LE ATROCITÀ DELLA “BANDA CARITÀ” – 3

a cura di Cornelio Galas

Riavvolgiamo il nastro. E torniamo agli albori della famigerata “banda Carità”. Fino dal 17 settembre 1943 si era ricostituita a Firenze la 92a legione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. La 92a legione creò al suo interno un autonomo «Ufficio politico investigativo», a capo del quale fu messo Mario Carità. Era così nata la famigerata «banda», la R.S.S., «Reparto dei servizi speciali».

Questo «reparto», ma è più giusto chiamarlo «banda», era formato da rottami umani d’ogni sorta, delinquenti comuni colpevoli di reati gravi, ladri, rapinatori, evasi dalle prigioni. Spazzatura che con l’adesione alla R.S.I. si garantivano l’impunità per proseguire nelle loro imprese, con in più mano libera per dare sfogo all’istinto sadico che li pervadeva, perfettamente funzionale ai propositi della repubblichetta di Mussolini e ai folli progetti di Hitler.

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La banda aveva una organizzazione meticolosa, di sinistra efficienza, autonoma fino al punto di avere una propria amministrazione. Ecco il ritratto, come è riportato in «Salò vita e morte della Repubblica Sociale Italiana», di Silvio Bertoldi (Rizzoli Milano, 1976), di quel Mario Carità che riempirà di terrore con le sue gesta la città:

«Lombardo, figlio di ignoti, cresciuto a Lodi, passa a Firenze dove si mette in luce nel 1920, intruppandosi con gli squadristi. Trova un lavoro di piazzista, poi diventa elettricista in un negozio di radio.

Mario Carità (al centro)

Mario Carità (al centro)

Ma viene licenziato perché ruba e allora, forse con i soldi rubati, apre un negozio per conto suo, che fallisce presto. Si salva trasformando il retrobottega in una bisca e in un recapito per avventure galanti: pagano per venirci e Carità incassa.

Quando scoppia la guerra, migliora ancora il singolare sistema di campar la vita senza far nulla. Scopre che basta denunciare alla federazione i sospetti di antifascismo, quelli che ascoltano radio Londra. Diventa agente provocatore e spia».

9788889089231BAugusto C. Dauphine in «Oggi», 1945 racconta:

«Già prima del colpo di stato del 25 luglio, egli è noto, nei circoli federali e dell’OVRA, come elemento fidato ed alacre. Ma è dopo l’otto settembre che, passando ai tedeschi col suo reparto di legionari al completo, egli riceve il premio più ambito ottenendo il comando di una formazione di SS italiane.

Vestiva in borghese, ma a guisa sportiva: camicia alla Robespierre e calzoncini corti. Sui capelli, nerissimi, spiccava una candida ciocca in mezzo alla fronte, rivelatrice di anomalie del sistema nervoso; questa fronte era bassa, il grugno suino.

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Notai subito la bocca sensuale, carnosa, sul viso floscio e giallastro, lo sguardo costantemente collerico, i pugni che stringeva continuamente parlando.

Il viso, di una asimmetria sconcertante, gli orecchi callosi, piccoli, accartocciati, il mento prominente dalle favolose mascelle che avrebbero fatto fare a Lombroso salti di gioia, e anch’io, per quanto estraneo agli studi di medicina legale e sebbene distratto da altre meditazioni, non seppi trattenermi dall’ammirare quello splendido campione di delinquente.

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«Vi avverto -disse Carità entrando subito nel vivo – che vi sono due soluzioni per voi: o la fucilazione alla schiena o la deportazione in Germania. Se direte tutto, vi do la mia parola di vecchio soldato che mi limiterò a farvi deportare in Germania».

