a cura di Cornelio Galas
Oggi prendiamo in esame (seriamente, non con parodie umoristiche come abbiamo fatto tempo fa), la toponomastica trentina. La toponomastica è, come si sa, l’insieme dei nomi attribuiti alle entità geografiche (toponimi), ed il loro studio storico-linguistico. E costituisce un valido strumento per una migliore conoscenza della storia di un dato territorio.
Giulia Anzilotti Mastrelli ha fatto al riguardo un importante esame di alcuni toponimi trentini classificati per epoche storico-linguistiche. Chi era Giulia Anzilotti Mastrelli ? Nata a Vicenza il 16 giugno 1927 è morta a Firenze il 29 marzo 1999. Allieva all’Università di Firenze dell’insigne linguista trentino Carlo Battisti, si appassionò in modo particolare alle tematiche della toponomastica di cui fu sistematica e competente ricercatrice.
Approfondì anche argomenti di antroponimia e dialettologia. Vicentina di nascita ma di famiglia toscana, già con la scelta della sua tesi di laurea, I nomi locali della Val di Sole, si legò affettivamente e professionalmente al Trentino della cui toponimia divenne autorevole maestra. Scrisse anche in tedesco, lingua dalla quale tradusse alcune opere di carattere storico e linguistico.
Il Trentino vanta una notevole scuola di studi toponomastici. Trentino era appunto Carlo Battisti, uno dei più grandi studiosi di toponomastica e glottologo di fama internazionale, che dedicò la sua vita alla raccolta e alla interpretazione dei nomi di luogo dell’Alto Adige e del Trentino, facendo sì che questa regione sia oggi l’unica in Italia a poter vantare studi toponomastici capillari ed esaurienti: il Dizionario Toponomastico Atesino e l’Atlante Toponomastico della Venezia Tridentina costituiscono, sia per la loro monumentalità che per la metodologia dell’esecuzione, un modello unico per ogni ricerca toponomastica.
Battisti nacque a Trento, figlio di genitori nònesi, nel 1882, quando nel Trentino si andavano affermando gli studi toponomastici e secondo Battisti in un periodo molto critico, con la pressione culturale austriaca che si faceva sempre più pesante, questi studi ebbero più che altro lo scopo di dimostrare l’italianità del principato vescovile di Trento.
In effetti nel Trentino, sia prima che dopo la Grande Guerra, numerosi furono i saggi di studiosi locali, a volte semplici dilettanti, che raccoglievano però ampio materiale e lo esaminavano sia pure con metodo approssimativo e con risultati alterni. Fra tutti questi studiosi spiccano Ernesto Lorenzi e Guido Sette. A Lorenzi si deve il primo tentativo di un esame complessivo della toponomastica trentina, il Dizionario Toponomastico Tridentino, frutto di molti anni di studio con un ricco materiale da documenti inediti della Biblioteca Comunale e dell’Archivio di Stato di Trento.
Ma – è l’opinione di Battisti – si tratta di un repertorio non sempre esatto, pericoloso anche come fonte, zeppo di escursi affatto estranei all’opera, del tutto arbitrario nelle etimologie. Il Lorenzi era comunque uno studioso fecondo: oltre a diversi studi sui cognomi trentini, pubblicò altri lavori sui toponimi mòcheni e sui toponimi perginesi, studi che costituiscono dei buoni strumenti di lavoro pur mantenendo le arbitrarietà del Dizionario.
Il Sette, rispondendo all’appello della commissione per la toponomastica della Società di Studi Trentini di Scienze Storiche per la raccolta di nomi di luogo della regione, raccolse i toponimi di Cembra, Lisignago e Fàver e andò oltre alla semplice raccolta dei toponimi e alla loro localizzazione facendo lo spoglio dei documenti per trascriverne le forme medioevali. Accanto a questi due studiosi dilettanti o semidilettanti è doveroso citare dei veri e propri professionisti come Paolo Orsi e Bartolomeo Malfatti, e ancora Christian Schneller, Desiderio Reich e Angelico Prati. Orsi scrisse un saggio di toponomastica trentina con il sottotitolo Contributo alla etnografia e topografia del Trentino.
