a cura di Cornelio Galas
« E’ stata così,
m’ han tradito,
e mentre correvo fuggendo
m’hanno sparato e colpito.
Caduto, il sangue
dal petto ferito scorreva
bagnando la terra »…
(da una poesia di Italo Marcon, in memoria di Sabatucci)

Francesco Sabatucci
Francesco Sabatucci, il partigiano “Cirillo-Franco”, Comandante della Brigata Garibaldi “Padova” fu catturato e ucciso all’età di 23 anni, dalla “banda Carità”. Ne propongo oggi la storia, prima di altre testimonianze dei “prigionieri” di Villa Triste a Padova e i primi atti processuali.
Ecco quanto scrive Alessandro Naccarato:
“Francesco Sabatucci nacque a Bologna il 22 febbraio 1921. Iscritto alla facoltà di Magistero a Roma, fu chiamato alle armi nel marzo del 1941. L’8 settembre del 1943 si trovò a Spalato, in Jugoslavia, come sottotenente carrista dell’esercito, presso il Reggimento corazzato “Lancieri Vittorio Emanuele II”.

Francesco Sabatucci (a destra) con un commilitone
Il 12 settembre, giunto a Dubrovnik, si rifiutò di consegnare le armi e combatté contro i tedeschi fino all’ordine di resa. Sabatucci, fatto prigioniero, fuggì dal treno che lo stava trasportando in Germania e si unì alle formazioni partigiane jugoslave come istruttore e comandante di un reparto di carristi. Rientrò in Italia nel novembre del 1943 e operò con i partigiani nelle zone di Bologna e di Reggio nell’Emilia.
Il 28 maggio 1944 partì da Bologna e si aggregò al distaccamento partigiano “Tollot”, operante sul Col Visentin; dopo pochi giorni raggiunse le formazioni garibaldine “Mazzini” nell’alto trevigiano con il nome di battaglia “Cirillo”.

Francesco Sabatucci
Il 15 luglio comandò il leggendario attacco al Ponte della Priula. Con un gruppo di pochi uomini disarmò e catturò i soldati cecoslovacchi di guardia al ponte ferroviario, importantissimo obiettivo strategico e militare, più volte bombardato invano dall’aviazione alleata, e lo fece saltare.
In seguito a questa azione fu nominato da Amerigo Clocchiatti, allora Commissario politico di tutte le Brigate del Veneto, comandante di battaglione. Nelle settimane successive fu protagonista di numerose iniziative che culminarono nella conquista e nel controllo della zona a nord del Piave comprendente i comuni di Soligo, Solighetto, Col San Martin.

Amerigo Clocchiatti
Durante l’offensiva tedesca e fascista di fine estate 1944 e i violentissimi rastrellamenti sul Cansiglio, “Cirillo” guidò la ritirata e lo sganciamento di circa 800 partigiani durante 5 giorni di continui combattimenti. Sabatucci mantenne in collegamento i singoli gruppi esponendosi a rischi enormi e dimostrando un coraggio eccezionale.
Portate in salvo le formazioni partigiane, si trasferì a Treviso, dove, attivamente ricercato da tedeschi e fascisti, sfuggì più volte per miracolo alla cattura.

Francesco Sabatucci
Nel settembre 1944, ormai sempre più popolare e stimato tra i partigiani, fu incaricato dal commissario politico della Nannetti di risolvere il caso di un gruppo, vicino alla Resistenza, dedito al furto e alla rapina. E così dopo il processo e la condanna contro la “banda del Min”, fu proprio “Cirillo” a eseguire la sentenza di morte contro i due colpevoli.
Dopo questa vicenda Clocchiatti nominò Sabatucci comandante della Mazzini. A metà del mese di novembre 1944 il Comando regionale delle brigate “Garibaldi” lo nominò comandante della brigata Padova.
La situazione in città era critica: dopo l’offensiva di ottobre, infatti, la brigata Garibaldi stava subendo i rastrellamenti e la violenta reazione dei tedeschi e delle Brigate Nere. Inoltre il proclama del generale Alexander del 13 novembre iniziava ad avere i primi effetti di disorientamento e sfiducia da parte dei resistenti.
Prima dell’arrivo e dell’effettivo insediamento di Sabatucci, il 27 novembre, venne arrestato, in seguito alla delazione di una spia, quasi tutto il gruppo dirigente della brigata “Garibaldi”.
Nel pomeriggio soldati tedeschi e italiani fecero irruzione nella sede del Comando Militare regionale garibaldino in Riviera Paleocapa e nella sede dell’Intendenza in via Cristofori.
Furono catturate circa 200 persone, tra cui Attilio Gombia (Ascanio), Rino Gruppioni (Spartaco), Giuseppe Banchieri, i massimi dirigenti politici e militari del Partito Comunista in clandestinità.
Questi furono condotti a Palazzo Giusti e torturati ripetutamente dalla banda Carità, ma non rivelarono alcuna informazione utile ai nazi-fascisti.

