LE ATROCITÀ DELLA “BANDA CARITÀ” – 2

a cura di Cornelio Galas

Siamo sempre nel 1944. L’offensiva alleata di maggio a Cassino, lo sfondamento della seconda linea difensiva tedesca sul Garigliano, ed infine l’entrata in Roma di Clark e di Alexander, costringono Pavolini a ordinare il ripiegamento dei reparti della GNR di Firenze nell’Italia del Nord.

Il generale Mark Clark

Il generale Mark Clark

Carità decide di abbandonare la Toscana. Lascia a Firenze una squadra dei suoi, comandata da Giuseppe Bernasconi, un ex galeotto che aveva subito 16 condanne per truffa e che aveva partecipato anche alle imprese di Pietro Koch a Roma.

Pietro Koch

Pietro Koch

Mentre per le strade di Firenze, all’avvicinarsi degli Alleati, infuria la repressione fascista, la squadra Bernasconi cattura in piazza Tasso un gruppo di gappisti. Torturati in via Bolognese, vengono fucilati la notte del 21 luglio alle Cascine.

Lasciando Firenze il 7 luglio – secondo la deposizione rilasciata dal capitano Ferdinando Bacoccoli, comandante il distaccamento di Vicenza, a Bruno Campagnolo il 3 maggio 1944 nelle Carceri di Vicenza – la banda Carità porta con sé il frutto di diverse rapine: 55 milioni rapinati alla Banca d’Italia di Firenze, il tesoro della Sinagoga, preziosissimi quadri trafugati da una galleria d’arte, mobili e altri oggetti di provenienza ebraica.

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Questo « tesoro» ricompare, secondo la deposizione rilasciata da Umberto Usai il 5 maggio 1945 dopo il suo arresto, nella storia delle ultime giornate del distaccamento di Vicenza, quando Carità darà l’ordine di caricare sui camion in fuga le grandi casse sigillate e i sacchi di documenti che non era stato possibile distruggere, nel tentativo di portarli con sé in Germania.

Fuggito da Firenze, Carità raggiunge Bergantino, un paese sul fiume Po in provincia di Rovigo, luogo d’origine dell’aiutante Giovanni Castaldelli, e vi si stabilisce, continuando ad operare come comandante dell’Ufficio di Polizia Investigativa (UPI) di Firenze. In tale veste partecipa a rastrellamenti, arresti, interrogatori in collaborazione con le forze di polizia della zona.

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Bergantino è considerata «sede di riposo” in attesa di una più adeguata destinazione e sistemazione. Per questa ragione e per la brevità della « vacanza », non sono emersi crimini gravi a carico della banda. Da segnalare un fatto che getta luce sulla psicologia e sui « valori morali» di questi avventurieri.

In località Casaleone il farmacista del luogo era stato scoperto in possesso di armi; durante la perquisizione eseguita nella sua abitazione, il denaro e i gioielli scomparvero. L’autore del furto, il sottotenente Manzella, aveva condotto quindi il farmacista a Bergantino sottoponendolo a torture. Qualche giorno più tardi, lo stesso Manzella organizzò, dietro compenso in denaro, la fuga di un membro del CLN di Milano, il maggiore Argenton, precedentemente arrestato dalle Brigate nere di Mantova e poi trasferito presso Carità.

Mario Carità (al centro)

Mario Carità (al centro)

Successivamente, essendo venuti alla luce fatti e particolari relativi al furto ai danni del farmacista e alla fuga del maggiore Argenton, una commissione d’inchiesta aveva deciso di deferire il sottotenente Manzella al Tribunale Militare. Temendo di essere coinvolto come corresponsabile delle azioni di Manzella, Carità decide di sopprimerlo.

Su questa oscura vicenda così riferisce F. Bacoccoli:

“Egli (Carità) acconsente alla nostra richiesta di far passare alle camere di sicurezza di Rovigo il Manzella, ordinando a me, al capitano Gentili e al sottotenente Faedda di scortare l’ufficiale. Poiché era da aspettarsi un tentativo di fuga da parte dell’ufficiale incriminato che era fra l’altro dotato di molta astuzia e di una forza erculea, viene dato l’ordine ad altri militi di appostarsi per misura di sicurezza preventiva.