Vale la pena approfondire, ai fini delle vicende che verranno narrate in seguito, questo ritratto, e insieme caratteristiche e scopi della banda Carità. Lo fa esaurientemente Giovanni Frullini:

«Quarantenne, Mario Carità conta tuttavia al suo attivo la partecipazione ad azioni squadristiche, nonché più recenti servigi di delatore a danno di quei clienti del suo laboratorio di radioriparazioni, in via Panzani, che gli avevano confidato di ascoltare Radio Londra. Calati, dopo 1’8 settembre, gli invasori tedeschi, si era subito posto al loro servizio ottenendo la promozione da centurione {capitano) a seniore (maggiore) delle camicie nere.

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Il 15 ottobre gli si presenta l’occasione di dimostrare il proprio valore guidando l’attacco contro una delle prime bande partigiane formatesi sul Monte Morello, ma dalla prova in campo aperto ritorna alquanto scornato.

A mettersi in luce, nella stessa circostanza, è invece Giovanni Checcucci, già condannato dal Tribunale Speciale e capo del gruppo di partigiani sorpreso a riposarsi nella cappella di Ceppeto: con una sortita che disorienta gli attaccanti e sacrificandosi, permette ai compagni di mettersi in salvo.

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Checcucci diventa cosi il primo caduto della Resistenza fiorentina. In questa operazione i fascisti perdono il camerata Gino Cavari. Fallito come condottiero, due giorni più tardi Carità passa, con più peculiari garanzie di successo, alla carica di capo dell’Ufficio politico investigativo della 92a legione della Guardia Nazionale Repubblicana.

La GNR è semplicemente la metamorfosi della MVSN, con l’aggiunta della PAI (Polizia per l ‘Africa Italiana) e dei CCRR, carabinieri, che però conservano una certa autonomia e in molti casi collaborano o addirittura partecipano alla Resistenza.

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Infatti, a distinguersi nelle azioni contro i partigiani sono i reparti che più direttamente discendono dalla Milizia, affiancati dal battaglione Muti, fondato e comandato da certo Giuseppe Bindi, dalle Brigate Nere e un po’ meno dalla X Mas del principe Junio Valerio Borghese che a Firenze ha come reclutato re il tenente di vascello Buttazzoni al quale obbedirà per qualche tempo anche il guardiamarina Renato Venturini, prima di passare alla Resistenza.

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La caratteristica che invece verrà assumendo il reparto comandato da Carità, è quella di una banda di spie e torturatori che, senza alcun limite nei metodi e nei mezzi, agirà spietatamente contro l’organizzazione clandestina nella città, con una certa autonomia anche nei confronti delle autorità tedesche interessate a lasciare ai fascisti la responsabilità degli atti più nefandi che sono tuttavia necessari al mantenimento del loro regime di occupazione.

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La banda Carità cambia più volte sede, aumentando i membri e l’attività, a cominciare da una villetta, requisita ad una famiglia israelita, al numero 22 di via Benedetto Varchi, per passare successivamente nella villa Malatesta in via Ugo Foscolo.

Anche nel Parterre di piazza Costanzo Ciano (attualmente piazza della Libertà) essa dispone di qualche locale, così come di alcune camere nei lussuosi hotel Savoia ed Excelsior, ma dal gennaio del 1944 la sua sede principale sarà il palazzo al numero 67 di via Bolognese: il villino di via Bolognese diventerà la « Villa Triste» per eccellenza.

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E’ dei primi giorni del novembre 1943, la testimonianza di Giovanni Fattirolli a parlarci del «collaudo» della «filiale» di via Foscolo, i fratelli Gianassi, Gino e Luigi, assieme all’avvocato Zoli e i figli, sperimentano il villino di via Benedetto Varchi.

Infine, la definitiva «Villa Triste», in via Bolognese al numero 67, in un fabbricato che era stato requisito dai tedeschi che vi avevano installato la loro polizia politica ed il cui sottosuolo era adibito a prigione.

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Qui la banda, la cui denominazione ufficiale è ora RSS (Reparto Servizi Speciali), si appropria del sotterraneo per le sue più nefande operazioni di tortura, mentre divide i primi due piani dell’edificio con lo Sicherheintdienst (SD servizio di sicurezza tedesco) con a capo il capitano von Alberti, che non sono le SS o la Gestapo con le quali viene spesso scambiato.

