“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 1

a cura di Cornelio Galas

“Ordinaria amministrazione”: i campi di concentramento per ebrei nella repubblica sociale italiana. Ho preso come punto di riferimento, questa tesi di Matteo Stefanori, dell’Università degli studi della Tuscia (dipartimento di Storie e culture del testo e del documento) per proporre una ricerca, fatta con il massimo rigore storiografico, su un argomento probabilmente poco noto.

E cioè: i “lager”, o meglio, i campi di concentramento provinciali per ebrei, aperti a seguito dell’ordinanza n. 5 del 30 novembre 1943 diramata dal ministro dell’Interno della Repubblica sociale italiana Guido Buffarini Guidi.

Con questo provvedimento, il governo di Salò stabiliva che le persone di razza ebraica presenti nel territorio della RSI dovessero essere arrestate e rinchiuse in campi provinciali, nell’attesa che fosse creata un’unica struttura nazionale in grado di raccogliere tutti gli ebrei fermati.

Allo stesso tempo, l’ordinanza prevedeva anche il sequestro dei beni ebraici, il cui ricavato era da destinare a favore dei sinistrati di guerra.

Lo scopo della ricerca condotta da Stefanori è insomma quello di ricostruire il sistema dei campi allestiti nel periodo successivo all’ordine ministeriale e individuare il ruolo che questi ebbero nel contesto della politica antisemita di Salò, per cogliere gli elementi di continuità e di rottura con il precedente periodo fascista.

La legislazione razziale del 1938 era in vigore in Italia ormai da cinque anni e con lo scoppio della guerra il regime fascista aveva adottato misure ancor più restrittive per la libertà personale degli ebrei.

I provvedimenti subirono un ulteriore inasprimento dopo la decisione di entrare nel conflitto a fianco dell’alleato germanico (1940): in conformità con le misure prese per la sicurezza del paese in guerra, il governo ordinò che tutti gli ebrei stranieri (appartenenti a Stati nemici o a Stati che applicavano una legislazione razziale) e gli italiani ritenuti pericolosi in contingenze belliche fossero messi in regime di internamento “libero” in alcune cittadine del Regno o rinchiusi in appositi campi di concentramento.

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Nacquero così in Italia e nei territori occupati dalle truppe fasciste i primi campi di concentramento per ebrei. Nei giorni successivi alla caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, il nuovo governo guidato dal maresciallo Badoglio non abrogò le leggi razziali, pur disponendo la liberazione degli ebrei internati – salvo i sospetti di attività politica.

Dopo la firma dell’armistizio tra l’Italia e gli anglo-americani, l’8 settembre ’43, e la conseguente occupazione militare tedesca della penisola, gli ebrei si trovarono in trappola.

Da questo momento in poi, infatti, le autorità naziste poterono applicare nel territorio italiano da loro occupato il progetto di “soluzione finale” della questione ebraica, deciso durante la conferenza di Wannsee nel gennaio 1942.

Fin dal settembre 1943 e poi tra ottobre e novembre dello stesso anno, i distaccamenti militari e della polizia del Reich effettuarono rastrellamenti e uccisioni indiscriminate di persone di origine ebraica nel nord dell’Italia.

Cominciarono in quei mesi le prime deportazioni dalle principali città italiane: Milano, Verona, Bologna, Firenze. La più nota è quella che seguì la razzia del ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, in occasione della quale furono prelevati dai nazifascisti più di mille ebrei romani, trasferiti nel campo di sterminio di Auschwitz.

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È in questo contesto che, con l’ordinanza di fine novembre 1943, il ministero dell’Interno di Salò affidò il compito di arrestare e internare tutti gli ebrei presenti nel territorio nazionale alle autorità periferiche della RSI, prefetture e questure.

A queste spettava anche di provvedere al sequestro e alla confisca dei beni ebraici. L’applicazione della politica antisemita decisa dai vertici repubblicani passò quindi su un piano amministrativo, sul quale però il governo godeva di sempre meno autonomia: nato a fine settembre ’43 grazie al beneplacito di Hitler, il nuovo Stato di Mussolini era infatti sotto lo stretto controllo delle forze di occupazione tedesche.

