ROMMEL, LA VOLPE DEL DESERTO – 1

a cura di Cornelio Galas

  • documenti raccolti da Enzo Antonio Cicchino

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Incontro con
Manfred Rommel
figlio di Erwin
“la volpe del deserto”

Manfred, Lucie ed Erwin Rommel

I PROTAGONISTI
(2001)

LE INTERVISTE
di Enzo Cicchino

Enzo Antonio Cicchino a Stoccarda

Stoccarda, 8 marzo 2001, ore 11 del mattino

Incontro Manfred Rommel nella sua casa di Stoccarda, a Sillenbuch, il quartiere residenziale alla periferia della città e che dà sulla valle in tante piccole casette a due piani che risuonano, con il loro tetto spiovente come tastiere di tegole sull’umida orchestra dei monti che gli sono intorno. Piove.

La giornata è uggiosa, una leggera foschia mista a gocce d’acqua felina concentra i suoi umori sulla nostra testa italiana. Sono con l’amico Roaul Muhm, fratello di Miriam, di padre tedesco, cittadino di Civitavecchia ed interprete di questo incontro con il figlio settantenne de La Volpe del Deserto. Il viale per giungere alla porta è ripidamente in discesa rispetto alla raccolta stradina attraverso cui siamo giunti. Un piccolo cancelletto di legno, innestato nella bassa staccionata sovrasta e raccoglie il giardino.

Pensavo che quella casa, di un uomo così importante, il collaboratore di Helmut Kohl! fosse ben mimetizzata, nascosta, con la polizia che presidiasse il portone. Invece, se non fosse stato per il nome ROMMEL scolpito sul legno nessuno si sarebbe accorto di nulla. E’ scritto con gran cura, sulla tavoletta orizzontale di pino culminante il basso cancello.

Sul citofono, vagamente illuminato, il grosso pulsante in plastica… ed ancora, in corsivo, Rommel. Non mi aspettavo tanta serenità e franchezza, in questo esprimersi l’identità di un nome che ha fatto la storia della Germania e, così, umanamente rivolto ai passanti. Tutto è semplice, tutto è modesto, umile, discreto.

Sono emozionato, trattengo un po’ il respiro quando tocco con l’indice il pulsante del citofono. Sulle prime non compare nessuno sulla porta lì da basso, nonostante il rumore urloso del campanello. Riprovo. Alzo gli occhi, anzi, li abbasso ed ecco scorgo che la porta di casa, aperta, è totalmente occupata dalla figura di un uomo. Sulle prime mi è parso un enorme contadino col basco blu in testa (come faceva mio padre Peppino) con qualche piega attorno alla fronte. Alzo la mano. Saluto.

Scendo la rampa di scalette, lentamente, con il sorriso amichevole degli sconosciuti, mi guarda. Con simpatia, con tolleranza. Non c’è sorpresa, mi attende. Sulla porta gli stringo la mano morbida e riconosco finalmente, nello sguardo anziano, il giovinetto ben inquadrato – leggermente dall’alto – dagli operatori cinematografici nazisti, il giorno del funerale di suo padre. Eppure, nonostante la distanza degli anni, quello sguardo oramai consumato mi è familiare, amico.

Manfred Rommel è vestito di grigio, con un morbido cappotto incerato antipioggia e corto, modello simile a quello che indosso io, ma lui lo fa con una certa “nonchalance”. Mi sorride, scherzando sulla mia abbondante capigliatura, amichevolmente, con sicura complicità, alza il basco… mostrando invece la sua fronte ampia così totalmente spoglia, di una nudità che affonda nella malinconia.

Mi sovviene l’immagine del suo papà Erwin, ancor giovane, con capelli abbondanti e rasati nelle sue molte foto africane, forse il gene della calvizie ancora non emergeva dal suo vigore di soldato, e che il rabbioso rancore di Hitler impedì nella vecchiaia.

Mi hanno detto che è malato. Per non farlo stancare chiedo se preferisce che abbrevi l’intervista rispetto alle infinite domande che gli ho inviato per fax. Mi informo se gli danno fastidio le luci, se durante la ripresa televisiva potrebbe avere qualche desiderio particolare per cui organizzarci. Mi risponde con rassegnata benevolenza che i politici sono abituati a soffrire e dunque di non preoccuparmi, tantomeno ha da ridire per le mie 50 e più domande che ho preparato… E’ generosamente disposto a rispondere a tutto.