Il Malfatti, dopo aver dato prova di straordinario acume nello studio I castelli trentini distrutti dai Franchi con una ricca documentazione e spiegazione etimologica dei loro nomi, pubblicò un Saggio di toponomastica trentina con un discorso preliminare sulle colonie tedesche del Perginese e La toponomastica tridentina rimasta però interrotta alla lettera B. Lo Schneller, un austriaco che fu professore a Rovereto per una dozzina d’anni, uno dei maggiori esponenti della linguistica del suo tempo, ci ha dato con le sue Tirolische Namenforschungen. Orts und Personennamen des Lagerstales, una mirabile illustrazione toponomastica della Vallagarina con un ampio studio dei documenti medioevali diligentemente spogliati e con un’accurata preparazione tecnica.
Il Reich, uno degli storici trentini più famosi, lasciò anche nel campo toponomastico degli esempi di metodo scientifico di raccolta e di valutazione di forme medioevali dei nomi di luogo che ancora oggi – scriveva Battisti nel 1953 – non sono stati superati. Il Prati ci ha lasciato lavori che coprono un arco di cinquant’anni e che testimoniano la sua capacità di impostare storicamente i problemi etimologici dei vari toponimi.
Alla scuola di Battisti si sono formati studiosi altrettanto fecondi e originali, alcuni dei quali si sono occupati totalmente, altri solo marginalmente di toponomastica trentina. Questi sono: Berengario Gerola, prematuramente scomparso, Carlo Alberto Mastrelli dell’Università di Firenze, a cui si deve la trasformazione dell’«Archivio per l’Alto Adige», un’eredità battistiana, in una pubblicazione di più ampio respiro che porta il sottotitolo di Rivista di Studi Alpini Giovan Battista Pellegrini, dell’Università di Padova, e naturalmente Giulia Anzilotti Mastrelli.
Toponomastica vuol dire, come abbiamo detto in apertura, «studio dei toponimi» cioè «studio dei nomi di luogo», intesi non solo come denominazioni di comuni, frazioni, fiumi, monti e valli, ma anche come denominazioni di piccoli appezzamenti di terreno: campi, boschi, prati, orti, denominazioni di masi, di rii ecc., di quella cioè che viene comunemente definita microtoponomastica.
La toponomastica è una scienza fondamentalmente linguistica che opera in stretta connessione con altre discipline: con la storia ad esempio, o meglio con tutte le materie storiche in senso lato. Il toponimo o nome locale infatti, del quale lo specialista cerca di ricostruire il significato originario, può fornire, ad esempio, indicazioni sugli avvicendamenti dei popoli antichi, altrimenti non individuabili. La storia di un insediamento può essere in effetti attestata dai reperti archeologici, dai documenti d’archivio, ma anche dai toponimi.
È tutt’altro che raro che l’indicazione toponomastica sia suffragata dalla testimonianza archeologica per i tempi più antichi. Così è il caso di Vervò e di Toblino che sono accostabili ai nomi di due schiatte citate su epigrafi romane rinvenute in loco: i Vervasses e i Tublinates. In Val Cavedine i nomi di quattro paesi, precisamente Calavino, Lasino, Stravino e Cavedine, sono attribuibili a uno strato prelatino, vale a dire anteriore all’epoca romana. Ciò è in certo qual modo confermato dal fatto che i reperti archeologici attestano come la valle abbia costituito sin dai tempi più remoti (certamente a partire dall’eneolitico) la principale via di passaggio fra il Piano del Sarca e la Val d’Adige.
Ma l’indicazione toponomastica può essere confortata anche da notizie riportate sui documenti d’archivio più antichi, il che nel caso del Trentino vuol dire per lo più risalenti al XII e XIII secolo. Mastrelli porta un esempio: un documento del 1332 riporta una sentenza emessa dal Conte Niccolò d’Arco che pone fine a una vertenza sorta fra i vicini di Vigo Cavedine e i rappresentanti della Pieve di Cavedine. In essa si precisano i confini del bosco della vicinia di Donègo e si riconosce solennemente che detto bosco è di proprietà comune dei vicini di Vigo Cavedine.