Attraverso lo studio dei campi provinciali, verranno quindi studiate le pratiche e le dinamiche politiche che porteranno, tra settembre 1943 e aprile 1945, all’arresto e all’internamento di migliaia di ebrei, e alla deportazione dall’Italia di circa settemila persone d’origine ebraica presenti nel territorio della RSI.

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La ricerca sui campi di concentramento provinciali per ebrei affronta un aspetto specifico della politica antisemita della Repubblica sociale italiana. Lo studio di queste strutture si inserisce principalmente all’interno di due contesti storiografici: quello sulla persecuzione degli ebrei sotto il fascismo e quello sulla Repubblica sociale italiana e l’occupazione tedesca in Italia.

Come osserva Enzo Collotti, la vicenda della persecuzione degli ebrei in Italia non ha mai trovato, e ancora non riesce a trovare, uno spazio adeguato all’interno della storiografia internazionale sulla Shoah: uno sguardo anche superficiale alla storiografia internazionale sulla Shoah spinge alla constatazione del ruolo assolutamente marginale che le vicende della persecuzione contro gli ebrei in Italia hanno nelle ricostruzioni generali sulla “soluzione finale”.

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Nell’interpretare le persecuzioni antiebraiche in Italia, cioè, la storiografia internazionale generalmente sottovaluta ancora oggi la specificità dell’antisemitismo e del razzismo fascista, che al contrario vengono spiegati come conseguenza dell’alleanza tra il regime e la Germania nazista e dell’occupazione del paese da parte delle autorità del Reich.

Allo stesso tempo, invece, risulta sopravvalutata l’azione di salvataggio attuata dagli italiani nei territori occupati militarmente dall’esercito regio o in Italia durante l’occupazione tedesca della penisola.

Sempre secondo Collotti, questa tendenza interpretativa è dovuta anche al ritardo con cui la storiografia italiana è avanzata nella ricerca sulla politica antiebraica fascista.

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In linea con i tempi coi quali la storiografia internazionale ha preso coscienza dell’importanza del ruolo giocato dallo sterminio degli ebrei all’interno della storia del nazismo, la tendenza del dibattito storiografico italiano dal dopoguerra a oggi è stata infatti caratterizzata da un progressivo allontanarsi dall’originaria interpretazione dell’antisemitismo fascista come corpo estraneo all’Italia (imposto dai nazisti e conseguenza dell’alleanza con la Germania di Hitler), per arrivare, a partire dagli anni Ottanta, a una maggiore consapevolezza della responsabilità effettiva del regime mussoliniano nella persecuzione degli ebrei, nonché al riconoscimento di una specificità propria del razzismo e dell’antisemitismo fascista.

Nell’immediato dopoguerra le prime (e uniche) riflessioni sulla vicenda si trovano nella pubblicistica e nella memorialistica ebraica, all’interno delle quali prevale la tendenza ad attribuire tutte le responsabilità della persecuzione a Mussolini e ad assolvere l’Italia dalle colpe: la popolazione italiana non avrebbe collaborato, ma anzi si sarebbe opposta alla “soluzione finale”.

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Del resto, il ricordo dell’aiuto prestato dagli italiani e dalla Chiesa cattolica ai perseguitati durante l’occupazione nazista contribuì alla definizione della persecuzione italiana quale atto di compiacenza nei confronti dei tedeschi.

Inoltre, i sopravvissuti allo sterminio ebbero in un primo momento notevoli difficoltà nel raccontare la loro esperienza nei campi nazisti, perché ad esempio non ascoltati .

«La volontà persecutrice del regime fascista è pertanto sottovalutata, le responsabilità per le deportazioni sono attribuite unicamente all’occupazione tedesca, la partecipazione attiva della RSI è taciuta. Emerge viceversa l’azione salvatrice del popolo italiano e in particolare quella della Chiesa cattolica, ambiguamente anche quella delle autorità italiane», –, o perché spinti dalla volontà di dimenticare la tragedia appena vissuta e di ricominciare a vivere.

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A queste considerazioni va aggiunto anche l’atteggiamento della politica e della società italiana in quegli anni. Come osserva Mario Toscano: nei primi anni del dopoguerra, una ricostruzione che privilegiasse gli aspetti edificanti del periodo, che sottolineasse la diversità della condotta degli italiani rispetto ai tedeschi, che magnificasse la funzione purificatrice della Resistenza e la sua capacità di costruire una nuova identità nazionale […] fu un’esigenza comune, diffusa nella stragrande maggioranza della società italiana, che giovava alle forze politiche antifasciste, permetteva agli ebrei italiani di creare una nuova identità di cittadini […], consentiva al paese di procedere nella ricostruzione scrollandosi di dosso l’infamia della politica razziale.

La Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice, uscito nel 1961, ha rappresentato una svolta storiografica perché è stata la prima ricerca scientifica sulla storia dell’antisemitismo fascista e delle leggi razziali.

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Senza entrare nel dettaglio dell’interpretazione defeliciana, i molti spunti offerti dalla sua opera non sono riusciti tuttavia a stimolare nell’immediato la realizzazione di ricerche specifiche sul tema.

Solo a partire dalla metà degli anni Ottanta la storiografia italiana ha prodotto una serie di studi significativi sugli ebrei sotto il fascismo, stimolata dalla ricorrenza dei 50 anni dalla promulgazione delle leggi razziali: questo anniversario, del resto, ha destato un improvviso interesse dei media, delle istituzioni e dell’opinione pubblica che, in certi casi, ha funzionato per così dire “da traino” per la ricerca.

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Specialmente durante gli anni Novanta, nuovi contributi hanno messo in luce temi fino a quel momento poco studiati: la specificità dell’antisemitismo italiano, in relazione e in continuità col razzismo coloniale, diffusosi in maniera determinante dopo le conquiste fasciste in Africa (1935-‘36); la tradizione ad esempio dell’antigiudaismo italiano e della Chiesa cattolica; l’impatto che l’espulsione degli ebrei dalla vita pubblica italiana ebbe nelle istituzioni dell’Italia fascista, in ambito amministrativo, culturale ed economico; l’apparato repressivo del regime che trovò espressione nell’internamento dei profughi stranieri e nell’apertura dei campi di concentramento; l’abrogazione delle leggi razziali; la deportazione dall’Italia di ebrei, politici, militari e operai.

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Su quest’ultimo tema, e in particolare sulla persecuzione degli ebrei dopo l’8 settembre e la loro deportazione nel 1943-1945, sono centrali gli studi portati avanti dal Centro di Documentazione ebraica contemporanea di Milano (CDEC).

Il Centro ha presentato nel corso degli anni i risultati di una ricerca sulla deportazione degli ebrei dall’Italia, iniziata subito dopo la fine della guerra dal Comitato di Ricerca Deportati Ebrei (CRDE) con lo scopo di riportare alla luce il numero e l’identità delle persone inviate nei campi di sterminio nazisti, e ancora oggi in continuo aggiornamento.

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Di recente, inoltre, a testi di ampio respiro sulla persecuzione e la deportazione degli ebrei si sono aggiunti approfonditi studi di casi regionali. Il secondo contesto storiografico nel quale si inserisce la ricerca sui campi provinciali, come si è detto, è quello che riguarda la Repubblica sociale italianae l’occupazione tedesca dell’Italia.

Ad eccezione del lavoro di Giacomo Perticone uscito subito dopo la guerra, l’interpretazione della RSI ha risentito per anni della centralità riservata alla Resistenza. La storiografia italiana, cioè, tendeva a studiare la Repubblica di Salò soprattutto per la violenza dell’apparato repressivo contro il quale combattevano i partigiani.

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Allo stesso tempo, però, con l’obiettivo di delegittimarne l’esistenza da un punto di vista politico e sociale, si minimizzava il ruolo del nuovo stato mussoliniano, riducendolo a uno “stato fantoccio” nelle mani delle autorità d’occupazione naziste.

Facevano eccezione a questa tendenza interpretativa la memorialistica repubblichina e la produzione storiografica di destra, che portavano avanti principalmente l’immagine della Repubblica di Salò quale stato “cuscinetto” voluto da Mussolini per difendere l’Italia dai tedeschi e per evitare la cosiddetta “polonizzazione” della penisola da parte nazista.

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Per molto tempo, inoltre, i lavori pionieristici di Friedrick W. Deakin e di Enzo Collotti usciti all’inizio degli anni ’60 hanno rappresentato gli unici contributi specifici sulla politica d’occupazione tedesca in Italia, mentre rimaneva generalmente diffusa un’immagine monolitica del sistema di dominio nazista nel territorio italiano occupato.