Francesco Sabatucci
Sabatucci, che nel frattempo aveva cambiato il nome di battaglia da “Cirillo” in ”Franco” per cercare di sfuggire alla fama che lo accompagnava ormai in tutto il Veneto, iniziò subito a lavorare per riorganizzare la brigata “Garibaldi” e impostò le condizioni per una nuova offensiva generale per il mese di gennaio 1945. Non fece in tempo vedere realizzato il suo progetto.
Sono rimasti alcuni documenti che attestano il lavoro preparatorio di Sabatucci e che aiutano a delineare un profilo non solo militare e pratico dell’uomo ma anche le notevoli capacità politiche, teoriche e umane.
L’esperienza di quasi sedici mesi di lotta partigiana ha reso “Franco” un combattente lucido e meticoloso, preoccupato della tenuta organizzativa della brigata di fronte alla feroce offensiva del nemico, e attento al rapporto con la popolazione, soprattutto quella contadina, che rischiava di allontanarsi dai partigiani per paura delle rappresaglie nazi-fasciste che seguivano ogni azione della Resistenza.
Sabatucci insisteva molto sulla disciplina interna alla brigata, condizione fondamentale per essere apprezzati dalla cittadinanza; per questo specificava che il furto, di qualsiasi genere e di qualsiasi entità, e l’ubriachezza sarebbero stati puniti con la pena di morte.
Del resto “Franco” aveva imparato dall’esperienza diretta della “banda del Min” cosa significava il furto per le Brigate Garibaldi: un danno a tutto il movimento della Resistenza, che colpiva alla radice la credibilità e la dignità dei partigiani.
I nazisti e i fascisti, rincuorati dai recenti successi repressivi, dalla brusca frenata dell’avanzata anglo-americana e dal proclama del generale Alexander, pensavano che l’inverno del 1944 avrebbe segnato la fine delle attività partigiane.
Questa aspettativa doveva scontrarsi con una ripresa intensa delle azioni della brigata, azioni mosse dall’obiettivo di fondo della tattica dei GAP e delle formazioni garibaldine: colpire il nemico nel momento e nei luoghi dove si sentiva più sicuro.
“Franco” aveva bene presente che le rappresaglie e le violenze bestiali dei nazi-fascisti avevano l’unico obiettivo di impaurire i partigiani e le popolazioni civili; perché il nemico aveva un unico mezzo per battere la Resistenza: il terrore.
“Ma – ammoniva il comandante della brigata, parlando anche a se stesso – il terrore convince solo i pavidi”. I coraggiosi, le persone mosse da un’ideale alto e giusto, non si piegano, non si lasciano fermare dalla paura. Per questo, secondo Sabatucci, il patriota doveva avere disciplina, coscienza di lotta, fede nell’ideale di libertà e abitudine al rischio.
Infine un’annotazione che descrive in maniera perfetta il carattere e le idee di “Franco”: i partigiani migliori dovevano fare comprendere con il proprio esempio il significato della lotta.
La Resistenza dunque è la lotta decisiva per la libertà degli italiani, nella quale impegnarsi direttamente, in prima persona, senza risparmio, lottando senza tregua, che deve essere affrontata con coraggio, anche a costo della vita. Infatti, scriveva, “la morte è solo l’offerta della vita che si fa alla causa che è già costata tanto sangue in questi ultimi ventidue anni”.

Francesco Sabatucci
Il destino era in agguato. Fu proprio la paura a spingere un ex partigiano a tradire il suo comandante. Fu proprio Sabatucci, come si addice a un vero capo, a dare l’esempio di come si muore in maniera coraggiosa, senza timori.
L’intendente della brigata, Cesare Broggin, arrestato dalla banda Carità in seguito alla retata di fine novembre, tradì “Franco” e lo attirò in un falso appuntamento.
Il 19 dicembre 1944, su ordine del maggiore Mario Carità, comandante della omonima banda, tristemente famosa per i tanti delitti commessi, un gruppo di uomini si appostò in attesa di “Franco”. E così all’incontro nei pressi di Prato della Valle, vicino al palazzo Esedra, Sabatucci trovò ad aspettarlo non solo Broggin, ma anche i sicari di Carità.

