MOSTRI TRENTINI – 1

a cura di Cornelio Galas

Mostro … Non sapevo – prima di aver letto l’interessante saggio del noto antropologo (e amico) trentino Duccio Canestrini, che la parola mostro deriva dal latino monstrum, «segno degli dèi». La radice è la stessa infatti di monstrare e di monere: ammonire, mettere in guardia. Ma anche di ammaestrare, cioè di fornire un insegnamento. E ci sono, in Trentino, al riguardo due contraddittorie espressioni dialettali. Una esprime pietà e viene impiegata per compatire il diverso quand’è maltrattato: “Pòro mostro». L’altra, invece, è un monito crudele: «Ai segnài da Dio, dése passi ‘ndrìo». Inutile dire che i segnati da Dio – dai quali poco cristianamente dovremmo stare alla larga, dieci passi indietro – sono coloro che portano le stigmate evidenti di qualche anomalia fisica. In tale ambiguità di atteggiamenti, dimostrata anche dalla nostra cultura, si rispecchia l’atavico e forse insondabile complesso di attrazione/repulsione che tutti proviamo nei confronti  dell’abnorme.

DUCCIO CANESTRINI

DUCCIO CANESTRINI

Il saggio di Duccio Canestrini cui faccio riferimenti (e che ho trovato durante la ricerca sul mitico “Bìs del Lufam”) s’intitola “Freaks (mostri ndr). Antropologia  dell’anomalia”. Risale al 1998. Fu scritto per accompagnare la sezione «Freaks. Scienza e devianza» dell’esposizione temporanea – Le età del Museo, organizzata in quell’anno dal Museo Civico di Rovereto.

Lo studio di Canestrini documenta e analizza la logica da «display delle bizzarrie» che spesso ha animato lo spirito del collezionismo museale. Al contempo, si addentra nei meandri della teratologia (in biologia: studio delle malformazioni degli organismi vegetali e animali), percorre la storia delle diversità etnografica e antropologica. Gli strani nel fisico, nel comportamento o nella moralità – quali erano giudicati idioti, folli, briganti e indigeni di terre lontane – in passato furono infatti bollati come mostri. Le difformità esercitano un fascino tanto forte quanto misterioso. Non solo, ma stimolano reazioni psicologiche e sociali, aumentando la coesione dei normali contro ogni forma di devianza.

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Fa errori la natura? O gioca? O è il bisogno d’ordine del grosso cervello di Homo sapiens a generare mostri? Ogni epoca storica ha prodotto scienziati che hanno cercato di dare risposte a queste domande. Ma perché le difformità su di noi abbiano tanto fascino, un fascino viscerale, nessuno razionalmente può spiegarlo.

Ecco, Canestrini segue, nel suo saggio “due fili rossi che s’intrecciano”. Il primo è la storia delle anomalie nel mondo della natura, di quelle bizzarrie che hanno sempre animato lo spirito del collezionismo. Una logica da display delle stranezze percorre infatti la museologia, dall’antichità fino al Novecento. Il vitello dicefalo nato ad Aldeno, in provincia di Trento, è in questo senso emblematico, come del resto la gallina con quattro zampe e la trota con due bocche, tutti esemplari conservati al Museo Civico di Rovereto. Il Protocollo degli Atti e il Libro Doni del Museo registrano con elegante calligrafia, anno dopo anno, oboli di rarità: un ramo di larice contorto, un becco di cincia deforme, la nascita di una larva di salamandra toracopaga (cioè due salamandre siamesi).

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La logica dello stupore è naturalmente ad alto rischio di guazzabuglio. All’inizio del Novecento lo storico Giuseppe Gerola denunciava la «promiscuità» delle collezioni dei musei trentini: «Dai cocci dei nostri castellieri agli idoletti egiziani ed alle figurine cinesi, dalle rocce delle montagne trentine agli uccelli imbalsamati dell’Eritrea, dalla suppellettile domestica indigena ai prodotti barbarici dell’Australia, fra mezzo a quello strano bazar ove ogni pezzo è guastato dalla presenza del pezzo vicino ed i pezzi vicini guasta a sua volta, il visitatore non può fare a meno di trovarsi disorientato e sperduto!».

