a cura di Cornelio Galas
In questa settima puntata, prima di dare spazio agli atti del processo alla “banda Carità”, propongo una serie di testimonianze dei prigionieri di “Villa Triste” a Padova. Ma vorrei cominciare con un altro “ospite” suo malgrado, del Palazzo (a Firenze) dove Mario Carità e i suoi sgherri davano libero sfogo alle loro malvagità: Gino Bartali. Sì, proprio il grande ciclista. Ecco cosa scrive di quell’oscuro periodo Oliviero Beha:
“Erano mesi e mesi che Gino pedalava sulle strade toscane e umbre, latore dei documenti contraffatti ma anche di informazioni preziose sugli spostamenti di tedeschi e repubblichini. E quando poteva reperiva cibo per i più deboli, i “poveracci”, nella fame dilagante.
Tra ciò che era permesso fare, come ad esempio aiutare i più disgraziati magari nell’ambito di iniziative che partivano dalla diocesi e dai vari ordini religiosi, e ciò che invece non era permesso, dall’”operazionc documenti” alle informazioni cruciali per i partigiani e i profughi in genere, lo spartiacque cambiava di volta in volta, secondo le circostanze.
Nel termometro del rischio il mercurio andava a balzi, così da stressare chiunque. Gino compreso, naturalmente, giacché la sua forza morale doveva fare i conti con la sua razionalità che l’adrenalina caricava a mille. Lo dice lui, sempre in quella forma pudica delle sue memorie “reticenti”.
«Dovunque andassi mi pareva che mi seguissero. Io, che già dormivo poco, smisi completamente di farlo. Rimanevo tutta la notte ad ascoltare lo sfrigolio dello stoppino di una lampada a petrolio».
Da quando monsignor Dalla Costa gli aveva affidato “la” missione ovviamente era cambialo tutto, anche se all’esterno doveva simulare una continuità con il Gino di prima. Ma dire che non si aspettasse qualche brutta sorpresa, quello no, non era cretino: impazzavano le squadracce fasciste più zelanti addirittura dei nazisti e un campione di ciclismo e di popolarità che girava con una simile libertà non poteva non dare nell’occhio. Almeno così temeva, e a ragione, nella Firenze infestata da spie, che in quell’estate del 1944 si avviava all’ultimo atto dell’occupazione tedesca.
Fu allora, in un giorno afosissimo di luglio, che le cose precipitarono e arrivò il “momento pessimo” di Gino, neppure troppo inaspettato, come detto. Il paradosso, intrigante nel raccontarlo ma affilato nel viverlo, fu che il Bartali postino non c’entrava moltissimo con il motivo per cui venne arrestato dalla banda Carità, interrogato e programmato per un’esecuzione.
L’”Himmler italiano” godeva di quel soprannome perché tale avrebbe voluto essere. Girava bardato fino all’inverosimile di tutti gli orpelli “gotici” del comando, “nero” d’anima e di aspetto, era o si faceva passare per maggiore, era sempre circondato da un drappello di fedelissimi che facevano a gara nel dimostrarsi più feroci del capo. Il suo nome era Mario Carità, laddove il nomen diventava disnomen volgendosi sempre tragicamente nel suo contrario.
In quel periodo di transizione tra il ’43 e il ’44′ prima dell’arrivo degli Alleati, in cui l’odio e la paura si attizzavano l’un l’altra, Carità faceva praticamente il bello e il cattivo tempo, con un punto d’onore nel terrorizzare le persone e uno zelo nell’interrogarle, torturarle e spesso farle uccidere che seminava spavento ovunque.
Convocare Gino Bartali, con l’alone che il campione garantiva, fu per il leader della banda Carità un vero piacere. C’era almeno una lettera dettagliata indirizzata a lui, ne avrebbe dovuto rispondere.
Così un giorno pessimo di luglio dovette presentarsi in quella famigerata Villa Triste, teatro di mille nequizie, quartier generale di Carità e dei suoi sgherri, ovviamente senza conoscere il motivo della convocazione né l’eventuale capo di imputazione. La sola cosa certa era che se potevano dimostrare «ragionevolmente» (e tale avverbio lo fece rabbrividire) che lui collaborava con una rete di falsari, era destinato all’esecuzione.
