MOSTRI TRENTINI – 8

a cura di Cornelio Galas

Quello che propongo oggi non è un mostro, come gli altri. Anzi, è un uomo, sui generis, ma pur sempre un essere umano e fa parte non solo delle leggende trentine ma anche dell’immaginario popolare delle Alpi e dell’Alta Italia. Insomma, è il cosiddetto “uomo selvatico”. “Una prima caratteristica ricorrente – scrive Giorgio Castiglioni, esperto in materia, in bibliotopia (zoologia e dintorni) – è nell’aspetto: il corpo è ricoperto da un folto pelo che rende in genere superfluo l’uso di abiti”.

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“Sono numerose – si legge sempre in questo accurato studio – e provenienti da diverse zone le storie in cui l’uomo selvatico appare come un maestro dell’arte casearia e insegna agli uomini a fare il burro e il formaggio. Il suo insegnamento si interrompe prima che venga rivelato un ultimo segreto del mestiere, in genere quello di trarre la cera dal siero del latte.

Per quanto riguarda il trentino, il “salvanel” della Valsugana fu catturato facendolo ubriacare per costringerlo a rivelare i suoi segreti. Fu rilasciato dopo aver insegnato la lavorazione di burro, caglio e formaggio, prima che spiegasse come trarre la cera dal siero. L’uomo selvatico è anche considerato abile nel far pascolare il bestiame.

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Il “salvanel” della Valsugana “ha un gregge numeroso di capre dalla lana abbondante” (e in più ruba il latte dalle bestie altrui). In altre storie gli uomini affidano all’uomo selvatico le loro bestie. In genere, come abbiamo visto, l’uomo selvatico è presentato come colui che ha insegnato agli uomini la lavorazione dei derivati del latte. In qualche storia, però, insegna anche altre utili conoscenze, come quella di guarire il bestiame, di riconoscere le erbe medicinali, di lavorare il ferro. Il “salvan” della Val Gardena aiutava invece i contadini nel loro lavoro”.

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Alle origini del mito possiamo identificare Pan, divinità ellenica, mezzo uomo e mezzo caprone, che incarnava alcune delle caratteristiche dell’Uomo Selvaggio (il cui viso viene a volte descritto con sembianze caprine).

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Promiscui, incontrollabili, in alcuni casi pericolosi, entrambi sono associati con gli istinti più basilari della natura umana. Da una prospettiva junghiana, l’Uomo Selvaggio incarna l’Ombra, gli aspetti spesso oppressi dallo stato sociale che devono comunque essere elaborati se si vuole ottenere la realizzazione dell’individuo.

L’Uomo Selvaggio è quindi colui che è stato espulso dalla società, colui che non è conforme alle norme sociali, che per questo sceglie di allontanarsi – o in alcuni casi viene cacciato – dalla comunità conformista.

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Le similitudini con Pan continuano, in quanto entrambi pur essendo spesso descritti come “selvatici” sono responsabili di aver insegnato all’uomo molte delle arti. L’Uomo Selvatico insegna infatti, come abbiamo detto, all’uomo l’arte casearia, mostrandogli come fare il burro, il formaggio, il calcio e la ricotta. Era anche maestro dell’arte della caccia, bravo nel far pascolare le capre e curarle dai loro malanni, e sapeva pure lavorare il ferro.

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In un racconto l’Uomo Selvatico, lasciato andare via troppo presto, indirizzandosi agli uomini, dice: «Se mi ci tenevate anche un po’ vi c’insegnavo a levare anche l’olio.» Troppo spesso infatti la gente, accecata dalla propria ignoranza, lo deride. Per questo è lui a decidere di allontanarsi, non prima però di ammonire: «Se tu mi avessi chiesto ancora qualcosa, io ti avrei detto di più».

