LA TRISTE STORIA DI UNA DONNA E DI SUA FIGLIA
DECAPITATA E POI BRUCIATA
DOPO LA CONDANNA PER STREGONERIA
a cura di Cornelio Galas
Cari amici di Televignole oggi, visto che da poco è passata la Befana, vi parleremo di streghe. Scherzi a parte, l’argomento è invece decisamente serio, quanto tragico. Si tratta dell’ultima esecuzione capitale per stregoneria. Con una fonte inedita: la relazione del Vicario parrocchiale don Domenico Antonio Menestrina circa la strega Domenica Campolongo detta Zambanella processata e condannata a morte nella Giurisdizione di Castellano e Castelnuovo dei conti Lodron.
Abbiamo trovato il documento (analizzato e rielaborato da Giovanni Cristoforetti) nell’archivio dell’Accademia degli Agiati di Rovereto.
I PROCESSI DI NOGAREDO
I processi alle streghe di Nogaredo, presso Rovereto, del 1647 godono di una notorietà garantita in primo luogo dalla possibilità di accedere agevolmente alle fonti documentarie processuali che vennero edite in tempi e modi diversi. Inoltre, essi sono ricordati da storiografi locali come Raffaele Zotti nella Storia della Valle Lagarina e Francesco Ambrosi nei Commentari.
Molto meno noto agli studi, ma non meno significativo è il caso verificatosi nella medesima giurisdizione, nel 1717, e concluso con l’esecuzione capitale della “strega” Domenica Pedrotti detta Zambanella. Si tratta dell’ultima condanna a morte per stregoneria in terra trentina, un primato, per figura retorica, che a suo tempo poteva forse essere auspicato ma non previsto e neppure valutato nella sua importanza come definitiva conclusione di una secolare e tragica vicenda storica.
Se non altro l’accaduto si documenta con una fonte per la quale non si pone il problema della prossimità cronologica o dell’affidabilità in quanto ne fa riscontro il registro dei morti della parrocchia di Villa Lagarina, che offre una sintetica ma esauriente versione dei fatti. Fonte sufficiente forse anche per lo storico locale don Giacomantonio Giordani, meticoloso esploratore di questo archivio parrocchiale, che tuttavia non fa punto riferimento alle carte oggetto del presente contributo. Egli afferma di non aver potuto esaminare gli atti del processo e invita a rovistare con pazienza nell’archivio dinastiale dei conti Lodron, feudatari del luogo.
Quanto agli atti processuali relativi a questa vicenda, inutilmente ricercati dagli studiosi, a risarcirci per la loro perdita è un raro atto giudiziario pervenutoci a stampa e prodotto dallo stesso giudice Giovanni Sebastiano Vespignani che, in seconda istanza, aveva deciso la condanna a morte dell’imputata. Non si tratta di un semplice riferimento, ma di un ragguaglio sostanziale in quanto inerente agli stessi atti processuali.
Giovanni Sebastiano Vespignani, ossia il pretore di Rovereto che aveva confermato, con voto decisivo, questa condanna a morte per stregoneria, produsse a stampa la raccolta dei suoi Vota decisiva seu ratio-nes decidendi nel 1741, sei anni prima della sua morte. In questa edizione giuridica «per utilità dei giudici nei casi più gravi», curata personalmente dal professore al termine della sua carriera trova posto anche il Votum LXXXVI contro la Pedrotti sotto la voce Sortilegium ed è unico nel suo genere, come l’autore stesso dichiara.
Di questo magistrato forse nessuno si «sarebbe accorto – scrive Andrea Padovani – se appena due anni dopo la morte del Vespignani, il Tartarotti, che per la prima volta contestò in Italia la legittimità della caccia alle streghe, non avesse richiamato l’attenzione del pubblico erudito su questo voto pronunciato dal Vespignani durante la pretura roveretana». L’albore dei nuovi orizzonti nella cultura giuridica qui aperti da Tartarotti contribuirà a dissolvere anche il sidereo encomio roveretano tributato a Vespignani, un giudice probo e di integra condotta nella considerazione del secolo, nondimeno rappresentante di quel consolidato ceto di magistrati la cui prassi processuale nel criminale veniva sempre più spesso denunciata come eredità di un barbaro passato.
Ma nel 1717 il Tartarotti era ancora fanciullo. Solo a Settecento inoltrato, con l’affermarsi della nuova cultura, si verificò a livelli più generali la decisiva accelerazione verso un adeguamento anche della giurisprudenza e della magistratura, grazie alle graduali riforme di Maria Teresa e a quelle più radicali di Giuseppe II. Per ora Giovanni Sebastiano Vespignani – «studiis die noctuque incumbens» – era di «universale aggradimento» nella pretura di Rovereto.
I numerosi atti di processi alle streghe venuti via via alla luce hanno indotto gli studiosi a perfezionare il metodo di avvicinamento a queste fonti, che vengono impiegate anche per svariate ricerche di carattere sociale e antropologico adeguando al contesto storico pure l’interpretazione dei fatti a volte compromessa dalle omologazioni o condizionata dai drammi emotivi.
Così lo stesso tema della caccia alle streghe, riguardato come fenomeno culturale e sociale, è stato trasferito, per un certo rapporto di osmosi, dalla storia della Chiesa a quella della società.
Ma in modo ancora più specifico, il processo per stregoneria trova posto nell’ambito degli studi di storia giuridico-istituzionale che rivolgono l’ attenzione alla «logica impersonale della procedura», come dire che, scontata la monotonia tematica degli esiti di inquisizioni e confessioni in questo genere di processi, resterebbe da precisare il funzionamento dell’amministrazione della giustizia penale e questo ancora più nei piccoli tribunali delle frammentate giurisdizioni regionali dotati di autonomia giudiziaria come nel caso del feudo lagarino dei Lodron.
UN MANOSCRITTO INEDITO
Può sembrare la cronaca di una turbolenta vicenda quella che Domenico Antonio Menestrina, vicario dell’arciprete di Villa Lagarina, scrive, o quantomeno inizia a scrivere, il 1° aprile 1717 all’indomani dell’esecuzione capitale di Domenica di Nicolò Pedrotti detto Zambanello, moglie di Andrea Campolongo di Villa, condannata alla decapitazione e al rogo come strega il 18 del mese appena trascorso.
Intrecciata con questa fu anche la vicenda della figlia di Domenica, quella Caterina incarcerata e morta quindicenne un mese dopo l’esecuzione della madre, il 19 aprile 1717, sfuggendo a un’identica sorte solo per esser stata giudicata vittima di plagio o, come dice Domenico Antonio Menestrina, perché già stremata al punto da farne supporre vicina anche la fine naturale.
Il manoscritto di Menestrina è una lunga minuta di dodici facciate in folio e con l’aggiunta di allegati, destinata, come indica una classica dichiarazione introduttiva, a una relazione ufficiale, scevra da divagazioni teoriche e con l’evidente intento, da parte dell’autore, di dimostrare il puntuale adempimento dei doveri a lui richiesti dalla circostanza.
Verosimilmente il destinatario dello scritto era l’immediato superiore di Menestrina, cioè l’arciprete di Villa, conte Carlo Ferdinando Lodron, il quale era altresì canonico della Cattedrale di Trento. E questo può spiegare le reticenze del manoscritto circa lo svolgimento del processo, considerati i ruoli dello stesso arciprete all’ interno del suo nobile casato e anche il fatto che in quegli anni un fratello di Carlo Ferdinando, il conte Sebastiano Francesco Giuseppe Lodron, rivestiva la carica di capitano di Rovereto per nomina del Consiglio Aulico imperiale di Vienna.
Le informazioni di Menestrina vertono piuttosto sui precedenti che portarono all’incriminazione, e poi sugli avvenimenti seguiti alla condanna fino alla esecuzione, notizie che solitamente non si riscontrano negli atti ufficiali. Con questo il manoscritto assume la valenza di una singolare fonte integrativa non facilmente disponibile.
Il documento riflette soprattutto le implicazioni pastorali di un fatto che è però di natura criminale e come tale di competenza dell’autorità secolare, un duplice coinvolgimento meglio comprensibile qualora si premetta un breve inserimento istituzionale, sociale e culturale anche se solo in funzione del nostro argomento.
LA PIEVE DI VILLA LAGARINA
Nel Settecento la realtà ecclesiastica del territorio della Destra Adige lagarina si configurava ancora secondo lo schema dell’antica istituzione plebana tenuta in particolare considerazione dalla famiglia Lodron, che riuniva nel ruolo di giurisdicenti anche quello di patroni della chiesa e occupava la sede arcipretale con conti arcipreti o con fiduciari della famiglia. L’opportunità di questa situazione, per i Lodron, si giustifica anche con il fatto che la giurisdizione ecclesiastica risultava trasversale alle confinanti giurisdizioni civili di Castelcorno e di Nomi e copriva tutto il territorio da Cimone ai confini con Mori. Con questo, per quanto con molte remore, proseguiva il secolare fenomeno del progressivo distacco delle comunità inferiori dalla matrice, per cui nel primo ventennio del Settecento, se il pievano manteneva la sua primaria giurisdizione su tutte le chiese dell’antica plebania, alcune di queste risultavano servite da un proprio sacerdote con la qualifica di curato, mentre il servizio vero e proprio a carico dell’arciprete di Villa Lagarina comprendeva le comunità della stessa Villa, di Nogaredo, Molini, Sasso, Noarna e Piazzo.
Arciprete in questo tempo, come accennato, era il conte Carlo Ferdinando Lodron: un personaggio di rilievo in rapporto sia alla sua famiglia (apparteneva al ramo giudicariese della Secondogenitura dove era stato anche giurisdicente), sia alla Chiesa di Trento, di cui fu canonico dal 1680 e quindi vicario generale nel 1702 e 1703 e preposito dal 1715. A Villa egli rivestì la dignità di arciprete per quarant’anni, dal 1689 al 1730, anno della sua morte avvenuta all’età di 67 anni.
Come i conti-arcipreti suoi predecessori, dispensati dalla residenza, egli delegò il suo ruolo di parroco a un sostituto assunto per contratto. Ma, ciò malgrado, Carlo Ferdinando si rese presente più di quanto non si sia soliti credere. Del resto, anche i feudatari Lodron, occupati di preferenza nei loro più importanti possedimenti austriaci o nei centri di potere a Innsbruck, Vienna o Salisburgo, erano soliti delegare l’amministrazione civile e giudiziaria dei loro feudi lagarini a dei vicari.
Pertanto, nel lungo periodo del governo di Carlo Ferdinando, nella pieve di Villa si susseguono numerosi vicari parrocchiali, più frequenti a cavallo del secolo, indice forse delle difficoltà che si incontravano in questa mansione, sicché don Domenico Antonio Menestrina si segnala anche per la lunga permanenza dal 1708 al 1719 oltre che per la scrupolosa gestione della parrocchia.
Egli, nativo di Trento, non era nuovo alla cura delle anime, avendola già esercitata a Calavino e, come cappellano, a Folgaria e Lasino. Nel 1719, infine, diventò pievano di S. Apollinare a Trento, certamente grazie ancora a Carlo Ferdinando che, quale Preposito del Capitolo cattedrale, era anche titolare di quella chiesa. Morì a 57 anni il 18 gennaio 1722, lasciando il ricordo di uomo dotto, pio e zelante, distinto nel canto e nella predicazione.
A Villa il suo nome rimane legato all’inventario compilato con rigore, dopo lo sconquasso e i trasferimenti avvenuti al tempo dell’occupa-zione francese conseguente alla guerra di Successione spagnola (1701-1714), e che ancor oggi sta alla base dell’ordinamento dell’archivio storico parrocchiale.
Suo è inoltre un accurato status animarum di Villa Lagarina, interessante statistica, aggiornata ogni anno in tempo di Pasqua. Da questa fonte si ricava, ad esempio, che nel 1717 la parrocchia con le sue distinte località contava in tutto 917 abitanti. In quest’archivio, custodito con la passione del letterato, depositò anche il documento di cui parliamo e che i successori stimarono bene di conservare.
CREDENZE, MALIE, SORTILEGI
La vicenda narrata da don Menestrina ha inizio nel maggio 1715, con l’incauta Caterina, giovane sui 12 o 13 anni, che in un momento di isterismo trionfante, per cattiva sorte, rivolge le sue confidenze alle persone meno indicate. Ad ascoltarla è il fratello di un prete locale e non si può dire se nella immediata percezione del primo, come sembra, o nell’interpretazione dell’altro sia subito scoccata la scintilla delle «abominevoli pratiche col demonio».