Bastava che qualcuno avesse parlato, bastava un torturato che avesse raccontato dei suoi viaggi a telaio pieno … E poi c’era la storia dei Goldenberg, asilo a una famiglia ebrea, non avrebbe saputo a che santo votarsi, che è un modo di dire perché c’era sempre la patrona dei carmelitani, santa Teresa di Lisieux.
Nella penombra gli vennero in mente tutti i racconti sulla famigerata banda che correvano sulla bocca dei fiorentini, a opera dei sopravvissuti o per vanteria pubblica degli scherani. Si figurò le scene di Carità con le finte esecuzioni, cui seguivano lunghe risate sgangherate di fronte ai superstiti, privati se non ancora della vita certo di ogni dignità.
Oppure il Grand Guignol degli strumenti di tortura a vista, nella vasta sala che fungeva da stanza per gli interrogatori e da luogo di bisboccia, prima e dopo: fruste, verghe d’acciaio, pinze, manette, arnesi di rozza falegnameria destinati ai lobi delle orecchie delle vittime, un triangolo in legno cui venivano appese e frustate.
Non mancava neppure la modernizzazione delle scariche elettriche in una stanza apposita. Molto presto toccò a lui, in quella sala: somigliava davvero a come se l’era immaginata.
Mentre aspettava, gli cadde l’occhio su una lettera, in vista sul tavolo, di cui scorse il destinatario: era indirizzata a lui. Non fece in tempo a realizzare compiutamente che cosa significava perché entrò il temutissimo “Himmler d’Italia”, e l’attenzione di Gino si spostò a forza su di lui.
Era un individuo grottesco. L’avrebbero descritto con la «bocca da rana» e le «palpebre a mezz’asta sugli occhi freddi, verde lucertola». Aveva una sua forza, seppure caricaturale. La prima parte dell’interrogatorio se ne andò con le banali intemerate del maggiore Carità contro la Chiesa e i cattolici. Gino rimase in silenzio.
Quindi Carità prese con gesto teatrale la lettera dal tavolo e cominciò a leggerla a voce alta. Era per lui, dal Vaticano: si citava «il suo aiuto». «Quale aiuto?» chiese il bislacco graduato stropicciandosi le mani e schiaffeggiandosi gli alti stivali neri con una frusta poi. Sicuramente la considerava una lettera cifrata.
«Armi, vero? Tu hai mandato armi al Vaticano. Posso farti uccidere per questo» insistette. «No, no, niente armi» proruppe Gino con decisione, quasi sollevato, ma senza darlo a vedere, con la sua voce ancora più roca. «Non è vero, stai mentendo» fece gelido Carità. «Non mento, è la verità» rispose Gino reggendo lo sguardo”.
Il laboratorio dell’umiliazione
di Amleto Sartori
“Sono stato arrestato due volte. La prima volta verso il 12 febbraio 1945 circa alle 10 del mattino. Mi trovavo nella canonica della Chiesa di S. Prosdocimo dove avevo un appuntamento col parroco don Antonio Varotto per metterci d’accordo circa un lancio di manifestini e la fabbricazione di documenti per i partigiani indiziati.
C’erano con me, oltre al parroco, il partigiano Fernando Cardellin (Giga), il capo partigiano di Solesino e il capo partigiano Marcello Olivi (Ronco). Ad un tratto fummo avvertiti che la casa era circondata dalle SS. Non facemmo in tempo a muoverci. Subito dopo, attraverso la vetrata opaca della stanza, riconobbi la nota figura del tenente Trentanove.
Lui e altri due o tre figuri irruppero nella stanza e ci portarono fuori dividendoci l’uno dall’altro. Dopo un sommario accertamento dei documenti, gli altri furono rilasciati e io portato a Palazzo Giusti: ebbi uno stringato interrogatorio circa le ragioni per le quali ero in contatto con il parroco. Fui accusato e minacciato violentemente dal Corradeschi, da Mario Chiarotto e dal Trentanove.
