Manfred Rommel:
“Mio padre, La volpe del deserto”
I PROTAGONISTI
LE INTERVISTE
di Enzo Cicchino
(2001)
In che famiglia nasce Rommel?
Il padre era preside di un liceo ed anche sua madre aveva un ottimo livello di istruzione. Avevano diversi figli: oltre mio padre anche una femmina e altri due maschi. Era una famiglia della buona borghesia. Mio nonno era un matematico; aveva una preparazione culturale molto vasta che però, con sua grande delusione, non riuscì a inculcare in mio padre con i metodi bruschi e autoritari che si usavano allora.
Da bambino che carattere aveva?
Da bambino mio padre era un sognatore. A scuola non si trovava a suo agio: pensava sempre a qualcos’altro. E questo disinteresse per lo studio preoccupava non poco suo padre. Poi ha recuperato ed ha imparato persino il latino, anche se controvoglia. Diceva sempre che in tutta la vita non gli era mai capitato nemmeno una volta di fare quattro chiacchiere con un antico romano! Si rammaricava del fatto di conoscere il latino ma, ad esempio, di non avere studiato l’italiano, cosa che ha fatto solo successivamente.
Quando combatté in Africa?
Sì, …più tardi. Ovviamente sapere il latino gli è servito molto.
Qual è stata la sua formazione scolastica?
Aveva preso la maturità della nona classe della scuola di latino, del ginnasio; sarebbe la tredicesima, se si contano anche le scuole elementari. Aveva una predisposizione particolare per la matematica. Aveva sempre un gran desiderio che qualcuno gli chiedesse di spiegargli qualcosa di matematica, ma non erano in molti a farlo.
Aveva qualche hobby…
In gioventù faceva collezione di francobolli, ma siccome il fratello approfittava delle sue assenze per vendergli i pezzi migliori, ha deciso di interrompere la sua carriera di collezionista. Più tardi ha mostrato una certa passione per la caccia. Praticava sport di ogni genere, andava volentieri a cavallo. Ma ripeto, l’interesse più grande era la matematica.
C’è qualche episodio curioso della sua vita scolastica?
Mio padre era sempre stato un ragazzo molto disordinato, fino a quando non è andato alla Scuola di Guerra. Lì hanno subito notato il gran disordine dei suoi quaderni e gli hanno dato un mese di tempo per adottare una calligrafia più leggibile e ricopiarli tutti.
Nella sua esistenza visse un unico grande amore!
Mia madre si chiamava Lucie Maria. Era cattolica. Veniva dalla Polonia. Aveva frequentato le scuole a Danzica. Mio padre la conobbe perché a Danzica frequentava la Scuola di Guerra. Si sono sposati nel 1916. Il nome da nubile era “Mollin”. È un cognome piuttosto comune. Mia madre diceva sempre che la sua famiglia – la famiglia di suo padre – era di origine italiana.
Quanto peso ebbe sull’uomo Rommel l’amore di lei?
Quello dei miei genitori è stato un matrimonio sicuramente felice. Ma non credo affatto che mia madre abbia influenzato in qualche modo mio padre.
In famiglia si rivelò una donna forte?
Certo. Ad esempio nei miei confronti. È stata lei ad allevarmi perché mio padre non c’era quasi mai. Mia madre aveva grandi difficoltà con me… anche se sono sempre stato promosso. Ciò nonostante chiedeva a mio padre di intervenire, di dirmi qualcosa perché m’impegnassi un po’ di più a scuola, ma per lui non ce n’era bisogno; diceva che non andavo poi tanto male. In alcuni compiti in classe non c’era nemmeno il segno rosso di una correzione, e questo doveva significare che erano fatti bene. In altre parole, da mio padre non ho mai ricevuto pressioni.
I suoi genitori erano innamoratissimi, si sono scritti migliaia di lettere. Cosa si raccontavano…?
In sostanza quelle lettere dicevano: “le cose vanno bene”, “sto bene” oppure “non va molto bene”. Anche perché nel Terzo Reich non era raccomandabile parlare di politica nelle lettere perché venivano lette. Sarebbe stato gravissimo se nelle lettere di mio padre ci fosse scritto che la situazione non era delle più favorevoli e che si andava sempre peggio. Quelle lettere non servivano a comunicare i propri pensieri e convinzioni. Mia madre parlava molto di come andavano le cose in famiglia: anche quando si trovava in Africa mio padre si occupava della dichiarazione dei redditi; ci teneva a mantenere il pieno controllo delle finanze familiari. Anche di queste cose si parlava nella corrispondenza. Le annotazioni di mio padre sulla situazione militare sono relativamente brevi.
Qualche biografo ha affermato che Erwin Rommel fosse un appassionato di musica.
E’ una inesattezza. Suonava soltanto un po’ il violino, e lo suonava male. Eppoi anche di musica ne ascoltava poca.
In famiglia come si vestiva?
A casa preferiva un abbigliamento comodo: un pullover, una giacca di tweed; spesso andava in giro con gli stivali perché gli piaceva andare a caccia.
Lei è nato dopo molti anni di matrimonio, che tipo di esistenza conducevano i suoi genitori da giovani?
All’inizio la loro vita era estremamente gradevole. Sia mia madre che mio padre erano degli sportivi e amavano la montagna, sciavano e facevano lunghe escursioni in barca lungo i fiumi tedeschi. In vacanza mio padre portava sempre anche i suoi soldati che erano interessati a quel genere di attività. Era dell’opinione che rientrasse tra i doveri degli ufficiali insegnare qualcosa ai propri soldati nel lungo periodo di tempo in cui stavano insieme. Poi con la mia nascita c’è stato un netto cambiamento delle abitudini. Io sono nato nel 1928. Mio padre era entusiasta di me, non riesco a capire perché. Fatto sta che decise di dedicarsi a me. Per fortuna aveva ancora ben presente l’educazione oppressiva di suo padre e quindi mi ha risparmiato ardori pedagogici.
Come nasce l’ufficiale Erwin Rommel, quale è la sua storia?
A dire il vero, non voleva nemmeno seguire la carriera militare; voleva fare l’ingegnere. A Heidenheim, insieme ad alcuni compagni, aveva costruito un aereo che però precipitò subito a terra dopo un breve volo. Fu mio nonno a convincerlo ad intraprendere la carriera militare.
In cosa differisce Erwin Rommel da tutti i militari tedeschi della sua generazione?