In questo contesto, anche lo Stato di Salò era raffigurato, quindi, come una massa omogenea di “camicie nere”. Questo modello interpretativo è stato progressivamente ridiscusso tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.

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Nel 1985 un convegno organizzato dalla Fondazione Micheletti di Brescia è stato interamente dedicato, per la prima volta, alla Repubblica sociale italiana; negli stessi anni, gli studi di Claudio Pavone sulla Resistenza, che reintroducevano il concetto di “guerra civile” per il periodo 1943-1945, hanno ricoperto un ruolo fondamentale nello scardinare le vecchie teorie storiografiche, riconoscendo una complessità di scelte e comportamenti non solo tra i partigiani ma anche tra coloro che aderirono alla RSI.

Negli ultimi vent’anni due lavori hanno inciso particolarmente sullo sviluppo della ricerca. Uscito alla metà degli anni Novanta e frutto di rigorose ricerche negli archivi tedeschi e italiani, il testo dello storico Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, resta ancora oggi il punto di riferimento fondamentale sulla storia dell’occupazione tedesca in Italia.

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Grazie a un’ampia analisi delle dinamiche politiche che coinvolsero i diversi organi dell’amministrazione militare tedesca in Italia e del loro rapporto con le autorità italiane, l’autore contesta l’interpretazione che vuole la RSI solo uno stato “fantoccio” al servizio dei tedeschi: con la celebre definizione di “alleato occupato” Klinkhammer illustra la paradossale situazione in cui si venne a trovare il nuovo Stato di Salò, in continua ricerca di una propria sovranità, ma senza le forze necessarie per imporsi all’occupante.

L’opera di Luigi Ganapini, La repubblica delle camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, mostra invece per la prima volta le differenti componenti politiche e sociali presenti nella RSI, facendo emergere uno Stato tutt’altro che omogeneo e monolitico.

Le ricerche della più recente produzione storiografica si sono inoltre indirizzate verso soggetti ancora poco esplorati, quali il ruolo di Mussolini e del partito repubblicano fascista all’interno del nuovo Stato, o l’importanza del nesso fra continuità e discontinuità rispetto al Ventennio, in particolare per quanto riguarda gli apparati statali di Salò.

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Si è dunque cominciato a riflettere in maniera critica sul significato da attribuire alla collaborazione delle autorità della RSI con l’occupante tedesco, come già avvenuto in Francia per il governo di Vichy, dove già da anni la storiografia distingue il fenomeno del “collaborazionismo”, ovvero una precisa volontà di cooperare con i tedeschi, da quello della “collaborazione di stato”, caratterizzata piuttosto da negoziazioni con il paese occupante per vedere garantite una autonomia statale e la sovranità nazionale.

Le fonti

La ricerca si è basata principalmente su fonti d’archivio ed è stata effettuata in particolare nei fondi degli organi responsabili dell’apertura e del funzionamento dei campi di concentramento provinciali: il ministero dell’Interno, le prefetture e le questure delle province della Repubblica sociale italiana.

La documentazione che queste autorità hanno lasciato è composta per lo più da telegrammi, comunicazioni ministeriali, ordini e rapporti di polizia, relazioni di ispezioni ecc., scambiati tra i vari uffici ministeriali, i capi delle province e i questori.

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Tuttavia il materiale appena descritto è spesso di difficile consultazione, in quanto lacunoso e in molti casi scomparso del tutto per via delle vicende belliche: è il caso, soprattutto, dei fondi delle prefetture e delle questure conservati presso gli archivi di Stato locali.

La ricerca di notizie e riferimenti che rimandassero all’esistenza di campi provinciali svolta nel fondo del ministero dell’Interno, conservato all’Archivio centrale dello Stato di Roma (ACS), ha riguardato principalmente la Direzione generale di Pubblica sicurezza, ovvero l’ufficio ministeriale responsabile dell’applicazione degli ordini di arresto e internamento e quindi interlocutore preferenziale delle autorità coinvolte nella vicenda: dai vertici del ministero e del governo agli organi locali quali appunto prefetture e questure.

La documentazione presente in questo fondo copre tutto l’arco temporale della guerra (1939-1945), nonché i primi anni della liberazione (1944-1947): lo studio di questo materiale, quindi, permette di avere una visione completa della politica di internamento portata avanti dall’Italia fascista fin dallo scoppio del conflitto.