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A tergo dell’ufficiale vi era anche un tale Ciulli, comandante della Brigata nera di Bergantino, ex appartenente al reparto Carità in Firenze. Da notare che il Ciulli prima di scortare il Manzella fu chiamato dal maggiore Carità col quale ebbe un breve e segreto colloquio. Giunta la scorta con l’ufficiale arrestato nei pressi delle camere di sicurezza, il sottotenente Manzella con un atto di impeto fa per scagliarsi sul Ciulli …

Questi però gli scarica addosso alcuni colpi di pistola che lo feriscono gravemente.

Il ferito invoca il maggiore Carità. Io corro a chiamarlo. Intanto si dispone per una macchina che accompagni il ferito al più vicino ospedale. Il maggiore Carità si reca presso il Manzella, ha con lui un breve colloquio a quattr’occhi. Ne esce esterrefatto.

Alcuni uomini mi hanno poi riferito che il maggiore Carità avrebbe parlato ancora appartatamente col Ciulli. Giunge la macchina, il ferito viene caricato e accompagnato a Trecenta (ospedale civile) sotto la scorta di Valentino Chiarotto, Otello Carlotti e il Ciulli.

Mario Carità (al centro)

Mario Carità (al centro)

Al ritorno della macchina da Trecenta è stato raccontato che il ferito sarebbe vissuto alcune ore in ospedale, dopo di che sarebbe deceduto.

Tuttavia alcuni miei uomini di sicura onestà, Laner e Fontanelli, mi dissero più tardi che il Manzella sarebbe stato finito con due colpi di pistola alla testa, mentre veniva portato in macchina all’ospedale di Trecenta, per volere di Mario Carità, che temeva, evidentemente, troppo le eventuali confessioni dell’ufficiale ferito”.

Quando la linea di resistenza tedesca sull’Appennino tosco-emiliano mostra i segni di una profonda usura, Carità decide che è giunto il momento di cercare riparo più a Nord.

Palazzo Giusti a Firenze

Palazzo Giusti a Padova

Dapprima sceglie Vicenza e invia il maresciallo Linari ad organizzare la nuova sede. Ma poi, accogliendo l’invito del prefetto Menna, preferisce trasferirsi a Padova, pur mantenendo la filiale distaccata di Vicenza.

Carità si insedia, alla fine di ottobre del 1944, in un palazzo di proprietà dei Conti Giusti del Giardino, in via San Francesco 55. Nel frattempo Umberto Usai organizza la sezione di Vicenza, il cui comando sarà affidato in un primo tempo al tenente Bruno Bianchi e più tardi al capitano Ferdinando Bacoccoli.

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Alla fine di novembre la sezione è pronta a funzionare, con una trentina di uomini collegati ai vari organi di polizia fascisti e tedeschi del Vicentino. Una villa di via Fratelli Albanese serve da sede ufficiale e da carcere; gli interrogatori si svolgono in una villa vicina, requisita al prof. Potoschnig.

A Palazzo Giusti in Padova Carità ricostituisce rapidamente il reparto. Un’ala dell’imponente edificio viene usata per gli alloggiamenti suoi, delle sue due giovani figlie e della cinquantina d’uomini che l’hanno seguito dalla Toscana. Al pianoterra le cucine.

Il salone di Palazzo Giusti

Il salone di Palazzo Giusti

Il lavoro sì svolge nella sezione più rappresentativa dell’edificio. I prigionieri appena arrestati vengono ammucchiati nel salone. In quattro salotti sono sistemati gli uffici dove si svolgono gli interrogatori.

Le vecchie scuderie, trasformate in piccolissime celle senz’aria, vengono chiamate dai detenuti, per la disposizione a castello dei tavolacci , « la nave ».

La "nave"

La “nave”

Anche le soffitte, dove una stanza è adibita ad infermeria, servono per la custodia dei prigionieri. La banda Carità è pronta a funzionare. La posizione ufficiale di Carità è di “Comandante supremo la pubblica sicurezza e servizio segreto in Italia: reparto speciale italiano».