Ovviamente alcuni tratti erano comuni a tutti, ma c’erano anche delle differenze. Innanzitutto mio padre non era di famiglia aristocratica. Era un tedesco del Sud. Nella Prima Guerra Mondiale era stato ufficiale al fronte ed aveva ricevuto la più alta onorificenza al valore. Inoltre mio padre non faceva parte dello stato maggiore perché, dopo la Grande Guerra, aveva dichiarato che non sarebbe più andato a Scuola di Guerra. Ne aveva decisamente abbastanza.
Il suo intervento sul Fronte Italiano nel 1917, durante la Prima Guerra Mondiale fu una esperienza che gli diede molte soddisfazioni!
Si. Mi ha raccontato più volte cosa accadde. È stato un momento decisivo nella sua vita anche perché gli ha portato la decorazione “Pour Le Merite”, la più alta medaglia al valore dell’esercito prussiano. Per un militare era un po’ come vedersi assegnare il Nobel. Aveva studiato a fondo le battaglie in Italia facendo centinaia di schizzi e schemi. Sulla scorta di queste esperienze aveva maturato le sue conoscenze della guerra di montagna.
L’azione incisiva di Rommel sul Matajur, portò alla vittoria austro-germanica di Caporetto, con la cattura di circa ottomila italiani… Suo padre ha mai raccontato dettagli di quell’episodio?
Ce ne sono due molto interessanti. Uno riguarda un prigioniero italiano che era stato trascinato dalle acque di un torrente di montagna; era caduto di schiena e stava per precipitare in un salto del torrente. Mio padre era a cavallo ed è entrato in acqua, ha afferrato l’italiano appena in tempo e l’ha tirato fuori.
Il secondo episodio invece è accaduto durante l’inseguimento delle truppe italiane alla fine del 1917. Pioveva da diversi giorni; a un certo punto arrivano nei pressi di una fabbrica di ombrelli e mio padre dice ai suoi soldati: “Adesso ognuno di voi va a prendersi un ombrello – ne prendo uno anch’io – e continuiamo la marcia senza continuare a bagnarci”. Proprio mentre mio padre apre il suo e sale a cavallo, ecco che passa un’auto con un generale prussiano a bordo, al quale quasi prende un colpo! “Posate tutti questi ombrelli sul ciglio della strada e continuate la marcia senza!” urla. Era inconcepibile per una mentalità prussiana… Non certo per quella di un tedesco del Sud come mio padre, che era della Svevia!
Erwin Rommel è stato mai iscritto al partito nazista?
Mio padre era militare di carriera e in Germania i militari professionisti non potevano iscriversi ad un partito. Comunque mio padre lavorò per Hitler, questo è un fatto noto.
In che occasione lo conobbe?
Incontrò Hitler per la prima volta al raduno degli agricoltori del Reich, nel 1934. All’epoca mio padre era comandante di battaglione a Goslar e Hitler aveva deciso di venire a Goslar per la festa degli agricoltori. Hitler pretendeva che le SA marciassero davanti alle SS e le SS davanti alle truppe della Wehrmacht. “Se questo succede, io e i miei soldati rinunciamo alla parata”, risponde mio padre. Segue una lite e alla fine Hitler cede. Quello fu il suo primo approccio con mio padre.
Dopo questo primo assaggio burrascoso, ne divenne amico e collaboratore, ma con quale ruolo?
Fu uno dei comandanti del Quartier Generale del Führer: non era il capo della guardia personale di Hitler come erroneamente è stato detto, quell’incarico spettava ad un ufficiale delle SS. Mio padre aveva responsabilità tecniche, doveva garantire l’efficienza del comando. E lui come comandante del quartier generale doveva provvedere alle postazioni radio, agli alloggi, ai veicoli, doveva disporre i servizi di guardia. Aveva mansioni amministrative, era un incarico che ti dava l’occasione di litigare con tutti, occasione che mio padre non s’è certo lasciato sfuggire!
Con quali persone aveva maggiormente a che fare?
Capitava che si intrattenesse con Hitler per soddisfare determinate esigenze. Ad esempio, doveva procurare alloggi e mettere a disposizione linee telefoniche per illustri visitatori come Göring, Bormann, Himmler ed altri, e questo rappresentava sempre un’occasione per liti e diverbi. Ad esempio, Bormann gli fece un’impressione estremamente negativa, e dal canto suo anche Bormann non fu entusiasta di mio padre; nemmeno Göring gli piacque. Invece Göbbels probabilmente si presentò con più umiltà, questo almeno era il giudizio dal punto di vista del responsabile delle linee telefoniche, dei veicoli e dei documenti.
Göbbels era meno arrogante?
No… Ma con mio padre andava abbastanza d’accordo.
Molti storici hanno affermato invece che suo padre fosse comandante della scorta di Hitler per il fatto che durante l’entrata del Führer a Praga fu lui ad accompagnarlo in città e non altri!?
Hitler era arrivato in anticipo! Allora mio padre consiglio’ ad Hitler di salire allo Hradcany – il castello di Praga – senza guardie del corpo… senza scorta. Ma è stato un caso.
Suo padre avrebbe mai immaginato che solo un anno dopo sarebbe scoppiata la guerra?
Alla fine di agosto del 1938, dall’Accademia di Potsdam si trasferì a quella di Wiener Neustadt e poi al Quartier Generale di Hitler. Era dell’idea che non sarebbe scoppiata nessuna guerra: “Fino a quando sarà in vita la generazione che ha visto la Prima Guerra Mondiale – diceva – è improbabile che vi sia un grosso conflitto”. Si sbagliava, anche perché Hitler scatenò la guerra in modo premeditato.
Come erano i rapporti personali con Hitler?
Hitler provava una evidente simpatia per mio padre. Lo rispettava come ufficiale di prima linea e gli chiedeva pareri e giudizi in materia militare. Ma anche mio padre aveva trovato Hitler un uomo migliore di quanto pensasse. E lo rispettava. Mio padre attribuiva ad altri la colpa delle storture presenti nel Terzo Reich. Questo rapporto di simpatia spiega inoltre come, quando mio padre volle andarsene dal quartier generale del Führer, Hitler gli concesse una divisione corazzata. Non era affatto una decisione scontata perché mio padre era un alpino e ci si sarebbe aspettato di vederlo comandare una divisione di montagna.
La stima di Hitler per suo padre era davvero speciale!?