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Una maggiore attenzione è stata dedicata in ogni modo al periodo 1943-1945 e a quelle autorità governative e statali che parteciparono all’evolversi della vicenda: nello specifico il capo della polizia di Salò e il Gabinetto del ministero dell’Interno.

Si è infine proceduto anche alla consultazione di altri fondi relativi alla RSI, come quelli della segreteria particolare del Duce e la Presidenza del Consiglio dei ministri.

Fulcro della ricerca sono stati gli Archivi di Stato (AS) di alcune province della RSI: Mantova, Ferrara, Parma, Bologna, Piacenza e Padova. Ci si è concentrati soprattutto sui fondi della prefettura e della questura, là dove questi siano ancora conservati e non siano andati persi o distrutti.

In alcuni casi si è ritenuto opportuno visionare anche i fondi relativi alle Corti d’Assise straordinaria, per raccogliere notizie su personaggi messi sotto processo nell’immediato dopoguerra, o i fondi di istituzioni legate alla persecuzione degli ebrei (ad esempio l’EGELI, l’ufficio addetto alla liquidazione dei beni sequestrati e confiscati agli ebrei).

La documentazione presente presso il fondo della questura dell’Archivio di Stato di Padova, fino ad oggi in gran parte inedita, ha costituito senza dubbio un ritrovamento essenziale per i risultati raggiunti dalla presente ricerca: all’interno di un fascicolo, spostato in un’unità archivistica apparentemente non collegata ad esso, era presente la corrispondenza scambiata tra capo provincia, questore e ispettori di polizia relativa proprio all’apertura e all’organizzazione del campo di concentramento provinciale allestito in provincia di Padova, nel paese di Vò Vecchio.

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Grazie a questa documentazione si è dunque potuto procedere con una certa precisione alla ricostruzione di un’esperienza locale.

Inizialmente era stato previsto di concentrare la ricerca solo negli archivi di quelle località in cui era testimoniata l’esistenza di campi di concentramento provinciali. In un secondo momento si è deciso invece di porre l’attenzione anche alle province dove non venne creata nessuna struttura per internare gli ebrei (Piacenza e Bologna), con lo scopo di effettuare un confronto tra differenti pratiche politiche locali.

Sempre con lo stesso obiettivo, si è preferito approfondire la vicenda di un preciso ambito regionale (Emilia Romagna). Questa scelta è stata anche dettata dalla necessità di dover ottimizzare tempo e risorse a disposizione.

Grazie alla disponibilità dei direttori di alcuni archivi locali sono stati inoltre recuperati documenti presso l’Archivio di Stato di Verona e l’Archivio generale della regione Val d’Aosta.

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Si è proceduto inoltre alla consultazione del fondo Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) conservato presso l’archivio storico della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (interamente digitalizzato e consultabile via Internet).

Il fondo è costituito dai rapporti giornalieri di polizia inviati dai capi provinciali della GNR al comando generale, il quale a sua volta provvedeva a redigere i “notiziari” e a trasmetterne copia in via riservata a Mussolini, a Renato Ricci (comandante della GNR) e a poche altre personalità fasciste.

Ogni notiziario è suddiviso in aree geografiche e in sezioni tematiche: attività dei ribelli, ordine pubblico, scioperi, operazioni contro i ribelli, notizie militari e varie. La documentazione va dal mese di novembre 1943 al novembre 1944.

La GNR in molti casi fu responsabile dei rastrellamenti di ebrei, della sorveglianza dei campi e dei trasporti: la ricerca ha evidenziato in ogni modo che nei notiziari è posta attenzione soprattutto alla lotta partigiana e all’ordine pubblico (scioperi, proteste contro i tentativi di arruolamento forzato nell’esercito e nelle fabbriche) e sono molto pochi i riferimenti alla politica antiebraica.

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Sono stati inoltre consultati gli archivi storici del Centro di documentazione Ebraica contemporanea di Milano (CDEC) e del Centre de documentation juive contemporaine di Parigi (CDJC), che conservano testimonianze scritte e orali sulla persecuzione e la deportazione degli ebrei raccolte a partire dall’immediato dopoguerra.

Presso l’archivio del CDJC sono state analizzate due tipologie di documenti. Da una parte, la documentazione relativa alla questione ebraica in Italia, con particolare riferimento al periodo 1940-1945.