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Tra i suoi più feroci esponenti i capitani Gold ed Hermann, il tenente Mannein, i marescialli Rabanzer e Fienne, gli aguzzini Niedermayer, Moroder, Muller, Mamay, Auffiner. Non mancano i collaborazionisti italiani, fra i quali spiccano quali ufficiali di collegamento il capitano Remo Del Sole e il tenente Giovanni Castaldelli.

Castaldelli è un ex prete che è degnamente affiancato da due monaci benedettini: padre Ildefonso, al secolo Epaminonda Troia, e don Gregorio Boccolini, cappellano delle SS e fanatico propagandista del nazifascismo. Anche il capitano von Alberti segue la tattica di delegare ai camerati fascisti i servigi più infami, sebbene per alcune squadracce sia difficile distinguere la loro appartenenza allo SD o allo RSS.

Epaminonda Troya

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Fra queste vi è la «squadra degli assassini», comandata da Erno Manente e composta da Alfredo Fratini, Alfredo Lisi, Mario Bacati, Bruno Cinelli e Walter Spessotto; la «squadra della labbrata», comandata dal tenente Mario Perotto che ha alle proprie dipendenze Nello Billocci, Elio Cecchi, Dino Cappelli, Silvano Innocenti, Giorgio Biadi, Spiridione Castellani, Arnolfo Cruicchi, Roberto Merendoni, Giorgio Nannucci, Corrado Rossi, Pier Giovanni Simonini, Arrigo Masi {il popolare comico Ghigo Masino), Francesco Belluomini e Olesindo Selmi; infine, i cosiddetti «quattro santi», ovvero Natale Cardini, Valerio Menichetti, Luciano Sestini e Arnolfo Natali.

Ma l’articolazione della banda Carità è ancora più vasta, comprendendo uno stato maggiore nel quale spiccano Pietro Koch e Ferdinando Manzella; alcuni addetti agli interrogatori fra i quali brillano per sadismo i tenenti Vinicio Bellesi e Giovanni Martucci; una manica di spie del calibro di Averardo Mazzoli, Nello Nocentini e Vittorio Sorbi; un corpo di guardie per la persona del capo, comandato da Valentino Chiarotto; e altri addetti ai servizi vari, dall’amministratore Giovanni Faedda al garagista Amerigo Mazzocchi, dal cuoco Roberto Ventagli all’autista personale di Carità, Antonio Coradeschi.

Arduo sarebbe calcolare il numero delle persone che in misura diversa hanno sperimentato come arrestati, o anche semplicemente come indiziati, il funzionamento di questo apparato repressivo, uscendone in molti casi marchiati a vita nel fisico, talvolta per essere fucilati, più spesso per finire nei lager tedeschi, attraverso il campo di concentramento di Fossoli, raramente per farne ritorno.

Ben pochi deportati riusciranno a evadere durante i trasferimenti, come nel caso di Gilda Larocca, oppure di Orsola De Cristofaro e del capitano d’aviazione Giuseppe Cusmano, i quali troveranno anche il modo di reinserirsi nella lotta: la prima a Bologna e il secondo in una formazione partigiana del Veneto.

Comunque, si può affermare con certezza che la banda Carità riuscirà a neutralizzare un numero di combattenti della Resistenza maggiore che non altri reparti nazifascisti; talvolta mettendo le mani su interi gruppi anche qualificati.

Come quando, fin dai primi giorni della propria attività, è riuscita a fare con il primo comando militare istituito dal CTLN, grazie a una spia che, dopo aver ingannato il tenente colonnello Guido Frassineti, organizzatore tecnico di tale comando, ha potuto procurare i documenti che hanno consentito l’arresto di tutti i suoi componenti, più alcuni collaboratori sorpresi nella stessa casa di via Masaccio.