Ciò bastò per innescare e ravvivare un fuoco che covava sotto le ceneri in una società rurale già provata una volta dai processi alle streghe, incline alle superstizioni e alle suggestioni, soprattutto in concomitanza con le ristrettezze economiche e le crisi agricole. Tale coincidenza è segnalata dallo stesso Menestrina come detonatore del nostro caso: «Rilusse la congiuntura entro una staggione penuriosa di pioggia per la cui siccità s’isteriliva di fruttami la terra e si prevedeva scarsissimo l’autunno della vendemmia e de ritorni […]»
Ma non sarebbe corretto interpretare l’ambiente in cui opera don Menestrina solo da questo particolare punto di vista, quasi che si trattasse di un popolo tutto spiritato e neppure sarebbe un buon argomento per descrivere l’epoca di Carlo Ferdinando.
É però singolare che, a distanza di mezzo secolo dai famosi processi, si ripresenti questo problema ossessivo, perché si tratta ancora di una vera caccia alle streghe programmata dalle autorità comunali e che vede incarcerate varie altre persone oltre alla Zambanella. Sembra quasi una malattia virale non del tutto debellata che esplode dopo una lunga incubazione.
Menestrina, con la saggezza popolare ma senza escludere fenomeni diabolici, nota gli ascendenti familiari e la parentela che collegava Domenica Zambanella alla casa da cui era uscita una delle cinque streghe decapitate nel 1648, inclinandoci, non a torto, a interpretare i fatti anche come la proliferazione della nevrosi ereditaria di alcune famiglie. Comunque, le credenze stregonesche, le malie e i sortilegi tramandate da generazioni nell’ambiente contadino non sembrano soggette a decorsi o durata di tempo, quanto piuttosto alle oscillazioni d’intensità particolarmente alta nell’epoca che qui si considera.
Del resto, scienze occulte, magia, cabale e alchimie in quest’epoca facevano parte del bagaglio anche delle classi più alte con una vasta diffusione nell’area austriaca e tirolese. I sintomi della ripresa di questo pericoloso morbo nel nostro territorio si documentano negli ultimi anni del secolo XVII e trovano una compiuta testimonianza in alcune lettere, due delle quali, scritte dal notaio Marco Tazzoli e pubblicate nel 1996 da Antonio Passerini, rappresentano un interessante riscontro. Tali lettere sono rivolte all’arciprete Carlo Ferdinando o al suo cappellano personale, piuttosto che al vicario della Pieve, e implicano uno scambio di corrispondenza relativo all’informazione sui fatti e alla condotta da seguire.
Il notaio Marco Tazzoli, di 44 anni, era persona stimata, d’un certo livello culturale e spirituale e, anche se non sembra privo di certe bizzarrie, può rappresentare un comune orizzonte mentale (febbraio-marzo 1698). Egli era fermamente convinto dell’opera del demonio, dei malefici e delle streghe. Il suo lamento sui tempi cattivi, più che dalla consuetudine, era giustificato da una fase accentuata dall’epidemia che aveva colpito i bachi da seta, ma per il Nostro tutto questo era sicuramente l’esito dei malefici. Esistevano quindi le malefiche, di regola donne, e, si può aggiungere, mancava solo che venissero «iscoperte».
Per collegare questi fenomeni regressivi alle situazioni di disagio sociale, come sembra opportuno anche se non esaustivo, la storia del mondo lagarino offre più di uno spunto, anche inoltrandosi nel Settecento.
Dopo le inondazioni dell’Adige, come quella terribile del 1686, apparve il morbo sconosciuto e ricorrente che metteva a rischio l’alleva-mento dei bachi da seta da cui dipendeva buona parte dell’economia locale, e poi fu la volta della feroce occupazione dei Francesi del 1703, che provocò danni per 21 mila fiorini e una travagliata opera di ricostruzione e risarcimenti.
Ma ad implicare la stregoneria era per il notaio Tazzoli anche l’epi-demia di malefici, infestazioni, e possessioni diaboliche puntualmente da lui scoperti e diagnosticati, come riferisce nelle sue lettere, e che tanto più si diffondevano quanto meno venivano contrastati con quel mezzo approvato e praticato dalla Chiesa quale era l’esorcismo:
Due creature lattanti fatte morire in casa di Bortholameo Rosio. Messer Leonardo Schrinzo, liberato da un malefizio […] così come suo fratello Carlo. Un suo stesso figliolo lattante di undici mesi lavorato dalle streghe e fatto morire il 5 di settembre scorso. Un altro suo figlio Sancio, [che diventerà il dottor Sancio che si scrive anche Sanchio ndr] è stato liberato, ma poi […] anche la sua serva […] e poi la sua figliola Cecilia. Poi la suocera di Cristoforo Benedetti. Poi la signora vecchia Ferraria, […] poi la moglie di Baldessarino […] e la figlia del signor Gio Villi sua nipote, quest’ultima, caso difficile, infestata da più demoni. A Pedersano poi, recentemente la moglie di un [suo] affittavolo tutti esorcizzati con tutte le forze.
Le dichiarazioni di Tazzoli, che era un laico, sono così essenziali e di retta dottrina da convincere sulla sua buona fede, benché egli fosse reso fanatico dall’esasperazione. Quindi la sue rimostranze contro i preti suonerebbero meglio come implorazione che non come malevola insinuazione, tanto più che il notaio si professava obbediente all’esortazione inviatagli dall’arciprete Carlo Ferdinando di lasciar fare a chi di dovere.
Don Aurelio Balter di Rovereto fu, in quelle circostanze, un esorcista zelante ed efficace. Da lui imparò l’arte di esorcizzare anche il reverendo signor don Giovanni Battista Ferrari, ma ancor più il figlio maggiore dello stesso notaio Tazzoli, che poi sarebbe stato sacerdote esorci-sta nella pieve al tempo del Menestrina e oltre.
Ma il notaio continuava a lamentare, nella sua corrispondenza con l’arciprete, l’atteggiamento freddo, pigro o incompetente dei sacerdoti della Pieve, e del vicario (detto qui cappellano) che «se fa beneditioni le fa corte, brevi, et in fretta», trattandosi di un neppur tanto cauto scetticismo del locale presbiterio.
Il notaio suggeriva anche la lettura di libri specialistici. Indispensabile, a suo avviso, era un autore come «il Canale», e si tratta del bresciano Floriano Canale, emblematica figura di chimico, musicista, guaritore ed esorcista noto per un suo trattato edito a Trento nel 1634 e ripetutamente poi ancora nel corso del secolo.
L’arciprete Carlo Ferdinando doveva avere emanato delle sollecite disposizioni e, per quanto si capisce, non contrarie all’uso dell’esorcismo, destinate però, secondo il notaio, al fallimento per il contegno dei sacerdoti della Pieve che, a suo dire, erano supponenti.
Anche il luogo più adatto alla celebrazione degli esorcismi viene indicato dal notaio nella sagrestia della chiesa, all’altare delle reliquie fatto erigere dall’arciprete. Il notaio lasciava intendere che l’arciprete avrebbe voluto la caccia del diavolo, resa però impossibile dallo sciopero dei cani, cioè dei sacerdoti della parrocchia.
Non possediamo altri documenti per conoscere meglio l’atteggia-mento di Carlo Ferdinando, che consigliava di lasciar fare a chi tocca. Al Tazzoli però rispondeva a stretto giro giacché l’8 marzo il notaio citava la risposta alla sua precedente del 1° febbraio.
Lasciar fare a chi tocca andava inteso per gli esorcismi che al caso toccavano ai sacerdoti. Ma pure per quanto riguarda la strega Domenica, l’impressione è che Carlo Ferdinando fosse dell’ accorto parere di lasciar fare alla giustizia, anche in base alla sua pluriennale esperienza di governatore laico dei feudi di Lodrone, prima con suo padre e, dal 1696, come successore effettivo in questa carica. La giustizia penale puntava comunemente alla repressione esemplare.
Del resto, se in questo affare poteva attingere all’informazione più diretta in ragione dei ruoli e delle parentele, nei feudi lagarini Carlo Ferdinando personalmente non godeva delle prerogative della primogenitura e quindi di nessun potere nel penale. Un carteggio fu tenuto anche con il curato di Cimone don Bartolomeo Poli, al quale Carlo Ferdinando richiese numero e sintomi delle persone che anche quel curato sospettasse possedute. Erano persone poverelle, tutte ammalate poco o tanto, e con strane manifestazioni. Si fece il nome di un altro esorcista a tutto servizio in quella zona settentrionale della pieve di Villa, il roveretano don Lodovico Storti.
Per richiamarsi a una controversia dei moderni esorcisti si può qui rilevare come l’esorcismo fosse ritenuto anzitutto necessario per accertarsi della presenza del demonio. Don Poli rispondeva dunque al suo pievano, in data 19 maggio 1696:
Rev.ma ne portasse ragguaglio Notificai a codesto m. rev signore Capella-no Domestico di Vostra S.ill. e Rev.ma l’infelice stato di alcune persone di Cimone, ossesse da maleficii e spiriti maligni or ora scuopertesi pregandolo ch’a Vostra Ill.ma e e mi rispose co’ i benignissimi di lei comandi che dovessi scriverle il numero delle persone ossesse con il specifico de segni che dimostrano Sicché umilmente esseguendo i graziosissimi cenni quivi brevemente gl’estendo.
Catarina moglie d’Antonio Buz da i Bucci, essorcizata dal molto reverendo don Lodovico Storti di Roveredo […] dimostrò essere da spirito oppressa havendo (a quanto mi riferiscono) risposto a quel signore esorcizzante che gli parlava in idioma latino e ciò per alquante fiate oltre molti altri segni veramente soprannaturali tra quali uno a me ne dimostrò nel Giovedì santo mentre avendo principiato a benedirla genuflessa, si protese per terra e già principiava a borbottare alla gagliarda s’io avessi proseguita la santa funzione, che stimai meglio allora tralasciarla e differirla per più capi a miglior tempo.
Francesca vedova dal sig. Giuseppe Liberi dal Covel, non ancora esorcizzata è talmente oppressa a mio credere da simile fatuchierie che la trovo sempre più vacillante nella fede e nella divina Provvidenza non curandosi di benedizioni ne di qualunque cosa santa, ma rimanendo continuamente inferma a letto, ottusa e di si mal animo per la sua propria salute spirituale e temporale, che più d’ogni altra mi da fastidio e credo certo ch’essorcizzandola se ne scuoprirebbe mal’effetto.
Dorotea figlia di Valentino Lorandi dal Covel, esorcizzata dal predetto signore [don Storti] diede a lui segno d’essere maleficiata essendosi tramortita alla santa benedizione, con altri segni da lui notati e ben conosciuti.
Catarina moglie di Bartolomeo da’i Dossi, gravemente maleficiata et ossessa, esorcizzata dal predetto signore ha dato in essa il Demonio segno d’obbedienza al medesimo sig. esorcista partendosi dallo stomaco alla gola da questa alli bracci, da quelli al capo e dovunque comandò.
Ma finalmente Catarina moglie d’Antonio Marchi mio masadore dal rinomato signore esorcizata ha dati più e più segni a lui et anco a me d’avere nel suo corpo introdotto il demonio con maleficio havendo quello parlato, ubbidito e travagliata l’ossessa come sopra e mentre ch’io benedicevo, ipsa nesciente, il cibo che dovea mangiare una sera la prostese dov’ella si ritrovò longi da me a terra travagliandola con debilezze e vomiti molto notabili. Sicché non potendo io né questi domestici sofferire più al lungo i di lei travagli che continuamente patisse da quel maligno spirito ho essortato e fatto risolvere suo marito ad accompagnare l’ossessa a Padova per dove s’in-camminava piacendo al Signore di mattina pigliando la strada di Rovereto per haver ivi dal signor esorcista licenza e benedizione, havendola prima io confirmata al possibile nella fede e confidanza ne’meriti et intercessione del Santo. Sovvenuta oggidì con il Sacro Viatico si come farò dimani per il viatico temporale secondo le mie forze, supplicando in sua voce anco la benignissima pietà di Vostra signoria illustrissima e reverendissima si degni di sovvenirla con qualche dannaro di cotesto luoco pio, ch’al certo stimerei ben’impiegato con persone poverelle e non aventi al presente modo di viaggiare, senza qualche aiuto, tanto più che mendicare erubescunt.