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Forte e robusto, ci sono poche cose che l’Uomo Selvatico teme. Una di queste, però, è il vento. Il Val d’Aosta, quando c’era vento, «si nascondeva e nessuno sapeva dove fosse andato a rintanarsi». Gli strani comportamenti non finiscono qua. L’Uomo Selvatico era infatti solito piangere nel bel tempo e ridere nella pioggia.

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Anche Matteo Maria Boiardo, nell’Orlando innamorato (libro I, canto XXIII, ottava 6) scrive dell’uomo selvatico:

E dicesi ch’egli ha cotal natura,

Che sempre piange, quando è il cel sereno,

Perché egli ha del mal tempo alor paura,

E che ‘l caldo del sol li vegna meno;

Ma quando pioggia e vento il cel saetta,

Alor sta lieto, ché ‘l bon tempo aspetta.

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L’Uomo Selvaggio è quindi colui che anticipa ciò che accadrà – il maltempo quando splende il sole e viceversa il bel tempo quanto c’è tempesta – insegnandoci che è importante mantenere sempre una certa saggezza, o equilibrio, sia nei momenti favorevoli che in quelli più difficili, dato che tutto è in costante cambiamento: a uno stato specifico delle cose – bello o brutto che sia – dovrà sempre susseguirsi quello opposto. Per questo è simbolo di speranza nella disperazione, anche quella dell’amante non corrisposto.

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Il poeta Chiaro Davanzati scriveva:
«Fé com’omo selvaggio veramente / quand’ha rio tempo, forza lo cantare / co lo sperare / ca ‘l buon venga, ch’abassi sua doglianza; Con sì dolce parlar e con un riso/da far innamorare un uom selvaggio.»

Per quanto L’Uomo Selvaggio sia oggi considerato solo alla stregua di creatura mitologica nella tradizione e nelle usanze è sempre stato ritenuto, al contrario, del tutto reale. Veniva coltivato un certo rispetto nei suoi confronti. Durante la raccolta dei frutti, per esempio, si usava lasciare di proposito del nutrimento che gli sarebbe stato utile durante il difficile periodo invernale.

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Nelle Alpi, l’Uomo Selvaggio era a volte feroce e crudele. Ma erano spesso le caratteristiche opposte a definirlo. Esso era nella maggior parte dei casi gentile, timido, schivo. In quasi tutte le leggende, l’uomo selvatico è un essere pacifico. Anzi, talvolta è lui a subire derisioni o scherzi sciocchi, ma reagisce semplicemente allontanandosi e non facendosi più vedere. In genere è una figura molto seria, ma in qualche racconto può essere più allegro.

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Il “gigiat” della Val Masino, per esempio, suona lo zufolo, ride, grida e balla Il “massaruò” del Cadore ama suonare il subiotto (uno strumento a fiato) per far ballare i giovani ed “è d’umore allegro, socievole, combina tiri birboni alla gente”. Anche quando si mette in testa di combinare guai, comunque, il selvatico appare semmai goliardico, e forse anche un po’ stupidotto, più che malvagio.

Raramente l’uomo selvatico è dipinto come un essere feroce e addirittura antropofago. In una storia di Montìcolo (Trentino Alto Adige), un uomo selvatico divora la moglie di un contadino e inchioda alla porta una parte del corpo. Anche il “bilmon” della Val Fersina “insieme a un corteo di spiriti dannati inchioderebbe parti del corpo delle proprie vittime alle porte delle case”.

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Il “mazzarol” del Cismon “è piccolo di statura, calza zoccoli, ha un abito di lana rossa, ha un proprio gregge e lo governa. Ha insegnato a cuocere i formaggi, a ricavare la cera dal siero”. Su di lui si racconta una curiosa storia: chi per sbaglio calpesta una sua impronta è costretto a seguire le sue orme sino alla caverna dove riceve polenta e latte e deve curare il gregge finché vuole il “mazzarol” .

L’uomo selvatico è di solito raffigurato come un essere solitario, ma in qualche storia cerca, in un modo che non poteva essere molto apprezzato dagli uomini, di procurarsi compagnia.