L’etimologia di Donègo (un tempo pronunciato con l’accento sulla o: Desnego) conferma il fatto che non si trattava di una proprietà comunale ma di una proprietà privata: il toponimo deriva infatti dal latino dom(i)nicus nel significato di «padronale». Un altro esempio: sappiamo dai documenti d’archivio che vicino al villaggio nòneso di Quètta c’era un tempo un monastero che dipendeva da Campiglio. Ciò concorda perfettamente con il nome che deriva dal latino tardo queta nel senso di «cella monastica» (cella monastica ubi quiescunt monachi).
Un altro esempio sul rapporto fra documenti d’archivio e toponimo, e un esempio veramente interessante, è quello datoci dal Maso Pompermair a Fierozzo in Val dei Mòcheni: Pompermair a prima vista pare un cognome tedesco, magari del primo proprietario del maso, ma il fatto che nel 1324 sia documentato come pontprimay ci fa capire che non può trattarsi di un cognome tedesco e che deriva da ponte primariu. Interessante è prendere in esame i vari strati toponomastici che sono testimoni delle vicende storiche del territorio trentino.
Uno dei tratti più immediati che saltano all’occhio nell’esame della toponomastica trentina è la stratificazione toponimica che è tipica delle zone che siano state abitate ininterrottamente a partire dalla preistoria e nelle quali si siano sovrapposti popoli e lingue diversi. Che il Trentino fosse popolato già in epoca preromana – e per quanto riguarda la parte nord-occidentale anche densamente – è risaputo e la toponomastica ce lo attesta abbondantemente. Solo che i relitti prelatini documentabili in questi toponimi appartengono a età differenti e a strati linguistici diversi e quindi qualche volta sono difficilmente determinabili.
A volte non si può neanche ammettere che si tratti effettivamente di autentici relitti del periodo prelatino perché la voce prelatina può essere perdurata come appellativo anche a romanizzazione avvenuta. Ovviamente la supposizione diviene certa quando si abbia, come ho già detto, la conferma dell’archeologia. Ma evidentemente si può avere anche il caso che rinvenimenti di età preistoriche si accompagnino a toponimi neolatini: ciò vuol dire che il nome attuale ne sostituisce uno più antico ormai dimenticato oppure che nella storia dell’insediamento c’è uno iato.
Prendiamo il caso di Sanzeno, paese della Val di Non, in cui si sono rinvenuti importanti reperti archeologici preromani: in effetti il suo nome originario era Metho (o Meclo o Mecla), appunto un toponimo di chiara origine preromana che va accostato all’etrusco methlon «popolo» e che fu poi sostituito dall’agionimo San Sisinio, di cui Sanzeno è una forma corrotta. Può anche verificarsi il caso opposto che toponimi di origine preromana non abbiano riscontri archeologici: si può trattare allora, come ho già detto, di appellativi prelatini, così tenaci ancora nel Medio Evo da prestarsi come qualsiasi elemento lessicale latino a creare nuove denominazioni locali.
Del resto voci prelatine comegana, marra, mosna, baita, tanto per fare degli esempi, sono ancora vive nei dialetti trentini per indicare rispettivamente: «rovina di sassi», «smottamento», «mucchio di sassi», «rustico di montagna»: esse provengono certamente da linguaggi remoti e per la loro persistenza possono aver dato origine a toponimi tanto in epoca prelatina quanto in epoca moderna. L’elemento indicativo è in tali casi il suffisso: vale a dire che un toponimo che risalga ad una delle suddette basi, se presenta un suffisso latino, può essere classificato tra i toponimi neolatini, cioè non costituisce una prova decisiva di uno stanziamento prelatino.
Porto come esempi: Gdnola e Val Ganósa in Val di Peio, Marèla in Val di Non, Marògne a Caldonazzo, tutti toponimi con base prelatina (gana e marra, che ho prima citato) e suffisso latino. Insomma voce antica non significa necessariamente toponimo antico; ma si tratta dunque di formazioni posteriori che si limitano ad utilizzare voci prelatine e che quindi non possono attestarci che solo indirettamente degli insediamenti prelatini. In ogni modo l’identificazione è sempre difficile e ci si deve basare perciò necessariamente su analogie e omofonie.
