista caratteriale. il Duce non era nobile, non era elegante, non era raffinato, ma schietto e anche brutale, come sanno essere solo i sanguigni figli di Romagna. Più che un incontro, fu uno scontro; si dice, ma forse è solo un aneddoto, che Eden inciampasse in un tappeto e che Mussolini reagisse con una sonora risata. Ciò che è certo è l’esito negativo dell’incontro. Più Mussolini alzava il tiro, più il baronetto britannico s’irrigidiva.

Chamberlain, Daladier, Hitler, Mussolini and Ciano at the Munich Conference
Viene anche in Italia il premier francese Daladier. La piazza rumoreggia, forse sobillata dal segretario del Partito fasciste Achilie Starace: Nizza, Savoia, Corsica e ancora Tunisi, Gibuti, Malta, ma in verità si spara a salve, Mussolini si sarebbe accontentato di molto meno. Daladier, indispettito, se ne torna in Francia e in Parlamento proclama altezzoso: “All’Italia neanche un’oncia dei territorio francese sarà ceduta”. Ormai è rottura con gli antichi alleati dell’Intesa, non più la cavalleria britannica, ma la perfida Albione. La Francia non è più la sorella latina, ma una sorellastra prepotente e invidiosa.
La Francia amica dell’Italia? Si rilegga la storia, il nostro Paese è sempre stato terra di conquista, si ricordino i Vespri siciliani, la disfida di Barletta, la calata di Carlo VIII e la devastazione del nostro territorio, con il “regalo” da parte francese di una nuova malattia, la sifilide. E ancora, le grandi fortezze del Piemonte, da Bard a Fenestrelle, a Exilles, furono tutte costruite per difendersi dalle continue invasioni francesi. E così pure le fortezze della Savoia, come quella di Esseillon e Regina Cristina, costruite da Vittorio Emanuele I di Savoia.
Nel 1700 il Piemonte fu invaso per tre volte dai re di Francia, con momenti gloriosi, come la famosa battaglia dell’Assietta. E come dimenticare che le valli di Pinerolo e la Val Chisone furono a lungo occupate dai Francesi e che Napoleone aveva addirittura annesso alla Francia l’intero Piemonte?

La fortezza di Bard
E infine, per guanto riguarda il Risorgimento, l’aiuto francese era più in funzione antiaustriaca che filo-italiana. Napoleone III non voleva affatto l’unità d’Italia, nonostante le promesse alla bella contessa di Castiglione, ma la voleva divisa in tre stati, mantenendo il dominio della Chiesa su gran parte dell’Italia centrale. La vittoria nella seconda Guerra d’indipendenza ebbe un costo altissimo, con la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia. La Conferenza di Parigi del 1919, con la vittoria mutilata, non era altro che l’ultimo anello di una lunga catena di ingiustizie e di sopraffazioni.
Questa rilettura della storia, peraltro non proprio fantasiosa, era miele per il nazionalismo imperversante e sempre più aggressivo. La frattura con le grandi potenze, Francia e Gran Bretagna, era ormai insanabile. A Mussolini non restava che l’abbraccio con la potente Germania dì Hitler che, poi, risulterà fatale. Tuttavia, la Gran Bretagna tentò fino alfultimo di staccare l’Italia dalla Germania, ponendole un’alternativa ineludibile, o lasciare il potente alleato, o essere abbattuto insieme a lui. E qui nasce un altro interrogativo: Perché tanta insistenza?

CHURCHILL
La Gran Bretagna, detentrice dei più grande impero di tutti i tempi, poteva aver paura di un’Italia debole dal punto di vista militare e organizzativo, ma anche dal punto di vista caratteriale, il “ventre molle”, come la definirà in seguito Churchill? Eppure, dai rapporti dei servizi segreti britannici (ancora in gran parte secretati) si intuiscono le ragioni di questi timori.
Non si temeva l’Italia per quello che era, ma per quello che avrebbe potuto essere. Si conoscevano le capacità creative del nostro Paese che, messe al servizio di una tecnologia avanzata e di un potenziale economico e militare di altissimo livello come quello germanico, potevano costituire un cocktail micidiale e rappresentare un ostacolo molto difficile da superare.
I recenti progressi nell’ambito della Marina Militare e dell’Aereonautica e i record mondiali sui mari e nei cieli non erano soltanto esternazioni della propaganda di regime. Inoltre, l’Italia veniva vista come una sorta di piromane, capace di accendere fuochi all’interno di quel mastodontico e traballante impero.