Mario Carità (al centro)
Antonio Corradeschi e Ferdinando Falugiani fermarono Sabatucci e, mentre lo stavano conducendo verso Mario Chiarotto, che aspettava nascosto dietro all’edicola di via IV Novembre, “Franco” si divincolò e iniziò a correre. Dopo un brevissimo inseguimento, Corradeschi sparò per primo con la pistola, subito seguito da Chiarotto e Falugiani che fecero fuoco con i mitra.
Sabatucci cadde colpito all’inizio di via Configliacchi da almeno trenta colpi, come venne accertato a posteriori dai testimoni oculari dell’omicidio. Impotenti, videro l’arresto e la fuga Aronne Molinari, che prese nei giorni successivi il posto di Sabatucci, e il partigiano dei GAP, Boris.
Entrambi avevano appuntamento con “Franco” e lo stavano aspettando davanti a palazzo Esedra. Si salvarono grazie a lui, generoso ed eroico anche nella morte, che scappò in direzione opposta alla loro, senza farli scoprire.
Udirono i colpi di mitra e fuggirono con ordine e circospezione, come previsto dalle regole della clandestinità. I partigiani riuscirono, caso unico durante la Resistenza, a fare pubblicare su “Il Gazzettino” il giorno dopo, il 20 dicembre, il necrologio per Franco Sabatucci. Il fatto fu davvero eccezionale, tanto che in poche ore, quando qualcuno si accorse del testo, il giornale venne ritirato dalle edicole.
La brigata “Garibaldi” prese subito il nome di Sabatucci, che ricevette, postuma, la medaglia d’oro al valor militare. A guerra conclusa vennero celebrati i funerali di “Franco” insieme a quelli di altri tre valorosi partigiani, Manlio Silvestri, Gustavo Levorin, Giulio Contin. La cittadinanza onorò i caduti in forma solenne con una partecipazione straordinaria e commossa.
Per volontà della madre, il corpo di Sabatucci venne sepolto a Pieve di Soligo, tra i caduti garibaldini della brigata “Mazzini” e vicino ai luoghi che lo videro coraggioso protagonista della guerra di liberazione.

La madre davanti alla tomba di Francesco Sabatucci
Nel necrologio per Sabatucci, pubblicato su “Il Gazzettino di Venezia” del 20 dicembre 1944, i compagni di “Franco” avevano giurato di vendicarlo. E infatti nei mesi successivi alla Liberazione i responsabili del tradimento e dell’uccisione di “Cirillo” furono tutti individuati e processati con esiti diversi.
Mario Carità, come abbiamo già scritto, fu ucciso il 18 maggio 1945 vicino a Siusi, nella Val Gardena, mentre provava a nascondersi, probabilmente diretto, come tanti altri nazisti e fascisti, in Austria. Il comandante della banda di criminali e assassini che aveva terrorizzato Firenze e Padova venne trovato insieme all’amante Emilia Chianti e, dopo una breve sparatoria, fu colpito a morte da militari americani.
Antonio Corradeschi, di anni 27, Mario Chiarotto, di anni 27, e Ferdinando Falugiani, di anni 30, arrestati nei giorni successivi alla liberazione, furono processati dalla Corte d’Assise Straordinaria di Padova e riconosciuti colpevoli di numerosi delitti.
In particolare i tre individui furono accusati di “avere collaborato in concorso tra di loro con il tedesco invasore prestando ad esso aiuto ed assistenza e favorendo i disegni politici e militari, con il procedere al sequestro di patrioti e capi partigiani consegnandoli al nemico per la deportazione in Germania e seviziandoli ed ostacolando con le loro persecuzioni i moti cospiratori per la liberazione della Patria”; e inoltre “di omicidio aggravato per avere in Padova il 19.12.1944 in concorso tra loro cagionato la morte mediante colpi d’arma da fuoco del comandante della brigata garibaldina Franco Sabatucci, detto “Cirillo”, allo scopo di favorire i disegni politici e militari del nemico”.
A questo proposito sia consentito un breve inciso, anche alla luce delle recenti polemiche storiografiche sulla “guerra civile”. La banda Carità agì, secondo il giudizio della magistratura italiana, per conto degli occupanti tedeschi; da essi ricevette ordini e indicazioni e, soprattutto in loro favore vennero intraprese le azioni contro le formazioni partigiane, tra cui la brigata “Garibaldi” Padova.
Questo aspetto relativo alla esatta funzione e alla collocazione militare delle Brigate Nere e delle altre organizzazioni fasciste, regolari e non, della Repubblica Sociale Italiana dovrebbe fare riflettere maggiormente i sostenitori della teoria della Resistenza come “guerra civile”.
Appare infatti evidente che la banda Carità, come tante altre analoghe bande formate da fascisti italiani, sparse per il Paese, combatteva in uno stretto rapporto di collaborazione e intesa con i tedeschi, tanto da costituire un reparto speciale, funzionale alle attività antipartigiane dell’esercito germanico. In quest’ottica la Resistenza non può che considerarsi una guerra di liberazione dagli invasori tedeschi e dai loro alleati fascisti.
Il processo incominciò il 25 settembre 1945. Inizialmente i tre provarono a scagionarsi scaricandosi le colpe a vicenda e chiamando in causa altri due componenti della banda, Torquato Piani e un certo Scopetari.