Se l’indagine storica, non ancora abbastanza frequente, intorno a Carlo Ferdinando ha rilevato i suoi grandi meriti di mecenate nei confronti della chiesa di Villa, di altre nelle Giudicarie e della stessa Cattedrale, minor interesse ha dimostrato la ricerca per la sua presenza pastorale, pregiudicata anche dal sistema delle deleghe. Qualche traccia, comunque, risponde anche ad una superficiale ricognizione. Fino al 1703 lo troviamo più volte a battezzare in questa sua chiesa e nel 1711 celebra le funzioni della Settimana Santa e di Pasqua, inoltre nei due anni 1702, 1703 in cui fu Vicario generale fungeva da referente ordinario per tutti i problemi della cura d’anime della diocesi.
Già ricordate dagli storici locali sono alcune iniziative strettamente pastorali da lui attuate come le missioni popolari nel 1689 e nel 1707, rivolte a favorire lo spirito religioso e a contenere la supersizione sebbene nel racconto delle cronache si possano intravedere le alte tonalità drammatiche dello spirito religioso barocco.
Anche se, circa il nostro argomento, per pochi anni le fonti tacciono, le cose e le persone al tempo di don Menestrina non sono cambiate. Il Tazzoli era ancora vivente, suo figlio divenuto don Marc’Antonio continuava a svolgere la sua funzione di confessore ed esorcista, ma, dovette trattarsi di un’apparente tranquillità a giudicare dalla nuova esplosione sorta intorno al caso che stiamo considerando.
LA GIURISDIZIONE E IL PROCESSO
L’ambiente e la tradizione giuridica in cui si svolse il processo del 1717 è quello del feudo patrimoniale lagarino dei Lodron con funzionari di lunga pratica consuetudinaria, di padre in figlio legati alla famiglia padronale e di livello che si suppone misurato.
I feudi di Castellano e Castel Nuovo, geograficamente modesti anche se non più di altri nella regione, non lo erano dal punto di vista giuridico, infatti si trattava di feudo maggiore, mediato, e con piena autorità giudiziaria. Ai Lodron con il feudo di investitura vescovile era attribuita una importante giurisdizione che tecnicamente viene definita «mero e misto imperio». Tutte le linee della famiglia erano partecipi del feudo, la giurisdizione però veniva regolata dal primogenito in vigore dei patti di famiglia e del testamento di Paride III (1586-1653), principe arcivescovo di Salisburgo dal 1619. In assenza del conte, le funzioni politiche e amministrative venivano esercitate con delega dagli ufficiali residenti: vicari, capitani, cancellieri con sede nel palazzo di Nogaredo.
Nel momento storico che qui interessa, le due giurisdizioni di Castellano e Castel Nuovo, divise fin dal 1534, nel 1647 erano state riunite in un’unica giurisdizione anche se solo a partire dal 1666 troviamo un unico giudice di prima istanza.
Nel 1667 alle innovazioni corrispose l’emissione di uno strumento legislativo detto Proclama generale o «Statuto signorile» che obbligava inviolabilmente «…ogni persona di che stato, logo, conditione e sesso esser si voglia abitante nei feudi…», mentre invece i proclami particolari erano più legati alla contingenza, si rivolgevano a precise categorie di persone o agli abitanti di determinate zone, e avevano una validità limitata nel tempo.
Ad esempio, un proclama particolare rivolto a regolare un’emergenza venne pubblicato appunto in rapporto ai processi per stregoneria del 1647, come nota Morena Bertoldi, al fine di conservare la pubblica quiete: per «estirpare ogni radice infetta che possa in qualunque tempo riguastare la regolazione del pubblico bene, massime negli incontri delle presentanee revoluzioni detestabili degli iscoperti et quasi resi notori esecrandi eccessi di stregarie».
All’epoca dei nostri fatti, nella giurisdizione vigeva ancora il proclama generale del 1667, che sarebbe stato, ma solo in parte, modificato da quello del medesimo tipo edito nel 1744. Una preventiva attenzione nella fattispecie è offerta altresì da questo proclama generale, nella parte dedicata alla pratica religiosa e in particolare con il richiamo alla superstizione e alle annesse severissime pene sia pecuniarie, sia corporali mentre si ribadisce l’obbligo della denuncia dei reati entro le 24 ore. È utile allo scopo della presente indagine segnalare la prassi delle denunce esposta nell’articolo 45: il denunziante «volendo sarà tenuto secreto, et gli sarà creduto per suo giuramento con un sol testimonio degno di fede… e si procederà … per via d’inquisizione ex officio denuntie publice, o secrete … ». L’ultimo articolo, il 46, salvaguardava sempre la discrezionalità del conte giurisdicente «… d’alterare e sminuire e commutare le suddette pene…».
Il proclama generale del 1667 costituiva il titolo normativo preminente nel governo della giurisdizione, sebbene nel caso di carenze la norma si uniformasse, come ha dimostrato Morena Bertoldi, allo statuto cittadino di Rovereto o, soprattutto in questa particolare materia, a quello di Trento emanato da Bernardo Clesio e valido per tutto il principato.
Anche il proclama del 1667 presenta al n. 38 un esplicito riferimento allo statuto di Trento: «Che rispetto alli officiali sia puntualmente osservato la forma di Trento tanto nel civile, quanto nel criminale sotto le pene in quelle contenute et arbitrarie…». In generale, comunque, la produzione normativa escludeva il contrasto fra le norme signorili e quelle cittadine.
Scontato era il riferimento al diritto comune, che semmai doveva essere leso il meno possibile. Ma una universale supplenza per quanto riguardava il criminale in tutta l’area Germanica era sempre svolta dalla Carolina, la costituzione criminale di Carlo V alla quale, non sembra incongruo qui riferirsi perché viene richiamata più volte anche nel Votum di Vespignani. A confermarne la validità e la persistenza, addirittura ancora nella seconda metà del Settecento la sostituzione di due capitoli dello Statuto di Trento verrà giustificata con altrettanti della Carolina.
La Carolina che rappresenta la sintesi e il culmine di vari percorsi legislativi del composito panorama istituzionale dell’ impero, assumendo una funzione paradigmatica, non ostacola le innovazioni e gli sviluppi delle normative regionali delle quali anzi riafferma la priorità. Così avviene per esempio nel Tirolo dove a partire dalle famose ordinanze criminali di Massimiliano I, estese progressivamente a tutti i territori ereditari, si arriva al nuovo e severo codice di diritto penale elaborato da Christoph Froelich von Froelichsburg, il Nemesis Romano Austriaco Tirolensis pubblicato a Innsbruck nel 1696. La codificazione tirolese poteva influire, quantomeno per la coincidenza, sugli orientamenti delle nostre magistrature nel senso di una maggiore intransigenza; infatti più difficile sarebbe dimostrarne una recezione nella giurisdizione Lodron dove l’unica accertata dipendenza dal Tirolo concerneva la sfera fiscale, dei tributi e delle imposte.
Del resto, il governo del principe vescovo Giovanni Michele Spaur dal 1696 al 1725, promotore di una religiosità di stampo controriformistico e barocco, riservava una particolare attenzione a questi aspetti: non per niente fu attribuita a Spaur l’intenzione di introdurre a Trento l’Inquisizione Romana .
IL PROCESSO
Il manoscritto di Domenico Antonio Menestrina presenta alcuni richiami a questo processo ma ad esso non riserva uno specifico interesse. «Risolsero denunciarla al clarissimo signor giudice», scrive senza ulteriori indicazioni. Vespignani ne fa solo il cognome e si tratta del dott. Antonio Chiusole di 66 anni, giudice ordinario della giurisdizione di Castellano e Castel Nuovo dal 1696 al 1719.
Dal manoscritto si evince che la denuncia, necessaria per giustificare l’inchiesta, dovette costituire un vero rompicapo per il parroco. Tra l’altro un’accusa privata suppone una parte lesa e Menestrina sembra restio ad assumersi l’iniziativa anche solo di una notifica. Egli scrive: «Fondandomi nel mio giudizio ruminavo come avessi da intraprendere una necessaria insinuatione…». Ma già si era sollecitata la sensibilizzazione dell’ambiente: «Si sparse indi per la vicinia il rumore…», fino a produrre la denuncia per voce di popolo, come appunto si capisce che il parroco si aspettava avendo egli seguito una tattica che sfuma i confini tra la prudenza e la scaltrezza.
«Raccoltisi insieme alcuni di buon seno… risolsero denunciarla…».
I procedimenti tecnici erano sostanzialmente uniformi avendo almeno sullo sfondo la costituzione di Carlo V, ma anche il proclama giurisdizionale vigente dettava le norme essenziali. In questo genere di reato era possibile procedere all’arresto dell’imputato semplicemente sulla base della comune reputazione o della fama. Il procedimento era avviato ex officio.
La loquace Caterina, riferisce Domenico Antonio Menestrina, viene subito trattenuta in carcere, mentre poco dopo lo sarà la madre alla quale viene tesa un’ignobile imboscata. Siamo verso la fine del luglio 1715 e inizia la carcerazione giudiziaria che durerà circa venti mesi.
Nessun elemento ci consente di conoscere nel dettaglio il percorso del processo informativo. Esemplari i modelli di formulari e questionari proposti nella Carolina, ma quand’anche disponessimo degli Atti non gioverebbe verificarne la letterale rispondenza in quanto che già nella sua prima formulazione con una sapiente quanto necessaria «clausola salvatoria» la costituzione sanciva il rispetto delle varie consuetudini giuridiche locali.
Non raramente comunque la prassi si discosta dalla teoria, ma, nell’impossibilità di meglio contestualizzare il trattamento di questo atipico reato, si può supporre che a fungere da modello furono i processi alle streghe celebrati nel 1647 e ciò anche in base alla stabilità della situazione giurisprudenziale. Grazie al manoscritto siamo informati dell’identità del difensore, del trasferimento degli atti alla seconda istanza e, con un interessante riferimento, della presenza di un collegio di scabini.
Per noi sono perduti i grossi fascicoli di carte prodotti dal processo informativo verbalizzato nei minimi particolari, secondo le norme che prescrivevano anche il segreto assoluto e non prevedevano in questa fase alcuna forma di difesa tecnica. La condanna si fondava sulla prova legale, la cosiddetta «piena prova» costituita dalla confessione che si otteneva anche con la tortura che però Domenico Antonio Menestrina non nomina.
Il convincimento del magistrato è l’elemento fondamentale. Infatti nel processo inquisitorio (non si confonda questo tribunale con il tribunale dell’Inquisizione) il giudice svolge nel medesimo tempo anche il ruolo dell’accusa, mentre all’imputato spetta il compito di dimostrare la propria innocenza: così almeno in un’accezione rigorosa del modello inquisitorio.
Ancora ad un altro istituto contemplato nella Carolina allude Menestrina quando scrive: «Sendo noi al banco della verità», e tuttavia egli non ci dà conto neppure del numero dei giurati mentre si dimostrerebbe certo più esplicito se la giuria, della quale egli stesso allora faceva parte, avesse avuto qualche peso reale.
L’assemblea dei giurati ebbe probabilmente il solo compito di ascoltare e ratificare le conclusioni dell’inchiesta. Addirittura uno dei risultati se non anche degli intenti dell’applicazione della Carolina era stato di promuovere una magistratura togata e professionale, ridimensionando il ruolo di prima istanza giudiziaria rivestito anticamente da queste giurie popolari come tribunale della comunità. Formalmente la Costituzione stessa prevedeva comunque la presenza di un collegio di scabini (Il persistere nel XIV secolo dell’antico principio germanico della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia rappresentato dagli scabini (Schöffen) è segnalato come eccezione da Curzel nel giudizio tirolese di Montereale (Königsberg), «uno dei pochi giudizi del Tirolo italiano dove la sentenza veniva formulata non dal giudice presidente o almeno non da lui solo, bensì da una commissione della comunità giudiziaria», che affiancava il giudice togato nelle imputazioni comportanti pena capitale e nelle inquisizioni criminali comportanti la tortura.
