a cura di Cornelio Galas
Siamo ancora nella splendida Villa Feltrinelli, a Gargnano (Brescia), dove, prudentemente, lontano da Milano dove incombeva la minaccia di attentati, Mussolini soggiornò come detto dall’ottobre 1943 all’aprile 1945.
Gargnano era la sede estiva della famiglia di Faustino Feltrinelli, magnate del legname i cui figli Angelo, Giuseppe e Giacomo costruirono, nel 1892 quello che oggi è il Grand Hotel a Villa Feltrinelli. Il loro impero economico ebbe origine dalle foreste del nord Italia, Austria, Ungheria e Turchia, per lanciarli fino alla borsa valori di Milano. Angelo, risiedeva per la maggior parte dell’anno a Gargnano (ne fu anche il Sindaco per 15 anni), mentre Giacomo (1829-1913) lanciava la famiglia in affari in tutta Europa ed oltre, fornendo il legname per la costruzione di ferrovie nel sud Italia ed in Turchia, fondando, nel 1890 anche una banca privata.
Gli interventi a favore di Gargnano, da parte dei Feltrinelli furono numerosi e importanti, tra i quali: La Casa di Riposo e Ospedale, nel 1903; la strada tra Gargnano, Gavazzo, Sasso e Liano, nel 1913 e la scuola elementare, nel 1921. Il loro nipote, Carlo Feltrinelli (1881 – 1935) espanse ulteriormente le immense fortune della famiglia. Fu un abile finanziere oltre che presidente della Edison elettrica e dell’Istituto di Credito Italiano. Si sposò con Giovanna Gianzone, una severa e rigida signora soprannominata “Ufficiale Prussiano”, forse a causa del monocolo che sempre indossava avendo perso il suo occhio destro durante una caccia.
Ebbero due figli: Gianciacomo ed Antonella. Come ricompensa per il loro contributo all’economia del Nord Italia il re Vittorio Emanuele II, nel 1940, conferì alla famiglia il titolo di Marchesi di Gargnano. Al ramo gargnanese della famiglia, fu conferito il titolo di Conti di Gerla. Dopo la sua requisizione da parte di Mussolini, alla fine della seconda guerra mondiale, Giangiacomo ed Antonella rientrarono in possesso di Villa Feltrinelli.
Tre ettari di storia, duemilacinquecento metri quadri sul lago di Garda. Costruita nel 1892 dai Feltrinelli, a nord-est dell’ abitato di Gargnano, a metà strada tra Salò e Riva del Garda, la villa è di stile vagamente liberty, adornata di marmi rosa e circondata da un parco di tre ettari pieno di splendide magnolie. Si affaccia sul lago. L’ edificio principale è su tre piani, con sedici camere da letto, otto bagni, tre salotti, due studi, una camera da biliardo e un’ immensa camera da pranzo.
Nella proprietà ci sono anche due altri edifici di duecentocinquanta metri quadri, oltre al bunker antiaereo fatto costruire da Mussolini. Lì, infatti, dopo aver requisito la villa ai Feltrinelli, visse il Duce, assieme a donna Rachele, e assieme a figli e famiglia, dall’ottobre 1943 al 25 aprile 1945, cioè fino a tre giorni prima della fucilazione. Furono i mesi della Repubblica sociale italiana, la Repubblica di Salò, dal nome della cittadina sul Garda, a pochi chilometri da Gargnano, dove i nazisti vollero mettere la sede del governo italiano “fantoccio”.
A Mussolini, il luogo non andava – lo abbiamo già visto – a genio. Temeva, giustamente, di essere isolato e controllato, con la scusa del posto al riparo dai partigiani. Ma doveva a Hitler sia la sua liberazione, avvenuta il 12 settembre 1943 dalla prigionia di Campo Imperatore, in Abruzzo, che il reinsediamento: quindi gli toccò obbedire. Visse a Gargnano circondato da segretari, parenti e profittatori, in una sorta di prigione dorata. Aveva poco da fare. Scriveva qualche articolo per Corrispondenza repubblicana, passava qualche ora con i figli Romano e Annamaria, e ogni tanto con Vittorio quando era di passaggio, pedalava con la bicicletta nel parco e cercava di sfuggire alla gelosia di Rachele, incontrando Claretta Petacci, l’ amante che aveva sistemato a Gardone.