La corrispondenza porta la dicitura in italiano ed in tedesco ed è sottofirmata da un ufficiale tedesco delle SS; porta il timbro della SSN e Carità si firma «S.S. Sturmbannfuhrer». Palazzo Giusti diverrà nel giro di poche settimane la “Villa Triste” dei partigiani veneti.

Palazzo Giusti visto dal giardino

Palazzo Giusti visto dal giardino

In ottobre la guerra, che sembra avviata alla fine, si arresta sulla linea gotica; Alexander nel suo proclama del 13 novembre invita i patrioti italiani a cessare ogni attività per prepararsi ad affrontare l’inverno che si preannuncia molto duro.

Il generale britannico Harold Alexander.

Il generale britannico Harold Alexander.

Il rifornimento di viveri e di armi si fa critico. Le sorti della guerra e le nuove disposizioni di Kesserling, relative ad un rastrellamento globale dell’Italia del Nord, danno nuova forza alla banda Carità, di fronte alla quale la Resistenza veneta viene a trovarsi nel momento psicologico e organizzativo più difficile.

Molti partigiani, buttatisi allo sbaraglio in autunno, sono già segnalati e braccati dalle polizie locali, sono già «bruciati” come si diceva allora. Palazzo Giusti comincia ad ergersi come un’ombra nera nel pensiero di molti uomini della Resistenza.

Vengono compiuti i primi arresti. Così Giorgio Bocca nella sua “Storia dell’Italia partigiana”, rifacendosi alle testimonianze di prigionieri raccolte presso l’Istituto Storico della Resistenza di Padova, parla di Carità e di Palazzo Giusti:

“La banda si sistema a Padova in Palazzo Giusti, ne fa l’ufficio e la caserma, e il luogo di vizi e di ferocie inconfessabili.

Vi si fa uso di droghe, il sangue e gli urli dei prigionieri sono anch’essi droga; il piacere sadico di veder soffrire si mescola alla paura, a volte anche a un senso di rimorso, di rimpianto: il prete spretato Castaldelli visto, da uno dei prigionieri, mentre si prende il viso fra le mani e geme come una bestia ferita.

Un anno dopo la Liberazione i prigionieri della banda Carità si ritrovano nel giardino di Palazzo Giusti

Un anno dopo la Liberazione i prigionieri della banda Carità si ritrovano nel giardino di Palazzo Giusti

Ma il pentimento non dura, nessun rimorso è decisivo, nessuno ce la fa a togliersi dall ‘impatto di sangue e di orrore in cui si ritrova ogni mattina quando riprende gli interrogatori degli arrestati

… Una vicenda nota in tutti i luoghi di tortura: il carnefice che si trasforma in protettore, la vittima che legge sul suo volto, nei suoi occhi, un barlume di pietà e vi si attacca; il carnefice assapora questi momenti, si sente quasi buono e magnanimo, ma ecco proprio qui si rinnova la perfidia, il piacere di troncare la speranza nascente, di ricominciare il ciclo, fino alla fine del mondo.

Ricostruzione fotografica del metodo di tortura con scosse elettriche

Ricostruzione fotografica del metodo di tortura con scosse elettriche

… Carità entra in una sala di tortura mentre i suoi sono al lavoro: “… Ma no, cosa fate”, dice, “ma gli fate male …”. Il torturato si volge a guardarlo come un salvatore, lui si avvicina. “Ma è pallido questo ragazzo, su bisogna fargli coraggio». E gli rovescia sul viso le sue dure mani, e mentre picchia si esalta, si eccita, è lì, sopra la vittima, urla.

… Ma è con le donne che ci si sfoga meglio: « Non sai niente? Dici che non sai niente? Ci avevo una zietta così che mi raccontava le favole, lurida puttana”. «Ecché, troia, ci ho scritto qui in fronte sali e tabacchi?».

Ricostruzione fotografica delle torture inflitte ai prigionieri di Villa Triste. Esempio di una delle legature più comuni.