A mo’ di esempio, Giulia Mastrelli prende un filone toponomastico sicuramente prelatino con terminazione in -ò. Questi toponimi indicano per lo più località abitate e sono limitati quasi esclusivamente alla Val di Non, essendo tale terminazione rara sia nelle altre zone trentine, dove troviamo solo Arnò, affluente del Sarca, sia fuori del Trentino dove potrebbero appartenere a questa serie Piganò nell’Oltradige Bolzanino e Salò sulla riviera bresciana del Lago di Garda.
I toponimi nònesi sono: Vervò, in dialetto vervòu, nell’angolo sudest della valle, sulla antichissima via della Predaia; Cagnò e Revò (in dialetto k’agnòu e revòu) alla confluenza della Novella con il Noce e quindi in direzione sia della strada delle Palade che di quella della Mendola. Che queste due vie fossero di importanza anche nell’antichità lo dimostra il fatto che a loro guardia i Romani eressero più tardi due castelli, quello di Romeno e quello di Castelfondo.
La posizione geografica di questi toponimi appare quindi molto interessante. Il suffisso è -avum -ao -ò; in quanto ai radicali, soltanto per Vervò e Cagnò si può azzardare un’ipotesi. Il primo è senza dubbio alcuno collegato con l’etnico che ho già menzionato, quello dei Vervasses, citato da un’epigrafe romana rinvenuta in loco in cui si parla di un dono destinato da un certo Quadratus a tutti gli dei e a tutte le dee per la salvezza appunto dei castellani Vervasses. Cagnò invece dovrebbe avere lo stesso tema sia di Càines (ted. Kuenz), villaggio presso Merano, attestato come Cainina nel 720, che dell’etnico Caenaunes, forma attestata nei codici di Plinio per uno dei popoli elencati nel Trophaeum Alpium. Amò dovrebbe invece rifarsi al celtico *arn-«acqua corrente».
Un altro interessante filone toponomastico prelatino sempre nel Trentino occidentale è rappresentato da toponimi con terminazione -as. Questo tipo toponimico è ampiamente rappresentato in Val di Sole con Daolasa, in dialetto dauldsa, Magràs, Mentis, Thrzolas, in dialetto tergiolds, e con doppio suffisso: Monclassico, in dialetto mon-classec, Comasine, in dialetto comdsen, e lo scomparso Solasna.
È presente anche nelle Giudicarie, sebbene più sporadicamente, con Dolaso, Lomaso, Mortaso e Senaso, in dialetto rispettivamente: dolds, lomds, mortds e sends, e raggiunge il Garda con Pregà’ina, altro toponimo con doppio suffisso. Procedendo dalla Val di Sole verso est ne troviamo due in Val di Non: Clavàs e l’idronimo Rinassico, in dialetto rindssec, anche questo con doppio suffisso.
Il suffisso -ds, se si eccettua Rinassico, risulta caratteristico per località abitate. Ciò può suggerire l’idea che il tema sia costituito da un personale o da un aggettivo etnico (Clavàs ad esempio è accostabile all’etnico Clavasses). C’è però da precisare che, se questo suffisso si è estinto ancora in epoca prelatina, il personale è senza dubbio alcuno parimenti prelatino. In questo caso si possono fare interessanti confronti con l’onomastica etrusca: Aule per Daolasa e Dolaso; Macri per Magràs; Mane per Menàs ecc.
Ma se invece il suffisso era ancora vivo all’epoca della romanizzazione possono entrare in concorrenza etimologica dei personali latini .t cioè per i toponimi sopra citati: Aulus, Macer e Menus. Da tale quadro risulta chiaramente che la concentrazione dei toponimi si trova in quella parte del Trentino occidentale che, sia linguisticamente che toponomasticamente, è d’ambientamento bresciano.
Non parrebbe quindi azzardato pensare ad insediamenti prelatini provenienti da occidente. I due toponimi nònesi, di cui Rinassico si rifà al prelatino “rinos «torrente» e si trova proprio all’imbocco della valle, potrebbero essere indicativi per una più ampia estensione da ovest verso est di tali insediamenti. I risultati degli scavi archeologici concordano con la toponomastica soprattutto nell’alto Garda, nelle Giudicarie e in Val di Non. In Val di Sole è emerso poco, anche perché fino ad ora sono mancate in questa valle delle ricerche archeologiche adeguate.