Dopo la guerra, la villa fu restituita ai proprietari, senza però un torrione che era stato abbattuto in modo da renderla invisibile ai bombardieri alleati. Dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli, fu venduta. Una decisione presa a malincuore, perché il luogo era legato a molti ricordi, ma necessaria vista l’ appartenenza a diversi rami della famiglia milanese. Passò così ai Regalini, costruttori edili di Brescia, specializzati in appalti pubblici, che hanno anche estesi vigneti a Sale di Gussago, nella Franciacorta. Quindi l’acquisto – all’asta – da parte di Bob Burns e la trasformazione in hotel di lusso.
Torniamo al Mussolini “gardesano”. Il suo mito era infranto: girava voce che a capo della Repubblica sociale ci fosse solo una controfigura. In privato era un padre addolorato per l’abbandono della figlia più cara (Edda era fuggita in Svizzera dopo l’esecuzione del marito, Galeazzo Ciano) e un attempato marito infedele, impegnato a tenere lontano donna Rachele e le sue intemperanze dall’amante Claretta Petacci, sistematasi nella vicina Gardone.
In pubblico tuonava contro “le razze bastarde e mercenarie” che “hanno invaso l’Italia” e contro “i traditori del 25 luglio”. Nei fatti era subalterno all’alleato tedesco e non più in grado di mettere ordine nell’anarchia dei combattenti (la X Mas di Valerio Borghese, il ricostituito ma sfilacciato esercito della Rsi, le Brigate Nere di volontari).
A un giornalista, Gian Gaetano Cabella, direttore del Popolo di Alessandria confidò: “Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero un segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione, invece era isterismo collettivo”.
Documenti inediti o insufficientemente frequentati di quel periodo stanno alla del saggio di Mimmo Franzinelli, Il prigioniero di Salò. Mussolini e la tragedia italiana del 1943-1945 (Mondadori 2012, pp. 202). Agile nelle dimensioni, rigorosissimo per l’accuratezza delle ricerche d’archivio, il libro restituisce il contesto drammatico (non edulcorato dalla propaganda patriottica o da strumentali decontestualizzazioni) di quel momento storico in cui ha origine la Repubblica Sociale Italiana e, di conseguenza, l’innesco della guerra civile.
Comparando testimonianze di varia provenienza, molte delle quali vergate dal duce in persona, Franzinelli tratteggia un’immagine del dittatore ad alto tasso di ambiguità e contraddizione: un Mussolini pubblico in apparenza energico e “roboante”, un Mussolini privato incline allo stato depressivo e all’autocommiserazione.
Costretto entro l’atmosfera asfittica dell’ambiente saloino, il “capo” della RSI è conscio della propria condizione di ex condottiero ridotto a vassallo: ostacolato dagli emissari del Reich, costantemente spiato e, di fatto, sprovvisto di qualsiasi potere politico-militare necessario alla rinascita personale.
Obbligato all’inerzia, al “prigioniero” di Salò non rimane che l’esternazione della rabbia (per il prepotere tedesco, l’inettitudine degli italiani, il tradimento dei camerati) o la riproposizione di convinzioni antiche — la grandezza del Ventennio, il razzismo coloniale — non scalfite dallo sfacelo del presente, convincimenti che lo portano a scrivere (in vista dell’imminente liberazione di Roma) asserzioni come queste: «Adesso rabbrividisco al pensiero che truppe africane — per la prima volta nella storia — sfilino per Via dell’Impero, non più come nel 1937 da servi, ma da padroni; non più come vinti, ma come vincitori».
Redatto con uno stile linguistico asciutto e incisivo, il saggio di Franzinelli sembra l’antidoto giusto per avversare un malessere tutto italiano: la memoria a breve termine che ciclicamente, consente la riemersione del cliché mitigato e non veritiero del “Mussolini tutto sommato, soprattutto nei suoi ultimi giorni, buonuomo”.