I funerali di Francesco Sabatucci
Nel corso del dibattimento in aula emersero con chiarezza le responsabilità dei soli Corradeschi, Chiarotto e Falugiani. Chiarotto ammise di avere sparato, confermando che con lui c’erano gli altri due imputati. Lo stesso Corradeschi riconobbe la propria colpevolezza e raccontò che l’ex partigiano Cesare Broggin aveva fornito le indicazioni per prendere Sabatucci.
Il 30 settembre, ormai rassegnati a ricevere una condanna pesante, i detenuti fascisti presso la Casa di pena, guidati dai membri della banda Carità Chiarotto e Falugiani provarono ad evadere, ma furono bloccati dall’intervento armato delle guardie carcerarie e della polizia partigiana. Il 3 ottobre il processo terminò con le seguenti decisioni:
Corradeschi condannato a morte mediante fucilazione nella schiena; Chiarotto e Falugiani, in virtù delle attenuanti generiche, condannati rispettivamente all’ergastolo e a trent’anni di carcere.
Il 5 ottobre i tre ricorsero in Cassazione, che respinse il ricorso di Corradeschi e Falugiani e accolse, per illegalità della pena, il ricorso di Chiarotto, rinviandolo alla Corte di Venezia. Il 4 dicembre 1945 ci fu un altro tentativo di evasione, comandato sempre dagli appartenenti alla banda Carità, che si concluse con il trasferimento dei detenuti Chiarotto e Falugiani.
Il 27 aprile 1946, presso il poligono di tiro di via Goito, a Padova, venne eseguita la condanna a morte di Corradeschi, che, prima di morire, confessò tutti i reati contestati. Tra ricorsi e rinvii la pena di Chiarotto e Falugiani si concluse nel 1951, con la libertà condizionale, e l’estinzione dei reati nel 1964, per intervenuta amnistia.
Infine rimane la spia che consegnò Sabatucci ai criminali della banda Carità: Cesare Broggin, ex intendente e capo di stato maggiore della brigata “Garibaldi”. Egli aveva tradito Sabatucci mentre era detenuto a Palazzo Giusti dalla banda Carità, in cambio della libertà personale.
Essendo trapelata la notizia del suo tradimento già nei giorni immediatamente successivi all’uccisione di “Franco”, fuggì in Polesine. Durante il processo contro la banda Carità, Corradeschi lo aveva incolpato di essere la spia che aveva consentito di prendere e uccidere il comandante della brigata Padova.
Cesare Broggin, rientrato a Padova dopo la Liberazione, venne ricercato dalle autorità e dai partigiani; venne arrestato il 15 ottobre 1946.
Imputato “di collaborazione col tedesco invasore per avere indicato la presenza del comandante di formazioni partigiane Franco Sabatucci, detto “Cirillo”, ad elementi della banda Carità, ed averli guidati sul posto, ove questi venne catturato, ed ucciso, favorendo così i disegni politici del nemico. In Padova il 19.12.1944”; fu processato nel mese di dicembre ed ammise di avere fissato un appuntamento con Sabatucci e di avere guidato sul posto gli uomini della banda Carità.
La Corte giudicò l’azione di Broggin non compiuta con libera volontà e senza l’intenzione di collaborare con il nemico. Venne accolta infatti la tesi della difesa che giustificò l’operato dell’imputato per le percosse e le intimidazioni che aveva subito.
In particolare Broggin fu torturato e gli fu rivolta la minaccia di arrestare le tre sorelle, la moglie e l’unico figlioletto; fu assolto il 2 dicembre 1946 “perché il fatto non costituisce reato”.
Il clima era cambiato in fretta. La Resistenza iniziava a dare fastidio; per molti era meglio dimenticare presto le sofferenze e i lutti degli anni della guerra; la voglia di normalizzare stava crescendo; l’epurazione contro i fascisti si stava arrestando.
Sabatucci era stato ucciso dai fascisti, che combattevano per i nazisti; Broggin aveva fissato il finto appuntamento con Sabatucci per farlo cadere nelle mani della banda Carità.
Di fronte a queste verità accertate dai processi si poteva considerare il traditore Broggin innocente? L’intelligenza, la logica, il buon senso, insomma tutti i criteri interpretativi possibili non lasciavano spazio all’assoluzione; eppure, le cose erano andate proprio in quella direzione. “Franco” era morto e l’uomo che lo aveva tradito era vivo e libero.
Il salone
di Taina Dogo
Prima della guerra Palazzo Giusti lo conoscevo appena: uno dei numerosi palazzi antichi di cui è ricca la mia città. Ma lo devi cercare nella stretta e ondulante via in cui si affaccia, per ammirarne la nobile e severa architettura.