Il Führer era molto contento dell’esito della controffensiva in Africa dell’inverno del 1941-42: lo distraeva dalla penosa situazione delle truppe in Russia.
Come mai Rommel fu così tanto affascinato dal Fuhrer?
Hitler era un grande attore – come del resto anche Benito Mussolini – e riusciva a trasmettere un forte senso di cordialità. Di lui non si sapeva niente. Mio padre non ha mai saputo che aveva un’amante. Mia madre non l’ha mai visto… non ha mai visto nemmeno Göbbels e gli altri. Nemmeno io ho mai visto Hitler. Era venuto dall’oscurità e se n’è andato nell’oscurità.
Si, credo proprio che Hitler avesse della simpatia per mio padre. Ed era fiero di sé per aver dato a mio padre una divisione corazzata che altrimenti i vertici militari non gli avrebbero concesso. Loro avrebbero detto: “Devi restare un alpino”.
Simpatia reciproca…
Quella di mio padre diminuì notevolmente col tempo. Fin dall’inizio Hitler aveva avuto predilezione per lui. Eppoi era orgoglioso di aver scoperto in mio padre un generale di divisioni corazzate… che sotto il suo comando si potevano vincere battaglie anche dove si credeva impossibile.
Cosa trovavano i nazisti di tanto utile alla propaganda in un uomo come Erwin Rommel?
Mio padre non ha avuto alcun ruolo politico, ma ovviamente è stato usato dalla propaganda. Ad esempio, con la mitizzazione dell’Afrika Korps si riuscì a distogliere un po’ l’attenzione del popolo tedesco dalla catastrofe russa dell’inverno 1941-42. E quando è stata presa Tobruk, in Hitler è maturata la convinzione – errata – che a quel punto la guerra era vinta. Per il resto mio padre non ha svolto nessun ruolo politico. Per farle un esempio, non ha mai ricevuto nemmeno la medaglia d’oro del Partito, onorificenza che fu conferita a molti non appartenenti alla NSDAP – anche militari – perché lui non si considerava affatto un politico.
Comunque diatribe con Hitler ce ne furono…
Hitler lo accusava di essere un pessimista. In Germania c’è un proverbio che dice: “Chi troppo salta di gioia finisce per morire di tristezza”.
Nel febbraio del 1941 Rommel fu inviato in Africa a soccorso degli italiani che stavano per essere totalmente buttati fuori dalla Libia. Come furono i suoi rapporti con il comando italiano, da cosa era particolarmente irritato?
In primo luogo, dal timore che i piani di battaglia trapelassero al nemico da postazioni poco ermetiche. Invece tutto era a causa della macchina decifratrice ENIGMA in possesso dei britanni, che intercettava e decriptava le comunicazioni germaniche, riferendole ai reparti al fronte, che cosi’ provvedevano al contrattacco prima che le direttive stesse di Rommel venissero attuate. In questa faccenda non c’entravano per nulla gli italiani, anzi poveretti si prendevano accuse infamanti delle quali non avevano nessuna colpa.
In secondo luogo, mio padre riteneva del tutto inadeguati gli equipaggiamenti dell’esercito italiano, e assolutamente non all’altezza di una nazione così rinomata per la sua tecnologia. Mio padre fu costretto a non fare affidamento sulle truppe corazzate che giungevano dall’Italia, era semplicemente sbalordito dalla loro vulnerabilità e dalla pessima efficacia bellica. Eppoi il suo sdegno più profondo era per come gli stessi soldati venivano mandati in guerra.
Mio padre aveva simpatia e rispetto per tutti i soldati semplici e per gli ufficiali, perché gli italiani si battevano sempre in modo straordinario, soprattutto quando avevano a disposizione del materiale migliore da parte degli alleati tedeschi. Le divisioni Ariete, Trieste, per esempio, o come si chiamavano le altre… Folgore, Trento, Sabrata hanno fatto veramente cose notevoli.
Ma è stato un errore sostanziale di Mussolini entrare in guerra. I tedeschi, in fondo, non lo volevano e neanche lo stesso Hitler. Quello fu l’inizio della fine. Mio padre diceva di Mussolini… che non si poteva paragonare Mussolini a Hitler. Era tutta un’altra cosa.
Come era il rapporto di Rommel con gli inglesi?
Una cosa mio padre di certo non l’ha fatta: non ha odiato gli inglesi. Le sue simpatie per gli inglesi erano grandi quasi come quelle per la Marina italiana. Del resto, la Marina italiana non aveva tradito. Alla fine della guerra si seppe che gli inglesi erano in grado di intercettare tutte le comunicazioni con la loro macchina decifratrice, cosicché sapevano in anticipo la rotta delle navi, bloccando in questo modo i rifornimenti.
E’ vero che Rommel fu uomo clemente anche con i nemici, come quella volta che catturò alle spalle del fronte un commando britannico vestito in divisa tedesca, che – secondo le leggi di guerra – avrebbe potuto far fucilare! Invece preferì inviarli sani e salvi con tutti gli altri prigionieri?
È possibile, ma non conosco quest’episodio.
La sua clemenza nasceva dalla opportunità militare, dal desiderio di tutelare la sua immagine presso il nemico, o più semplicemente dall’indole del suo carattere?
Era il carattere. Per esempio non fece mai fucilare alcun membro dei comandi operativi. Ed anche quando Hitler ordinò di fucilare tutti gli emigranti tedeschi che militavano nell’Ottava armata britannica quando venivano fatti prigionieri, neanche quest’ordine fu eseguito.
Aveva sensibilità psicologica, o era solo un soldato, pur geniale, ma prigioniero dei suoi schemi?
Diciamo che perlomeno… aveva il controllo delle proprie emozioni, ma era anche sensibile.
Come erano i rapporti tra Rommel ed i soldati italiani?
Mio padre ne provava certo compassione perché i soldati italiani erano male equipaggiati; c’erano tre diversi tipi di vettovagliamento: pessimo per i soldati semplici, migliore per i sottufficiali, buono per gli ufficiali. Mio padre ha sempre cercato di difendere gli interessi dei soldati. A volte scriveva anche delle lettere ai comandi di divisione competenti chiedendo i motivi per cui un determinato soldato non fosse stato ancora mandato in licenza. Anche nell’esercito tedesco mio padre si occupava più della truppa che di ufficiali e sottufficiali.