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Altro parallelismo si può tracciare con la divinità assira Enkidu che: “«non conosce né la gente né il paese, è vestito d’un abito come Sumuqan. / Assieme alle gazzelle egli mangia le erbe, / assieme al bestiame accorre ai luoghi di abbeverata, / assieme al brulicame si compiace dell’acqua.»”

Descrizioni calzanti con quelle dell’Uomo Selvaggio le troviamo anche nella Bibbia:
Queste parole erano ancora sulle labbra del re, quando una voce venne dal cielo: «A te io parlo, re Nabucodònosor: il regno ti è tolto! Sarai cacciato dal consorzio umano e la tua dimora sarà con le bestie della terra; ti pascerai d’erba come i buoi e passeranno sette tempi su di te, finché tu riconosca che l’Altissimo domina sul regno degli uomini e che egli lo dà a chi vuole». In quel momento stesso si adempì la parola sopra Nabucodònosor. Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l’erba come i buoi e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo: il pelo gli crebbe come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli. (Daniele 4, 28-40)

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Con l’avvento del cristianesimo, così come per altre figure di derivazione pagana, anche l’Uomo Selvatico assunse una connotazione negativa. Colui che prima era simbolo di virtù e naturalezza, ora agli occhi della Chiesa incarnava al contrario i vizi umani. Nel Medioevo divenne quindi un monito a non allontanarsi dalla civiltà.

L’illuminismo riscatta in parte la figura dell’Uomo Selvaggio, facendolo riecheggiare con quella del filosofo che riconosce la trivialità della vita sociale e di conseguenza preferisce la vita semplice. Diogene è l’esempio perfetto di questo genere di filosofo.

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Plutarco in “Vite parallele” narra:
“Un concilio di Elleni, convocato all’Istmo, votò di compiere una spedizione contro i Persiani insieme ad Alessandro e lo nominò comandante supremo. Molti uomini politici e filosofi andarono a incontrarlo e a congratularsi con lui; sperò che anche Diogene di Sinope avrebbe fatto altrettanto, dal momento che viveva a Corinto. Invece il filosofo non faceva il minimo conto di Alessandro, standosene tranquillo nel sobborgo di Craneo; e Alessandro andò da Diogene. Lo trovò sdraiato al sole. Diogene, all’udire tanta gente che veniva verso di lui, si sollevò un poco da terra e guardò in volto Alessandro; questi lo salutò affettuosamente e gli domandò se aveva bisogno di qualcosa, che potesse fare per lui. «Scòstati un poco dal sole» rispose il filosofo.
Dicono che Alessandro fu molto colpito e ammirato dalla fierezza e dalla grandezza di quell’uomo. Al ripartire, mentre intorno a lui la gente derideva Diogene e se ne faceva beffe, egli disse: «Io invece se non fossi Alessandro vorrei essere Diogene».”

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L’Uomo Selvatico è fuori dalla società – e in alcuni casi opposto a essa – perché come Diogene detiene una forma di conoscenza e saggezza che altri ignorano. Malgrado ciò, alcuni aspetti negativi che furono affibbiati all’Uomo Selvatico durante il Medioevo gli sono rimasti attaccati. In certi casi, infatti, la sua figura sfocia in quella dell’Orco, come ad esempio nelle Fiabe italiane di Italo Calvino.

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In altre parole, l’Uomo Selvaggio è simbolo degli aspetti più naturali dell’animo umano, quelli che trascendono la domesticazione delle norme sociali. Per questo, può essere considerato sia come modello positivo che negativo, a seconda dei valori promossi da un determinato agente sociale o religioso.

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L’uomo selvatico è stato spesso dipinto o scolpito. A Bressanone si può vedere la statua di un uomo selvatico tricefalo. La statua è forse del XVI secolo e due delle tre teste potrebbero essere state aggiunte nel secolo successivo. A Vipiteno Giovanni de Wild, “distintosi nella lotta contro i Turchi”, fece dipingere un uomo selvatico (Wild significa “selvatico”) in uno stemma sulla sua dimora).