Caratteristici per l’epoca romana sono i toponimi prediali e i toponimi cultuali. In effetti in una zona neolatina in cui si abbia una continuità del romanesimo non ci si può basare sui comuni appellativi latini perché non possiamo appurare se gli insediamenti o stanziamenti contrassegnati con questi appellativi siano romani o medioevali.
I toponimi prediali indicavano un praedium, cioè una proprietà fondiaria e venivano formati con un nome personale romano, talvolta anche barbarico, e un suffisso. Così Romagnano era il praedium di un Romanius. Il suffisso può essere -anum ed allora si hanno toponimi del tipo del già citato Romagnano, di Daiano in Val di Fiemme, Smarano in Val di Non, Meano, nel contado di Trento, rispettivamente da Aius, Ismarus e Aemilius. Oppure il suffisso può essere -acum ed allora si hanno toponimi del tipo di Almazzago, Mestriago e Termenago in Val di Sole, rispettivamente da Dalmatius, Mestrius e Terminius.
Oppure il suffisso può essere -icum e si hanno allora toponimi del tipo di Mocenigo in Val di Rumo, da Mucianus. I prediali con suffisso -acum e -icum dovrebbero riferirsi allo strato gallico e sono quindi toponimi che ci riportano all’inizio della romanizzazione. Alcuni prediali invece di riferirsi a un praedium si riferiscono a una villa (che in latino ha lo stesso significato) e allora il toponimo è femminile come Cassana e Tozzaga in Val di Sole, Ceniga nella Valle dei Laghi, rispettivamente da Cassius,Tutius e Ursinicus. Alcuni prediali sono invece asuffissali come Sèio, Spóro e C/òz in Val di Non, Avio, Móri e Nómi in Vallagarina, Condino in Val del Chiese, rispettivamente da Seius, Spurius, Claudius, Avius, Murius, Nummius e Condinus.
I prediali nascevano dalla distribuzione del terzo delle terre ai veterani e queste aziende agricole così fondate prendevano appunto nome dalla gens che ne diventava proprietaria. Tre sono le zone del Trentino che presentano un maggior numero di prediali: il Rivano, la Vallagarina e la Val di Sole.
Nelle prime due zone l’area dei prediali coincide grosso modo con quella delle epigrafi latine, mentre del tutto particolare è il caso della Val di Sole dove a una nutrita presenza di prediali, una quarantina, si affianca una sola epigrafe. D’altra parte zone ricche di epigrafi latine, come la Val di Non e le Giudicarie, sono piuttosto carenti di prediali. Quindi si potrebbe dedurre che i prediali siano da considerarsi strettamente dipendenti da operazioni di ordine strategico/militare e non da un maggior grado di romanizzazione della zona.
In effetti proprio al confine occidentale della Val di Sole i Romani dovettero confrontarsi con un popolo ribelle, quello dei Camunni e quindi a questa luce i prediali solandri assumono il ruolo di avamposti. La stessa situazione si ritrova nell’attuale provincia di Bolzano, e precisamente ad Appiano e a Merano, dove il materiale epigrafico è scarsissimo e i prediali una settantina: qui i Romani ebbero da confrontarsi con i Breuni, gli Isarci e i Venostes.
Meno diffusione hanno, almeno a quanto mi consta, i toponimi cultuali, i toponimi cioè che si rifanno a un culto. Abbiamo in Val di Non Sadórni che rispecchia un Fanum Saturni e Dércolo, nel latino medioevale villa Herculis, forse una delle numerose stazioni ad Herculem. C’è poi sia in Val di Non che a Povo di Trento il toponimo Minèif che si rifà a Minerva.
Caduto l’impero romano cominciarono le infiltrazioni germaniche nel Trentino. Mentre non abbiamo tracce toponomastiche gotiche – il toponimo gotico più vicino lo si trova al Brennero: Gossensass (Colle Isarco) – ne abbiamo alcuni che possono testimoniare degli insediamenti longobardi. Da sala «edificio per la raccolta delle derrate della curtis» derivano Camposala a Volano e Sala a Pieve di Ledro; da balla «edificio ampio e aperto costruito su colonne» deriva Ala; ad harimann «uomo libero» si rifanno Romani, maso a Volano e Remà, monte a Condino; a warda «posto di guardia» Gàrdolo, frazione di Trento, le Gàrdole, colle a Volano, e sempre le Gàrdole, toponimo ora scomparso a Pieve di Tenno; a lagar «magazzino» il nome di Lagarina.