Si dice che la sua salute non fosse delle migliori. come reagì alla fatica a cui lo obbligava la guerra nel deserto?
Mio padre ha sopportato la guerra nel deserto per un periodo relativamente lungo, ma poi sono subentrati problemi di circolazione, un’epatite trascurata, soffriva di continui svenimenti, e all’ultimo tentativo di raggiungere Alessandria lo stress nervoso aveva acutizzato i problemi di circolazione; allora è stato richiamato dall’Africa.
Si dice che di svenimenti soffrisse assai spesso?
Sì, un paio di volte al giorno.
Come mai Rommel non era presente in Africa quando si scatenò la terza battaglia di El Alamein?
Mio padre quando iniziò la Battaglia di El Alamein stava a casa per motivi di salute, a casa poi vi tornò solo dopo il marzo del 1943, quando lasciò Tunisi.
Riguardo ad El Alamein, il suo successore, il generale Stumme, risultò disperso già il primo giorno di battaglia quindi mio padre fu richiamato subito. Il 23 ottobre Stumme cade, il 25, mi pare, mio padre gli subentra. Hitler gli aveva ordinato che a El Alamein bisognava vincere o morire ma ciò nonostante aveva dato avvio alla ritirata.
Mi raccontò inoltre che durante la ritirata attraverso la Libia ricevette ripetuti ordini – da Hitler e Mussolini – di mantenere il controllo di Tripoli, di non cedere nemmeno un metro quadrato. Ma l’esercito di Montgomery era talmente superiore che, nonostante questi ordini, mio padre decise di continuare a ritirarsi.
In Africa, durante la ritirata, Rommel propose una nuova strategia?
Certo. Nel novembre del 1942, dopo la sconfitta di El Alamein, mio padre espresse nuovamente l’opinione che ormai non era più possibile vincere la guerra e che era necessario rafforzare al più presto la situazione militare in modo da ottenere una pace con condizioni. Perciò come prima cosa mio padre voleva portare via dall’Africa le truppe e trasferirle in Italia.
Una assoluta novità, decisamente trascurata dagli storici…
Sì. Dopo El Alamein propose ad Hitler di portare via dall’Africa le truppe italo-tedesche in modo che con quanto rimaneva delle divisioni corazzate si potesse contrastare l’imminente invasione dell’Italia.
Quindi non era d’accordo sull’invio di nuove truppe in Tunisia come realmente avvenne!?
In un certo senso. Non voleva concentrare le truppe in modo così massiccio a Tunisi. Pensava ad una veloce ritirata verso Tunisi, con una graduale diminuzione di invii di uomini e armi, al tempo stesso cercando di tenere il più a lungo possibile le posizioni in modo da permettere il trasferimento di quanto rimaneva dell’Africa Korps in Sicilia.
In altre parole: non voleva una ritirata immediata e totale. Diverse posizioni delle forze impegnate in Africa dovevano essere abbandonate mentre altre dovevano essere tenute per ritardare la completa occupazione dell’Africa da parte di anglo-americani. Quindi, intralciare l’avanzata del nemico e contemporaneamente ritirare le truppe italo-tedesche dall’Africa per dispiegarle in Italia.
C’erano delle truppe a cui teneva particolarmente?
Certo, bisognava portare via dall’Africa la 21ma divisione corazzata, la 90ma leggera, il 164° granatieri da parte tedesca e le divisioni Littorio, Ariete, Trieste, Trento, Sabrata e le altre. I soldati erano il bene più prezioso da salvaguardare; inglesi e americani pare nutrissero un grande rispetto per gli esperti soldati del contingente impegnato in Africa.
Quindi suo padre era del tutto contrario alla strategia di tenere il più possibile impegnati gli angloamericani in Africa, inviandovi forze per combatterli?
Per come quella strategia è stata condotta, direi proprio di sì. Mio padre ha sempre considerato un errore dirottare su Tunisi un numero sempre maggiore di truppe che poi finirono per riempire i campi di prigionia degli Alleati.
Quale fu complessivamente il rapporto di Rommel con l’Italia e gli Italiani?
Mio padre si rese presto conto che in Italia non c’era un grande entusiasmo per le campagne della Seconda Guerra Mondiale. E questo tenendo conto della loro situazione è comprensibile.
A proposito della campagna d’Africa c’è da notare che in generale le truppe italo-tedesche erano inferiori a quelle inglesi; eppure sono riuscite lo stesso a vincere alcune battaglie. Per quanto riguarda le truppe italiane, mio padre mi raccontava che erano così male equipaggiate che bisogna essere comprensivi con quegli uomini. Quanto alle loro armi ed ai veicoli era invece seccato dal fatto che non erano all’altezza dell’elevata qualità dell’industria bellica che gli italiani si erano vantati di possedere.
Mio padre probabilmente sapeva fin dall’inizio che non si sarebbe vinto, tuttavia la guerra d’Africa ritardò notevolmente l’invasione del continente europeo da parte degli anglo-americani.
Dopo El Alamein come si modificarono i rapporti con Hitler?
Dopo El Alamein ci fu un terribile diverbio con Hitler. Hitler ha fatto distruggere tutte le copie dei verbali di quel colloquio, anche perché lui stesso non vi faceva una gran bella figura.
Raccontava un gerarca fascista di cui non ricordo il nome che suo padre, trovandosi a Roma in visita da Mussolini, dopo El Alamein, ebbe dinanzi a tutti una crisi di pianto. Ne sa qualcosa?
Di quell’episodio non so nulla. Mio padre è stato da Mussolini una volta sola. Fu alla fine di novembre quando, insieme a Göring, si recò a Roma con un treno speciale dopo il noto contrasto con Hitler per l’evacuazione delle truppe dall’Africa.
Che idea si era fatto Rommel sulle sorti della guerra?
Nel ’43, con madre si viveva ancora a Neustadt, infatti lì prima della guerra mio padre era stato comandante dell’Accademia militare Teresiana. Quando mio padre fece ritorno dall’Africa disse a mia madre: “Adesso tu sparisci da qui e va a Würreberg, immediatamente, perché tra un anno e mezzo o due qui arriveranno i russi”. La guerra era semplicemente persa e, naturalmente, mio padre ne prese coscienza con grande spavento…
Eppoi cominciavano a trapelare confuse notizie su possibili crimini commessi dai nazisti nei territori occupati. Non si sapeva tutto, ma alcune cose cominciavano a emergere… gli stermini di massa! Si tenga conto pure che, delle loro malefatte, i nazisti cercavano con ogni mezzo di occultarne le tracce, era difficile risalirvi.