Quanto alle infelici inquisite, imprigionate nel luglio 1715, saranno condannate a soffrire a lungo in carcere: la madre fino alla propria esecuzione (18 marzo 1717) e la figlia per un altro mese fino alla sua morte. E nulla si dice della loro condizione, dell’incidenza delle acquisizioni, della escussione dei testi né esplicitamente di altre denunzie e carcerazioni. Nel frattempo però erano accaduti dei fatti, per loro, veramente poco rassicuranti.
A Brentonico, nei contigui Quattro Vicariati, il 14 marzo 1716 un altro processo per stregoneria si conclude con la decapitazione di Maria Bartoletti. Solo due mesi dopo prende corpo nella giurisdizione Lodron una singolare iniziativa dei comuni, dove tra le delibere concernenti il bene pubblico, l’amministrazione della giustizia, diritti, privilegi e immunità, trova esplicito riferimento anche la situazione delle due carcerate. Nel maggio 1716, «considerato di quanta importanza sij la cordiale fratellanza et unione ferma et stabile cosa praticata in varij luoghi», quattordici comunità «lodronie» della Destra Adige fondano una unione e negli undici punti del documento conclusivo firmato dai rispettivi sindaci o provveditori fra le varie materie amministrative compare al terzo punto una presa di posizione circa le streghe:
Doverano le comunità unite promuovere di tempo in tempo appresso l’Eccellentissima Padronanza che sij contribuita buona giustizia, e massime presentaneamente nel particulare delle strege cosa tanto importante, e se dall’Eccellentissima Padronanza non venisse corrisposta a promuoverla altrove, poiché è necessaria al mantenimento della Giurisdizione.
Quest’ultima minaccia presuppone come legittima in questa materia una prassi giuridicamente rilevante, cioè non la scontata possibilità di appello, quanto la promozione di una causa direttamente ad un organo superiore, eludendo quello ordinario e quindi l’autorità del conte Lodron. Ma se i fatti stessi impongono di prenderne atto e il peso della volontà dei cittadini non può essere né eliminato, né ignorato, il protrarsi delle indagini, più che alle dilazioni del conte o agli espedienti di giuristi famelici, è probabilmente dovuto all’insinuazione di nuove denunce non sappiamo se collegate alle indagini sulla Zambanella o provocate dalle sue confessioni.
Ne riferisce Menestrina con un’aggiunta finale al suo manoscritto relativa a Domenica, moglie di Antonio Larcher di Piazzo, che «ad un’hora di notte fu tolta dal letto li 4 aprile e condotta in prigione», processata e condannata, ma morta in carcere prima dell’esecuzione. e ad un’altra donna non meglio identificata di Castellano.
Il manoscritto non parla della risoluzione dei comuni, ma dice che finalmente, dopo un imprecisato numero di mesi – possiamo supporre dopo il maggio 1716 – venne istituito il processo:
Furono costituite avanti al detto sig. Giudice e due signori aggiunti che istruirono il processo d’ordine del signor conte primogenito che è il reggente delle giurisdizioni.
Questi è il conte Carlo Venceslao Lodron, confermato dall’imperatore nella primogenitura nel 1714, sposato a Salisburgo nel 1712 con Maria Antonia contessa di Montfort e signore in Carinzia di Som-mereck e Rauchenkatsch, e non si può dire quanto residente nei feudi lagarini sebbene sia morto a Nogaredo il 7 agosto 1735
Il processo viene istituito su suo ordine, e alla fine ancora il conte farà inviare gli atti e la sentenza alla consulta roveretana di Vespignani, e anche quest’ultimo, restituendo il suo voto decisivo, si rivolge al conte, cui spetta il potere esecutivo.
Neppure la composizione del tribunale istituito dal conte viene precisata da Domenico Antonio Menestrina che scrive solo: «furono costituite avanti al detto sig. Giudice e due signori aggiunti».
Certamente il cancelliere è l’ormai settantenne Antonio Gasperini, o il suo vice allora in carica, il notaio Bartolomeo Sparamani di 48 anni, residente nel palazzo comitale di Nogaredo.
Nello stesso palazzo risiede anche il capitano Fedrigo Fedrigotti, fratello di Giovanni, le due figure emergenti della famiglia di imprenditori di Sacco avviata ad entrare nel ceto nobiliare. Ma qui non si può usufruire di una chiara codifica dei ruoli in particolare del capitano, un ruolo ordinato anche alla giustizia e che sembrava ormai dismesso in questa giuridizione. Vespignani, come s’è detto, nomina il vicario Chiusole e aggiunge quale commissario un certo de Fraporta, probabilmente Giordano Fraporta, anche se l’identificazione presenta qualche difficoltà.
Non compare in Vespignani il nome del difensore, riferito invece da Domenico Antonio Menestrina che indica come deputato alla difesa il dott. Bernardino Festi giovane sui trent’anni e sposato con due figli: Lorenzo di 6 anni e Pietro Antonio di 5. Nel 1719 viene detto lui pure residente in palazzo con la carica di cancelliere. I Festi sono una famiglia originaria delle Giudicarie e tradizionalmente al servizio dei Lodron, infatti il padre di Bernardino, Lorenzo morto nel 1693 a 42 anni, era amministratore del palazzo e anche il figlio di Bernardino, dello stesso nome del nonno, diventerà un importante funzionario della giurisdizione lagarina.
Bernardino Festi viene nominato d’ufficio, infatti il giudice non può accettare che il reo rinunci alla difesa. Eppure deve aver svolto il suo ruolo con ardore giacché la lode di Vespignani per il difensore, come osserva Andrea Padovani, va oltre il formale e barocco elogio riservato per consuetudine al difensore della parte perdente: «Ingenioso labore et elaborata consultatione muneri suo plausibili solertia adimplevit D. Defensor plura in defensionali allegatione deducerentur…».
Tuttavia, ancora più per questo caso si sente la mancanza di un’adeguata conoscenza del livello e della formazione culturale degli attori, ma particolarmente del difensore. Infatti le argomentazioni della difesa, proprio in questa specifica contingenza, costituirebbero l’elemento più significativo ricercandosi un pioniere illuminato nella contestazione ideale delle fonti normative e della dottrina vigente.
Alla difesa venivano di solito forniti almeno in copia gli atti processuali, strutturati ed argomentati in modo mirato, e quindi l’obiettivo di convincere il presidente era fra i più ardui. Comunque il manoscritto se non parla dell’escussione dei testi, anzi neppure ne nomina, nota invece gli incontri del difensore con le vittime e il favore concesso al sacerdote di ascoltare il colloquio di nascosto al fine di rendersi conto del loro livello di coscienza.
Il Vespignani approva fin dall’inizio la condanna sancita dal tribunale locale: «…pro complemento iustitiae annuendum censeo votis cla-rissimorum Vicarii Clusole et Comissarii de Fraporta, ideoque eandem Dominicam poena mortis et successivae concremationis plectendam ac puniendam fore…» ed è il primo dei 42 punti che compongono il sommario del Votum.
Segue una requisitoria contro la madre, che, tra l’altro, come dice Domenico Antonio Menestrina, resisteva in giudizio ma che ottenne comunque il favore di essere decapitata prima del rogo con un’esecuzione considerata rapida per il reo (in altri casi era la forca o il colpo di mazza, oggi si direbbe la sedia elettrica o l’iniezione letale) mentre la figlia ottenne clemenza, astraendo dal diritto che sanciva la morte anche per la minorenne (come oggi in qualche paese orientale) perché vittima di plagio.
Quello relativo alla sorte riservata alla figlia sembra sia stato l’unico successo della difesa. Ma per l’interpretazione del Votum conviene rimandare all’articolo di più ampia e comparata visuale di Andrea Padovani, che evita di rimarcare le scontate confessioni delle imputate evidenziando l’imputazione principale. Questa concerneva la morte, provocata con arte stregonesca, a quanto emerso dalle confessioni, di una certa Anna Maria, sulla quale il difensore deve aver sprecato il più coerente raziocinio senza poter scalfire la lezione del diritto criminale fino ad allora in uso.
Qualche precisazione aggiunge Domenico Antonio Menestrina. La defunta era Anna Maria figlia del Dottor Comoro di Villa Lagarina, moglie del dottor Benvenuti di Nomi e morta a nove mesi dalle nozze in prossimità del parto dopo 40 ore di agonia col conforto dello stesso Menestrina. Però essa morì «extra iurisditionem», a Nomi, dice il Votum alludendo a una eccezione sollevata invano dalla difesa con riferimento anche a consuetudini regionali, ma senza miglior esito.
L’indisponibilità degli Atti rende impossibile un’analisi del dibattimento quantunque, piuttosto indirettamente e in parte, questo sia rilevabile nello stesso Votum. Le argomentazioni della difesa, rigidamente condizionate dagli atti dell’istruttoria, ben difficilmente possono trovare accoglienza in questa materia per quanto sostenute dalla realistica considerazione dei fatti, dalla naturalità degli eventi, dalla possibile casualità o anche dalle perizie mediche che furono richieste come qui si dice.
Il cardine della piena prova era la confessione dell’intrigo con il demonio, colpa mai redimibile, cosicché un esito fatale come la morte solo apparentemente poteva essere ritenuto la conclusione di un percorso naturale e andava comunque imputato come effetto della causa prima. Situazioni tutte contemplate da un’amplissima e antica letteratura nei compendi dei malefici, nelle opere sulla magia e sui demoni e nei trattati dei criminalisti acriticamente tramandati e aprioristicamente accolti.
Non molto potevano giovare in sede di giudizio a fronte della convinzione del giudice e della dottrina ufficiale le opinioni critiche o divergenti in questa materia comparse ancora come contestazione del Malleus fin dai tempi della sua prima pubblicazione (ca.1486) e che continuavano ad essere attive nella tradizione giuridica italiana ed europea con autorevoli rappresentanti.
Per esempio, i Consilia seu responsa … di Oldrado da Ponte con le sue distinzioni fra sortilegio ed eresia e i forti richiami alla prudenza furono stampati a Venezia nel 1570. Ancora a Venezia nel 1584 si stampava il Tractatus de lamiis … di Giovanni Francesco Ponzinibio che affermava con forza l’assurdità dei patti col demonio, mentre Andrea Alciati a Basilea nel 1582 stampava il Peregon iuris … che esprimeva forti dubbi sulla credibilità dei fenomeni diabolici e la necessità di attenersi ai fatti. Ma l’autore più noto è il gesuita tedesco Friederich von Spee per la sua Cautio criminalis … pubblicata nel 1631 contro la persecuzione della stregoneria e i metodi arbitrari dei giudici.
Più recente, il De crimine magiae … di Christian Thomasius pubblicato nel 1701 in cui con le armi della logica e della ragione si demoliva l’esistenza del crimine di magia. Ma, per una più ampia rassegna degli autori e una meno sommaria citazione, conviene rimandare all’ introduzione delle Lammie di Tartarotti, opera che esaurisce ogni considerazione circa il nostro argomento oltre ad avere il pregio della prossimità cronologica.
Con questo altra cosa è credere che i citati autori entrassero usual-mente nella biblioteca dei nostri giuristi visto che si trattò di una laboriosa ricerca anche per il nostro abate Tartarotti. Potevano comunque rappresentare un bagaglio per i difensori, sebbene più utile alla loro cultura che non alla reale possibilità di incidere nel vigente sistema giuridico.
L’unica via percorribile dal difensore, come in questo processo avviene senza successo, è piuttosto quella di eccepire sulle garanzie processuali, sulla incompetenza territoriale della corte o ancor meglio di cogliere elementi ereticali nel tentativo di trasferire il processo all’Inquisizione Romana, «espediente ben conosciuto e invocato in taluni tribunali italiani – dice Andrea Padovani – per evitare almeno la pena di morte ormai non più inflitta dall’Inquisizione Romana».
L’impegno di Vespignani, pure uomo retto e di limpida coscienza nel confutare le argomentazioni della difesa sembra mirato, come riflette ancora Padovani, a «puntellare un mondo che rischia di crollare corroso dalla progrediente incredulità, diffusa dai banchi degli avvocati e che un giorno, presto o tardi avrebbe potuto attirare i giudici.»