Negai ogni addebito e addussi la giustificazione di certi lavori di scultura che avevo in corso per la chiesa. Non venni battuto. Alla sera fui rilasciato. li secondo arresto avvenne a circa un mese di distanza dal primo. Mi trovavo nell’atrio dell’Istituto d’Arte «Pietro Selvatico», dove insegno, circa alle nove e mezzo del mattino.
Senza farsi notare, entrò un uomo con un giaccone di cuoio che mi sembrava aver visto altrove. Si trattava del Cecchi; quando lo riconobbi, il custode mi aveva già indicato a lui. Fui dal Cecchi pregato di seguirlo, perché, disse, «il maggiore Carità ha bisogno di qualche informazione da voi». Ebbi appena il tempo di raccogliere il soprabito e di avvertire un amico perché fosse dato l’allarme.
Andammo a Palazzo Giusti a piedi. Dopo circa un ‘ora e mezza di attesa fui introdotto in una stanza (l’ultima a destra entrando nel salone dallo scalone), dove il tenente Trentanove sedeva alla scrivania parlando animatamente con un tipaccio che seppi poi essere lo Squlloni.
Vi erano anche altre persone. Il Trentanove mi riconobbe subito e mi ricordò l’aria offesa che avevo assunto al mio primo arresto, protestando la mia innocenza. Lo Squilloni si fregava le mani e beveva gran sorsate di grappa da una bottiglia.
L’interrogatorio cominciò con una cortesia esagerata e quindi sospetta. Ad un tratto, per effetto delle mie continue negazioni, lo Squilloni s’infuriò; trasse dal cassetto una tavoletta di legno e mi chiese se la riconoscevo.
Si trattava di una xilografia rappresentante un asinello con un carrettino carico di sigarette che era stata fatta per beffeggiare le autorità ricordando il trafugamento di quattro quintali di sigarette per i nostri partigiani come strenna natalizia; il legno era stato trovato in tasca di Renato il giorno in cui era venuto a morte per mano loro.
Lo Squilioni ribatté alla mia negazione battendomela più volte violentemente sulla testa. lo reagii urtandolo. Fui preso alle spalle da qualcuno e tenuto fermo affinché lo Squilloni potesse picchiarmi coi pugni sulla bocca e sul naso, e coi gomiti sul ventre.
Quando Dio volle lo Squilloni fu chiamato in un’altra stanza. Restai senza fiato e tramortito. Ricordo vagamente che qualcuno rideva di me e del sangue che mi usciva di bocca. Poco dopo fui portato nell’ufficio del maggiore Carità.
Vi erano presenti molte persone, tra le quali ricordo il medico Pugliese, il Chiarotto e un colonnello dell’aviazione in divisa con il rombo rosso di squadrista.
Lo Squilloni mi illustrò come l’incisore della copertina del Pinocchio e di tutte le vignette apparse sui giornali clandestini, dicendo di avere assolto il suo mandato e mantenuta la sua promessa individuandomi e arrestandomi. Mentre Squilloni parlava, fui perquisito e spogliato di quanto possedevo; mi si lasciò solo il fazzoletto inzuppato di sangue.
Il maggiore Carità ringraziò lo Squilloni e cominciò a dire di essere ormai in possesso di tutte le prove contro di me e di poter disporre della mia vita come voleva e che mi conveniva parlare se volevo salvare la pelle. Ebbi offese di tutti i generi. lo negavo. Il colonnello durante un attimo di tregua aggiunse: «Carità è troppo buono, ma io ti porto via con me e ti faccio impiccare ad un albero della mia caserma~.
L’interrogatorio si protrasse per più di due ore. Fui poi portato al piano superiore in una sala dove c’era un caminetto e lì rimasi da solo, sorvegliato da un aguzzino che seppi poi chiamarsi Marzotto. Questo tristo figuro, probabilmente per indurmi a fare delle delazioni, ebbe l’animo di raccontarmi quello che avrebbe fatto di me se non aderivo alle richieste del maggiore, raccontandomi dei mezzi che erano a loro disposizione.