La consultazione di documenti inediti, alcuni accessibili solo di recente, consente una rilettura dell’immagine di Mussolini nel periodo saloino. Sulla base delle nuove fonti, la figura del dittatore diverge dall’impostazione biografica di De Felice.
In estrema sintesi, De Felice recupera e attribuisce dignità storiografica alla versione del Mussolini che si sacrifica per la patria, accettando di interporsi tra tedeschi e italiani per moderare l’occupazione germanica.
Nella interpretazione di Franzinelli anzitutto, ciò che convince Mussolini è la volontà di tornare al potere, illudendosi di trattare alla pari con il potente alleato, mentre si ritrova in una duplice situazione di subalternità, cui allude il titolo de Il prigioniero di Salò: controllato strettamente dai tedeschi e ingabbiato dal proprio passato che gli impedisce di uscire dalla subalternità alle strategie d’occupazione naziste.
La pesantissima tutela germanica è documentata, nel libro, dai dispacci inediti inviati dai plenipotenziari hitleriani in Italia ai loro referenti berlinesi: in essi si parla con scarso rispetto del capo del fascismo, descritto come un uomo del passato. Mussolini è consapevole di essere controllato, spiato, condizionato. A un certo punto ha il terrore di subire il destino del maresciallo Pétain, internato nel Reich e ridotto all’impotenza. Vi è poi la questione dell’autoprigionia: il duce, pur consapevole del disastro imminente e immanente, non vuole smarcarsi dal suo passato e i richiami di matrice repubblicana e socializzatrice non sono che la scelta obbligata, per essere stato scaricato dalla monarchia e dai grandi industriali.
Dal nuovo materiale utilizzato, e che — in particolare l’Archivio Petacci — De Felice non poté consultare perché secretato sino a qualche anno addietro, si comprende come lo stesso Mussolini, deluso dal non poter costituire un vero esercito, si considerava, nel corso del 1944 uno sconfitto senza più prospettive.
Le valutazioni storiche espresse da Franzinelli forniscono insomma una visuale interpretativa nuova non solo su Mussolini, ma anche sulla drammatica esperienza della RSI. Per la seconda metà del 1943, il periodo contrassegnato dalla deposizione, dalla prigionia, dalla liberazione per mano tedesca e dalla nascita della Repubblica sociale italiana, Franzinelli si è servito anche di preziose comunicazioni a Berlino da parte dei protagonisti della diplomazia, della politica e della presenza militare nazista in Italia.
Ha poi utilizzato l’epistolario con Claretta Petacci e il cospicuo materiale d’agenzia e di stampa che il duce inviava all’amante, con interessanti sottolineature, commenti e postille. Vi sono inoltre i preziosi Notiziari redatti dal Comando della Guardia Nazionale Repubblicana per Mussolini, i rapporti dei capi-provincia (che erano pure comandanti delle Brigate nere). Dall’analisi di questo materiale scaturisce un approccio significativo e innovativo alla personalità e alla politica del vecchio dittatore, giunto oramai — e di ciò ne era convinto — all’ultimo atto della sua vita e della sua esperienza di statista.
E proprio da queste fonti “di parte” emerge con forza il carattere della RSI come Stato fantoccio, nonché come un regime dilaniato da una lotta personalistica e di corrente, con l’esistenza di una pluralità di organi di polizia legati ai tedeschi, detentori del potere reale.
Nel terzo capitolo del libro si parla di una “guerra dei monumenti” condotta in maniera sistematica dai tedeschi. La guerra dei monumenti riveste un forte valore simbolico, in quanto nelle zone amministrate direttamente dai tedeschi — in primis Alto Adige (Sud Tirolo) e Venezia Giulia — le forze armate germaniche e l’amministrazione nazista gettarono la maschera e rimossero quei simboli considerati lesivi dell’onore del Reich.
Ne conseguì lo smantellamento di monumenti che vantavano la vittoria italiana nella grande guerra. Mussolini, informato di questa strategia, non riuscì a impedirla e ciò gli bruciò doppiamente, poiché egli si gloriava dei suoi trascorsi interventisti e dell’arruolamento nel conflitto italo-austriaco. La potenza occupante passò sopra queste problematiche e sferrò pubblicamente uno schiaffo all’orgoglio del duce, che non era più padrone a casa sua.