Il salone di Palazzo Giusti
Ora il numero 55 di via San Francesco è diventato un punto d’orientamento geografico e mentale. Alzando lo sguardo alle piccole finestre delle soffitte, mi par sempre di scambiare un messaggio d’intesa con qualcosa di me rimasto dietro a quelle persiane non più aperte da quando Carità le fece sprangare, bontà sua, per proteggerci dal freddo.
Ci siamo dati convegno lì, nel 25° anniversario della Liberazione, per ricordare i nostri Morti, anche quelli scomparsi dopo il 1945, che sono molti rispetto al numero dei sopravviventi.
Varcato il portone di Palazzo Giusti si accede in un grande androne chiuso da una vetrata che dà sul giardino. A destra lo scalone ampio e luminoso. Lo ricordavo benissimo: ora manca solo la lapide che Carità aveva fatto murare tra le due finestre con l’elenco dei suoi morti.
AI primo piano, il «salone». L’inattesa suntuosità del vasto ambiente mi stupisce. E’ davvero una bella sala delle feste con ricchi tendaggi, molti specchi e grandi lampadari accesi. Allora erano spenti, le finestre nude e i vetri rotti. Gli specchi? Certamente c’erano, ma non li ricordo.

Un anno dopo la Liberazione i prigionieri della banda Carità si ritrovano nel giardino di Palazzo Giusti
Il nostro «salone” era diverso: immenso, vuoto, freddo e buio. Non ricordo di averlo visto illuminato dalla luce del sole: sempre in penombra. Eppure anche allora il sole deve aver brillato.
Dalle finestre che danno sul giardino, cerco gli alberi. Ma oggi è un giorno d’estate e sono verdi, non spogli e ischeletriti come in quel lontano gennaio quando sembravano morire della nostra pena.
Là , in fondo a sinistra, il «mio» angolo, semibuio. Da quell’angolo la notte spingeva avanti la sua ombra che strisciando cancellava i rettangoli chiari delle finestre, inghiottiva tutti dividendoci e lasciandoci soli. Il salone diventava allora vasto deserto, buio, come il buio deserto degli incubi infantili, in cui avverti la paura di un pericolo non definito, ma presente.

Palazzo Giusti visto dal giardino
Improvvisi squarci di luce violenta si confondono nella mia memoria con le grida dei compagni torturati. Luci e urla che ferivano l’oscurità e la nostra mente, venivano sempre da un lato del salone, dove si aprivano gli usci dei locali usati dagli inquisitori: gli «uffici».
Poi buio, silenzio, qualche rantolo. Le prime notti l’oscurità appariva vaporosa per il riflesso della neve. Eravamo in pochi allora, raccolti accanto alle finestre centrali su due stretti divani. Inutilmente cercavo di cogliere un messaggio nello sguardo dei miei compagni. Tutti distaccati, freddi, quasi ostili.
Avevo cercato una parola amica, e questa era venuta da un giovane che mi sedeva accanto eche io credevo un condannato a morte. Lo rividi giorni dopo salire lo scalone ed entrare senza scorta negli uffici: era una spia di Carità.