Mi sentii sollevato quando vidi apparire col pentolone della broda l’amico Zanocco. Scambiai due parole con lui,di nascosto, mi misi d’accordo su certi punti in caso di confronti personali.
Rividi Zanocco a sera con l’altro pasto e gli parlai ancora. Durante tutto il giorno fino al cambio dei secondini ebbi il Marzotto alle costole, poi l’Accomanni. Verso le undici di notte fui chiamato dal Carità. Ebbi da lui ancora minacce e dovetti rispondere a molte domande. Quando il Carità se ne andò, rimasi con lo Squilloni ubriaco.
Erano presenti il Cecchi, Mario Chiarotto e altri che non ricordo. Fui nuovamente accusato. Negai. Questo infuriò lo Squilloni che si levò l’orologio da polso, il soprabito e la giacca e mi picchiò alla cieca fino a perdere il fiato e a mostrarmi compiangendosi le mani gonfie e arrossate. lo temendo di essere tacciato di vigliacco e di irritarlo gridando, non mi lamentavo. Questo lo irritava ancor più.
Per battermi non adoperò più le mani e riprese la tavoletta di legno, che era il massimo capo d’accusa, il calcio di una pistola e la guaina di un pugnale che era sul tavolo. Smise di battermi quando fu chiamato al telefono dal maggiore Carità che gli chiedeva a quale punto fosse arrivata la conversazione. Lui rispose che con le buone maniere mi aveva quasi «convinto».
Avevo la testa in fiamme e doloravo dappertutto. Mi lasciò dichiarandomi fortunato perché aveva una cosa pio importante da fare, altrimenti mi avrebbe “scavato” tutto quella sera. I! Cecchi e il Chiarotto non fecero parola durante tutto l’interrogatorio. Da come mi trattarono, credo che ispirassi loro pietà.
Passai la notte nella sala del caminetto su una seggiola, col solo guardiano. Mancavano i vetri alle finestre; il freddo, le umiliazioni e le botte mi provocarono una gran febbre; avevo forti brividi alla schiena, la testa era infiammata. Il mattino seguente lo Squilloni mi fece ancora chiamare.
Ebbi altri colpi. Alla sera lo stesso. Il bastonatore era furibondo. All’interrogatorio del mattino aveva assistito anche una signorina bionda che seppi poi essere la figlia maggiore di Carità. Ricordo che essa rise di gusto vedendo la mia faccia pesta con la bocca gonfia e storta. Alla sera, questa stessa, probabilmente accecata da qualcosa che ignoro o per pura malvagità, mi si avvicinò e dandomi due schiaffi mi disse: «Che non si riesca a vedere umiliato questo delinquente!».
Ricordo che per l’umiliazione, il male che sentivo dappertutto e specialmente per l’alito odorante di grappa dello Squilloni, quella sera svenni due volte. Dopo l’interrogatorio fui portato nuovamente al piano superiore, dove poco più tardi mi allogarono in una cella già abitata da sette od otto persone.
Ricordo che mi si aperse il cuore quando vidi il professor Zamboni. Nella mia ingenuità gli ricordai che lo conoscevo e che l’avevo visto parecchie volte dal tipografo Zanocco. “Per carità! – esclamò – lo non sono mai stato da Zanocco, non lo conosco neppure».
Capii che avevo fatto male e che un eventuale delatore o un compagno debole avrebbe potuto rovinarci. Zamboni era, credo, il più anziano ospite di Palazzo Giusti e la sua esperienza era tale che i consigli che ebbi da lui mi furono di molto conforto e aiuto.
Con noi nella cella vi erano: don Giovanni Apolloni, il signor Faccio di Vicenza, il dottor Miraglia e altri di cui mi sfugge il nome. Nella cella accanto c’era, assieme a molti altri, il professor Meneghetti: per mezzo di Zanocco, ci accordammo di non conoscerci.
Con i miei buoni compagni di cella passai tre giorni durante i quali ebbi altri due o tre interrogatori: uno con lo Squilloni che mi somministrò qualche altro schiaffo, gli altri col maggiore Carità, presente il tenente Trentanove che con le sue pretese esperienze artistiche era il mio maggiore accusatore. In quei giorni ebbi forti malesseri e febbri.