Lentamente venivano a galla incredibili verità …come per esempio le cause della guerra con la Polonia, gli obiettivi militari in Russia…
Come aveva reagito Rommel ai benefici ed agli onori che fino a quel momento aveva ricevuto dal regime?
Non ha avuto mai tempo per goderseli. Era sempre in giro. Tornò subito in Africa non appena iniziò la battaglia di El Alamein e rimase a Tunisi quasi fino alla disfatta. Poi, l’8 marzo del ’43 Hitler lo sostituì; per un periodo cadde in disgrazia. Era stato convocato nel Quartier Generale in Russia, dove espose a Hitler le sue idee sulla guerra; al Führer non piacquero e spedì mio padre in Italia passando per la Grecia.
Che disse all’annuncio dell’arresto di Mussolini?
Questo non lo ricordo ma naturalmente per i tedeschi fu un evento sconcertante. Mio padre capì chiaramente che l’Italia era alla fine, ma a quell’epoca si pensava ancora che, con uno sviluppo militare favorevole, si sarebbe potuti uscire dalla guerra con delle condizioni. Per questo i tedeschi erano infastiditi dal fatto che, dopo il successo dello sbarco alleato, gli italiani volessero subito abbandonare la guerra.
Il Quartier Generale di Rommel in Italia fu stabilito in un piccolo centro ad una ventina di chilometri da Verona, sul Lago di Garda, in Villa dei Cedri presso Colà comune di Lazise. Uno dei congiurati del 20 luglio – Hans Berndt Gisevius – affermò che proprio durante la sua permanenza in Italia venne a fargli visita il dott. Strölin, borgomastro di Stoccarda, il quale per la prima volta gli rivelò l’esistenza dei campi di sterminio ed i massacri compiuti dalle SS in Polonia e Russia.
Mio padre non ha mai incontrato Gisevius. So solo che in Italia Strölin disse a mio padre di aver sentito che ebrei deportati sarebbero stati uccisi con il gas.
Riguardo alla sua strategia bellica nella penisola, contrariamente a Kesselring, Rommel sosteneva che la linea di difesa più efficace fosse la linea Gotica e non quella di Cassino!
E’ risaputo, mio padre sosteneva che ci si dovesse immediatamente ritirare fino all’Appennino perché temeva che gli Alleati avrebbero effettuato un grosso sbarco nell’Adriatico Settentrionale e occupato la Pianura Padana, tagliando fuori le truppe tedesche che si trovavano a sud. Ma questo non accadde e così Kesselring, che avanzava l’altra possibilità, ritirarsi gradualmente dall’Italia, ottenne il comando supremo.
Lasciata l’Italia a fine novembre, nei primi mesi del 44 Rommel raggiunse la Normandia, ove si adoprò per costruire le difese in attesa dello sbarco. Ma quale era il suo stato d’animo?
Mio padre non aveva mai creduto al cento per cento in una vittoria finale tedesca, ma l’aveva ritenuta possibile fino all’estate del ’42. Poi, di colpo, cambiò tutto: i tedeschi furono battuti nella battaglia dell’Atlantico, alla fine persero 300 sommergibili. Poi ci fu Stalingrado; poi ancora la battaglia contro le squadriglie aeree anglo-americane nei cieli del Reich e lo sbarco in Italia.
A quel punto mio padre sapeva benissimo che occorreva porre fine alla guerra il più presto possibile, ma con delle condizioni. Peraltro in quel momento si stava verificando anche un altro fatto, cominciarono a trapelare sempre più notizie che riferivano di crimini compiuti su incarico dei tedeschi. Nel 1943 inoltre si venne a sapere un fatto che lasciò veramente perplessi: non erano stati i polacchi ad attaccare Kleibitz e quindi ad innescare la guerra con la Polonia, bensì tedeschi con l’uniforme polacca.
Allora si disse che, a maggior ragione, era importante ottenere la pace con resa condizionata e si sperava che, riuscendo a impedire l’invasione in Normandia, gli Alleati avrebbero offerto queste condizioni.
Rommel cercò di convincere Hitler a riflettere sulle conseguenze della sicura sconfitta?
Sì, mio padre tentò più volte di farlo, ma giunse alla conclusione che Hitler non pensava affatto di chiedere la pace.
L’amicizia con Strölin per la vita di suo padre fu determinante?
Karl Strölin era sindaco di Stoccarda, è stato il mio predecessore, e in effetti ha cercato mio padre in Italia, nel 1943, non so dove. Ma io stesso ero presente quando una volta Strölin fu congedato da mio padre; mio padre passava una notte a casa con noi ad Herlingen. Strölin disse: “Hitler deve sparire”, al che mio padre gli disse che sarebbe stato meglio che non facesse certi commenti davanti a suo figlio minorenne.
La maggior parte degli oppositori del nazionalsocialismo non erano rivoluzionari. Non si era mai giunti all’azione, a parte l’attentato di Stauffenberg. E questa azione cospirativa fu probabilmente decisa in Francia. Mio padre invece aveva un’idea sua, riteneva psicologicamente possibile capitolare nel momento dell’invasione da parte degli Alleati.
Che pensava della possibilità di riuscita dell’attentato di cui gli aveva parlato Strölin?
Se fosse riuscito? l’attentato è stato molto importante che sia avvenuto, ma nessuno può sapere se avrebbe portato ad un cambiamento dei rapporti di potere politici, perché a quei tempi Hitler godeva di una tale reputazione creata dalla propaganda che nessuno osava competere con lui. E infatti i congiurati non volevano che poi si dicesse: “L’abbiamo ucciso noi”, bensì “è stato ucciso”, da altri s’intende. C’erano molti ostacoli, non era così semplice.
Se non era d’accordo con il piano dei congiurati, quale era la sua idea allora?
Quando fu chiaro che la battaglia contro l’invasione era perduta, in Francia mio padre voleva capitolare, sotto la propria responsabilità e senza l’autorizzazione di Hitler, e voleva far penetrare le truppe alleate il più possibile all’interno dell’Europa centrale e orientale.
