a cura di Cornelio Galas
A Salò, l’11 dicembre 1943, nel giorno dell’anniversario della firma del Patto Tripartito, il duce riceve l’Ambasciatore del Reich Rahn che gli presenta le credenziali.
Verona, poligono di tiro nella fortezza di San Procola, 11 gennaio 1944. Due fotogrammi dell’esecuzione dei gerarchi fascisti, i “traditori” del 25 luglio. Con Ciano, vestito con un impermeabile bianco – che si gira verso il plotone al momento dell’ordine di far fuoco – furono fucilati il maresciallo De Bono, Giovanni Marinelli, luciano Gottardi, Carlo Pareschi.
Va detto che queste foto, che pur si trovano negli archivi dell’Istituto Luce, non furono scattate da uno degli operatori, bensì da un non meglio identificato “ufficiale della milizia che sembrava addetto a qualche organo di propaganda”, secondo una fonte tedesca. L’esecuzione fu la dimostrazione più lampante della debolezza di Mussolini preso fra due fuochi, Hitler da una parte, gli estremisti del partito fascista repubblicano dall’altra.
“Il duce che ha seguito ieri sera alle venti, alla radio, l’annuncio delle fucilazioni e i relativi commenti, è rimasto terribilmente urtato per la forma che egli definisce “oscena, reclamistica, commerciale”, con la quale la notizia è stata diffusa”, scrive Dolfin nel suo diario. “Accennando al fatto che era stata preceduta dalle notte di “Giovinezza” ha detto “Bravi ! Anche il commento musicale, come a uno spettacolo di varietà ! I morti vanno sempre rispettati. Guai dimenticare che sono morti bene, con un coraggio che molti dei giustizieri non avrebbero, anche se oggi predicano l’eroismo. Soltanto la propaganda, idiota e meschina, poteva dare a questa tragedia un carattere festaiolo. In qualsiasi occasione noi italiani ci dimostriamo buffoni o feroci. Il fatto è che siamo impazziti: non distinguiamo più cos’è vita e cos’è morte”.
Arruolamento-volontario dei paracadutisti. Il 9 novembre 1943 era stato pubblicato il bando di chiamata alle armi. Il manifesto avvertiva che fra il 15 e il 30 novembre 1943 le nuove reclute dovevano presentarsi ai distretti, a eccezione di coloro che lavoravano come operai specializzati in aziende ausiliarie per la produzione bellica i quali potevano ritardare la presentazione fino al 31 gennaio 1944, mentre il 15 gennaio scadeva il termine per la leva aeronautica.
Nelle foto sopra, alcune scene di addestramento e di interni di un MAS in navigazione. Il caso della X MAS è a sé stante: il principe Junio Valerio Borghese, che la comanda, lo stesso che nel 1970 farà parlare di sé per il presunto golpe del “Principe Nero”, offre ai giovani non scelte politiche, ma “i semplici miti” del combattentismo, della patria, dell’alleato tradito” (Pansa).
Sui labari dei reparti sta scritto “Per l’onore”, “Siamo quelli che siamo”, “Audacia, cimento, vittoria”. Mentre i manifesti di arruolamento dicono “La vita è una dura e tenace conquista”, o come questo “L’ordine del Comandante comporta dedizione e sacrificio”.
La risposta sarà immediata. Scrive Deakin: “Per il loro reclutamento volontario ed entusiasta, i reparti di marina della X MAS avrebbero potuto costituire il modello del futuro esercito regolare, fuori dal controllo del partito”. Alla fine del 1943 sono in quattromila, per poi crescere, secondo un’affermazione di Borghese, e diventare trentamila.
Scuola per gli equipaggi dei mezzi d’assalto della X MAS, aprile 1944. Non così valorosa e mitica è la nuova unità che nasce a La Spezia il 1° maggio 1944. Questa, impostata su tre reggimenti, uno di artiglieria e due di fanteria di marina (i battaglioni “Barbarigo”, “Lupo”, “Nuotatori paracadutisti”, “Fulmine”, “Sagittario”, “Valanga”), viene inviata dai tedeschi in Piemonte a tenere sgombre le vie di comunicazione a ridosso del fronte alpino, ossia a fare la guerra contro i partigiani.