Nel Votum si esibisce una larga disponibilità di corroboranti responsi dei giuristi, criminalisti e inquisitori anche se il Vespignani si dichiara nuovo per simili casi: i testi sacri e le leggi romane, il Corpus, più volte la Carolina, quindi, tra gli altri, lo scontato e classico penalista Prospero Farinacci, il criminalista Francesco Torreblanca col suo De Magia e i due tomi De Demonologia che studia a fondo le questioni di magia diabolica e i fenomeni di perturbazione astrale, il giurista Cesare Carena, inquisitore di Cremona e partecipante al S. Uffizio, autore del Tractatus de S.Offitio e della Cautio criminalis. E inoltre il frequentatissimo gesuita belga Martin Antonio Delrio con il Disquisitionum magicarum libri sex, che ebbe, dopo la prima di Lovanio del 1599, altre venti edizioni.
Ma a proposito del prestigioso Delrio, trattandosi anche dell’unico di cui prende nota il Menestrina, conviene far ancora riferimento al Congresso notturno di Tartarotti, dove nel libro Terzo viene ampiamente richiamato lo Spee e poi sistematicamente in ben nove capitoli demolito il Disquisitionum magicarum e tanti gliene occorrevano per un autore determinante nei tribunali del tempo come Tartarotti stesso afferma: «[…]finchè duri la prevenzione, che Martino Delrio abbia meglio d’ogni altro questa materia trattata, una perfetta e general riforma del processo contro le streghe si può bensì desiderare, ma sperarsi non mai […]». Con ciò il Disquisitionum magicarum ebbe la sua ultima edizione nel 1755.
Anziché illuminarci sulle argomentazioni dell’appassionato difensore, Menestrina prende nota del Delrio, ma quanto alle curiose imputazioni a carico delle condannate, che lui descrive senza manifestare ombra di dubbio, lascia intendere di aver attinto agli atti del processo appunto in qualità di «giurato» qualora il tribunale avesse seguito almeno per approssimazione la prescrizione dell’art. 81 della Carolina dove si dice che giudici e scabini si riuniscono in seduta segreta e decidono «fra di loro» la sentenza sulla base della lettura integrale e della discussione della documentazione scritta raccolta nel fascicolo processuale. È pur facile comprendere, dunque, il ruolo meramente formale degli scabini, privi di una preparazione giuridica di livello tecnico.
Riferisce per esempio il Menestrina l’episodio dei bussolotti e degli unguenti nel quale si intuisce una povera donna, carcerata da venti mesi, la quale lotta e si dibatte prima di naufragare contro le inesorabili convinzioni del giudice. Siccome i Trattati sono pieni di storie di unguenti filtri ed erbe botaniche usati dalle streghe per i malefici, ne consegue che Domenica mente quando sostiene «deffendendo» che si trattava di medicine per curare la figlia. Il pregiudizio del giudice non sembrerebbe, per sottinteso, del tutto condiviso dal cauto Menestrina il quale però osserva più esplicitamente la ribellione e l’audacia di Domenica quando scrive: «ma la madre fu sempre pertinace nel negarle [‘le sue dispositio-ni’] imposturando gli signori inquisitori che l’avessero forzata a dire ciò che non aveva commesso». Ma per un altro rilievo va ancora fatto riferimento alla veneranda costituzione di Carlo V, cioè il trasferimento degli atti del processo al pretore di Rovereto Vespignani, come anche nel processo del 1647 si era richiesta la consulenza del commissario arciducale di Folgaria. La denominazione tecnica di questo istituto, non estraneo alla storia del diritto in tempi e forme diverse ma radicatosi profondamente nel costume giudiziario tedesco, è Aktenversendung, cioè la remissione degli atti del giudizio alla competente corte superiore (o alla più vicina facoltà giuridica) in caso di persistenti dubbi del giudice – e nei piccoli tribunali si trattava spesso di magistrati di mediocre sapere – in ordine a taluni momenti chiave del procedimento, quali il ricorso alla tortura, la valutazione della prova legale o la deliberazione circa la colpevolezza dell’imputato.
La Aktenversendung, come scrive Dezza, segna nel contempo la crisi per molti aspetti definitiva della tradizionale giustizia scabinale. Essa infatti non solo stabilisce un meccanismo di controllo indipendente dall’iniziativa delle parti, ma contribuisce a sviluppare ulteriormente alcuni caratteri della nuova procedura, quali il tecnicismo, la lunga durata e il ricorso sistematico alla scrittura, come un generale rimedio alla gestione consuetudinaria locale della giustizia.
Le ultime battute del processo e il racconto dell’esecuzione della sentenza si devono ora solo al manoscritto di Domenico Antonio Menestrina che è davvero molto emozionante, ma considera marginali i riferimenti al processo rispetto – e questa è la finalità del documento stesso – alle notizie sulla sua attività assistenziale religiosa che inizia quattro settimane prima dell’esecuzione e quindi circa l’ultima decade di febbraio 1717, quando doveva già essere stata convalidata la condanna a morte.
Il 12 marzo l’imputata «ricevè l’annuncio da un notaio di dover morire fra quattro giorni». Ma il 17, essendo giunto il boia con moglie e figlio, tutti e tre programmati a svolgere un loro ruolo, si decise cinicamente di procrastinare l’esecuzione al giorno seguente. Il rituale conclusivo doveva prevedere anche l’emanazione di un proclama che intimava a tutti l’obbligo di presenziare all’esecuzione, tant’è vero che anche la figlia era stata obbligata ad assistere all’esecuzione della madre decapitata con la spada. Qui si intravede a malapena una sommaria versione del vistoso procedimento prescritto nella Carolina. Si dice semplicemente: «scesa la scala della sua detenzione al luogo della Curia nel cui piano si trattenne mentre leggevasi la sua sentenza di morte con li capi de suoi delitti».
In ben 25 articoli la Carolina descrive gli elaborati formalismi della fase conclusiva del procedimento. Teatrale e scenografica è la cerimonia della pubblicazione, come bene ha colto l’iconografia degli auto-dafè, ma certo non consona ai piccoli tribunali di provincia. A sentenza già scritta, il Rechtstag si apre al suono della campana nel luogo ove si amministra la giustizia punitiva.
Il solenne corteo del giudice e degli scabini e l’apertura del giudizio con la declamazione delle formule fisse. L’imputato viene introdotto accompagnato dalla truce figura del boia. L’accusa viene formalmente contestata e due oratori, uno per l’accusa l’altro per la difesa, pronunciano brevi discorsi di cui la stessa Carolina offre dei modelli preconfezionati. Il giudice e gli scabini fingono, in buona sostanza, di deliberare per iscritto la sentenza già decisa prima e la consegnano al cancelliere perché la legga ad alta voce.
Al termine il giudice togato scioglie l’assemblea e, in caso di sentenza capitale, consegna il condannato al boia per l’immediata esecuzione. «Niente più che una cerimonia rituale, dunque. Una cerimonia conservata per rispondere alle aspettative della gente comune e per deferenza verso l’antico costume, ma svuotata di ogni sostanza per impedire che l’incompetenza tecnica degli scabini possa pregiudicare gli esiti dell’inquisizione condotta dal giudice togato».
.L’ASSISTENZA SPIRITUALE DI DON MENESTRINA
Già nelle prime righe del suo scritto, don Menestrina enuncia l’inizio dei suoi guai, e si fa per dire considerando a paragone il destino delle due «streghe» che però molta compassione non dovevano riscuotere in quanto strumenti consapevoli e coscienti del potere del demonio.
Chi viene ad avvisarlo di tener d’occhio quelle due donne è un sacerdote della pieve che vuole restarne fuori perché ha già una precisa idea di che cosa si tratta. Infatti quella piccola Caterina aveva parlato un po’ troppo appunto col fratello di questo sacerdote che diventa per il vicario un importuno confidente e uno scomodo testimone.
Succede infatti che al termine dell’intera vicenda, due anni più tardi, Menestrina dovrà anche giustificarsi presso l’Ufficio spirituale della Curia vescovile di Trento dall’accusa di non aver adeguatamente assistito la piccola Caterina, sopravvissuta di un mese alla madre e morta in carcere di morte naturale il 19 aprile 1717.
Non sarà il caso di ricordare gli angosciosi dilemmi del ben noto personaggio manzoniano, tuttavia il vicario non può esimersi dall’en-trare in un gioco sottile che, in un frangente di questa sorte almeno sotto un aspetto morale, lo costituisce come il naturale punto di referimento.
Questo tipo di reato è diverso dagli altri e coinvolge un potere misterioso dal quale neppure la legge può proteggere. La denuncia deve venire dal corpo sociale per aver forza, o immaginarsela comunque, contro quel potere generale che è del Demonio e l’unico ad impersonare insieme sia un corpo sociale che un potere contro il Demonio sarebbe appunto il parroco o il suo vicario. In questa difficile situazione, in Menestrina sembra prevalere il senso del dovere, convinto com’egli è del suo compito di tutore della collettività e perciò per prima cosa si tratta solo di sapere, non di sopire e troncare, e in questo il vicario assomiglia al probo ma irriducibile giudice Vespignani.
Le iniziative di Menestrina sono così orientate soprattutto alla fanciulla, allarmato anche perchè «offerivasi favoritrice», inclinava cioè alla lusinga e all’aggregazione. Il sacerdote vuole convincersi del demoniaco che si manifesta in queste persone già segnate da un atavico degrado nella storia familiare. Con la prospettiva di un giudizio per la condanna la situazione dellamadre non entra nella sua considerazione. Ma la sua ricerca nei confronti di Caterina, ancor prima della carcerazione, sembra principalmente ispirata da un motivo catartico nell’interesse dell’anima anche se, nel caso di una conversione, non era da escludersi l’ipotesi della commutazione di pena a discrezione del giudice. Infatti Caterina, benché sottomessa e pronta a confessare, verrà salvata a stento dalla pena capitale a motivo del plagio, ma non per questo dimessa dal carcere.
Al suo pubblico dovere verso i fedeli, che, in base alle dissimulate indagini del parroco, si trasferiscono l’un l’altro l’impegno al massimo segreto, Menestrina risponde anche con una disputa catechistica accennata nel manoscritto e della quale però il prudente vicario ci ha conservato lo schema.
Il titolo richiama al classico metodo didattico della Dottrina Cristiana: Disputa. Sopra certe superstizioni. Tale era un contesto appropriato per lo spunto sulle streghe che non doveva restare sottinteso: «Non sono da accettarsi anzi sono illecite certe invenzioni di donne l’insegnamento de quali deriva da più malefiche ch’hanno avuto liga col demonio […]» e dopo qualche tratto sul significato dei segni, l’argomento continua elencando una serie di superstizioni che circolavano in quel tempo fra la gente: riti rurali legati alle erbe come il trifoglio, le felci o il giunco, al numero 13, alla notte in generale o a quella di S. Giovanni o all’Epifania, le propiziatorie per il matrimonio o il parto, per le malattie come il mal del fongo o il mal giallo o le misurazioni col filo del corpo dell’infermo e «con tagliarlo stimano che si sani». Sorprende di trovare qui, citata fra le altre, una particolare fisima che sta forse all’origine di un ben noto detto popolare. Essa presenta un singolare riscontro con un’antica superstizione che va sotto il nome dei «Beneandanti» (individui dotati di poteri unici. Intorno ai vent’anni, essi udivano un rullo di tamburo, che costituiva un invito coercitivo ad uscire dal loro corpo in spirito, per recarsi a fronteggiare – armati di gambi di finocchio – una schiera di streghe munite di sorgo. Dalla prima «chiamata», fino a circa quarantacinque anni, i beneandanti avrebbero partecipato a quelle battaglie; l’esito decideva dell’abbondanza o della scarsità del raccolto di quell’anno. Combattendo con le streghe, i beneandanti avevano la possibilità di identificarle, e questo li rendeva molto stimati nelle comunità; inoltre, si riteneva conoscessero il destino dei morti, pur avendo l’obbligo di non svelarlo. Ammisero di recarsi al sabba per giustificare la loro conoscenza delle streghe. Di fronte a ripetuti ed approfonditi interrogatori gli inquisiti iniziarono a fornire risposte attingendo alle credenze generali; Infine, nel 1649 il beneandante Michele Soppe affermò che i suoi poteri gli erano stati conferiti dal diavolo nel sabba, ma che servivano per combattere le streghe; poiché ormai i tempi dell’Inquisizione volgevano al termine, rimase impunito) rilevata nell’area veneta e friulana fin dal Cinquecento e collegata non a caso con la stregoneria da cui l’interesse verso di essa da parte dell’Inquisizione. Il nostro manoscritto ne riporta una variante della forma originaria.