La sudditanza di Mussolini rispetto all’alleato teutonico emerge tra le pagine con chiarezza; tuttavia, lo stato di subalternità non impedisce al dittatore di condizionare la storia italiana anche in questo frangente.
Dal momento che i tedeschi vietarono la costituzione di forze armate fasciste da impiegare al fronte, ne conseguì che l’apparato militare della RSI era rivolto all’interno, ovvero finalizzato alla repressione del partigianato, in funzione di guerra civile. Guerra civile che, nacque con la decisione di Mussolini di aderire ai piani germanici, dando vita a uno Stato fantoccio.
Anche il ritratto di Claretta Petacci appare ridefinito dai nuovi materiali d’archivio: convinta filonazista, razzista dichiarata, non esente da un certo egotismo; siamo lontani dal cliché romantico cui una certa vulgata ci ha abituato …
L’idillio tra Clara e Ben (così si chiamavano nell’intimità) cessò quando, con i primi rovesci bellici, il duce comprese la fallacia delle sue convinzioni sulla guerra rapida e vittoriosa. Il suo disappunto venne parzialmente somatizzato, con il riacutizzarsi dell’ulcera che lo aveva colpito ai tempi della “crisi Matteotti”, e in parte si sfogò contro l’amante, sadicamente offesa e persino cacciata più volte da Palazzo Venezia, dove aveva in uso un appartamento. Le liti si alternavano alle riconciliazioni, ma qualcosa si spezzò dentro di lei.
Durante l’interludio badogliano subì la carcerazione con la propria famiglia, nella prigione di Novara, e dopo la liberazione per mano tedesca riprese i contatti con Mussolini, che a quel punto la rivalutò, riconoscendole la fedeltà e l’amore in un momento in cui tanti lo avevano rinnegato.
Ma Claretta si accorse che Ben era l’ombra di se stesso, incapace di padroneggiare la situazione; di conseguenza, da un lato non gli nascose il proprio disprezzo e dall’altro lo consigliò di schierarsi in tutto e per tutto con Hitler. Mentre la situazione precipitava, decise di restare con Mussolini per mantenere quel ruolo che si era conquistata nella storia. E difatti ebbe ragione: si fosse defilata al momento giusto (per lei c’era pronto a Milano un aereo in partenza verso la Spagna), la si sarebbe a malapena ricordata come una delle tanti amanti del dittatore, mentre l’estremo sacrificio l’ha eternata nella storia del fascismo, anche se in una luce ben diversa da quanto i documenti d’archivio rivelano.
Un saggio storico come questo incrina il mito di Mussolini in ogni sua declinazione (il duce patriota, virile, condottiero, statista, etc…) “La storia di Mussolini – dice Franzinelli – è la storia del suo rapporto con il potere, e più precisamente con il potere assoluto, i passaggi dalla causa della rivoluzione a quella della reazione, da sovversivo a dittatore, lo rendono un soggetto di studio assai interessante sia sul piano psicologico sia per l’analisi del ruolo delle personalità nella storia.
La straordinaria longevità del mito del duce (ben rappresentata, ad esempio, dal film Mio fratello è figlio unico, girato da Daniele Luchetti nel 2007: il giovane protagonista, Accio, cresce nel culto del duce e milita nel Movimento sociale italiano) rappresenta un fattore di stimolo agli studi su Mussolini. Tenuto conto che buona parte dei libri su Mussolini è inficiata da intenti apologetici o manca di un solido riscontro archivistico-documentario, credo vi sia ancora spazio per monografie rivolte a particolari aspetti della sua figura, che ha dominato un trentennio di storia italiana (e non solo).