Il giardino di Palazo Giusti
Poi quel messaggio umano che cercavo, giunse inaspettato. Una notte avvertii un lento muoversi di passi che si avvicinavano. Poi silenzio. Mi giro e una mano mi accarezza i capelli mentre una voce calma dice: «Anche tu qui! Coraggio, cara, sii brava!”.
La riconosco subito ed è come il concludersi di un lungo discorso iniziato pochi anni prima sui banchi del liceo, quando il nostro professor Zamboni aveva cominciato la sua lezione di filosofia con queste parole: «Ragazzi, oggi Hitler ha occupato l’Austria». E, cancellata dai suoi occhi quell’espressione bonaria che noi gli conoscevamo, aveva preso a leggere un brano di Croce.

Palazzo Giusti a Firenze
L’aula era piccola e luminosa, e le sue parole, afferrate dalla nostra mente di adolescenti, avevano stimolato l’intuizione di una calamità che sovrastava il mondo, facendo germogliare nelle nostre coscienze il seme dell’antifascismo.
Ed ora la stessa voce, nel buio salone di Palazzo Giusti, si rivolgeva solo a me, affettuosa e ferma: «È solo un momento difficile. È giusto che sia cosi». Più che l’incertezza per il futuro o la paura del dolore fisico o della morte, mi turbava quell’aspetto violento della natura umana, che non ero preparata ad affrontare.
Le poche parole di Zamboni, in cui avevo avvertito un’ansia controllata e la volontà di non cedere, mi aiutarono, in quel fluttuare del pensiero nel dormiveglia inquieto per il freddo e la stanchezza, nel silenzio dei miei compagni, a trovare una ragione della mia presenza nel salone.
Il 7 gennaio il salone si era rianimato alle luci dell’alba. Gli uomini di guardia passavano rapidamente dagli alloggi agli uffici. Nonostante il pesante «lavoro» notturno svolto da Carità e dai suoi sgherri, l’attività aveva ripreso frenetica quel mattino. Si avvertiva nell’aria qualcosa d’inquietante, che noi cercavamo invano di interpretare.
Sembrava che si fossero dimenticati di noi. Solo Corradeschi, nel suo vestito nero e con la smorfia più sprezzante del solito, passandoci accanto, s’era fermato un attimo dicendo: «Tra poco vedrete il vostro Renato!”.
Sapevo chi era Renato e con quanto coraggio e abilità stava lottando. Era l’uomo astuto e imprevedibile, che volevano nelle loro mani, vivo o morto. Nessuno poteva ancora immaginare quanto funesto per la Resistenza veneta sarebbe stato quel 7 gennaio 1945.

strumento di tortura
La neve caduta abbondante nei giorni precedenti, aveva imbiancato gli alberi del giardino e i tetti di via della Pieve. Il cielo era coperto e la sera era scesa presto. C’era una strana calma nel salone, come nei momenti che precedono il formarsi di un ciclone.
Poi, un brusio di passi affrettati, un correre confuso e molte voci: avevano portato Renato colpito a morte e, con lui, molti altri, i migliori, caduti nella rete di appostamenti tesi dagli sgherri di Carità.
Alcuni di essi vengono spinti negli uffici e solo più tardi ne sappiamo i nomi: Meneghetti, Ponti, Casilli, Martignoni, Palmieri ecc. Il salone si riempie di uomini, donne di ogni età. Con loro dei sacerdoti e persino un ragazzetto.
Cominciano subito gli “interrogatori», proseguono notte e giorno. Le grida dei prigionieri, i loro volti tumefatti, lo sguardo allucinato di alcune donne che hanno subito ogni sorta di ingiurie, si mescolano alle urla eccitate degli inquisitori in un’atmosfera da incubo.
Quanti giorni, quante notti il salone è stato stretto nella morsa del dolore, della paura, della pazzia? Non lo so. Alla fine – è un mattino – mi guardo attorno: i divani sono disposti a cerchio; siamo in molti e tra noi riconosco degli amici.
Vedo alla mia sinistra Meneghetti con le mani livide chiuse nelle manette troppo strette. È senza occhiali e guarda lontano, oltre il giardino. La sua figura eretta e il suo volto nobile sembrano racchiudere tutto il significato di quanto ciascuno di noi ha dato in quei giorni.