Che con Hitler c’era qualcosa che non andava, mio padre l’aveva capito già alla fine del ’42. Negli anni ’43 e ’44 ne parlò con molti generali e soldati che erano stati in Russia. L’idea di capitolare era quanto mai sovversiva, comunque nell’estate del ’44 non v’era altra scelta che cessare i combattimenti e arrendersi, chiedendo la grazia.
Fece del tutto Rommel per rendere consapevole Hitler del vicolo cieco in cui era sprofondata la situazione militare?
Mio padre tentò a lungo di informarlo affinché traesse le dovute conseguenze e facesse cessare la guerra. Io non so se ci credeva, ma riteneva necessario farlo per evitare che dopo qualcuno dicesse che si era tramato alle spalle del Führer senza informarlo. A questo Hitler reagì urlando a mio padre di occuparsi dei suoi fronti d’invasione, diffidandolo dal dire ancora una frase del genere. Dopo questo diverbio, mio padre tentò di sfruttare la grande popolarità di cui godeva presso le sue truppe per porre fine al conflitto, ma non ci riuscì.
Rommel aveva più volte urlato che la sconfitta era imminente, che era assurdo il prosieguo della guerra ed era necessario chiedere la pace… queste affermazioni non lo ponevano in una luce troppo vicina a quella dei congiurati?
Sì, perché mio padre era comandante supremo in Francia, o doveva diventarlo durante l’invasione. Quanto alla congiura contro Hitler… non era neanche un’organizzazione così perfetta. Diverse persone si rivolsero a mio padre già nel ’43, inizio del ’44.
Il movimento di resistenza tedesco non era certo un’associazione per la quale si riceveva una tessera di socio, ma era comunque una iniziativa piuttosto libera, la maggior parte dei suoi protagonisti non esercitava nessuna resistenza analoga a quella dei partigiani italiani o della resistenza francese. Si discuteva soltanto su come si sarebbe potuto configurare il governo tedesco dopo la sconfitta di Hitler. Mio padre aveva automaticamente dei rapporti con loro, così come aveva anche rapporti con Berlino.
A parte questo, partiva dal presupposto che la capitolazione in Francia fosse comunque un suo compito e un suo dovere. Riguardo a se stesso non aveva alcun progetto. Quando fu contattato, si oppose decisamente a chi avrebbe voluto che che lui ambisse alla carica di presidente dello Stato o del Reich. Disse che personalmente non aveva più alcuna pretesa nei confronti della storia.
Suo padre conosceva i personaggi più importanti del complotto contro Hitler?
Non conosceva Gördeler. Probabilmente conosceva Beck, il generale Beck. Conosceva Stauffenberg, era ufficiale di stato maggiore con lui in Africa. Poi un signore che si chiamava Hofacker. C’erano anche diversi altri ufficiali, che poi furono impiccati e che lui conosceva bene.
Però mio padre non poteva avere una conoscenza approfondita di coloro ai quali oggi viene attribuito il ruolo di appartenenti alla resistenza tedesca, dato che mio padre non frequentava Berlino. Lui, fino al 1943, aveva abitato a Neustadt, una città di provincia; in seguito si trasferì a Herlingen vicino Ulm, comunque non ha mai avuto un domicilio nella capitale.
Mai avete abitato, anche solo per un breve periodo, nel suo Quartier Generale?
Non ci fece mai portare al suo quartier generale. Solo una volta ebbe quest’idea ed era nel 1944, quando meditava di arrendersi, allora pensò per un paio di giorni di far trasferire mia madre in Francia. Ma poi rinunciò.
Si dice che Rommel affermava chiaramente che non appena le truppe alleate avessero rotto il fronte, lui le avrebbe fatte dilagare fino in Germania perché così si mettesse fine alla guerra. Si rendeva conto della gravità di una simile affermazione?
Sì, lo sapeva perfettamente, perché la capitolazione era la peggiore forma di alto tradimento.
Come divennero i rapporti con Hitler durante la sua permanenza in Francia?
Il 15 luglio 1944 mio padre scrisse una memoria che si concludeva così: “La battaglia in Normandia è persa. Sento che è mio dovere ribadire che ora è necessario trarre le dovute conseguenze”. Mio padre spedì il documento all’aiutante capo del Führer e contemporaneamente al feldmaresciallo Kluge il quale, prima di suicidarsi, lo spedì a Hitler.
Come venne a sapere Hitler del coinvolgimento parziale di Rommel nelle file della congiura?
Probabilmente lo avevano riferito alcuni congiurati. I prigionieri venivano torturati, e quindi era facile venire a saperlo. Le conoscenze di mio padre erano piuttosto vaghe. A quanto mi risulta, lui pensava di dover agire da solo in Francia, non aspettava un segnale da Berlino. Probabilmente questo agire era legato solo ed esclusivamente al progetto di capitolazione. Non sapeva dell’attentato, come la maggior parte dei militari. Lo sapevano solo in pochi che ci sarebbe stato un attentato.
Nell’agosto del ’44, durante una riunione al quartier generale, Hitler disse che mio padre aveva fatto la cosa peggiore che un generale potesse fare: cercare altre soluzioni che non fossero quelle militari.
Bisogna fare anche un’altra riflessione… Probabilmente mio padre – della possibile soppressione di Hitler – dovette accennarne comunque anche con i suoi comandanti in Francia. Tra l’altro in Francia aveva anche dieci divisioni di SS. Non si poteva da un giorno all’altro fargli la bella sorpresa e comunicargli: “Adesso vi verrà da ridere. Il vostro Führer è morto”. Mio padre parlò con Sepp Dietrich e con Hausser; Sepp Dietrich gli disse: “Quello che fa lei lo facciamo anche noi. Lei è il nostro comandante supremo”.
L’attentato ad Hitler maturò anche in concomitanza di un avvicendamento piuttosto burrascoso al comando del Fronte Occidentale…
All’inizio di luglio il comandante supremo in Francia Runstedt fu congedato da Hitler e sostituito dal feldmaresciallo Von Kluge. E Von Kluge sollecitò Hitler affinché convincesse mio padre a eseguire finalmente gli ordini operativi che gli erano stati imposti e che lui invece si ostinava a mettere in discussione. Von Kluge fu molto deciso con mio padre, che se la prese molto e gli scrisse una lettera molto pesante. Ma pochi giorni dopo Von Kluge riconobbe che mio padre aveva ragione e che il suo parere era condiviso anche dai comandanti dei Korps.
Come mai il suo progetto di capitolazione non fu portato a termine?