“Devo dire – sarà più tardi la risposta di Borghese a Pansa – che la Decima non intendeva occuparsi in nessun modo del fenomeno partigiano. La mia unità, infatti, era una formazione militare che si era assunta il compito di combattere il nemico esterno (…), ma poi avvennero i primi agguati e le prime uccisioni. Capimmo, allora, che la preservazione della vita degli uomini della Decima era affidata a noi stessi. Convocai quindi ad Ivrea gli ufficiali di tutti i battaglioni (…). Dissi che la situazione ci imponeva, purtroppo, di prendere parte alla lotta contro il “partigianesimo” poiché non potevamo garantire la sicurezza delle nostre caserme sorvegliandone solo le mura, (…) Dissi, infine, che se qualche ufficiale non riteneva di poter partecipare a queste azioni, era libero di tornare a casa.
Dei trecento ufficiali presenti, quindici mi chiesero di essere congedati. Tra essi alcuni erano dei migliori, ma io li lasciai ugualmente liberi”. Al processo Borghese, Ferruccio Parri dirà: “Il compito di questi reparti era quello di distruggere ogni forma di ribellismo … C’era fanatismo cieco e odio di parte … Ad essi piaceva far sfoggio delle armi e incutere paura; piaceva spadroneggiare e saccheggiare”.
Arruolamento alpini a Conegliano Veneto nel marzo 1944. Con il “bando Graziani” del 18 febbraio 1944 la situazione si fa ancor più tesa e cruenta. Infatti questo decreto legislativo che stabilisce la pena di morte per i renitenti e i disertori, conferma il doppio fallimento della chiamata alle armi del novembre 1943: poche reclute entrano nelle caserme e molte ne fuggono.
Il termine massimo viene fissato alle ore 24 dell’8 marzo. Tre giorni dopo la scadenza del bando, il maresciallo Graziani, se dobbiamo credere al resoconto ufficiale pubblicato sulla stampa, come sostiene Pansa, è in grado di presentare al Consiglio dei ministri “i dati riguardanti la quasi totale presentazione ai distretti delle reclute, dei richiamati e dei renitenti”: “La conseguenza di questa minaccia è stata che 60-70.000 persone si sono presentate”.
Sebbene sia impossibile verificare questi dati, quel che è certo è che la reazione fu immediata e violenta: ostilità, manifestazioni, scontri aperti, per non parlare delle domande di entrare nella TODT e perfino di arruolarsi nella Wehrmacht, nelle SS, nella polizia germanica.
Anche perché nelle caserme italiane, oltre tutto, non c’era il rancio, a differenza di ciò che mostrano le fotografie dell’Istituto Luce, non c’erano coperte, il trattamento era pessimo e demoralizzante
Scene scattate dalla propaganda fascista per mostrare la qualità della vita nell’esercito e invogliare le reclute a presentarsi in caserma: distribuzione delle uniformi.
Le fotografie che mostrano soldati al rancio sono innumerevoli negli archivi dell’Istituto Luce. “La radio, i cinegiornali e la stampa sono stati mobilitati per spingere i giovani ai distretti. Da tempo i quotidiani hanno ricevuto apposite veline dal ministero della Cultura Popolare. Tema: come impostare la campagna di preparazione psicologica alla chiamata alle armi” (Pansa).
Procurarsi da mangiare era un problema sentito da tutta la popolazione, perfino dalle strutture militari. “Circa cento reclute che viaggiavano da Sassuolo a Reggio Emilia risultavano essere fuggite dalla caserma di Sassuolo perché il trattamento loro usato era cattivo e demoralizzante: mancata distribuzione del rancio, gavette sporche, mancata distribuzione di coperte, ecc.
Perciò rientravano alle proprie case col proposito di non ripresentarsi alle armi prima che l’andamento della caserma venisse modificato”, si legge in uno dei notiziari della GNR del 1943. Questo è il motivo per cui la radio, il cinegiornale e la stampa vengono mobilitati per convincere i giovani a presentarsi al distretto, mostrando abbondanza di cibo e volti allegri.