Mentre i tecnici della troupe tedesca preparano le luci, Manfred Rommel, ci intrattiene intorno ad un tavolinetto sul quale sono già pronti del caffè e dei biscotti; comincia di sua iniziativa a parlare di suo padre. Racconta che gli piaceva andare a caccia nei rari momenti in cui tornava a casa in licenza e per portarselo con lui gli firmava delle giustificazioni false per la scuola, affermando che era malato.

Questa immagine inedita del Feldmarshall che diceva le bugia al preside per poter trascorrere qualche giorno con il figlio fa tenerezza. Ed ora anche lui, il vecchio Manfred, sembra ci prenda ancor più gusto a quel ricordo.

Mi guardo intorno. La casetta in cui abita il figlio della Volpe dovrebbe avere un quattro stanze al pian terreno ed altrettante in mansarda, ho visto in anticamera la scala che porta al pian di sopra, nulla di particolare, tutto di buon gusto e semplice. Ma stranamente la moglie non c’è, ci siamo solo noi, con lui: altri di famiglia neppure sono comparsi, salvo un messo dell’ambasciata che deve fargli firmare un documento.

Comunque, appena ci sediamo al tavolinetto del salotto, gli chiedo della sua salute. Senza problemi mi riferisce di quella sua terribile malattia che ormai lo accompagnerà fino al resto dei suoi giorni. A vederlo, e tenendo conto della sua condizione sociale, mostra più anni dei 71 che ha, mi dice che da qualche giorno sta più male del solito e che è stanco.

Il salotto è grande, ottenuto dall’apertura di un muro tra due camere. Non ci sono oggetti particolari, in un angolo c’è un grosso vaso di origine orientale con qualche segno del tempo, domando se possiamo spostarlo al fine di migliorare l’inquadratura televisiva, ma ci avverte che è rotto. Anche quando gli chiediamo di poter muovere e accendere ad un grosso lume di stoffa in cima ad un’asta, ci dice che non funziona, l’ha rotto il nipotino; così è rimasto.

Si respira un’atmosfera decadente e rivolta al passato benché di foto del padre in vista non ce ne siano, solo due dietro una vetrinetta accanto a dei volumi scritti dall’ex cancelliere Adenauer. Una delle due foto di Erwin è un primo piano classico dei tanti che si conoscono, formato cartolina; l’altra, in un doppio quadruccio minuscolo, è simmetrica alla figura della moglie Marie Lucie.

Gli domando se gli va di farci vedere qualche foto inedita, oppure qualcuna delle mille lettere che inviava alla madre dal fronte, cumunque un autografo del padre. Di foto ce ne mette tra le mani una decina, nulla di particolarmente inedito. Cose che già conoscevo. Ce n’è soltanto una un po’ curiosa, quella in cui il Feldmarshall aiuta il suo autista a spingere la propria auto, insabbiata nel deserto.

“Io spingevo e lui ci fotografava, al posto di aiutarci!” riferisce fosse stato il commento del padre quando gliela fece vedere, con simpatico e disappunto

Generosamente continua a farci vedere le sue foto. Ma di autografi paterni, nulla. Ho la netta sensazione d’esser seduto accanto ad un uomo che senta ancora adesso il peso d’essere un figlio. Ma contrariamente a quanto accade a molti, che sono schiacciati dalla memoria del padre, per Manfred – invec e- questa è ancora uno stimolo di energia, ricchezza, utile notorietà, perfino per la sua carriera politica, divenendo borgomastro di Stoccarda.

Si ha l’impressione che proprio dall’esempio del padre abbia mutuato una grande idealità di giustizia, di solidarietà e di eguaglianza che ancora esprime. Quando parla di Lui affiora sempre quel leggero sorriso tedesco e vivo, che ispira cordialità, gusto per il racconto, solidale amicizia verso il prossimo.

“Ma gli autografi… le lettere che scriveva a sua madre, le sue foto… quelle scattate da lui stesso provetto fotografo, i suoi diari” insisto “Dove sono?”
“Quelle in cui mio padre parlava male di qualcuno, mia madre stessa le ha distrutte” china un po’ la testa nel dirlo, ma non con rammarico, con inesorabile franchezza. “Gli Alleati poi, presero l’intero archivio di mio padre e lo portarono negli USA…”
“Allora è tutto lì, a Washington?”
“No… no… Il materiale ci è stato restituito…”
“Ed ora dov’è, possiamo filmarlo?”
“No. E’ impossibile. Tutto è protetto nel caveau di una banca”. Non ci dice di quale banca, tantomeno glielo chiediamo.