Italo Balbo
Dai documenti venuti a conoscenza, si evince il fondamento di questi timori. Già molti anni prima si era tenuto un congresso sugli armamenti a Ginevra e Italo Balbo aveva presentato un piano di ammodernamento, dilazionato nel tempo, di dimensioni faraoniche, con la costruzione di sei portaerei, che avrebbe fatto dell’Italia una grande potenza, anche dal punto di vista militare. Inutile dire che il piano venne subito bocciato.
Inoltre, la Gran Bretagna era a conoscenza che in Italia vi erano cervelli capaci di straordinarie scoperte scientifiche che potevano essere messe al servizio dell’industria bellica. Già negli anni Venti Guglielmo Marconi, nella torretta del Grand Hotel dì Montecatini, aveva fatto esperimenti che prefiguravano la scoperta del radar e successivamente si annunciavano ulteriori scoperte nel campo delle telecomunicazioni. Allora si parlava soltanto di identificazione di oggetti a distanza.

Guglielmo Marconi
In Inghilterra non si dimenticava che la madre di Marconi, erede di una famosa dinastia di whisky, era irlandese e la turbolenta Irlanda, dopo i fatti sanguinosi di ventanni prima, era guardata con sospetto. Nei rapporti dei servizi segreti si fa anche riferimento a un episodio misterioso, poi etichettato come leggendario che un fondamento doveva pure averlo, se suscitava tanta attenzione oltremanica.
Nel bel mezzo dì una giornata dì primavera, sotto il sole caldo di Roma, si bloccò totalmente il traffico della capitale, con disattivazione dei circuiti elettrici e fibrillazione dei campi magnetici. Questa scoperta, davvero sconvolgente, attribuita a Guglielmo Marconi, partiva dagli studi di un altro fisico, Nikola Tesla e, se applicata in campo bellico, avrebbe avuto conseguenze devastanti.

Nikola Tesla
La scoperta venne definita “raggio della morte” e si disse che Marconi, personaggio di altissimo livello intellettuale, ma anche di altrettanto livello morale, spaventato dalle terrificanti conseguenze della sua scoperta, avrebbe distrutto quelle carte. Quanto c’è di vero e quanto di fantastico? E veramente fu lui a distruggere quelle prove? Sta di fatto che fanno dopo, nel 1938, Marconi morì, portandosi dietro il suo segreto.
Vera è invece la conoscenza, da parte dei servizi segreti inglesi, della presenza a Roma, in alcuni piccoli locai dì via Panisperna, di un gruppo di giovanissimi scienziati che stava ottenendo risultati strabilianti nel campo della fisica nucleare. Dirigeva il gruppo Enrico Fermi, poi premio Nobel per ia fisica, e si distingueva per le sue iniziative un altro giovanissimo, Ettore Majorana che, forse, era giunto a risultati ancora più sconvolgenti.
Enrico Fermi, dopo un congresso, non tornerà più in italia, sì dice, per sfuggire alla leggi razziali. La verità, come spesso succede, è molto diversa da quella che la storia ufficiale ci impone. Fermi non era ebreo, ebrea era la moglie e l’talia di Mussolini non avrebbe certo perseguitato un cervello straordinario come quello def futuro premio Nobel. Tra l’altro, c’era un noto avvocato, specializzato nell’arianizzare i cognomi ebrei, non ci sarebbero state difficoltà nel correggere le origini della signora Fermi. Il personaggio in questione era il noto gerarca Farinacci che, oltretutto, aveva una segreteria ebrea di nome Jole…
Fermi, in realtà, fu attratto dalle sirene d’oltre Atlantico e da Londra andrà negìi Stati Uniti che gli mettevano a disposizione moderni laboratori e non gli angusti locali di via Panisperna, oltre, naturalmente, ad un’adeguata retribuzione.

Enrico Fermi
Ettore Majorana, un giovane siciliano introverso, ossessionato da scrupoli religiosi, un giorno s’imbarca a Napoli per ritornare nella sua Sicilia, ma a Palermo non giungerà mai o, se vi è giunto, si è immediatamente volatilizzato. Il mistero della sua scomparsa non è ancora svelato, ma è certo che qualcuno seguiva i suoi passi e aveva interesse a spegnere la luce che emanava da quella mente. Ma allora, davvero lo scienziato bolognese, il fisico romano e il giovane ascetico siciliano, potevano deviare il corso della storia? Domanda inquietante e forse provocatoria.