La destra radicale si richiama più ai 20 mesi della guerra civile e del collaborazionismo coi nazisti che non ai 20 anni di gestione mussoliniana del potere. I giovani che nell’autunno 1943 si trovarono a un bivio decisivo erano stati educati nei valori del regime, che identificava Patria e Fascismo. E che attribuiva alla guerra un valore fondante, come banco di prova della vitalità dei popoli. La triade programmatica “Credere Obbedire Combattere” – aggiunge Franzinelli – ben sintetizza lo spirito della dittatura mussoliniana, e esprime una linea rimasta inalterata nella Rsi.
La convinzione soggettiva di operare per finalità patriottiche era contraddetta — come spiego nel libro con nuovi documenti provenienti dalle carte del duce — dalla consapevolezza che l’alleato tedesco avesse già, di fatto se non di diritto, annesso al Reich l’Alto Adige e la Venezia Giulia.
Un fattore rilevante è l’attaccamento, dovuto anche a una questione di sopravvivenza, dei fascisti ai nazisti, che era insieme il portato di valutazioni ideologiche ed uno stato di necessità. E veniamo al presente. Per una serie di ragioni — anche esistenziali, con l’esigenza rassicurante di un “grande padre” — troppi giovani ancora oggi mitizzano Mussolini; ebbene, Il prigioniero di Salò dimostra, con gli stessi documenti del duce, lo squallore umano e la subalternità politica del vecchio dittatore, che per una causa in cui non credeva più inviava a morire e a dare la morte migliaia di giovani. Ho insomma – conclude Franzinelli – voluto mettere Mussolini con i piedi per terra, togliendolo da quel piedistallo sul quale incredibilmente molti ancora lo collocano, fors’anche per reazione alle miserie dell’attuale classe politica”.
Cambiamo scenario. 2 Aprile 1945. Un’auto costeggia le rive del lago di Garda in una giornata in cui il sole primaverile annuncia il prossimo rigoglio della natura. Nell’auto Pierre Pascal, da poco tornato in Italia, che, immediatamente percepisce, osservando il paesaggio lacustre, la natura “doppia” che lo costituisce: “… Sono rimasto colpito nel notare che questo lago era doppio! Prima stretto e severo, poi calmo e senza limite. Sembra il simbolo della Vita e della Morte”.
Questo è un passo tratto da un libro pubblicato dalla NovAntico editore, per la cura di Federico Prizzi. Si tratta del volume “Mussolini alla vigilia della sua morte e l’Europa”, in cui Pierre Pascal raccolse nel 1948, per la casa editrice romana l’Arnia, l’ultima conversazione che egli ebbe con Mussolini a Villa Feltrinelli in quel lontano e tragico 2 Aprile. L’importanza storico-simbolica del testo era già stata colta da Sandro Giovannini, che decise di pubblicarlo a puntate sulla sua rivista Letteratura-Tradizione (una delle esperienze culturali più significative espresse dall’area non-conformista negli ultimi decenni) tra il 2001 e il 2002, come egli stesso ricorda in una delle Appendici che impreziosiscono il testo.
Ecco, il brano citato è, in qualche modo, la chiave di volta dell’intero volume: la primavera che si mostra tra le verdi colline attornianti il lago assurge, nel racconto di Pascal, a simbolo ambiguo della coincidentia oppositorum che in quel momento epocale si manifestava nella storia e, più in particolare, nell’incontro che egli stava per avere con Mussolini. Pascal, entrando nei corridoi ombrosi della residenza del Duce, vide affiorare dagli strati più profondi del proprio essere, la luminosità immaginale evocata in lui dalla Sirmione di Catullo e dalla sua poesia. Accompagnata, però, da un’intuizione chiara e nitida, che l’autore trasmette al lettore in modo coinvolgente e partecipato: dalla certezza che quella primavera fosse una “primavera dei morti”.
I nobili personaggi che attorniano in questo percorso della memoria Mussolini, dal ministro Fernando Mezzasoma, al conte Manzoni, appaiono all’attento e sensibile osservatore, manifestazioni esteriori di un mondo umbratile, di un mondo cosciente di essere ormai prossimo ad un’inevitabile fine.