Strumenti di tortura
Tutti, io credo, abbiamo perduto qualcosa in quella tragica esperienza; ma non ne siamo usciti vinti. L’inquietante alternarsi del dolore e della paura si è placato alla fine in un disteso sentimento di profonda comprensione umana, che supera i limiti degli ideali entro i quali avevamo agito fino allora.
Il momento più difficile è passato; i pensieri si ricompongono e possiamo cominciare a guardarci sorridendo.
La macchinetta
di Ermenegildo Minato
Venni arrestato dalla SD, a Riese Pio X su indicazione di una spia nella notte del 7 marzo 1945, assieme a Evel Gasparini, docente universitario, ad Angelo Gatto e al commerciante Giovanni Battaglia, scomparso di recente, noto per la straordinaria resistenza pur di non tradire compagni e amici.
.Il mattino del giorno seguente feci il mio ingresso a Palazzo Giusti. Stava svolgendosi l’ora del passeggio e potei immediatamente farmi un’idea di quello che era la SD (servizio investigativo delle SS), il maggiore Carità che la dirigeva e la sua banda.
Stavo passeggiando e non mi ero ancora accorto di una strana figura dolorante di giovane sacerdote che era in disparte e che nessuno poteva avvicinare. Ero incuriosito da tutto quello che mi circondava: i militi tutti in borghese che ci sorvegliavano con i loro mitra; i prigionieri dalle facce tumefatte, che portavano con dignità il loro dolore; l’ambiente che serbava in qualche particolare il ricordo del lusso e del buon gusto.
Le facce dei prigionieri erano strane e sconvolte; gli stessi prigionieri mi davano l’impressione di essere poco comunicativi fra di loro e che il sospetto per il nuovo venuto fosse sempre presente. Era difficile distinguere i prigionieri dagli aguzzini.
Mentre passeggiavo ebbi un urgente bisogno da soddisfare e non sapevo a quale persona rivolgermi. Un uomo sui 55-60 anni passeggiava a lunghi passi con andatura da montanaro. Teneva le mani strette dietro la schiena, un po’ curvo in avanti, dondolandosi al passo, come chi cammina a stento; ma dimostrava forza e volontà.
Mi convinsi che dovesse essere una delle guardie e mi avvicinai chiedendogli il permesso di cui abbisognavo. Quegli si fermò, mi guardò fisso con espressione risentita e disse: «lo … ma io, sono come voi ».
Era un dottore. Riesco a soddisfare la necessita corporea e tornando mi attrae il volto tumefatto del prete (don Luigi Panarotto). Quella maschera aveva gli occhi cerchiati da due segni neri degradanti al rosso paonazzo; enfiagioni e chiazze rossastre e violacee si notavano ovunque. Non camminava e ogni tanto si girava su se stesso tutto d’un pezzo, premendosi le mani al petto con una mal celata smorfia di dolore.
Ritornato in cella, chiesi ai miei compagni di quel prete e ne seppi la dolorosa storia. Durante la notte precedente aveva passato il suo calvario nella camera di tortura. Due costole erano state rotte a pugni. La mandibola, percossa bestialmente dal pugno ferrato del boia, era stata lesionata e dolorava ad ogni movimento.
Era stato arrestato in canonica, denudato nello. stesso suo studio e sottoposto a sevizie inenarrabili, percosso a sangue, canzonato e deriso nella sua nudità, e quindi portato a Padova, dove la notte precedente aveva subito il secondo assalto di quelle belve.
Sentii così, per la prima volta, nominare la «macchinetta elettrica», cioè il mezzo di tortura più usato, più raffinato e temuto, la specialità di Palazzo Giusti. Era questa una cassettina di forma quadrata, con una manovella a un lato e due fili lunghi parecchi metri.
Girando la manovella, si formava una corrente elettrica la cui tensione aumentava con l’aumentare dei giri della manovella. I due fili venivano applicati ai polsi, alle orecchie, alle mammelle e agli organi genitali.
Il povero prete, dopo aver avuti fracassati sul capo una sedia e un paravento, fu sottoposto alla macchinetta. Sotto il terribile tormento cadde a terra. Allora le belve con calci allo stomaco completarono la rottura delle costole già lesionate dai pugni. Per un pezzo non lo rividi più. Era stato ricoverato all’infermeria, dove trovavano ricovero solo quelli che uscivano troppo malconci dalle torture.