Perché nel tardo pomeriggio del 17 luglio fu mitragliato da due cacciabombardieri britannici e ricoverato gravemente in ospedale.
Cosa accadde di preciso?
Posso solo dire che era stato fino a poco prima presso i due corpi delle SS; era la vigilia della grande offensiva. Hitler aveva di nuovo ordinato di non cedere neanche un metro quadrato. Mio padre invece scelse di ritirarsi, dicendo: “Questa è una stupidaggine”.
Aveva inviato il suo ultimo rapporto a Hitler e stava tornando indietro, era piuttosto nervoso. Gli Alleati avevano prima bombardato una stazione radio… poi arrivarono quei due aerei a bassa quota; allora mio padre disse al suo conducente Daniel: “Là davanti c’è una siepe, andiamo a coprirci lì”.
Ma era troppo tardi. Gli aerei scesero in picchiata e colpirono Daniel alla spalla; il suo braccio fu strappato via e più tardi morì dissanguato. L’attendente di mio padre fu colpito alla fondina della pistola e si ruppe il bacino; mio padre volò fuori dalla macchina pieno di schegge e sembrava… sembrava morto. Non avevano mezzi di scorta.
Poi arrivarono delle infermiere francesi che si occuparono di lui, e anche un medico che disse: “Io posso fargli solo un’iniezione di canfora”. Poi aggiunse: “Il generale non supererà la notte”. Come medico era normale che lo dicesse, invece mio padre sopravvisse. Era in coma. Il 24 luglio mio padre ancora non riusciva a scrivere il suo nome; faceva solo uno scarabocchio. Andò così.
Il nuovo comandante in capo Von Kluge come si comportò dopo il ferimento di suo padre?
Von Kluge ebbe una sorta di conversione sulla via di Damasco. Era amico di Stülpnagel che era il Governatore di Parigi e a Stülpnagel si era prima rivolto mio padre per portare a compimento il suo progetto di capitolazione, in tale circostanza la polizia di cui Stülpnagel era comandante avrebbe dovuto arrestare le SS. Alla sua collaborazione si pensò anche per l’attentato del 20 luglio.
Quel giorno i congiurati si trovavano a Berlino, nel quartier generale dell’Heimatheer, l’Esercito della patria, e dissero subito: “Il Führer è morto, Beck ha assunto il comando supremo”. Stülpnagel fece arrestare immediatamente il servizio di sicurezza. Non si sa se Stülpnagel avesse saputo qualcosa dell’attentato già prima.
Poi Stülpnagel andò al quartier generale dove fino a giorni prima c’era mio padre. Al quartier generale era già tutto pronto, c’era anche Von Kluge, quando arrivò la telefonata del feldmaresciallo Keitel che diceva: “No, il Führer è vivo”. E allora Von Kluge disse: “A questo punto non posso fare più niente”. Ma Stülpnagel aveva già fatto qualcosa.
Von Kluge gli disse: “Deve mettersi degli abiti civili e cercare di sparire”. Invece Stülpnagel tentò di suicidarsi, si sparò in entrambi gli occhi e finì nelle mani della Gestapo in quelle condizioni. A mio padre fu riferito che Stülpnagel aveva parlato continuamente di lui. Una vera e propria catastrofe.
Hitler sfruttò quell’occasione per far impiccare, o uccidere, tutti quelli che avevano detto qualcosa contro di lui o che avevano dichiarato che sarebbero stati disponibili, dopo la fine della guerra, a partecipare ad un nuovo governo. Il presidente del Württemberg Bolz fu condannato a morte perché aveva dichiarato che, nel caso, avrebbe accettato di ricoprire la carica di ministro della Cultura del Reich. È bastato quello.
Come reagì Rommel quando seppe dell’attentato?
Mio padre non perseguiva nessuno scopo da quel gesto. Io credo che fosse talmente colpito quando si rese conto di chi era veramente Hitler e cosa era veramente il regime nazionalsocialista, che non so se sarebbe sopravvissuto alla guerra.
E infatti, in occasione dell’attentato, disse che era sempre stato contrario all’attentato e a favore della capitolazione perché in quel caso si sarebbero assunti dei rischi incontrollabili: in primo luogo, l’attentato sarebbe potuto fallire e, nel caso fosse riuscito, un Hitler morto poteva essere molto più pericoloso di un Hitler vivo, dato che la rabbia dell’opinione pubblica si sarebbe rivolta contro gli attentatori.
Ma non vi è alcun dubbio che, se Stauffenberg non l’avesse fatto, forse non sarebbe successo proprio niente. E questo sarebbe stato negativo per l’immagine tedesca.
Dunque suo padre escludeva ogni possibilità di successo politico?
Non era possibile. Hitler era l’eroe della politica tedesca.
Cosa disse quando capì che la sua posizione si era messa male e che avrebbe dovuto subire attacchi di ogni tipo da parte dei capi nazisti?
Affermò chiaramente: “Non sono così stupido da rendergli le cose tanto semplici!”
Da chi fu deciso che sarebbe dovuto morire, da Hitler, o da altri?
Penso da Hitler, non so di sicuro.
E che invece si sarebbe dovuto suicidare?
Questo deve averlo deciso una persona abile. Perché Hitler non poteva permettersi di accusare mio padre davanti ad una corte popolare di giustizia. Sarebbe stata l’ammissione della sconfitta, e già da tempo mio padre si chiedeva come avrebbe fatto Hitler a sbarazzarsi di lui, giungendo alla conclusione che non l’avrebbe portato pubblicamente davanti ad un tribunale.
E infatti fu così. Naturalmente era elegante dire da una parte: “In considerazione dei meriti ottenuti da Rommel in Africa, vogliamo dargli una possibilità; se prende il veleno la cosa è sistemata”, aggiungendo che in tal caso non sarebbero state prese le consuete misure contro la sua famiglia: a quei tempi venivano spediti nel campo di concentramento tutti i familiari. Allora mio padre decise di accettare quelle condizioni: “D’accordo, meglio di niente. Non ho più la possibilità di dire la mia pubblicamente”.
Se non avesse accettato il suicidio a quale sorte sarebbe andato incontro Rommel?
Lo avrebbero portato via, dicendo poi che, purtroppo, era morto per un’emorragia cerebrale.
Quando gli fu preannunciato che il 14 ottobre sarebbero giunti a casa sua i generali Burgdorf e Maisel con un messaggio di Hitler, era consapevole del vicolo cieco in cui si era messo?