Alla mattina del terzo giorno di cella, chiesi visita e il dottor Pugliese decise di farmi ricoverare in infermeria, dicendo che lì sarei stato un po’ tranquillo perché altrimenti il Carità e lo Squilloni mi avrebbero “accoppato”.
Nel pomeriggio mi trasferirono. In infermeria trovai il professor Cestari che aveva appena superato una pleurite traumatica contratta in seguito ai colpi avuti, il signor Avossa, il dottor Sotti ancora sofferente di commozione cerebrale per i colpi ricevuti, l’ingegner Casilli di Venezia.
Dopo un giorno o due vi fu portato anche un partigiano con una gamba ingessata, che noi chiamavamo Mario, e don Luigi Panarono, parroco di Nove di Bassano, con costole rotte e il viso e il corpo pieni di lividure. In quei giorni fui lasciato tranquillo. Alle ansie, ai batticuori, ai tormenti morali e fisici si deve aggiungere una sera di spavento terribile.
Si tratta dell’ultimo bombardamento notturno di Padova. Di solito, al segnale d’allarme, i detenuti venivano portati al piano terra e guardati a vista. Quella sera, subito dopo il segnale d’allarme, si udirono sopra la città i ronzii degli apparecchi. Le guardie con i detenuti pronti si recarono come al solito al piano terra. Noi dell’infermeria eravamo tutti a letto e ci mancò il tempo di vestirci che già trovammo le porte chiuse.
Dovemmo rimanere dov’eravamo, col solo soffitto che ci proteggeva, all’ultimo piano e in zona relativamente vicina alla stazione di S. Sofia. Udimmo le prime bombe cadere lontano e sentimmo il palazzo tremare. Alla prima scarica, ne fecero seguito parecchie altre sempre più vicine. Sentivamo i sibili delle bombe e degli spezzoni sopra la testa. Dalla finestra aperta sul giardino vedevamo gli scoppi e le colonne di fumo levarsi.
Entravano vampate d’aria calda. La casa ballava sotto i piedi. A meno di duecento metri da noi un edificio bruciava. I nostri aguzzini erano al sicuro in un trincerone che i nostri compagni avevano scavato nel cortile. Dopo circa dieci giorni, fui chiamato ancora una volta per essere interrogato.
Mi interrogò il Corradeschi. Lui compilò anche un verbale. Fu chiamato per la perizia della xilografia il professor Francesco Canevacci, direttore dell’Istituto d’Arte «Pietro Selvatico»: risultò negativa (almeno per loro). Fui rilasciato nelle prime ore del pomeriggio dopo aver firmato una dichiarazione che imponeva il silenzio su quanto avevo visto e sentito a Palazzo Giusti”.
(Dalla testimonianza per il processo alla banda Carità)
Il silenzio
di Erminia Gecchele
“Parlare di cose tristi, a grande distanza di tempo, rinnova nello spirito la sensibilità di allora. Con orrore, come una visione di sogno in un mondo di fantasia, passa davanti a noi la nostra storia, a colori marcati, a tinte lugubri, a visioni raccapriccianti; passa chiara e viva.
Ci fa pensare, soffrire, godere, amare e disprezzare, e qualche volta spinge anche il nostro io a un’ardita ribellione all’opera dell’uomo, che a volte sa innalzarsi al di sopra delle stelle, a volte si abbassa al di sotto dei bruti.
Se può essere alta soddisfazione conoscere profondamente la psicologia umana, non è altrettanto piacevole doverla studiare attraverso un’esperienza pratica cosi amara, da riportarne per la vita indelebili i segni delle sue opere. Ricordo un episodio da me vissuto nel tempo più infelice e disonorante della storia del popolo italiano.
Entusiasta di un ideale e orgogliosa di portare il mio umile granello alla grande causa della libertà soffocata, ero entrata nelle file partigiane cercando di fare tutto quello che potevo. Alle ore 14 del 31 dicembre 1944, su una sgangherata bicicletta, transitavo in località Alte di Montecchio, dove dovevo consegnare a una staffetta un messaggio per il comando della divisione “Caremi”.