Nasce tal volta un fanciullo con certa soprapelle che la chiamano la cami-sa, questa la lavano e la mettono addosso alla creatura e portandola così a battezzare, acciò il sacramento stesso serva alla loro superstizione; conser-vano poi tale sporcizia con asserir che tal fanciullo habbi da esser fortunato, ne possa essere offeso da schioppettate. So che più d’uno porta addosso questa sorte di camisa tenendola più cara che un Agnus Dei e intanto son più rissosi et inquieti per la credenza di non poter esere offesi.
Non è forse appropriato il termine di rassegnazione neppure per il parroco Menestrina quando si tratta di accettare le conclusioni della giustizia degli uomini. Ma ora non si da tregua per la riconciliazione di madre e figlia con la giustizia di Dio e, per quanto il suo industriarsi a questo scopo possa apparire al lettore quasi un ulteriore aggravio invasivo nei confronti delle condannate, può anche leggersi come l’estremo gesto di un’umanità negata dalla verità processuale.
Non si tratta solo dell’ordinaria assistenza al condannato a morte, ma di una situazione molto più complessa che richiede una strategia di “deprogrammazione”, come oggi si potrebbe dire. La complessità del caso è data dalla «liga col demonio» e quindi tutto dipende dal successo che potrà avere il soprannaturale rimedio dell’esorcismo «dovendo constringere quel Demonio che le annodava la lingua», un rito allora, come s’è visto, molto frequente e precisamente regolato dal rituale, che lo riserva solo al sacerdote su espresso mandato del vescovo.
Ufficialmente era in vigore il Rituale Romano di Pio V nell’edizione del 1614 che si caratterizza per la sobrietà, ma le fonti alternative, che dal Medioevo si erano sviluppate parallelamente e indipendentemente dalla liturgia ufficiale, offrivano uno straordinario numero di tecniche specializzate e favorivano abusi anche da parte dei laici nonostante i ricorrenti divieti che ne facevano i vescovi. Per esempio anche il notaio Marco Tazzoli, di cui si è detto, doveva essere ammonito di lasciar fare a chi tocca.
È per questo che il 10 febbraio 1717 Menestrina chiede e ottiene dal vicario generale l’autorizzazione per l’esorcismo con la facoltà di subdelegare anche ad altri due sacerdoti della Pieve di Villa, certo in previsione di una grossa fatica. A questa data la sentenza di morte era già stata emessa.
Se l’obiettivo del magistrato è di raggiungere con ogni mezzo la verità, quello del vicario Menestrina è invece la conversione del condannato a partire dalla verità, cioè lo sviluppo di una consapevolezza e di una convincente elaborazione della rabbia e del risentimento tali da consentire un pentimento e quindi la confessione e l’assoluzione sacramentale che però l’implacabile Menestrina non concede con facilità.
Significativa in questo senso è l’amichevole collaborazione dell’av-vocato difensore Bernardino Festi il quale, anche da parte sua con singolare umanità, «ammoniva Dominica à sottomettere sua coscienza nella sacramentale confessione» con l’effetto di provocarle una smaniosa stizza.
Dal manoscritto si rileva l’assillo che coinvolge il vicario, e l’esorci-sta di Cazzano, probabilmente reduce dall’altra esperienza della strega Bartoletti di Brentonico. «Quattro settimane inanzi al supplicio si cominciò dal signor Don Domenico Brunori di Cazzano e da me la fattica di ridurre a la conversione madre e figlia». Ma insieme è tutta una richiesta di pubbliche orazioni ai «RR.mi Arcipreti confinanti di Roveré, Lizzana, Mori, Volano, e Besenello, a’ Reverendi PP. Regolari Carmelitani, Riformati di S. Francesco, Cappuccini e monache a segno che in tutti questi contorni si pregava Dio per tal motivo».
Le pratiche descritte nel documento di Menestrina si avvalgono di una ritualità derivata non dal rito ufficiale dell’esorcismo, quanto dalle produzioni letterarie dei demonologi in cui si tramandavano le più varie e impensabili prescrizioni riprese dall’esperienza o dai riferimenti degli autori.
Menestrina agì «conforme prescrivono gli autori in simile foncione», e ciò a suo avviso poteva bastare. Le rasature, il cambio di vesti, le abluzioni, che troviamo anche nei processi di Nogaredo del 1647, volevano significare per i giudici una precauzione contro il maleficio, e per i religiosi la purificazione e il distacco da una situazione precedente.
A illuminare l’acritica fiducia riposta negli autori, rilevante è qui il riscontro della «taciturnitas», fenomeno esposto già nel Malleus quale estremo espediente del demonio per impedire la confessione dell’imputato. E di una conferma della casistica allora doveva trattarsi quando alle ultime battute la condannata, confusa e sbalordita, non dà più udienza nonostante «li stessi strettoni che furon dati a’ piedi». Ma è anche lo stesso medico Giovanni Battista Chiusole di anni 41, figlio del giudice, a concludere, con un accertamento scientifico, che del demonio si tratta.
Infatti, con una pozione benedetta la si risvegliò per ricevere le monizioni di più e più sacerdoti: una addirittura rintronante assistenza religiosa come a Menestrina preme dimostrare. Tutti presenti fino all’ultimo momento quando, accompagnata dai religiosi oranti la condannata si avvia al patibolo quasi «morto che cammina» in un affollato corteo funebre con la scorta degli archibuggeri.
Rinviando alla lettura del manoscritto di don Menestrina, sarà difficile prevenire le reazioni istintive del lettore e l’inevitabile intreccio tra valutazioni storiche ed emozioni. Tuttavia si suppone che nella coscienza popolare l’integrazione dell’esecuzione si sia realizzata allora senza particolari traumi, meglio sembrerebbe dire con sollievo quantunque manchino le prove per affermare sia l’una che l’altra cosa.
Sta di fatto che, gli allegati di Menestrina documentano ancora una situazione di allarme sociale tale da prorogare la prescrizione dei comuni del 1716 che «sij contribuita buona giusticia».
Dopo l’esecuzione di Domenica Zambanella, il 18 marzo 1717, in prigione restava Domenica Larcher di Piazzo, ossia la donna «tolta dal letto ad un hora di notte» che, lasciatasi morir di fame e impenitente, verrà comunque, secondo le regole, bruciata al rogo sul luogo del patibolo il 29 febbraio 1718. Menestrina non sarebbe tenuto a registrarla nel libro dei morti essendo stata privata della sepoltura ecclesiastica ma non vuole privare i posteri di questo ammonimento e sfoga il suo sdegno con una postuma reprimenda.
Nel frattempo tuttavia una vera febbre sembra essersi diffusa in tutto l’ambiente e sono di nuovo i laici a farsi carico della situazione anche religiosa. Il 5 di agosto 1717 l’anziano Antonio Gasperini di Monte Vignale (questo è il predicato che qui si aggiunge), cancelliere delle giurisdizioni Lodron, e con la sottoscrizione per convalida di Pietro Comoro, presentano all’ordinariato diocesano di Trento una vibrante richiesta di assistenza spirituale. La congiuntura è sempre grave, ma don Tazzoli da solo non può sostenere le crescenti e molteplici richieste degli infermi per benedizioni ed esorcismi quindi i laici premono perché anche don Menestrina richieda di nuovo il mandato vescovile per gli esorcismi. Ma il parroco ora sembra negarsi e, da come l’ abbiamo conosciuto, questo ci sorprende.
[…] hanno pur pregato il molto reverendo don Domenico Antonio Mene-strina vicario di questa pieve per tale impiego et esercitio di così pia opera […] ma pare che si rimostri un pocco renitente, onde sono riccorsi da lui alcuni massari di queste comunità e signori rappresentanti uniti alla pro-motione della destruttione di simili malefiche persone e pregatolo e pregatolo (sic) d’assumere anche lui quest’obbligo per sollievo dell’animi del-l’infermi […].
Pietro Comoro è il padre di quella Anna Maria, morta di parto a Nomi, per opera della strega a quanto s’era detto nel processo. Se non per rivalsa, egli firma per paura avendo in famiglia ancora sette figlie dai 7 ai 24 anni.
Incalzato da massari e rappresentanti della comunità, don Mene-strina stende la domanda di licenza per esorcizzare e le minute di questa lettera zeppe di correzioni dimostrano la sua difficoltà, ma aggiornano anche con ulteriori informazioni le notizie sulla situazione. Cadono gravi sospetti sopra altre donne, scrive. Molti «ossessi et instregati» ricorrono a lui che “deve adoperarsi nelle continue chiamate e sono alcuni mesi che lui ha attaccato e studio e prattica e non solo presso i maleficiati ma anche nelle streghe incarcerate ed altre che senza dubbio saran poste in giudizio”.
Prende nota di alcuni casi: la Curti, la putta di Nogaré con altre due vecchie, in Pedersano la vecchia, due maritati, le due ossesse, altre due sospette di ossesione. Comunque non si ha notizia di nuove condanne a morte, ma si deve considerare che si verificavano delle morti “premature” in carcere, come quella della ‘strega’ di Piazzo o di un’altra donna di Nomi a favore della quale il 30 ottobre 1717 Menestrina chiese l’autorizzazione per la sepoltura ecclesiastica. La ‘strega’ di Piazzo, in particolare, aveva confessato al magistrato i propri misfatti, ma prima della sentenza, invocando «Giesù e Maria», era morta più per debolezza «come si vuol credere» – scrive il vicario – «che da violento attentato contro la sua vita». Ciò forse significa che non aveva subito la tortura o forse che così si doveva dire per evitare un’inchiesta questa volta a carico del giudice.
Le carte terminano qui lasciandoci un insolito desiderio di non proseguire, ma unicamente quello di riporle dove giacevano perché riprendano il loro lungo sonno. L’ultima traccia di don Menestrina nei nostri registri è del 28 ottobre 1719.
IL DOCUMENTO ORIGINALE
Villa Lagarina (Trento) – Documentazione inventariata da don Menestrina, III. 13 Parochialia ministeria in cura et notandis.
SUPER HIS QUAE SEQUUNTUR FIDEM ADSTRUIT P. DOMINICUS ANTONIUS MENE-STRINA DE CIVITATE TRIDENTI VICARIUS ARCHIPRESBITERALIS VILLAE LAGARINAE QUOD OFFITIUM A NOVENNIO USQUE AD 1UM APRILIS 1717 EXERCET ET EARUM ENARRATIO-NEM PROPRIA SCRIPTURA COMPONIT.
Nel mese di maggio 1715 mi fu confidato da un signor sacerdote di questa pieve com’à due persone dell’altro sesso dassi l’occhio di mia vigilanza per aver esso ragionevole motivo di sospettare ch’essercitassero abominevoli prattiche col Demonio, mentre l’una trovandosi a lavorare assieme con un fratello d’esso signor sacerdote in certo campo di sua casa e con la moglie di quello maritati di fresco, qualmente in tempo di notte era portata nel tal sito, che ella accennando notava, a festeggiare con danze e divertirsi con altri tripudij in quel tal luogo, dove si osservava, che mai si raccoglieva grano né uva benché si coltivasse egualmente con tutt’el pezzo del terreno che si ritrova nelle pertinenze di Sasso, villa sottoposta a questa matrice nella distanza di un miglio, e così estendendo il discorso con allegra esposizione offerivasi favoritrice di far assaggiare le medeme soddisfazioni ai due coniugati, quando s’invogliassero, bastando la chiamata di quel signore ch’ella entendeva, ma fu rotto il trattato per la comparsa d’un fratello minore del maritato che reccava il ristoro del cibo, per altro li due ammogliati ben colti nel timore di Dio già pativano rimbrezzo di sangue nell’udire una rappresentatione aliena dalla loro curiosità, che non lusingava il pensiero ad aderirvi, anzi in segno d’avversione palesarono il racconto al signor sacerdote suddetto ed egli a me con limitatione però, ch’egli ne suoi congiunti entrassero in impegno, ma solo un tal segreto mi valesse d’avviso per osservare li andamenti di due persone al suo parere prestiggiatrici e laide nel tenore di sua vita con farmi il nome, ed io l’espongo con le circostanze, che aggiungono riflesso.