Nonostante ciò le loro parole, i loro gesti, il loro atteggiamento, come quello dell’uomo per il quale stanno andando incontro ad un destino tragico, lasciano trapelare una pacatezza senza pari, una tranquilla e per questo virile accettazione della loro condizione esistenziale. Altro che anarchia del potere evocata da Pasolini nel suo “Le ultime ore di Salò”! I protagonisti del tramonto del fascismo italiano sono, in questo testo di Pascal, incarnazioni della visione tragica del mondo, testimoni di quell’amor fati che Eschilo e Sofocle misero in scena, molti secoli prima, nel teatro di Dioniso sui declivi che conducono all’Acropoli di Atene.
Fin dal primo momento dell’incontro e durante l’intera conversazione con il Duce, la Poesia si impadronisce della scena. Infatti, all’affermazione del francese che, sintetizzando la posizione di Aristotele, sostiene: “La Poesia è una cosa più seria della Storia”, Mussolini ribatte: “Quando un popolo si avvede di essere maestro nelle sue concezioni dell’Arte e di superare in questo tutti gli altri popoli, gli uomini di questo popolo si guardano e si riconoscono tra loro … L’Arte resterà la parola dell’Italia”. La creazione artistica, viene ribadito, è il luogo del darsi dell’ethos di un popolo. Mussolini è convinto che, la sua azione ordinatrice, si sia manifestata nel richiamo alla romanità intesa come sistema di pensiero, capace di trasformare una nazione in Populus. Per questo, nonostante tutto, la fine imminente non può preoccuparlo.
E’ alla Poesia, ancora una volta, che viene demandato il compito della giustizia. Dante punì più significativamente di qualsiasi magistrato, con i suoi versi, i traditori e gli ingiusti. Mussolini e Pascal convengono nel dirsi convinti che presto un Poeta, voce del Populus, sarebbe tornato a cantare l’inevitabile e definitiva condanna dei reprobi.
Nel colloquio viene evocata la grande poesia di D’Annunzio, la figura esemplare di Maurras, uno dei maestri di Pascal, allora condannato all’ergastolo per collaborazionismo. In molti momenti del dialogo, il lettore può riconoscere la sensibilità del dittatore Mussolini nei confronti della natura, in particolare degli alberi, l’intenso amore paterno, che si manifesta in toni lirici nella rievocazione delle pagine del suo “Parlo con Bruno”.
Un ritratto psicologico di Mussolini questo, che lo distanzia nettamente dalle caratteristiche spirituali connotanti l’uomo tirannico e desiderativo, magistralmente indicate da Platone. La descrizione del commiato avvenuto nell’ “Albergo dell’Altra Vita” (Villa Feltrinelli) è così descritto da Pascal: “(Mussolini) camminava come se fosse assolutamente solo. Dopo tre passi vidi il suo sguardo obliquo dardeggiare verso tutti noi. Voltò un poco la testa, mi guardò isolato dagli altri, sorrise e disparve … Per me egli spariva per sempre. Lo sapevo”.
Qualche giorno dopo sarebbe stato assassinato. Una solitudine tragica ed orgogliosa, dunque, quella intuita dall’intellettuale francese. Ribadita nella conclusione, con le parole di Barbey d’Aurevilly: “Essere più grande del proprio tempo, in avanti o indietro, ma essere più in alto. Ecco tutto il problema e tutta la misura della superiorità”, che indicano con chiarezza il dato esistenziale dell’uomo Mussolini di fronte alla morte e all’Europa per la quale aveva combattuto”.
ERRATA CORRIGE:
Da: dv52@libero.it
Inviato: martedì 18 luglio 2017 23:53
A: corneliomagno@live.it
Oggetto: Al Dr. Cornelio Galas-Rilevo una Sua inesattezza nell’articolo su Mussolini a Villa Feltrinelli-Gargnano
Sua frase: “Lì, infatti, dopo aver requisito la villa ai Feltrinelli, visse il Duce, assieme a donna Rachele, e assieme a figli e famiglia, dall’ottobre 1943 al 25 aprile 1945, cioè fino a tre giorni prima della fucilazione”.
MUSSOLINI INVECE LASCIO’ VILLA FELTRINELLI PER LA PREFETTURA DI MILANO IL 18 APRILE 1945
Cordiali saluti. Diego Verdegiglio