No, mio padre pensava sempre che fosse tutto possibile, ma un nuovo incarico militare lo riteneva difficile. Quella mattina io tornai a casa e mio padre mi disse: “È possibile che stasera io non sia più vivo”. Voleva prepararmi al fatto. E infatti fu proprio così. Gli avevano scritto sempre che volevano parlare con lui del suo futuro incarico. Al che mio padre aveva risposto: “In Occidente…?! Non ci penso neanche ad un mio eventuale reimpiego futuro; in Occidente mi sparerebbe qualunque cecchino, sarebbe una cosa totalmente idiota”.
E’ vero che la vostra abitazione ad Herlingen era costantemente tenuta sotto controllo da uomini della Gestapo?
Sì, mio padre tornò dall’ospedale in agosto e la cosa avvenne subito. Intorno giravano di continuo uomini in borghese. Allora mio padre fece venire la guardia militare che stava di sentinella lì davanti: erano dieci, dodici uomini con due mitragliatrici .
Le guardie chiesero a quei signori cosa facessero là davanti, e la risposta fu: “Che c’è? Non si può nemmeno ammirare il paesaggio?”
E loro: “Ce ne sono tanti altri di paesaggi”.
Questi risposero: “Ma a noi piace proprio questo paesaggio qui”.
Poi, a settembre, venne da mio padre il capo di stato maggiore, Speidel, il quale il giorno dopo fu immediatamente arrestato dalla Gestapo. Stülpnagel fu condannato a morte ed anche altri che conoscevano mio padre. I suoi amici non si facevano più vedere, in molti. Anche lui, in fondo, sapeva che non sarebbe sopravvissuto alla guerra.
C’e’ una frase, un pensiero, di suo padre che le è rimasto particolarmente impresso?
Poco prima di morire mio padre mi disse: “Dio è saggio e intelligente. Sono felice che i miei soldati dell’Africa Korps sono prigionieri in America. Ormai a loro non può più succedergli nulla”.
Come si svolse quel terribile 14 ottobre 1944?
Io sono arrivato la mattina: ero stato di guardia alla contraerea e avevo ricevuto il fine settimana libero per aiutare mio padre. Arrivarono i due generali e chiesero di poter parlare a mio padre in privato. Dopo un po’ uno dei generali uscì e l’altro rimase con lui.
Poi venne fuori anche mio padre, prima andò da mia madre e tornò poco dopo dicendo: “Eh sì, tra dieci minuti sarò morto” o “tra un paio di minuti sarò morto; mi hanno comunicato che sono stato riconosciuto colpevole di aver partecipato alla congiura e che il Führer mi ha dato la possibilità, grazie ai meriti ottenuti in Africa, di morire con il veleno. In questo caso mi hanno assicurato che non succederà niente alla mia famiglia, che i miei cari non saranno internati in un campo di concentramento, e anche al mio comando non vogliono occuparsi di questo. Io ho riflettuto e ho deciso di accettare”. Poi disse: “I dieci minuti sono passati”.
L’attendente gli chiese se non voleva difendersi e mio padre disse: “Con chi?” E l’attendente: “Per esempio con la sua guardia”. Mio padre disse di non poter dare più ordini a nessuno in quella situazione, che non voleva coinvolgere anche loro in quella faccenda. Quindi uscì, indossò il cappotto e noi lo seguimmo; partì.
Dopo venti minuti ci telefonò e disse: “Io morirò per un ictus. Mi raccomando assolutamente di non dire niente a nessuno di come sono andate realmente le cose, perché se si viene a sapere vi portano via e vi fanno sparire per sempre”.
E, in effetti, poco dopo telefonarono dicendo che aveva avuto un ictus e che era stato portato in un ospedale, dove avevano terrorizzato i medici e il personale sanitario, dicendogli che il primo che avesse detto qualcosa sarebbe stato immediatamente prelevato. Erano spaventati a morte e rilasciarono un falso certificato di morte: l’avrei fatto anch’io se fossi stato medico.
Furono organizzati i funerali di Stato, probabilmente già pianificati nei dettagli quando mio padre era ancora in vita. Venne anche Runstedt e tenne uno strano discorso: “Chi era Rommel?”
Durante la cerimonia funebre il Feldmaresciallo Rundstedt concluse il suo discorso dicendo “Il suo cuore apparteneva al Fuhrer”.
Io non credo affatto che volesse dire questo, penso che glielo abbiano scritto, glielo hanno scritto. Era ancora una volta propaganda. Anche la morte di mio padre era stata trasformata in un grande evento propagandistico. Ordine del giorno del Führer, battaglione d’onore, cinegiornale, tutto.
Quel giorno sono apparso anch’io, come aiutante della Luftwaffe, nel cinegiornale tedesco. Ero seduto con mia madre e lei era seduta accanto a Runstedt. Mi hanno ripreso di profilo, evidentemente così avevo l’aspetto più germanico. Abbiamo seguito il corteo fino alla sepoltura… sì, tutto… non aveva alcun senso.
Gli alti gerarchi nazisti sono venuti a darvi il loro cordoglio?
No, no, fin lì non hanno osato, nessuno ci ha detto niente.
Qualcuno ha affermato che al funerale fosse presente Strölin, uno dei congiurati.
Strölin non era presente. Mia madre gli aveva detto: “Stia lontano, per carità, ché appena la vedono la portano via”.
Cosa avrà pensato Rundstedt mentre leggeva quel discorso assurdo?
Quello che immaginava io non lo so; lui sosteneva di non aver saputo la verità. Qualcuno invece sapeva com’erano andate le cose. Mi parlò, anche. Disse che il Führer era stato molto magnanimo. Ma Runstedt disse che non sapeva proprio nulla. Anche questo è senz’altro possibile.
Bene per Rundstedt, ma il “qualcuno” che sapeva chi era?
No, questo preferisco non dirlo. Sa, non voglio creare dei problemi alle loro famiglie.
Che giudizio dà di suo padre a tanti anni di distanza?
Ah, io lo giudico positivamente e sono contento di vivere in un’altra epoca. Mio padre è stato ferito sei volte, salvo rare eccezioni, ha perso tutti i suoi amici in guerra. Ha servito un dittatore che sarà disprezzato ancora per dei secoli. Un aspetto così cupo non è certo motivo per rallegrarsi.