Anche alcuni etnici possono essere presi in considerazione, quando si tratti di popolazioni che vennero in Italia al seguito dei Longobardi o che comunque in Italia vennero a contatto con essi. Traccia dell’etnico Bulgari si trova in Bólghera, sobborgo di Trento, e Bólgari in Val di Ledro. Dall’etnico Pannoni potrebbe derivare Pannóne in Val di Gresta. L’etnico Baiuvari è con molta probabilità da rintracciare nel toponimo Bazoèra (anno 845, Baouarius) presso Mori. Indicativi come toponimi di origine germanica e soprattutto longobarda sono i toponimi in -ing derivati da personali.
Ne troviamo uno presso Volano, Saléngo, dal personale longobardo Salo. Tutti questi toponimi si trovano nella loro quasi totalità nel basso Trentino e più precisamente: in Val di Ledro, alto Garda, Val di Gresta e Vallagarina. La loro area combacia per lo più con l’area dei ritrovamenti archeologici anche se quest’ultima la supera sia ad est che a nord. La loro distribuzione suggerisce l’idea di una colonizzazione a sbarramento dislocata su importanti vie di comunicazione fra Brescia, il bacino del Garda, la Val d’Adige e Verona. Una cintura dunque a garanzia di questi collegamenti contro minacce nemiche da nord.
Ci sono poi diversi toponimi che non testimoniano direttamente un insediamento longobardo, ma sono dovuti ad appellativi longobardi entrati a far parte del vecchio lessico trentino. Quindi essi possono essere stati denominati sia in epoca longobarda che anche, e molto più probabilmente, in epoca successiva, anche moderna, se l’appellativo è ancora vivo nel dialetto.
È il caso, tanto per fare un esempio, dei toponimi derivati dagaggio, in dialettogac, gaz, dal longobardo gabagi «bosco in riserva», tramite il latino medioevalegadium; di binda «striscia di terra» che è riscontrabile in Le Binde a Mori vecchio; di biunda a cui si rifà Piont, parte inferiore di Pomarolo. A questo proposito c’è da osservare che un tempo piont era anche un appellativo e significava «frutteto»: quindi quasi un sinonimo di Pomarolo.
È in questo modo che la toponomastica ci racconta la storia del Trentino. Ma la toponomastica è essenziale anche per lo studio storico dei dialetti. In effetti il toponimo spesso rappresenta una forma arcaica cristallizzata che ci tramanda fasi da tempo superate in una parlata attuale. Qualche esempio. Due toponimi di Cellentino in Val di Peio Fóra en ‘Aduni e Su en salvduni ci testimoniano un fenomeno fonetico di tipo ladino ormai scomparso dal dialetto, vale a dire la dittongazione dia tonica davanti a nasale.
Tale fenomeno è riscontrabile ancor oggi nelle parlate grigionesi ed esisteva un tempo nel neolatino parlato nell’alta Venosta prima che questa venisse germanizzata, come ci testimonia la toponomastica. Il che è ovviamente molto importante per l’inquadramento del dialetto pegaese nell’ambito della cosiddetta Ladinia.
Un altro esempio: arzdgol, arzdvol, argul sono voci solandre (di Vermiglio e di Peio) e nònesi (di Cles, Livo e Bresimo) per la «Branca Orsina», «Heracleum Spondylium»; con la caduta della sillaba iniziale si ha anche zaghe in Rendena. La voce torna a Moena, arzégole, ma per indicare un’altra pianta, il «Romice bastardo», «Rumex obtusifolius».
Ma la toponomastica ci attesta che la voce doveva avere un tempo un’area ben più estesa. Troviamo infatti Narztkol in Val di Peio, ma anche Narzalé a Spormaggiore e a Lavís, Narzelé a Isera, mentre nel 1285 è documentato a Strigno in Valsugana un toponimo Arzevenne. Si può dunque ipotizzare che la voce fosse presente in molti, se non in tutti, dialetti trentini.