La mia mansione stava per concludersi, quando alcuni colpi di pistola crepitarono al mio fianco e due voci, in tono risoluto e minaccioso, mi intimarono l’alt.
I due fascisti buttarono nel fosso la mia bicicletta e puntarono l’arma alla mia testa. In quel momento ho perso la speranza della vita e ho visto intorno a me il buio. Ma mi sono subito ripresa e sono riuscita a ingoiare il biglietto del messaggio.
Al pressante interrogatorio che ne è seguito, ho provato a fingere di non saper niente, ma inutilmente. Ero stata tradita, e cosi, dopo un’abbondante porzione di legnate, venni portata alle carceri di Vicenza. Qui cominciò il calvario: l’alternarsi di interrogatori e torture. Per me il mondo si era rimpicciolito alle pareti della cella, e la speranza del sole, della libertà e della salvezza era completamente scomparsa.
Mi sentivo definitivamente perduta, rassegnata a sentirmi di minuto in minuto stritolare dagli artigli di quegli innominabili briganti senza dio e senza legge, dalle mani insanguinate e dalla bocca sporca.
Dopo due giorni di tale trattamento, mi portarono a Palazzo Giusti, alla scuola del maggiore Carità e delle sue degenerate figliole, solerti e instancabili ideatrici e operatrici delle più vergognose, barbare operazioni, prodotti indimenticabili di esclusiva marca fascista.
A Palazzo Giusti non ero più sola; avevo con me altri disgraziati, persone di alto e universale valore letterario e scientifico, come i professori Meneghetti, Palmieri, Volpara, Ponti, «Ascanio”, Faccio e tanti altri, che con le loro sagge parole sapevano rinforzare la nostra tempra, rinsaldare la nostra volontà, riaccendere la speranza, risollevarci al di sopra del fango nel quale dovevamo vivere, trascorrendo con profondi sospiri i lenti e lunghi minuti degli snervanti interrogatori e delle torture sempre nuove e perfezionate, fatte per strapparci nello spasimo del dolore qualche indicazione, qualche nome, qualche piano.
Sarebbe bastato pronunciare un nome per provocare la catastrofe di un paese, per gettare nel rogo della rappresaglia persone, famiglie, paesi. L’enorme responsabilità della segretezza pesava sulla nostra coscienza e ci rendeva più forti della ferocia fascista. Tutto finiva nell’assoluto silenzio, unica sperimentata salvezza.
Quello che ho passato a Palazzo Giusti fino al 27 aprite del 1945, giorno in cui per opera del Patriarca di Venezia, del Vescovo e del Questore di Padova venni portata al collegi delle Suore Canossiane, mi è sempre vivo e presente.
Due giorni dopo, il 29 aprile, potei tornare libera al mio paese, riabbracciare i miei cari e testimoniare agli amici con i segni profondi e indelebili della tortura la mia sofferenza, la mia fede e il mio contributo alla causa della libertà.
La canzone della «nave»
di Egidio Meneghetti
Questa canzone, sull’aria del «Ponte di Bassano », era cantata alla sera e alla mattina, al primo risveglio, dai detenuti che occupavano le celle della cosiddetta « nave ».
Nave, tu porti un carico
d’intemerata fede,
gente che spera e crede
nel sol di libertà.
Vai verso la vittoria
carica di catene,
navighi fra le pene
verso la libertà.
Fame, torture, scariche,
sibili di staffili,
non ci faranno vili:
viva la libertà!
Sorge la nuova Europa
in mezzo a tanti mali,
e un popolo d’eguali
nasce alla libertà.
Il maggiore Carità sequestrò a Gino Cerchio questa canzone e s’infuriò per la terza strofa che testimoniava i maltrattamenti e le torture. Minacciò rappresaglie. Il giorno dopo la terza strofa fu cosi sostituita:
Baci, carezze trepide,
nobili cortesie,
non ci faranno spie,
tenero Carità!