“Gli Alleati, hanno restituito gli originali, tenendosi le copie …come abitualmente facevano?”
“Non so. Quel materiale lo restituirono a mia madre, lei lo mise nel baule e poi quel baule fu messo in banca”.

Sulle prime mi stupisco. In effetti mi rendo conto poi che il valore di quegli autografi è enorme, non solo da un punto di vista storico ma anche finanziario, basta dare un’occhiata ai giornali e vedere come vengano battuti all’asta cimeli storici anche meno importanti e per un valore di centinaia di milioni.

Ma aggiunge tra l’altro che parte degli appunti del padre potrebbero essere stati pubblicati, in Italia da… (Garzanti?) ma non ne è certo. Risulta evidente, non ha alcuna voglia di procedere su questo argomento… quando siamo interrotti dall’operatore che mi chiama per verificare alcuni aspetti tecnici.

Poi risiedendomi, la curiosità su quel benedetto… “Allora, possiamo sperare che almeno in futuro, quel benedetto baule si aprirà?!” dico, avendo compreso che devono esserci sicure ragioni di opportunità storica e politica intorno a quei documenti.

“Lì dentro ci sono lettere in cui mio padre si compiace delle sue vittorie relative alla conquista della Francia, per esempio. Non credo che divulgarle sia utile al nuovo spirito di fratellanza che sta nascendo fra i popoli d’Europa. Sarebbe come ridare spazio a tragedie del passato che ci auguriamo non si ripetano più, mai più!” Mi rendo conto però che questo e’ solo un aspetto del problema.

Quei documenti non nascondono solo tragedie della Guerra ma sicuro anche possibili riflessi sulla nostra storia recente, potrebbero far riferimento a uomini che pur essendo stati prima totalmente collusi con il nazismo poi hanno retto per decenni le successive sorti della Germania nel dopoguerra.

Queste sono solo mie ipotesi che però al momento non sembra affatto opportuno star a verificare. Inutile far risorgere polemiche atroci, disperati sensi di colpa. Intuisco, per qualche decennio quello rimarrà ancora un baule che scotta.

Quando, all’improvviso, parlando con Manfred ed anche con il mio amico Raoul emerge un altro aspetto della storia tedesca ancora più incredibile e che non conoscevo. Mi viene fatto osservare che… (sarebbe il caso di approfondire molto di più la storia tedesca ed entrare senza pregiudizi in meandri che… difficilmente potremmo accettare a cuor sereno)

La mia ignoranza, a questo punto ha ricevuto un cazzotto in gola. Sento un groppo che mi strozza. Ho l’impressione che troppe cose terribili in questo paese sono ancora da scoprire e vadano incresciosamente riscritte.

La conversazione prosegue. L’atmosfera si sdrammatizza quando Manfred ci racconta di essere un caro amico del figlio di Montgomery e che spesso, quando si incontrano, ironizzano volentieri sulla storia bellica dei rispettivi padri. Ed ancora.

Gli chiedo cosa ne pensa dell’Europa Unita e se la Seconda Guerra Mondiale vi abbia in qualche modo involontariamente contribuito. Afferma che indubbiamente senza quel bagno di sangue non sarebbe così fortemente accentuata la voglia d’unificazione.

Di sua iniziativa, ad un certo punto prende una foto a cui è affezionato, forse scattata dal padre; si vedono prigionieri inglesi, in Africa, sorridenti con il pollice dritto in segno di vittoria. Nonostante fossero stati sconfitti e stessero andando prigionieri, rimanevano orgogliosi, con il morale alto sicuri della loro sorte.

Questa immagine del 1941 con quei volti che si avviavano verso i campi di concentramento – fiduciosi – pare avesse lasciato molto perplesso il grande Erwin.

Mi chiama l’operatore ed il fonico. Eccoci al prologo dell’intervista, la ragione per cui sono giunto a Stoccarda. Con generosa, teutonica, pazienza Manfred risponde per due ore, senza impressionarsi dinanzi alla stancante raffica di domande.

Alla fine dell’incontro, che abbiamo pattuito di chiudere per le ore 15, gli argomenti in sospeso sono ancora tanti. Per esempio aggiungo la mia curiosità di sapere come mai Karl Stroelin, complice della congiura contro Hitler ed amico di suo padre, fosse rimasto comunque borgomastro di Stoccarda fino alla fine della guerra, invece di essere perseguitato ed ucciso come invece era accaduto ad altri congiurati.