Si tratta di materiale di varia natura: copie di telegrammi, rapporti di polizia, ordini ministeriali, il più delle volte già presenti in originale nel fondo del ministero dell’Interno all’ACS; circolari, telegrammi e corrispondenza riguardanti l’atteggiamento delle autorità italiane nei confronti degli ebrei nelle zone occupate dalle truppe fasciste durante la guerra (Croazia, Francia e Grecia in particolare); testimonianze e materiali raccolti da comitati ebraici internazionali di assistenza e di ricerca nel periodo successivo alla fine del conflitto.

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Dall’altra, il materiale raccolto in occasione del processo di Norimberga e ad Eichmann, presentato come prova d’accusa in sede processuale, risalente agli anni 1943-1944 e in parte conservato ancora oggi presso alcuni archivi tedeschi (ad esempio il Politisches Archiv des Auswärtiges Amt di Bonn – Archivio politico del ministero degli Affari esteri, PA.AA).

Presso l’archivio storico del CDEC è stato svolto invece un lavoro di ricerca soltanto all’interno dell’Archivio generale, mentre non si è proceduto alla consultazione delle testimonianze orali dei deportati ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio, raccolte dal Centro nel corso di questi anni.

Pur considerando questo materiale di primaria importanza, tale scelta è sembrata però coerente con la decisione di privilegiare innanzitutto le fonti d’archivio prodotte dagli organi ministeriali e locali responsabili della persecuzione.

Una parte della ricerca è stata effettuata infine sulle fonti a stampa, soprattutto per vedere quale fu la reazione dei giornali nei confronti delle operazioni antiebraiche nei primi mesi di occupazione (settembre-novembre 1943) e per analizzare in che modo le misure d’internamento degli ebrei, decise dal ministero a fine novembre, furono presentate all’opinione pubblica.

Si è quindi tenuto conto dei principali giornali nazionali dell’epoca, mentre per le pubblicazioni locali ci si è attenuto ai riferimenti presenti in contributi e saggi specifici alla persecuzione antiebraica in alcune province.

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Lo studio dei campi di concentramento provinciali permette di analizzare con una lente d’ingrandimento le dinamiche politiche che furono alla base della persecuzione degli ebrei nel territorio della RSI.

Senza dubbio la realizzazione di queste strutture rappresenta un aspetto molto specifico della vicenda: ad esempio, l’ordinanza di fine novembre da cui prende il via questa ricerca contemplava non soltanto l’arresto degli ebrei, ma anche il sequestro dei loro beni.

Tuttavia, attraverso l’analisi di questo preciso ambito della politica antisemita è possibile ipotizzare quale fu, nelle pratiche quotidiane, l’applicazione effettiva della normativa antiebraica di Salò.

Come osserva Saul Friedländer: in primo luogo la storia dell’Olocausto non può essere limitata alle decisioni e ai provvedimenti tedeschi, ma deve includere anche le azioni dei funzionari, delle istituzioni e dei diversi gruppi sociali nei territori occupati e negli Stati satellite.

In secondo luogo è evidente che le percezioni e le reazioni ebraiche (collettive o individuali) fossero una componente inseparabile di questa storia e che quindi, nel quadro di una rappresentazione storica generale, non possano essere considerate in un ambito distinto.

In terzo luogo, una rappresentazione degli avvenimenti, che si svolsero contemporaneamente a ogni livello e in luoghi diversi, migliora la percezione della dimensione, della complessità e dell’intreccio reciproco tra il numero enorme dei componenti di questa storia.

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Sulla base di queste considerazioni, il lavoro di ricerca si è sviluppato principalmente in tre direzioni e ha sollevato alcune questioni alle quali si è cercato di dare una risposta.

Il primo capitolo è dedicato all’analisi della politica antiebraica fascista e dei provvedimenti presi dal ministero dell’Interno allo scoppio della guerra, per individuare quali elementi di continuità ebbe l’“antisemitismo di Stato” di Salò con quello del Ventennio.

Nell’analizzare le misure adottate contro gli ebrei dal 1938 in poi si sono messi in evidenza alcuni caratteri specifici quali l’elemento razziale e xenofobo presenti nella legislazione e quello strettamente legato alla contingenza bellica (l’individuazione di un nemico interno ed esterno al paese in guerra).