Domenica figlia di Nicolò Pedrotti detto Zambanello di Villa e di Catteri-na sua moglie battezata li 7 ottobre 1677, maritata li 9 genaio 1707 con Andrea Campolongo di Norei e destinata alla morte per li 17 marzo 1717.
Qual Domenica indusse sua figlia Catterina, della quale fu il sopraespresso racconto, levata al sacro Fonte li 11 genaro 1702, ma nata di Padre incerto, a seguitarla nelle conversationi del Demonio in que ‘luoghi dov’erano trasportate a notturni divertimenti.
Havuta io questa noticia dal signor sacerdote con impedimento di avvalermi della sua depositione fantasticavo come mi puotessi impiegare per ridur la fanciulla Catterina a la mia confidenza già che non la vedevo confessarsi né comparire a la Dottrina Cristiana che rarissime volte, et all’altrui delatione aggiungevo li miei sospetti divulgandosi nel paese come la madre di Domenica fosse vissuta in concetto di strega morta li 13 marzo 1709, dalla cui casa era uscita una delle cinque streghe qui decapitate e bruggiate li 17 febraro 1647, qual madre di Domenica naturale di Cimon, luogho sottoposto all’arcipretura era uscita da altra casa d’onde essalava qualche fetore di simile malitia, anzi la sorella maggiore della stessa Domenica hora vivente in Tuscolano, havuta illecita corrispondenza con certo huomo maritato di Pedersano, da cui fu ripudiata la moglie, indi con veleno reccatole dentro un cibo di pasta fu dall’istesso privata di vita e si sottrasse fuggitivo con detta sorella di Domenica lasciando che s’inquisisse altro complice che fu condannato alla galera.
Dovendosi pertanto tenere in questa matrice la disputa generale della dottrina cristiana nel giorno della ss. Trinità et havendo io richiesto sedili dalle case più riguardevoli per apparare il circolo a le persone signorili, capitomi con l’offerta di quelli una figlia del signor Dotor Giovan Pietro Comoro nella canonica con Catterina Pedrota detta Zambanela, quale in tal congiuntura ricercai se si comunicasse, sendomi però noto, che non l’aveva admessa per essere trascurata nel venir ad imparare li Fondamenti della santa Fede, ed a punto rispondendomi non havere licenza di communicarsi ripresi dolcemente la sua inhabilità resa per proprio diffetto incapace del sacramento, e m’inoltrai a di-mandarle se almeno si fosse confessata la Pasqua scorsa, e rispostomi che avanti li Padri Riformati di S. Rocco fuori di Roveré assieme con la signora Comorra moglie dell’antescritto, la stimolai che venisse a confessarsi nella sua Matrice. Qualche giorno doppo vedendo non avermi obedito preghai detta signora poi-ché nella sua casa era frequente Catterina come pure sua madre Domenica, ma con tutte le persuasioni ch’adoprò la stessa signora non vi fu mezzo di ridurala a la confessione, servendomi solo tal attentato per mia magior gelosia.
Venne poi a prestare servitù in una casa vicina a la piazza della canonica nel tempo che si fabrica la seta, et era nel mese di luglio dell’anno 1715, quando insinuai il mio desiderio a la donna padrona di essa casa, dalla quale ammonita non si puoté piegare, anzi più che mai schiffava la scola della dottrina, finse bensì una volta di ubbidire e si portò verso la chiesa, ma non vi entrò torcendo i passi per la campagna e trasportatasi di là dall’Adice fu ad abboccarsi con la madre in Roveré dove s’era collocata a la maestranza della seta e doppo questo abboccamento mostrò magior ripugnanza a le mie chiamate che replicai più volte ciové in tutti l’incontri che m’incontrano a vederla.
Visto che non mi riusciva qualunque interpositione presi altro partito, forse così inspirato da Dio, e fu che comparendo un dì festivo magior quantità di popolo a la Dottrina, raggionai in detestazione delle stregharie con premeditata energia a motivo di lasciar dell’impressione, con dichirarmi d’averne occasione, acciò l’anime si guardassero da perfidi insegnamenti di persone collegate col demonio massime la gioventù incauta e facile ad aderire all’indutioni. La sera di tal giorno festivo fui a trovare la donna che teneva in casa la giovane Catterina e la dimandai se si era trovata a la dotrina e posta attenzione al mio parlare s’alterò alquanto nel timore ch’avessi inteso notare la giovane e comprenderla nel titolo ch’avevo dato al mio assunto contro il mestiere di quelle donne che stavano nel partito del demonio e già risolveva di sbrigarsi d’essa Caterina ma migl’opposi col dire che riservasse il suo giudizio fin quando io havessi ritenuta maggior certezza, che sarei seco a la caldera della seta il di seguente per dare alcuna instruzione a sua figlia d’anni 22, d’onde rimovesse la giovane Catterina con pretesto di spedirla ad adacquar un hortalia a se appartenente. Tanto essequij accostandomi al tal luogo nel meriggio quando la gente non puotesse notare il mio abboccamento con persone di sesso differente; premessa la confidenza di ciò che volevo significare m’espressi essere necessario che detta figlia si premunisse de sacramenti della confessione e communione per poi intraprendere quanto le haverei insegnato per rilevare ciò che concepivo e doppo ciò non temesse di mal incontro mentre trovandosi sola con Catte-rina dovesse introdur discorso di tal tenore.
Quando mi vado a confessare non vuorrei sottommettermi all’asprezze del Vicario nell’esposizione di mia coscienza perché ressiste all’allegrie della gioventù ne ci permette a noi giovani il divertimento de balli, sgridandoci con veemenza quando tal volta vi siamo state, come a me è accaduto di sentire sue romanzine per tale licenza commune a noi fanciulle. Sopra di che le permisi che dicesse di me il male che volesse. Rispose Catterina a questo proposito che si saria annegata nell’Adice piuttosto che lasciarsi reggere da me perché frequentava di notte tempo certi festini di gran sodisfattione, su che l’altra replicò / come m’avevo contento che saria sbalzata / dove si tengono questi festini che tu dici? Confidamelo che teco vi concorrerò e a pocho a pocho manifestò li tripudii che riceveva dal lusinghiero, da lei chiamato quel signore, assieme con copia d’altri soggetti ch’ella non conosceva e se s’invogliasse d’andarvi saria venuto un giovane a condurla et entrerebbero in vagha sala dove si distribuivano confettioni entro coppe d’argento e sariasi vestita con manto di dama, proseguendo a descrivere tutti gli spassi che vi si tenevano con questo però che non nominasse Gesù né Maria. Un giorno doppo mi confesò la giovane il ricevuto racconto come l’avevo costretta par honor di Dio et ubbidienza e la persuasi chiamare altra sua compagna di manco età, ma più aperta d’intendimento quale unita con maggior animo ambedue proseguissero ad informarsi premesse le disposizioni già da me insegnate a la prima di non lasciarsi lusingare da impulso di curiosità, ma da quello che mi moveva di fondarmi nella cognizione
di quella consortella che serpeggiava nell’anime, sospettando, che si come ul-tuoreamente haveva tentato Catterina allettare li due maritati di Sasso così passasse sue conversationi con le fanciulle più tenere co’ quali pratticava qua e là per le case; desisti] fra tanto quattro giorni da prendere voci dell’ulteriore discorso che si teneva fra quelle fanciulle, immaginandomi che non haveriano tacciuto di manifestare questa noticia col farla ridondare ad altre orecchie e così io non mi farei autore della vociferazione quale à punto udita da altra vergine spirituale di nobil casa e di età matura andò questa a consegliarsi con un P. Confessore Riformato del convento di S. Rocco se fosse espediente persuadere li padroni di casa dove era appoggiata Catterina al servitio della seta che la sbrattassero da’ suoi tetti, fu anzi ammonita operarsi si che le usassero ogni charità per liberarla dalli intricchi del demonio e si relevasse la verità con ogni sforzo, come in questo si adoperò portandosi al luogho della caldera e col mostrarsi vagha d’intrecciare racconti faceti venne a toccare li divertimenti che ricava la gioventù dal ballo. Allora Cetterina sbalzò ad aprirle quelli in che si giudicava favorita e già ch’à due altri li aveva descritti non hebbe ritegno di replicarli a questa 3°, con nuove circostanze non ancora a li due prime esposte.
Si sparse indi per la vicinia il rumore quale pervenutomi all’orecchie chiamai fuori di chiesa dove faceva il suo bene detta signora e mi fecci raccontare per disteso quant’era passato intorno a que’ discorsi tenuti da lei con Catterina e fondandomi nel mio giudicio ruminavo come avessi da intraprendere una necessaria insinuatione al Publico si perché fossero custodite le creature tenere da quelle infermità che toccano i corpi senza causa naturale, come l’anime de-gl’adulti dal contagio di quelle perversità nelle quali il Demonio induce per mezzo de suoi ministri.
Rilusse la congiuntura entro una staggione penuriosa di pioggia per la cui siccità s’insteriliva di fruttami la terra e si prevedeva scarsissimo l’autunno della vendemia e de ritorni, quando il popolo si mosse a far ricorsi a Dio con pubbliche orationi conforme mi fu fatta istanza ed allora mi spieghai havere ragionevoli riscontri d’un gran male ch’impediva il Divino soccorso forse pe’ l poco zelo della congregazione della cristiana dottrina la cui mancanza dava adito a certe colpevoli ignoranze che non lasciano conoscere li principi] di Santa Fede e per tal cosa riusciva al nemico di offuscare le menti di certe persone che con facilità embebivano viti] perniciosissimi al territorio e questi venivano insinuati à la tenera gioventù com’io n’avevo noticia.
Raccoltisi assieme alcuni di buon seno a’ quali era traspirato per relatione pure di altri il successo di que’ discorsi ch’avea tenuto Catterina con l’altre fanciulle, risolsero denunciarla al Clarissimo signor Giudice quale fece condurre a le carceri la medema e subito esaminata depose haver ricevuto dalla madre li insegnamenti. Perciò per catturare ancor questa che si trovava in Roveré le fu spedito un commesso con finto avviso che sua figlia fosse gravemente offesa d’una caduta, ciò che inteso si mosse celermente verso Villa dov’avvista-ta da’ sbirri fu gettata nella priggione e doppo alcuni mesi constituite avanti a detto sig. Giudice e due sigg. aggiunti che instruirono il processo d’ordine dell’eccellenza illustrissima signor conte Primogenito ch’è il Reggente delle giurisdizioni di Castellano e Castel Novo. Invano con lungo esame convinte delle diaboliche reità da esse commesse sopra le quali l’Ill.mo sig. Podestà di Roveré à richiesta della prefatta Ecc.za esaminato il processo diede voto decisivo di simile tenore che Domenica detta Zambanella dovesse lasciar la testa per mano del Carnefice a’vista della figlia Catterina, indi bruggiato il corpo si seppellissero le ceneri nel medesmo sito come si eseguì a’ pie’ del colle dove sta piantato il patibolo e la figlia da quel spettacolo si riconducesse a la priggione dovendovi restare fino all’altra deliberatione. Quattro settimane inanzi al supplicio si cominciò dal signor Don Domenico Brunori di Cazzano e da me la fattica di ridurre a la conversione madre e figlia. Questa da diversi interrogata si confermò sempre costante nel confermare le sue dispositioni, ma la madre fu sempre pertinace nel negarle imposturando gli signori inquisitori che l’avessero forzata a dire ciò che non aveva commesso.
Sendo noi al banco della verità preghammo un giorno il clarissimo signor Dottor Bernardino Festi ch’era stato deputato a le diffese che s’accostasse a la priggione occultandoci noi a sentire l’esito delle di lui persuasioni co’ quali ammoniva Dominica à sottommettere sua coscienza nella sacramentale confessione obbligandola a tanto col raccordarle le cose a sé confidate, smaniando di stizza nel sentirsi convincere e noi ci tolsimo dal dubbio di riputarla innocente ma dovendo constringere quel Demonio che le annodava la lingua spedij mie preci al Rev.mo Ufficio Spirituale di Trento per la facoltà di esorcisare, di ricevere l’abiuratione e di assolvere da’riservati com’anche di estendere la medesi-ma facoltà in subdelegazione al predetto signor don Brunori et al molto rev.do signor don Marc’Antonio Tazzoli, quale ottenuta si cominciò l’esorcismo il 1°giorno di marzo adoprando un pezzetto di Croce di Nostro Signore conservata in questo santuario tra l’altre preciose et insigni Reliquie, ed ecco dopp’un’ora svegliarsi il demonio e mostrarsi ossessa la donna con crudi contorcimenti et urli strepitosi. Come si continuò doppo pranzo senza puoter ancora ricavar la di lei confessione ma nel giorno seguente fra li continui turbamenti del maligno cominciò la donna doppo molte preci a sgravarsi delle sue colpe dataci licenza a due di conferire assieme per magior sollievo dell’anima sua notando via da lei la confessione perché dal suo ripondere al nostro esame risultava il bisogno d’ulteriori investigationi e la memoria ci servisse nel replicarla fin al tempo dell’assoluzione.