Di noi quattro, quello che poteva complicare la mia situazione era Gatto. Egli sapeva ogni cosa della mia attività partigiana, e temevo che dovesse confessare qualcosa durante l ‘interrogatorio. Era necessario che il primo di noi interrogato facesse sapere ciò che aveva ammesso, perché gli altri potessero regolarsi.
La Provvidenza mi venne in aiuto nella persona di una scaltra signorina. Avrà avuto 18 o 20 anni; era vicentina, piccola di statura, simpaticissima. Aveva dato la sua intelligente opera di staffetta a una formazione partigiana.
Arrestata, venne sottoposta alle torture più crudeli. Passati i giorni più duri, ebbe poi una certa libertà. Portava nelle celle il caffè e le due minestre giornaliere, assieme a quella sua luminosità e gaiezza che sollevava l’animo e rendeva tutti più forti e decisi a sopportare.
Era durante questo lavoro che attuava un altro rischioso compito. Con un’abilità tutta sua, senza dare il minimo sospetto, sotto il naso dei sorveglianti, riusciva a portare i risultati di interrogatori da una cella all’altra affinché gli interessati si potessero regolare.
Ella tutto ricordava e puntualmente riferiva con precisione e concisione. Fu la mattina del 9 che entrò rumorosamente e disinvolta, sorridendo e salutando pi6 allegramente del solito. C’era da sollevare il morale un po’ a tutti, ma c’era anche lo scopo di creare una certa composta confusione, perché le fosse possibile compiere la missione affidatale. In occasioni simili tutti sapevano di dover cooperare con lei.
Salutò il professore (Meneghetti), il dottore, l’ingegnere e, mentre essi rumorosamente rispondevano al saluto, mi si avvicinò e sottovoce disse: «Minato?».«Si», rispondo. «Gatto interrogato stanotte, negato di conoscervi». «Grazie», risposi. «Un po’ di caffè?» «Si, grazie, un goccetto ». La cosa riferitami era di somma importanza per sapermi regolare nel mio prossimo interrogatorio.
L’indomani mattina, mentre stavamo salendo la scaletta per andare sulla terrazza per l’ora di passeggio, intravedo Gasparini e Gatto che stanno rientrando nelle celle. Come erano ridotti! Gasparini mi sembrava il più pesto. Rientrato in cella dopo il passeggio, mi distesi in branda.
Erano pressappoco le undici e il rancio sarebbe stato distribuito verso le tre. Pensai di fare un sonnellino, ma sentii che qualcuno saliva le scale e ciò bastò per ridestarmi. Un secondina chiamò: «Minato».
E la “macchinetta” comincia il suo lavoro su di me. Vengo prima colpito più volte sul tronco, mentre le braccia tremano convulse. Fino a questo punto sono stato in me, poi perdo la conoscenza e mi ritrovo, non so guanto tempo dopo, aggrovigliato a terra. Una scarpa ferrata è sopra il mio capo; richiudo gli occhi pensando voglia schiacciarmi, e sento una voce irata che dice: «Tutti uguali, questi cani».
Mi rizzano da terra, rimettono in piedi la sedia su cui ero stato seduto. “Tu non vuoi parlare – mi dicono – ma sappi che ti conceremo noi per le feste. Ora dobbiamo andare a mangiare, ma ti richiameremo presto.
È al termine di questo dire che un violento pugno mi piomba improvvisamente sul capo. Vacillo, ma riesco a reggermi sostenuto non so da chi. Uno dei due sgherri mi afferra per un braccio e mi spinge in cella.
Tutti i miei compagni mi sono attorno e mi chiedono com’è andata. Rispondo che ho resistito e che non ho fatto nomi. Tremo da capo a piedi. I miei occhi non ci vedono più. Mi tasto i polsi che mi dolgono e ritiro la mano bagnata di sangue.
Mi viene offerto un ditale di grappa che mi rianima un poco. Ma da dove era uscita quella grappa? Mi rispondono che è cosa riservata solo per le grandi occasioni. Le «grandi occasioni”, quindi, per Palazzo Giusti, consistevano nell’aver passato l’interrogatorio.
Ero commosso dalle premure di tutti. Meneghetti mi visita e mi dice: “Oh! Non sarà niente, coraggio, coraggio, passerà presto. Tutti l’abbiamo passata la burrasca … “.
Ma per alcuni giorni i miei occhi hanno avuto continuamente fiammate sanguigne che pareva si sprigionassero dalle orbite. I miei polsi ebbero per una settimana una piaga tutta intorno, là nel posto dove mi erano stati legati i fili della famigerata «macchinetta». Queste piaghe andarono pian piano cicatrizzandosi. Invece qualcosa nel mio cuore non sarebbe più tornato come prima”.