In particolar modo, le pratiche dell’internamento adottate nei primi anni del conflitto dall’amministrazione fascista sembrarono costituire un’esperienza fondamentale, in quanto si ritrovano tali e quali nel momento in cui le autorità di Salò dovettero applicare i provvedimenti del biennio 1943-1945.

E’ stato approfondito anche l’aspetto politico, istituzionale e amministrativo della normativa di Salò. I provvedimenti antisemiti furono disposti dal governo centrale della Repubblica sociale italiana, ovvero dal ministero dell’Interno; la loro applicazione, però, dipese dall’iniziativa delle autorità locali (prefetture e questure) e fu influenzata dal preciso contesto storico in cui si trovava ogni provincia: la guerra e l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale.

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L’apertura o meno di un campo di concentramento dipese insomma dalla capacità che capi provincia e questori ebbero nell’interpretare e rendere operativi gli ordini provenienti dall’alto in una determinata situazione politica, sociale ed economica del territorio di competenza.

L’analisi si sposta quindi sullo studio specifico dei campi, ovvero sulla loro organizzazione interna e sulle pratiche politiche e amministrative locali alla base del loro funzionamento.

Come dimostrato dall’esempio del campo provinciale di Padova, la gestione di queste strutture fu appannaggio esclusivo delle autorità locali (capi provincia, questori, uomini della Pubblica sicurezza), che eseguirono il compito affidatogli dal ministero come fosse “ordinaria amministrazione”.

L’ultima parte del lavoro, il quarto capitolo, è dedicata ai protagonisti implicati nella vicenda. Si è deciso di dare spazio innanzitutto alle vittime delle misure antisemite: dopo l’8 settembre, e ancor più dopo il 30 novembre 1943, gli ebrei si ritrovarono colpiti da una normativa che ora non prevedeva più soltanto una loro discriminazione dalla società italiana (come nel caso delle leggi razziali del 1938), ma intendeva colpire la loro stessa presenza fisica nel territorio della RSI.

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La loro reazione fu principalmente quella di fuggire agli arresti e di vivere in clandestinità. Tuttavia, alcuni ebrei non riuscirono a mettersi in salvo e caddero nelle mani delle autorità nazifasciste, finendo nei campi italiani: si è quindi cercato di analizzare l’atteggiamento degli arrestati costretti a subire le misure di internamento.

Si è approfondito il ruolo delle autorità responsabili degli arresti e dell’invio degli ebrei nei campi di concentramento: organi di polizia italiani e tedeschi, presenti entrambi nel paese, collaborarono nel mettere in pratica le misure antiebraiche, ma sembrarono dividersi sulle modalità e sugli obiettivi della persecuzione.

In questo contesto, il caso dei campi di concentramento è utile a identificare i nodi sui quali la collaborazione tra i due “alleati” entrò in crisi. Infine, gli attori volontari e involontari della vicenda furono anche i gruppi della Resistenza, la Chiesa cattolica e la popolazione italiana. I primi, in alcuni casi, provarono a opporsi alle misure decise dal governo della RSI, ma scontarono probabilmente la loro scarsa organizzazione politica nell’inverno 1943-’44, ovvero nei mesi in cui la persecuzione fu più violenta.

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Sull’atteggiamento del Vaticano si è scritto molto, non senza accenti polemici riguardo una mancata presa di posizione ufficiale del Papa di fronte alla persecuzione degli ebrei: ciò nonostante, il sostegno ricevuto dagli istituti religiosi nel biennio 1943-1945 permise a molti perseguitati di rifugiarsi presso chiese e conventi e di sfuggire così agli arresti.

Infine, riguardo alla popolazione italiana non è possibile delineare un unico atteggiamento: molti infatti sono i casi di delazione e le denunce di ebrei alle autorità nazifasciste da parte di singoli cittadini, ma molti di più sono i tentativi di salvataggio messi in atto da persone comuni, senza l’aiuto delle quali la popolazione ebraica non avrebbe potuto scampare alla persecuzione in numero così elevato.

Anche qui, la vicenda dei campi provinciali propone un’immagine complessa di ciò che accadde effettivamente a livello locale e mette in evidenza in realtà uno stretto legame tra queste strutture e la società italiana che li circonda.

Quest’ultima, in particolare, fu spesso inconsapevole delle conseguenze tragiche che avrebbero avuto alcune banali e “ordinarie” azioni quotidiane.

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