Cinque giorni durò tal esercitio ciové fino a li 6 del detto mese di marzo giorno di sabbato. La Domenica seguente raccomandai al pubblico popolo nella chiesa che si offerissero preghiere ferventi per la piena conversione di questa donna ed anche della figlia havendo altresì fatto l’istesso la domenica scorsa col mezzo pure del molto Rev.do signor don Giacomo Barberi curato d’Isera e predicatore quaresimale in questo pulpito e nelle figliali d’Isera, Po-marolo, S.Giorgio, Castellano, Nomi e Pedersano, come medemamente insinuai // per mezzo di interposte persone // a’ RR.mi Arcipreti confinanti di Roveré, Lizzana, Mori, Volano,e Besenello, a’ Reverendi PP. Regolari Carmelitani, Riformati di S: Francesco, Cappuccini, e monache a segno che in tutti questi contorni si pregava Dio per tal motivo.
Prima di cominciare tal esercitio disposimo la donna a lasciarsi radere i capegli, mutar vestiti, lavarsi con acqua santa, purgar el carcere del lettamaio e coperta conforme prescrivono li Autori in simile foncione, avendo anche ottenuto dal clarissimo sig. Giudice che ci fosse condotta in una stancia più comoda mentre noi ci impiegassimo. Cinque volte doppo ci facemmo ratificar la confessione occorrendo nuova materia di dispositione, in fin havuto segno di pentimento li 13 detto premessi li requisiti assolsi io sacramentalmente la donna et a’li 14 che fu la domenica di Passione nel condursi dal carcere a la chiesetta apparecchiata con altarino, immagine del Crocifisso e di Maria Vergine e lumi accesi ricevè l’annuncio da un notaio di dover morire fra 4 giorni. Per tal dispositione l’istesso giorno invitai il popolo a venerare sotto la messa cantata e vespri il SS.mo Sacramento esposto, sendosi compita la funcione col canto delle litanie de santi e preci.
A dì 15 detto fu instruita nella cognitione del Santo Viatico che haveva da ricevere il giorno seguente e poi cadde per opera del Demonio in finto letargo fuori di sensi restando in tal stato più di 4 hore e per conoscere questo deliquio chiamai il signor medico Chiusole quale dal polso conobbe l’inganno del demonio che toglieva da noi l’attenzione della donna acciò non si disponesse a la morte per li 17 del giorno vegnente, anzi rimaneva assopita ne sensi sotto li stessi strettoni che furon dati a’ piedi.
Per isvegliarla però si benedì una potione reccatale e con precetto riducessimo la medesima a ricevere l’ammonitioni di più sacerdoti e di due pp. Regolari assistenti l’uno de quali era il R. P. Guardiano di S. Rocco e l’altro il molto R. P. Serafino Maria Celi comparso questo da lungo viaggio qui due giorni inanzi mosso da religioso zelo di cooperare a la salvezza di quest’anima come ha fatto.
Ma sendo giunto doppo ’l meriggio il carnefice non si eseguì il supplicio diferitoli al giorno seguente dei 18 nel cui mattino con le limosine raccoltesi dal popolo concorso ad essere spettatori si celebrarono buon numero di messe.
Si principiò a confortarsi la donna tre hore inanzi che si incaminasse ala morte con la possibile charità, havendo procurato con preci, con persuasione efficace di tutti li religiosi e sacerdoti presenti nella chiesetta animarla alli ulti-mi passi che furono, scesa la scala della sua detenzione al luogo della Curia nel cui piano si trattenne mentre leggevasi sua sentenza di morte con li capi de suoi delitti, frastornata però dal sentirli dal continuo conforto de due soprannominati religiosi quali la custodivano ai lati, indi precedendo la Confraternita del ss. Sacramento e li sacerdoti dell’Arcipretura con altri venuti altronde e spalleggiando la via la milizia del paese con archibuggi per levare qualsiasi disordine a’vista di molta gente sposta su le finestre di Nogaré e per la stradda in tutto il tratto per cui si conduceva al supplicio. Ivi giunta fu posta a sedere sopra un sgabello piantato nel suolo e legata per dietro dal figlio del carnefice, la moglie di questo le tagliò le spalliere del busto, mente io la assolsi in articolo di morte, indi, bendati gli occhi con birretone con un sol colpo di spada le fu troncata la testa, ed all’udienza de circostanti fu rappresentata questa tragedia da un funesto discorso dell’accennato molto rev. P. Serafino che prese l’argomento dal spettacolo ivi successo per atterrire li malefici e quelli che si fidano del Demonio quale riduce a questi passi coloro che con esso si collegano.
Con la fanciulla Catterina prima di ricevere sua confessione si premise lo stesso metodo quant’a la recisione de capegli, lavanda con acqua benedetta mutande di vestiti e nettezza del carcere, sendosi transferita in altra stancia dov’espose sue colpe e doppo qualche giorno repplicata la confessione et adempite l’altre parti la assolsi e il primo giorno di Pasqua doppo la debita instruzio-ne fu comunicata. Si supplicò che non comparisse sotto gl’occhi della madre per non essere in stato d’esporsi all’ambiente dell’aria ch’era lo stesso che condurla a la morte a la quale non era condannata trovandosi talmente disseccata della carne e senza vigore di puotersi muovere ch’era prossima a lasciare la spolia del corpo (quale abbandonato dell’anima sarà bensì infossato in luogho sacro ma senza solenni funcioni ed ingresso della chiesa) (1). Fra tanto su la mezza notte del mercordì doppo Pasqua fu staffilata dal demonio per avere rinunciato a la sua amicitia e ’l venerdì seguente alla stessa hora fu di nuovo assalita e come riferì a custodi del carcere hebbe nuovo comercio dal maligno del che io avvisato feci nuovo esercitio per aiutarla li 7 et 8 aprile nel cui giorno le amministrai l’oglio santo seguita la morte infelice della madre. Doppo ricevè continua assistenza dal signor don Marc’Antonio Tazzoli fin alli 18 del medemo mese all’hora che rese l’anima e fu sepellito il corpo in questo cimitero senza funtione solenne e senza tocco di campane.
Questa fanciulla in tutte le sue conversationi con altre sue eguali di età non parlava che di giubili e sempre si poneva a ballare nelle case, in campagna, né filodi e procurava indurli a meddemi festeggi, ne mai discorreva di cose sante ne di far orazioni anzi si offeriva di portar avvisi e saluti di giovani amanti benché le compagne non sentissero ancora stimoli di malizia. La madre lasciva scorreva d’una in altra casa questuando più cose e godendo in propria casa di più illecite amicitie dalle quali retirava guadagno mediante l’esposizione del suo corpo a la disonestà, dimostrandosi altresì pronta a’ serviggi di quelle familie che la richiedevano riuscendo nel travaglio con gradimento di chi la impiegava. Venea non ostante in continuo sconcerto col marito quale in 12 anni dell’età di Catterina la diflorò con incestuoso comercio e pratticò seco più volte con sfrenata libidine trahendola a suo beneplacito nelle proprie disordinatezze, sendo per altro difettata con marche di grof-foli apparenti nel collo quali per levarli la madre usava diverse untioni, procurando unguenti, per il che puotè alcun tempo sottomessa al constituto che tentava convincerla col ritrovato corpo de’ suoi delitti consistente ne’ bussolotti che contenevano tali unguenti non di sanare la figlia, ma provenuti da’ donativo del Demonio, deffendendosi essere essi quelli che contenevano le ricette applicabili a’ la figlia, ma confessò poi e li riconobbe per quelli che conservavano l’untioni adoperate per andare a’ divertimenti notturni, e le polveri conservate in altri vasi o cartuccie esservi le malefiche applicationi ch’infondeva ne’ cibi di quelle persone che doveano infermarsi, havendo disposto d’aver data la morte a la signora Anna Maria figlia del signor Dottor Comorro moglie del signor Dottor Benvenuti di Nomi 9 mesi dopo il mari-taggio quale sendo prossima al parto morì ed io le ho assistito qualch’ora delle 40 nelle quali duravano le sue angustie mortali senza poter articolar parola ne conoscere alcuno con convulsioni compassionevoli.
Oltre di che risulta dal processo aver toccate diverse donne e fanciulli con maligna intenzione sendo restati altri ammalati ed altri Dio sa quanti, morti. Eccitò cattivi tempi col patuito segno di alzar le mani ed estendere le dita ed a’ proportione del loro numero si dilatavano le tempeste su la campagna. Franse un Crocefisso e stritolatolo in polvere l’adoprò per compositioni malefiche né l’altre malvagità si puono senz’orrore ramemorarsi deducendosi da tutto questo l’infelice stato in cui si trovano quell’anime che si riducono a tanta empietà di farsi seguaci del Principe delle tenebre con abusarsi delli stessi mezzi che servono a la salvezza, per dannarsi eternamente tutto che siano maltrattate tali persone dal crudele Demonio qual schiave mentre se preteriscono alcun precetto di si fatto Padrone vengono ne’ congressi infami rigorosamente bastonate con comune ludibrio, dal che ne insorge che se bene desiderano sottrarsi le riesce impossibile perché il maligno le impedisce ogni dispositione con proibirli l’orationi, li discorsi Parochiali, le Prediche, la Dotrina Cristiana, lasciandole solo accostarsi a’ Sacramenti per valersene nelle maggiori offese di Dio fin con mordere rabiosamente la sagratissima Eucaristia, schiffando li Sacerdoti, come dichiarò a me, dicendo, che quando mi vedeva sentivasi un non so che tremore per la vita, perciò procurava evitarmi; così sono aborriti li sacerdoti che governano l’anime da simile razza, mettendoli il Demonio in mente la loro avversione a’ fine che non le venghano inanzi per scuoprire li suoi inganni.
Correndo poi pubblica voce fondata sopra sufficenti indizi contro Domenica moglie d’Antonio Larcher di Piazzo e da alcuni anni inanzi sospetta fu denonciata al Clarissimo signor Vicario e fatta istanza dal pubblico ricorso che fosse incarcerata come quella che poteva havere reati non pochi di diaboliche intelligenze, ad un’hora di notte fu tolta dal letto li 4 aprile e condotta in prig-gione, dopo di che constituita ha già deposto essere seguace del Diavolo e s’at-tendono gli ordini dell’eccellentissimo […] Giusdicente per istruire il processo e procurare di purgar il paese d’ogn’altra malefica si come alcuni giorni doppo fu pure detenta altra donna di Castellano verisimilmente caduta nelle stesse malvagità.
Posso dire io della donna di Piazzo d’averla conosciuta per tale quale vien diffamata la sera del Giovedi Santo quando la fecci chiamare e la ammonii a pentirsi offerendomi d’aiutarla se si fosse messa nelle mie mani come mi promise ma non manteneva sua promessa benché le facessi conoscere ch’a me non si poteva occultare ne negarmi in prova di che facendole recitar il Simbolo della fede mentre lo diceva feci un precetto, sperimentale o probativo, di tal sorte: precipio tibi aut vobis si es aut estis demones in hoc corpore ut non sinas aut sinatis eam proferre sanctum articulum» come non potè in tre volte che lo fecci riasumere, prononciare, havendo giudicato lecito il scongiuro non solo per più segni probabili che mi diede con la sua presenza ma per haverla resa convinta si che non mi neghò d’essere una stregha come le protestano di conoscerla e che mi sarei impiegato a liberarla dalle mani del demonio se aderisse a’ miei avvisi per altro era il popolo in procinto di consegnarla all’humana giustizia e mi rispose che saria venuta a’ confessarsi ma doppo saria andata quant’i piedi la portassero, fra tanto che discorrevo fissavo il guardo ne suoi occhi che comparivano con terribile guardatura ne puoteva fermarli sul mio volto quantunque glielo comandassi.