Ricostruzione fotografica delle torture inflitte ai prigionieri di Villa Triste. Esempio di una delle legature più comuni.

Che risate a vederle confuse e avvampate se le costringono a denudarsi. Poi gli spengono le sigarette accese nel ventre, o le mettono a ponte su uno sgabello, gambe in giù da una parte, testa in giu dall’altra, in modo che non possano schermirsi.

…  Certe notti nel silenzio, quando si ode solo il gemito di qualche sofferente, uno dei torturatori torna a visitare le sue vittime e cerca il discorso, interroga, sembra voler riannodare un colloquio umano: “Vuoi una sigaretta? Su, non aver paura, dillo pure cosa pensi di noi».

Prigioniero deceduto dopo le torture

Prigioniero deceduto dopo le torture

La vittima tace, il colloquio non è piu possibile, il violento Baldini che lo capisce, esce fuori con la sua risoluzione da disperato: «Si, un giorno forse mi farete la pelle, ma intanto sono io che comando”.

Il giardino di Palazo Giusti

Il giardino di Palazo Giusti

…  Fino alla fine, dietro la violenza che è diventata un vizio: far passare scariche elettriche nei genitali, strappare le unghie con le pinze, mettere al lavoro i picchiatori ebeti che bevono e mangiano mentre bastonano, passare le notti ubriachi ballando nel salotto accanto alle celle in modo che i prigionieri ascoltino”.

Il 18 luglio 1945 il quotidiano “Il Nuovo Corriere” pubblica l’elenco dei componenti la “Banda Carità” e le loro attribuzioni:

Stato maggiore: cap. Roberto Lewley, vice comandante servizio spie; ten. Pietro Koch; Ferdinando Manzella; ten. Armando Tela; ten. Eugenio Varano, aiutante; col. dell’areonautica Gildo Simini.

Gli interrogatori erano affidati a: Vinicio Bellesi; Giovanni Castaldelli; Giovanni Matteucci; Aldo Castellari; Renato Gabrielli; Jacopo Matteucci; Aldo Matteini.

Guardie personali di Carità: Valentino Chiarotto, capo guardia; Giovanni Maccarone; Torquato Piani; Romolo Massai; Antonio Coradeschi. Carceriere: Umberto Carone;

Informatori: Dino Castellani; Amedeo Fogli; Ettore Melani; Giuseppe Corsi.

Spie: Averardo Mazzoli; Ugo Cialdi; Raffaello Giunti; Renzo Merciai; Romualdo Merciai; Nello Nocentini; Aroldo Senesi; Vittorio Sorbi; Renato Simini; Remo Del Sole.

Rastrellamenti e spedizioni punitive: Ferdinando Bacoccoli; Tommaso Bernacchi.

Squadra «Perotto», meglio nota come «squadraccia della labbrata»: Mario Perotto; Nello Billocci; Elio Cecchi; Dino Cappelli; Silvano Innocenti; Gorgio Biadi detto il «fattore»; Spiridone Castellani; Arnolfo Cruicchi; Roberto Merendoni; Giorgio Nannucci; Corrado Rossi; Pier Giovanni Simonini; Arrigo Masi; Francesco Belluomini; Olesindo Salmi.

Squadra «Manente», meglio nota come «squadraccia degli assassini», operante insieme alle SS tedesche: Erno Manente; Alfredo Lisi; Mario Bacati; Bruno Cinelli; Walter Spessotto.

I cosiddetti «Quattro Santi» al servizio delle SS tedesche erano: Natale Cardini, Valerio Menichetti, Luciano Sestini, Arnolfo Natali.

Questi sono solo alcuni, i più direttamente responsabili delle atrocità commesse dalla banda, dei subalterni di Carità. Al processo di Lucca gli imputati furono in tutto 178, molti dei quali assolti per insufficienza di prove.

Fra quelli citati anche quel Koch, allievo di Carità e poi aguzzino in proprio fuori Firenze, quel Manzella ucciso dopo, in Alta Italia, dai suoi stessi complici perché accusato di rubare perfino a loro.

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