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Uomini selvatici compaiono anche al castello del Buon Consiglio di Trento, tra gli stucchi del Salone degli Arcieri del Palazzo Ducale di Mantova, tra le sculture del duomo di Milano e della cattedrale di Ferrara.

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In alcune località, l’uomo selvatico è una maschera del carnevale. A Cepina (Sondrio), fino al 1975, sfilavano omen del bosk, femena del bosk e bagon [figlio] del bosk. A Campitello (Val di Fassa) l’om dal bosch partecipa al corteo e così è nell’Agordino (Belluno) per l’om salvarek e la sua donna. A Termeno (Bolzano) viene messa in scena la caccia e l’uccisione dell’uomo selvatico. Anche a Tesero (Val di Fiemme) il salvanel è braccato e quindi fucilato.

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Fonti:

  • Dario Benetti, Lo yeti nostrano, in “Bell’Italia”, n.4, agosto 1986, pp.90-97.
  • Serge Bertino, Guida delle Alpi misteriose e fantastiche, Milano : Sugar, 1972.
  • Duccio Canestrini, Una fata che si fa lontra: ecco il segreto della sirena alpina, in “Airone”, n.89, settembre 1988, p.173.
  • Massimo Centini, Il Sapiente del Bosco : il mito dell’Uomo Selvatico nelle Alpi, Milano : Xenia, 1989.
  • Massimo Centini, L’Uomo Selvaggio : antropologia di un mito della montagna, Ivrea : Priuli & Verlucca, 2000.
  • Umberto Cordier, Guida ai draghi e mostri in Italia, Milano : Sugarco, 1986.
  • Aurelio Garobbio, Alpi e Prealpi : mito e realtà, [vol.1], Bologna : Alfa, 1967.
  • Franco Rho, Homo salvadego, un mistero silvano, in “Orobie”, n.127, aprile 2001, pp.56-67.
  • Il Viaggio nell’immaginario popolare del Trentino ha portato alla pubblicazione di diversi prodotti editoriali, specifici alle figure leggendarie prese in esame.

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Sul tema dell’Uomo Selvatico in Trentino consigliamo i seguenti titoli:

Libro con DVD-Video:
Leggende dell’Uomo Selvatico

Andrea Foches, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina con Priuli & Verlucca Editori, 2007. Le fiabe e le leggende della tradizione orale del Trentino in un’inedita rappresentazione, che mette in scena le narrazioni utilizzando le più recenti tecnologie multimediali. Il CD-Rom ti racconta le storie, “portandoti” nei luoghi dove si suppone siano avvenuti gli straordinari avvenimenti narrati.
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Volumetto illustrato:
L’Om Pelós
Pier Tommaso Scaramuzza – Andrea Foches, MUCGT, 2003. “Quando là fuori, nel mondo, tutto era nero, quando la natura brulla e assiderata tremava, come presa dal brivido d’una paura soprannaturale, le nostre nonne, memori delle nostre birichinate nel giorno chiaro, ci spaventavano colla minaccia: – Zitti, bimbi, viene il Basadòne, viene l’Om Pelós a prendervi e vi metterà nel sacco, tutti quanti, il più grande, il primo, il più piccino, l’ultimo!” Con queste parole, nel 1910, sulle pagine di Pro Cultura, Guglielmo Bertagnolli presentava L’Om Pelós: la narrazione in versi in lingua nonesa di Pier Tommaso Scaramuzza (1819-1882).
Questo libro ne ripropone il testo originale affiancato dalla traduzione in italiano.
Le illustrazioni interpretano in modo esilarante le gesta comico-grottesche dell’Om Pelós, la figura leggendaria delle credenze popolari della Val di Non.

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