Benito Mussolini mostra la spada dell’Islam, a sinistra Italo Balbo
Tornando ai servizi segreti britannici, altri fatti italiani attiravano la loro attenzione, uno in particolare: in pieno fervore nazionalista, Mussolini, in Libia, con un cerimoniale sfarzoso e spettacolare e alla presenza dei dignitari religiosi libici, solleva la spada sacra tempestata di pietre preziose, proclamandosi il difensore dell’Islam, un gesto clamoroso che avrà notevole risonanza in tutto il mondo islamico. Mai un capo cristiano dai tempi di Federico II aveva fatto un simile gesto e proclamato in pubblico una così impegnativa promessa.

Il Duce a Tripoli con il Maresciallo Balbo
Il timore di un futuro contagio in tutti i paesi arabi non era una semplice supposizione, in Libia, dopo la brutale repressione di Graziani che aveva sollevato tanta ostilità verso gli italiani, viene nominato dal Duce Governatore della Libia l’eroe dell’aria Italo Balbo, personaggio popolarissimo in italia, ma molto ammirato anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, per la sua trasvolata atlantica in formazione. L’impresa, con i famosi “sorci verdi”, aveva entusiasmato tutti gli americani, che gli riservarono la classica parate celebrativa a Broadway, tra la folla plaudente e dedicandogli anche una strada a Chicago, la Balbo Street.
Dopo la guerra, alti ufficiali americani vennero in Italia e si mostrarono stupiti e sconcertati, notando che l’Italia non aveva dedicato neppure una piccola targa ricordo al grande trasvolatore atlantico, e questo tra l’imbarazzo dei rappresentanti dell’aeronautica italiana.
Si diceva che Italo Balbo fosse stato mandato nella colonia africana perché faceva ombra a Mussolini, promuoveatur ut amoveatur, secondo la logica degli antichi Romani (promosso affinché se ne vada). Di lui Mussolini dirà: “E’ l’unico che avrebbe il coraggio di spararmi un colpo di pistola”. Ebbene, il nuovo governatore della Libia instaura un clima molto diverso. Regge il governo come un patriarca o come un principe rinascimentale nell’antico castello, abbellito come una reggia, ma stabilisce un rapporto diverso con la popolazione araba. Fa restaurare tutte le moschee e anche la Medina, l’antica cittadella islamica.
Promuove l’amicìzia tra cristiani e musulmani e anche con gli ebrei, rifiutando le discriminazioni imposte dalie leggi razziali dell’Italia fascista; inserisce addirittura nell’entourage del potere anche autorevoli personaggi islamici. È un modo di governare rivoluzionario rispetto alla mentalità coloniale di allora. Sulla falsariga della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) fonda la GAL (Gioventù Araba del Littorio). Nonostante lo scetticismo di Mussolini, l’iniziativa ottiene un grande successo, i giovani libici vestono con entusiasmo la camicia nera e la divisa da balilla, fanno il saluto romano e cantano “giovinezza”.
Ma Balbo non si accontenta, vola a Roma e presenta al Duce un progetto per quei tempi sconvolgente, concedere a tutti i libici la cittadinanza italiana con parità di diritti. Per Sua Maestà britannica, qualcosa di incredibile, ma conturbante anche per i vicini francesi della Tunisia. Un giornalista francese descriveva Tripoli come una capitale elegante, accogliente, moderna, con un bel lungomare che, non molti anni prima, era simile a una strada polverosa di uno sperduto villaggio. Incominciava a farsi concreto il pericolo del contagio e per di più in Tunisia la comunità italiana era numerosa e riscuoteva più simpatìe tra la popolazione araba, rispetto ai francesi.
Ma c’è di più. Da alcune indiscrezioni sembra che Balbo avesse concepito un piano politico-militare, con destinazione Sudan, e con esso raggiungere, attraverso una campagna militare, l’Oceano indiano e congiungere così la Libia all’Africa orientale, Etiopia e Somalia. Un piano ovviamente allora irrealizzabile, ma poi, con il colosso hitleriano alle spalle…
Va tuttavia aggiunto che il delirio nazionalista spingeva i più esaltati a progetti paradossali. Si dice che un ingegnere (o presunto tale) avesse presentato al Duce un piano, non solo per costruire il ponte sullo Stretto di Messina, ma per costruirne anche uno che congiungesse la Sicilia … alla Tunisia, diventata italiana e poi giù fino al Corno d’Africa. Insomma, un’Italia con un dominio ininterrotto dalle Alpi all’Oceano Indiano.
Lasciando da parte la fantastoria e la fantaingegneria e tornando alla realtà dì allora, è indubbio che Francia e Gran Bretagna individuassero nell’Italia una minaccia al loro impero coloniale. E qualcosa di nuovo succedeva anche in Etiopia, dove era stato nominato governatore il Duca d’Aosta, personaggio carismatico che diventerà leggendario con l’eroica resistenza anti-ìnglese sull’Amba Alagi.
Personaggio straordinario, di altissimo spessore culturale, instaurerà un rapporto diverso con la popolazione indigena, suscitando ammirazione e rispetto, il Duca era imparentato con la Corona inglese e perdipiù le colonie italiane confinavano con quelle inglesi, in particolare con regioni opulente, come il Kenya e l’Uganda, dove la separazione tra colonizzatori e colonizzati era rigida e immutabile.
Si dice che il governatore britannico rimanesse scandalizzato nell’esaminare un piano urbanistico presentato dal Duca d’Aosta che non comprendeva quartieri separati per italiani ed etiopici. Altrettanto stupefatti dovettero essere gli alti ufficiali inglesi, quando videro una fotografia che circolava a quell’epoca e che è stata recentemente riproposta in una mostra in Italia, dove si poteva notare l’atteggiamento confidenziale tra ufficiali italiani e popolazione locale, con un etiopico che teneva amichevolmente la sua mano sulla spalla della moglie del generale De Marchi.
Questa contaminazione preoccupava non poco la Gran Bretagna e all’orizzonte si profilava la legge del domino che, in futuro, poteva anche disgregare o destabilizzare le colonie britanniche. Insomma, questa Italia insolente e aggressiva non poteva continuare a sfidare impunemente l’impero di Sua Maestà britannica, bisognava fermarla con le buone o con le cattive, e fermarla subito, prima che l’alleanza itato-tedesca diventasse ancora più coesa e potenzialmente letale.
La situazione precipita
I fatti avvenuti in quei dieci anni che precedono la seconda Guerra Mondiale sono fin troppo noti. Hitler, inebriato dai suoi successi e sorretto da un consenso popolare senza precedenti, occupa l’Austria. L’ex-caporale austriaco entra nella sua Vienna su di un’auto scoperta, tra due ali di folla plaudente, con le donne che gettano fiori al suo passaggio. Il pittore fallito che si aggirava con lo sguardo allucinato per le strade della capitale austriaca, ora vi ritorna da trionfatore e la Germania sconfitta e umiliata è diventata, assieme alla sua Austria, il Terzo Reich, temuto da tutto il mondo.
Poi è la volta dei Sudeti; anche qui un tripudio di folla, e infine la Cecoslovacchia, inerte, quasi rassegnata. In poco tempo Hitler si era ripreso ciò che riteneva gli fosse stato ingiustamente tolto, e senza sparare un colpo. Ma ormai non si accontentava più. La Conferenza di Monaco vide Mussolini come il protagonista assoluto, assieme a Hitler, Daladier e Chamberlain, i grandi della Terra.
Il patto firmato nella capitale della Baviera apparve come un balsamo sulle ferite di quell’Europa infuocata. Mussolini è acclamato in tutto il mondo come il salvatore delta pace. In Italia, il treno che da Monaco lo riporta a Roma è accompagnato lungo il percorso da una folla immensa, le donne si facevano il segno della croce e si inginocchiavano al suo passaggio, quasi fosse un santo.