Mi risponde che “O la Gestapo non era riuscita ad avere prove concrete sul suo conto, oppure che, pur possedendone aveva preferito lasciarlo vivo per non destare sospetti sulla tesi ufficiale: complicanze per ferite inferte dall’attacco aereo di cui fu vittima il 17 luglio 1944”.

Senza volerlo mi cade l’occhio sulla sua foto da quindicenne poggiata sul tavolo insieme ad altre, fra cui una scattata dal padre: un nudo camposanto nel deserto con in capo alle tre croci gli elmetti dei soldati morti.

Ed ancora, sempre parlando del più e del meno, mi stupisce il suo giudizio fortemente lusinghiero nei confronti del popolo italiano. Mi dice che certo, i tedeschi per carattere sono molto attenti ai dettagli, sono fortemente analitici, mancano però delle grandi visioni di sintesi globali. Aggiunge che il rapporto culturale italo-tedesco è efficace e vivo soprattutto fra Svevia e Baviera, mentre per esempio la zona di Stoccarda è più legata alla Francia.

Mi risovviene ancora l’attenzione relativa al difficile rapporto fra Erwin Rommel e Albert Kesselring, quale ne fosse la ragione. Manfred afferma che Kesselring, in Africa, consigliava Rommel sempre di attaccare, attaccare! senza badare alle perdite; per esempio una volta aveva insistito perché facesse attraversare i campi minati dai carrarmati, scelta cui Rommel indignato si oppose fortemente.

Erwin Rommel

Per Kesserling bisognava tenere impegnato il nemico senza requie e nel dare questo consiglio era molto invadente. Inoltre quando si giunse ad El Alamein, o meglio, quando ci si rese conto che la mancanza di carburante e risorse belliche aveva avuto un effetto determinante sulla dinamica dell’avanzata, Kesselring si offrì di risolvere i problemi del carburante tramite aeroplani. Rommel, per un po’ ci credette. Ma poi quando vide che erano solo chiacchiere non gli dette più credito e tutto finì nel nulla.

Altra differenza profonda tra Kesselring e Rommel, era che il primo aveva una forte cultura umanista e conosceva profondamente la grande cultura italiana, che amava veramente, cosa che non era La Volpe del Deserto.

Durante la registrazione dell’intervista televisiva suona il telefonino. Ci si ferma per ripetere. Manfred ci scherza su “E’ imbarazzante quando suona in chiesa e tutti corrono a spegnerlo, mentre, al contrario, spesso lo accendono e risuona altre volte!”

A vederlo dà la sensazione di essere un uomo pio e religioso. Ci tiene a precisarlo, è di osservanza protestante e di fede ugonotta. Ha un fascino senza tempo quel vederlo aggirarsi per casa, largo di spalle, con i pantaloni flosci sul sedere, poi quei segni inequivocabili della malattia che gli crea difficoltà nei gesti; con rammarico si percepisce la sua ingrata sofferenza che, quasi quasi, mi pento del mio egoistico desiderio di strappar da lui tutte le impossibili, incredibili, verità che ancora nasconde.

Lo tormento con i miei ultimi appunti, eppure lui resiste, gli rimango simpatico; mi ripete, quando gli chiedo se è stanco – che i politici sono abituati a soffrire-. E’ curiosa come affermazione, in Italia non me l’ha mai detto nessuno.

Rommel con Hitler

Tuttavia, irrefrenabile, il mio pensiero torna al baule! con quelle sue inesplorate verità. Mi confermo nell’idea che Manfred mi abbia detto molto meno di quanto sa e conosce. Nella sua posizione politica riveste un ruolo molto delicato e non può dire cose che scontentino gli uni, o gli altri. Oppure che creino, a tanti anni di distanza dai fatti, polemiche ancora estremamente dannose sia per il paese che per l’Europa, eppoi inutili in se stesse.

In relazione a questo aspetto, del non poter dire tutta la verità, in un solo momento è stato esplicitamente chiaro, preso dal fuoco delle mie insistenze e dall’onestà verso il padre.

I funerali di Rommel

A proposito di CHI dei presenti – durante i funerali di Erwin Rommel – fosse a conoscenza della verità di quella morte e chi no… mi ha pregato con calore che gli evitassi di rispondere… per non riaprire tristi lacerazioni che ancora avrebbero effetto non lieve pur oggi.

La tragedia tedesca dunque affiora, o meglio, ritorna in luce con tutta la sua amarezza, in quest’uomo buono dalle spalle larghe e vecchio più di mezzo secolo. Una tragedia che vedo perennemente riscritta sulle sue carni e non rimargina, e non rimargina, quasi che il tempo fosse per lui inamovibile.

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