La toponomastica ci testimonia anche sull’esistenza dello slambròt, il dialetto di origine tedesca che si parlava un tempo nelle zone dette cimbre del Roveretano orientale: vale a dire Folgaria, Noriglio, Ronchi, Terragnolo, Trambileno e Vallarsa. A questa serie appartengono anche – più vicini a Trento che a Rovereto – Lavarone e Luserna.
In quest’ultima il dialetto tedesco è parlato ancor oggi, ma l’insediamento è ben più tardo di quelli del Roveretano orientale ed anche di quello di Lavarone e il dialetto si è sviluppato in modo abbastanza autonomo. A parte episodi a carattere minerario queste colonie cimbre rientrano nell’ambito di un’ampia ripresa di dissodamento e rinnovamento economico che nel Trentino si svolse fra il XII e il XIV secolo ad opera appunto di roncatori bavaro-tirolesi chiamati o dal vescovo o dai feudatari.
Caratteristica di queste colonie è che i toponimi principali sono per lo più prelatini o neolatini, mentre l’elemento tedesco si esplica quasi esclusivamente nella microtoponomastica e soprattutto nei nomi dei masi o degli abitati derivati da masi. Studiando i toponimi di queste zone si può dunque ricostruire lo slambròt. Due anni fa ho raccolto in effetti centoventi voci cimbre ricorrenti nella toponomastica del Roveretano orientale.
Trattandosi di una corrente migratoria svoltasi nel Medio Evo, vale la pena di ricordare che a quest’epoca risale la maggior parte dei toponimi del tipo Rónc e Roncdc’ che testimoniano appunto la necessità di guadagnare terreni all’agricoltura; Sòrt e Régola che si richiamano alle norme della vita comunitaria; gli agiotoponimi, i toponimi cioè che si denominarono da un santo, spesso il patrono: San Cristoforo, Sant’Orsola, San Felice, ecc. Alcuni sostituirono le denominazioni precedenti, come Santa Massenza che sostituì Maiano, un toponimo prediale; il già citato Sanzeno che, come ho detto, sostituì il precedente Metho (o Meclo o Mecla).
Al Medio Evo e precisamente al basso Medio Evo, risale anche buona parte dei toponimi che dipendono dall’antroponimia: nomi, cognomi, soprannomi di famiglia. Designano soprattutto masi e in questo caso, riferendosi ai nomi degli antichi proprietari, ci aiutano a distinguere le famiglie immigrate da quelle autoctone, i cui nomi sono alla base dei toponimi e ci aiutano quindi a ricostruire la storia degli insediamenti, cioè la storia locale.
Ma la toponomastica non è solo una branca della linguistica storica, perché la toponomastica può essere considerata anche una scienza geografica, nel senso che indaga su vari aspetti di «un oggetto geografico».
Si è già visto che può interessare l’antropogeografia poiché si occupa della storia degli insediamenti umani, ma può anche illustrare particolari aspetti dell’economia, dell’agricoltura, della pastorizia ecc. Ad esempio per quanto riguarda la geografia fisica e la geografia botanica, la toponomastica aiuta ad individuare le variazioni di paesaggio.
Basti pensare a tutti i toponimi del tipo di Palù, Lama, Palustèla che designano località, un tempo paludose, ma che attualmente magari hanno cambiato totalmente aspetto; ai toponimi del tipo Faé, Bedolé in località dove oggi magari non c’è più traccia alcuna di faggi o di betulle (per quanto riguarda il faggio c’è da tener presente che un tempo esso raggiungeva un limite altimetrico assai più basso di quello attuale).
E quanti Bósc, Sélva, Spéssa, Taid (spéssa nel senso di «bosco fitto», taid in quello di «luogo disboscato anche se solo in parte») denominano oggi zone dove non c’è più alcun segno di piante o per effetto del disboscamento o per effetto di calamità naturali. Il discorso fatto per la flora può essere fatto ugualmente per la fauna. Anche se non si sapesse che l’orso e il lupo fino al secolo passato circolavano nelle valli alpine con ben maggiore frequenza di adesso, ce lo attesterebbero in ogni modo i toponimi del tipo Orsara, Lovara, Lovèra, Lovaia.