Il secondo filo rosso seguito da Canestrini è la storia della diversità antropologica. “Diversità rispetto a che cosa?, viene da chiedersi. La risposta è rispetto a una scienza normativa che ha potuto trasformare in mostri semplici deviazioni. Con soglie di tolleranza bassissime. La scienza positivista ragionava soltanto su fatti accertati, o perlomeno così dichiarava. Ma, per sfuggire all’integralismo religioso di quegli anni si spinse sull’abisso della disumanità, cogliendo intere categorie di individui in flagrante reato d’esistere.

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I diversi nel fisico, nel comportamento e nella moralità, quali erano giudicati idioti, folli, zingari, briganti, mentecatti, prostitute, indigeni di terre lontane, tutti questi «altri-da-noi», insomma, nell’Ottocento diventarono «mostri». Troppi per una sola maxi-categoria? Ovviamente sì. Con questo viaggio tra i freaks , cioè tra i fenomeni naturali che volenti o nolenti hanno dato spettacolo, proviamo a calarci proprio all’interno di quella mentalità. Scopriremo che, sì, il sonno della ragione ha prodotto molti mostri. Ma che una ragione troppo razionale ne ha prodotti altrettanti”.

Il discorso sui mostri è sempre e comunque un discorso sull’uomo, sulla sua concezione del mondo, sulla nostra necessità di regole e sulle nostre paure.

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Il Medioevo affida le scienze naturali all’emozione della meraviglia. Regnano la zoologia fantastica, la diceria, l’equivoco, la credulità. E i mostri impazzano. C’è un buon travaso di credulità tra cultura «alta» e cultura popolare, corre voce che la pantera abbia l’alito profumato, che il coccodrillo si penta della propria crudeltà e pianga. Gli studiosi di cose naturali ammettono che all’uva possa spuntare la barba e che l’unicorno s’innamori delle vergini. Il basilisco di Mezzocorona incenerisce campi e contadini con lo sguardo. Un tremendo serpentone inquina l’acqua del torrente Leno, presso Rovereto, finché San Colombano non gli taglierà il capo con un falcetto d’oro. La raffigurazione plastica dei bestiari, sui capitelli delle chiese romaniche, produce un effetto di amplificazione da cinema horror; i mostri biblici e mitologici sono la realtà quotidiana, si incontrano tutti i giorni passando davanti alla chiesa.

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Nel primo Cinquecento fioriscono raffigurazioni di mostri umani dette «grottesche», che copiano lo stile degli affreschi sotterranei rinvenuti a Roma scavando nella Domus Aurea di Nerone. Queste pitture diventano una moda; signori e prelati ne adornano appartamenti, cappelle e castelli. A Trento sono famose quelle del Fogolino nel castello del Buonconsiglio. La Controriforma però le condannerà quali figurazioni enigmatiche, oscure e pagane. Tra il Cinque e il Seicento la letteratura sui mostri si fa ghiotta, più scientifica e già autonoma rispetto alla letteratura di viaggio, che pure li descrive volentieri. L’epoca delle scoperte geografiche intanto porta nuova linfa alle antiche leggende.

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Le descrizioni viaggiano attraverso il passaparola, un deformante gioco di «telefono senza filo». Tutto è possibile. Mostri marini, mostri mitologici, specie animali sconosciute scambiate per mostri, allucinazioni da fame e da fatica, colpi di sole, mostri dell’inconscio. Cristoforo Colombo annota nel suo diario l’avvistamento di tre sirene: bruttine. Ognuno racconta la sua versione (o la sua visione), esagerando. Chi non sa leggere, guarda le figure. Le illustrazioni stampate, copiate, rielaborate, formano una vera e propria cultura visuale di mostruosità.