Sopra, quattro fotografie scattate a Udine dove era stata addestrata la prima squadriglia da caccia italiana. Dopo l’8 settembre fu il tenente colonnello Botto, il popolare “Gamba di ferro”, a guidare la nuova Aeronautica fascista fino all’agosto 1944, quando “scoppia la crisi che da tempo covava tra tedeschi e italiani”, scrive Gianni Rocca nel suo “La tragedia dell’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale.
“Le continue richieste di autonomia della Aeronautica di Salò erano alla base dei contrasti. Il generale della Luftwaffe, Wolfram von Richthofen, cugino del famoso “Barone rosso” della prima guerra mondiale, decide di trasformare i reparti aerei italiani in una “Legione” direttamente inquadrata nell’aviazione tedesca, con l’obbligo di vestirne la divisa e di prestare giuramento al Füher.
In cambio i piloti italiani avrebbero ricevuto velivoli germanici. Chi si fosse rifiutato di aderire avrebbe potuto scegliere tra l’internamento o il trasferimento forzoso nei reparti della controaerea tedesca”. In alcuni casi, come a Vicenza, gli italiani dettero alle fiamme alcuni MC 205 e G.55 per non farli cadere in mano tedesca.
Sfilata dei prigionieri anglo-americani per le vie di Roma nel febbraio 1944 per dimostrare che lo sbarco degli alleati ad Anzio e Nettuno non ha rotto il fronte: Roma è sempre in mano tedesca. Tra di loro anche i superstiti del battaglione britannico che fu circondato e annientato presso Aprilia. Dapprima passano per via dell’Impero, davanti alla Basilica di Massenzio, poi davanti al Milite Ignoto, poi Via del Corso, infine in Piazza Barberini.
“E intanto la popolazione romana sotto il tallone nazista viveva in condizioni pietose, sempre in stato di allarme. Il coprifuoco cominciava alle 5 del pomeriggio. Scarseggiavano i generi alimentari di prima necessità; il pane era un impasto di farina di segale e di ceci: cento grammi al giorno. Non c’era più carbone. Chi poteva si serviva al mercato nero, ed era tornato in auge il baratto fra gli oggetti e il cibo.
L’occupazione tedesca e le persecuzioni nazi-fasciste raggiunsero inumane punte di durezza e di barbarie. Ci furono rastrellamenti di cittadini nelle strade in pieno giorno e incursioni nelle chiese, come a San Paolo, dove i fascisti cercarono i partigiani che vi si erano rifugiati. A tutto questo si aggiungevano i bombardamenti aerei degli alleati” (Antonio Spinosa).
Festa della Befana a Salò nello stesso anno. La propaganda fascista, se da un lato nega la realtà ritraendo alpini al rancio o giovani che si arruolano col sorriso sulle labbra, dall’altra tinge la realtà di rosa soffermandosi a lungo su fatti di costume come appunto le feste della Befana di cui diamo qui solo due esempi ma le cui fotografie in verità sono molto abbondanti negli archivi.
Come per la Befana fascista, così sono frequenti le foto che rappresentano l’invio di pacchi dono agli italiani in Germania da parte dei familiari o della Croce Rossa in occasione delle feste: a dimostrazione dell’abbondanza di viveri in Italia e del sentimento patriottico che univa questi a quelli. In realtà i contatti dei soldati con le famiglie sono rari e le licenze sono vietate per timore del generale disfattismo.
Una curiosità della propaganda fascista: i ragazzi che dicono il Benedicte o che lavorano alla rotativa tipografica o con la cassa Rossi che contiene i piombi per comporre una pagina a stampa, sono giovani russi a Venezia. La didascalia fascista dice che “hanno seguito volontariamente le nostre truppe dalle Russia e ora vengono educati e inviati al lavoro dall’Istituto Artigianelli “Don Orione””.
La GNR in azione. Il 20 novembre 1943 era nata la Guardia Nazionale Repubblicana. Nel comunicato “Stefani” si dice che la GNR ha “il compito di difendere dall’interno le istituzioni e far rispettare le leggi della repubblica”.