Ugualmente la ‘toponomastica ci attesta usi particolari e fatterelli della storia locale: mi riferisco a toponimi del tipo Piazzetta della decima, Pra’ della regola a ricordo della località dove veniva pagato il contributo o dove si riuniva l’assemblea comunitaria; o ancora del tipo Pra’ del toro, per indicare il prato ceduto dal comune al proprietario dell’unico toro del paese.
Dunque toponomastica e storia, toponomastica e geografia, toponomastica e archeologia, toponomastica e documenti d’archivio, toponomastica e dialetto: sono tutti aspetti molto interessanti. Ma ne rimane ancora uno che non è meno interessante e che può creare diversi problemi: quello etimologico.
L’interpretazione dei toponimi è ovviamente molto facile quando questi siano trasparenti. Si fa infatti presto a capire che Rovereto, documentato nel 1225 come villa Rovredi in Plebe Lizane, è un fitotoponimo dal latino robur -ore «rovere, quercia», quindi un luogo ricco di querce; che Male, il capoluogo della Val di Sole, documentato nel 1211 come Maleto, quando ricevette il suo nome doveva essere tutto un meleto, anzi tutto pómi, come si dice in dialetto.
Naturalmente resta sempre il dubbio se sia l’insediamento ad avere avuto il nome o se l’insediamento sia sorto su una località già contrassegnata da quel nome. Così sono pure trasparenti idronimi del tipo di Ri, Ridl, Pissón, Fontanèl ecc., o Cróna, Cóvel, Cóel, Palón ecc. Meno facile e talora addirittura difficile, se non impossibile, soprattutto se mancano le documentazioni d’archivio, può invece essere l’interpretazione di certi altri toponimi, tanto che spesso si possono azzardare solo delle ipotesi.
Lo scopo degli studi toponomastici è appunto quello di risalire a ritroso nel tempo per ricostruire questo processo logico e chiarire, nei limiti del possibile, il vero significato del toponimo. Il discorso dell’etimologia, cioè dell’interpretazione di un toponimo, è non solo importante ma anche complesso e delicato.
Si potrebbe scrivere un libro sulle interpretazioni sbagliate che comunemente vengono definite «popolari». Un esempio: Il nome di Mostizzo/o, documentato come Mastozolo già nel XIII secolo, viene fatto derivare dal tedesco, per altro errato, musst du zablen, cioè «devi pagare», con riferimento al dazio austriaco. Mostizzolo, come ho già detto documentato dal 1200, sarà invece accostabile, come un altro toponimo della zona, Mustèi, al latino musteolu «terreno tenero come il mosto». Oppure Paneveggio che è comunemente interpretato come «ponte vecchio», ma che è invece documentato nel sec. XVI come palevegie, e che quindi va interpretato come «palude vecchia».
Si tratta di etimologie popolari, ma ad esse danno purtroppo credito anche degli studiosi locali, per altri aspetti benemeriti. Ciò naturalmente non esclude che anche gli specialisti possano sbagliare. Anche a questo proposito ci sono molti esempi che potrei portare. Mi limiterò ad uno che mi pare piuttosto divertente. L’Alsazia, come ben sapete, è una regione attualmente appartenente alla Francia, ma dove si parla un dialetto tedesco. Per la sua posizione al confine appunto fra la Francia e la Germania è stata sempre contesa da questi due paesi e una volta si è trovata sotto l’uno e la volta dopo sotto l’altro.
Una strada in una sua cittadina era detta nel dialetto tedesco locale Hellegass (Vicolo dell’inferno). Quando arrivarono i francesi, come sempre succede da che mondo è mondo, questi si misero a tradurre nella propria lingua i nomi dei paesi e delle strade, ovviamente affidandosi a una commissione di esperti. Nel caso del Vicolo dell’inferno questi confusero il dialettale Helle, appunto «inferno» con il nome femminile Elena, in francese Hélène, e quindi la strada si chiamò Rue Hélène, cioè Via Elena e intanto il vicolo era aumentato di prestigio passando a via. Poi col trascorrere degli anni si pensò bene di correggere Hélène con Sainte Hélène e così la Hellegass, Vicolo dell’inferno, diventò la Rue Sainte Hélène, Via Sant’Elena. Una bella carriera, non c’è che dire: dall’inferno al Paradiso!