Oltre ai bestiari, suscitano meraviglia i popoli dalle fattezze o dalle abitudini «anormali», spesso raffigurati come mezzi uomini e mezzi animali. Sdoganati da Paesi lontani attraverso i resoconti dei primi esploratori del misterioso Oriente, improbabili esseri ibridi accendono la fantasia degli illustratori. Gli antichi greci le chiamavano eteromorfie (heteros = diverso, morphe = forma). Fauni, sirene, pigmei, uomini dagli occhi luminosi, cinocefali, giganti, Panotii (uomini con orecchie elefantine), Blemmii (uomini con gli occhi sul petto), antropofagi, ciclopi, albini, Amazzoni, Sciapodi che si fanno ombra sollevando l’unico grosso piede sopra la testa. Insomma, fantasie al galoppo sullo spazio bianco, dunque in qualche modo da riempire, delle antiche carte geografiche. Hic sunt leones, avvertono gli antichi cartografi. Da qui in poi vivono le belve, intese più come mostri che come fiere.

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Mostri umani, mostri lontani, mostri pagani. In una perorazione presentata al Consiglio delle Indie nel 1524, il frate domenicano spagnolo Tommaso Ortiz così descrive gli uomini di terra ferma delle Indie: «Mangiano carne umana e sono sodomiti più di qualunque altra popolazione. Tra loro non esiste alcuna giustizia, vanno in giro nudi, non provano né amore né vergogna, sono come asini, stupidi, dementi, insensati. Sono traditori, crudeli, vendicativi; ostilissimi alla religione, pigri, ladri, bugiardi, gretti e limitati nel giudizio, non osservano né fede né ordine; insomma, sostengo che mai Dio creò gente tanto intrisa di vizi e di bestialità, senza mescolanza di bontà o urbanità».

Nel Rinascimento nascono anche i primi «gabinetti di curiosità», tesori di esemplari anomali, vere e proprie stanze delle meraviglie (Wunderkammern) che accordano particolari preferenze alle mostruosità. Si tratta di un fenomeno di collezionismo eclettico, avido di oggetti e di animali, purché rari. Tipicamente vi si trovano le uova di struzzo, didascalizzate, date le dimensioni giganti, come uova mostruose.

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A metà Cinquecento il botanico trentino Andrea Mattioli, medico personale di Bernardo Clesio, encomia quegli «Huomini virtuosi & singolari dei nostri tempi, i quali nelle case loro hanno fabricato alcuni repositori, dove, come in un teatro con bellissimo ordine hanno raccolti piante e animali che con arte maravigliosa vi si veggono conservati come se fussero vivi». Certo, oggi ci colpisce il caos dei criteri espositivi. Ma lo storico della scienza Giuseppe Olmi avverte: «Anche se a noi, oggi, le collezioni eclettiche possono sembrare prive di senso, ciò non significa non ne avessero nell’epoca in cui sorsero». Di fronte a una realtà naturale che ogni giorno di più va arricchendosi, rivelando forme di vita sconosciute agli antichi, gli studiosi dell’epoca non possono fare altro che accumulare reperti nei loro musei, rinviando o improvvisando le soluzioni al problema della loro classificazione.

Scrive ancora Canestrini: “Le mostruosità sono sempre cariche di significato. Attraverso le forme abnormi si svela infatti il grande mistero del Creato. Nei mostri si vuole leggere ora la vendetta della natura contro amori illeciti, ora la maestria metamorfica del demonio, ora la dimostrazione dell’insondabilità dell’arbitrio di Dio, o il segno della sua ira. Siamo comunque in presenza di una estrema attenzione per i mostri, che soprattutto nel Seicento si estende alle nascite abnormi.

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Quando a Trento, nel 1620, nasce una bambina con due teste, uno stampatore realizza subito una xilografia e ne distribuisce qualche decina di copie come «fogli volanti» (oggi si direbbe volantini). In strada, pare di sentirlo, un ragazzino li vende a poco prezzo, strillando ai passanti: «La fiòla de dona Margarita e Giobatta sonador de basso nata con doe teste!».

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Dilaga un gusto che sfiora la teratomania (dal greco teratos = mostro). Tanto che si giunge a produrli artificialmente, i mostri, con abili opere di assemblaggio molto quotate dai collezionisti di curiosità. È il caso delle finte sirene di solito costruite con teste e torsi di piccoli oranghi e code di pesce, delle false idre, delle finte chimere. Quando dall’Australia arriva a Londra il primo ornitorinco imbalsamato, a metà Settecento, i naturalisti del British Museum storcono il naso: impossibile, dicono, quell’ibrido dev’essere lo scherzo di un tassidermista cinese.

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