Monaco 29 settembre 1939 . In prima fila Chamberlain, Daladier, Hitler, Mussolini
Tra le memorie della mia infanzia è vivo il ricordo dell’arrivo del Duce alla stazione di Bologna. Assieme alle maestre, fummo portati a quest’incontro; vidi scene di un entusiasmo delirante, persone di tutte le età che applaudivano, gridavano, piangevano, inneggiando a quel personaggio che appariva come l’uomo del destino.
Purtroppo fu soltanto illusione, il sasso tenciato da D’Annunzio a Fiume e il colpo di pistola poi sparato dai caporale austriaco nella birreria di Monaco sono diventati valanga e la valanga è ormai inarrestabile.
Certamente, Mussolini non voleva la guerra, nonostante le sue roboanti esternazioni (o quantomeno non la voleva nel 1939), ma a quel punto la forza trainante della storia era al di là del Brennero e gli antichi alleati dell’Intesa avevano chiuso la porta a qualsiasi rivendicazione dell’italia. Perché l’Italia non era più il paese dei sole, del mare e dell’amore, la terra di gondolieri e mandolini, di languide serenate ai chiaro di luna o del tremolio delle lampare sul mare che luccica, accompagnato dalle note di una struggente melodia.
A questa immagine oleografica da cartolina del nostro Paese, tanto cara ai turisti stranieri, Mussolini voleva sovrapporre il mito di una nazione guerriera, pronta ad ascendere all’Olimpo delle grandi Potenze, ma le grandi Potenze ritennero che l’Olimpo fosse già pieno e che non ci fosse più posto per quell’Italia tanto ambiziosa quanto potenzialmente pericolosa. Ormai il nostro Paese era entrato in un vicolo cieco, dal quale sarebbe stato impossibile uscirne.