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Riescono a sottrarsi soltanto il liberale , assente dalla riunione, e il comunista Alessandro Senigaglia che sfugge alla cattura grazie alla propria abilità. Vengono arrestati, oltre a Frassineti, il generale Salvino Gritti, il colonnello Leonardo Mastropierro, il giudice Paolo Barile {che viene anche ferito), il capitano Vasco Baratti, il professor Raffaello Ramat e l’avvocato Adone Zoli con i figli Giancarlo e Angiolo Maria»”.

La Corte d’assise straordinaria di Padova, convocata il 25 settembre 1945, giudicò 19 componenti la banda, tra cui le figlie di Carità Elisa di 17 anni e Franca di 20.

Dal processo uscirono 4 condanne a morte per numerosi delitti e in particolare per l’omicidio del comandante della brigata Garibaldina Franco Sabatucci (ammazzato su ordine del maggiore Carità il 19 dicembre 1944 in via IV novembre vicino a palazzo Esedra).

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Il brigadiere Antonio Coradeschi (27 anni) ritenuto uno dei carnefici più terribili fu l’unico ad essere giustiziato, il 26 aprile 1946 nel poligono di tiro padovano di via Goito; gli altri principali imputati Mario Chiarotto (27 anni) e Ferdinando Falugnani (30 anni), ottennero nel 1951 la libertà condizionale e nel 1964 l’estinzione dei reati commessi.

La figlia Franca subì la condanna a 16 anni, mentre Elisa fu assolta. Nel processo d’appello le 3 condanne a morte rimanenti furono commutate e alla fine, nel 1955, erano già tutti liberi.

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Un altro processo si celebrò a Lucca il 23 aprile 1951 per 204 elementi della Banda Carità (9 latitanti): in questo caso nessuna condanna a morte, ma 20 ergastoli convertiti poi in 30 anni; 28 furono assolti o amnistiati. A tutti furono confiscati i beni.

Dopo la guerra padre Epaminonda Troya fuggì in Argentina, tornando in Italia per farsi processare. Condannato a 28 anni di carcere, ne scontò 7 uscendo con un’amnistia nel 1953; morì da uomo libero nel 1984.

Stando al libro La liberazione di Firenze di Giovanni Frullini(che fa i nomi di molti componenti della Banda Carità) ai pestaggi partecipava anche il ventitreenne fiorentino Arrigo Masi il quale, uscito indenne dal processo di Lucca, come figlio d’arte si diede allo spettacolo girando piazze, circoli, quartieri e perfino case del popolo come  applauditissimo cabarettista dialettale assieme a Tina Vinci.

Si faceva chiamare Ghigo Masino e negli anni ’70 approdò alle tv private e gli spot tvTele Libera Firenze lo ebbe come protagonista di una sit com locale (Il priore e la perpetua) che fu sospesa quando uscì la notizia di chi fosse quel “prete”, e naturalmente lo cacciarono dopo che alcuni ex partigiani avevano riconosciuto in lui uno dei picchiatori della Banda Carità.

Nel ’70 presentò in una radio fiorentina il programma di dilettanti dal titolo vagamente evocativo di La mattanza.

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Dopo quell’esperienza recitò in 10 film del genere erotico casereccio che andavano di moda, fino all’ultimo del 1983 (Io zombo tu zombi lei zomba), due anni prima di morire. Nel film Atti impuri all’italiana del 1976 è nel ruolo di don Firmino assieme a Stella Carnacina.

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Le azioni di Mario Carità furono talmente efferate che il 14 dicembre 1943 il “maggiore” dovette perfino scrivere una lettera di giustificazioni a Mussolini, a cui l’ambasciatore tedesco aveva chiesto di allontanare Carità da Firenze, perché la sua banda svaligiava le abitazioni e lasciava scritto sui muri Requisito dalle SS.

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La completa vicenda della Banda Carità è stata raccontata nella tesi di laurea di Riccardo Caporale, che tra gli altri ha intervistato anche la figlia più giovane di Carità, Elisa.

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