Giuseppe Bottai
Giuseppe Bottai, uno dei personaggi più significativi del regime fascista, poi dissidente da Mussolini, così sintetizzava la situazione: “Qui ci sono due leoni, due imperi in lotta, se vincesse l’Inghilterra non ci lascerebbe che il mare per fare i bagni, se vincesse la Germania neppure l’aria per respirare”. A quel punto era pressocè impossibile rimanere neutrali. Lo scontro titanico era ormai alle porte.
E gli italiani? Domanda imbarazzante. La vulgata post-bellica ci ha sempre descritto un’Italia oppressa, ma totalmente contraria al regime, mentre le immagini d’epoca ci mostrano piazze nereggianti di folla entusiasta e le statistiche ci dicono che il numero dei volontari della seconda Guerra Mondiale fu di gran lunga maggiore di queelli della prima.
Italiani colpevoli o innocenti? Né condanna, né assoluzione, ma la semplice constatazione che tanti italiani, soprattutto giovani, così come altrettanti giovani europei, furono travolti in un turbine di illusioni, di passioni e di follia che li porterà a combattere e a morire. Sta di fatto, tuttavia, che in quell’angosciante vigilia di guerra, in Italia non si vide nulla che potesse rassomigliare alla rivolta anti-comunista di Berlino est del 1953, o alla eroica lotta armata della gioventù ungherese del 1956, o alla primavera di Praga del 1968, o infine alla piazza Tien-An-Men di Pechino di più recente memoria.
Non si udì echeggiare un solo colpo di pistola e neppure un petardo contro il regime fascista. Si segnalò soltanto il caso di un distinto signore che, agitando un bastone sotto il fatidico balcone di palazzo Venezia a Roma, cantava una canzoncina allora molto in voga che iniziava così: “Un’ora solo ti vorrei…”, subito arrestata dalla milizia fascista si giustificò dicendo: “Ma era solo un innocente bastoncino da passeggio”. Una lieve nota di ironia i n un contesto altamente drammatico.
La Francia tentò in extremis di sganciare l’Italia dalla Germania, offrendo addirittura la Tunisia, quella Tunisia che, oltre sessantanni prima, ci aveva sottratto con un colpo di mano, approfittando della debolezza italiana e in dispregio degli accordi in precedenza intercorsi. Troppo tardi purtroppo, poiché l’Italia aveva già consumato l’amplesso mortale con la Germania nazista. È lo scontro epocale tra chi vuole diventare grande e chi, invece, troppo grande lo era e, pur detenendo i due terzi della ricchezza della Terra, nulla voleva cedere.
Da una parte la Germania nazista, ormai pervasa da un delirio di onnipotenza, ritenendo che nulla le fosse precluso, e l’Italia di Mussolini, prigioniera di un sogno di grandezza imperiale da esercitare su tutto il Mediterraneo, il sogno folle di rinverdire gli allori e le glorie dell’antica Roma. Dall’altra parte le potenze capitaliste, Francia e Gran Bretagna che, per egoismo e miopia, non avevano capito che il mondo da esse dominato dall’alto dei loro immensi domini coloniali, stava per crollare.
Chi volte dunque la guerra? Tutti e nessuno. Risposta solo apparentemente paradossale. Tutti, perché tutti, a parte forse Mussolini che voleva solo posticiparla, si aspettavano con la guerra di raggiungere i propri obiettivi. Nessuno, perché nessuno poteva prevedere che la guerra avrebbe avuto conseguenze così disastrose. Ma in quegli anni il silenzio della ragione oscurava l’Europa e il mondo. Solitario si levava il grido disperato del Sommo Pontefice. “Tutto è perduto con la guerra, tutto si può salvare con la pace”. Nessuno volle ascoltare quella voce, nessuno volle fare un passo indietro, e guerra fu.