a cura di Cornelio Galas
Cominciamo questa puntata – abbiate pazienza: siamo ormai quasi all’ultima – analizzando la nazionalità degli internati. La differenza tra il numero di stranieri e di italiani non risulta particolarmente evidente, anche se sono comunque i primi quelli maggiormente colpiti dai provvedimenti.
Pur continuando a considerarli due categorie distinte da un punto di vista burocratico (rimase cioè sempre la distinzione tra stranieri e italiani), le autorità di Salò misero sullo stesso piano gli ebrei provenienti da altri paesi da quelli nati in Italia: anche a livello esecutivo, dunque, fu dato seguito ai proclami politici del manifesto di Verona.
Tuttavia, spesso e volentieri vi sono campi nei quali gli internati sono quasi esclusivamente stranieri o, al contrario, per lo più italiani. A Vicenza, nel campo provinciale di Tonezza, su 45 ebrei rinchiusi solo 4 erano italiani, così come a Parma, a Vercelli o a Firenze (Bagno a Ripoli) la maggioranza degli internati era composta da ebrei nati in altri paesi.
Il quadro è totalmente diverso in altre province. Ad Asti, su 22 ebrei presenti nel campo, soltanto in 3 erano stranieri (jugoslavi). A Borgo San Dalmazzo in provincia di Cuneo, 23 dei 26 ebrei arrestati e trasferiti al campo provinciale erano italiani. Molto probabilmente in questo caso aveva influito l’esperienza del novembre 1943, quando da questa provincia erano stati deportati verso i campi di sterminio 330 ebrei francesi fuggiti dal sud della Francia al seguito dell’esercito italiano.
In quell’occasione, gli ebrei italiani fermati dall’autorità tedesca erano stati poi rilasciati e non aggiunti al convoglio diretto al campo di Drancy, vicino Parigi, da dove partivano i convogli destinati ad Auschwitz. Così, a dicembre, appena diramata la disposizione di arresto dal governo di Salò, gli ebrei stranieri nella zona si resero irreperibili alle autorità.
A dire il vero, neanche gli italiani precedentemente fermati si fecero prendere di nuovo, ma nel campo finirono lo stesso molti ebrei italiani arrivati o residenti nella provincia di Cuneo: in particolare, nel paese di Salluzzo, si erano nascosti molti fuggiaschi provenienti da Torino, che vennero poi catturati dal locale comando dei carabinieri.
Anche a Padova, la maggioranza degli internati era di nazionalità italiana, così come a Ferrara e a Sondrio. Vi sono poi campi nei quali gli stranieri e gli italiani furono più o meno in numero pari. È il caso di Grosseto: nel campo di Roccatederighi furono in tutto internati 39 ebrei stranieri e 41 di nazionalità italiana.
Gli ebrei stranieri erano in effetti maggiormente esposti al pericolo di arresto. Innanzitutto erano per lo più persone già soggette dagli anni precedenti alle misure di internamento libero e in campo di concentramento: coloro che non ebbero la prontezza o la possibilità di fuggire non appena furono a conoscenza dell’ordinanza n. 5 – il governo di Salò aveva comunque già ripristinato le disposizioni di internamento per gli ebrei stranieri abrogate da Badoglio in seguito all’armistizio – si ritrovarono automaticamente nelle mani della polizia fascista, senza che questa dovesse fare quasi nessuno sforzo per andarli a cercare.
Esempio lampante è il citato campo di Tonezza in provincia di Vicenza, dove gli ebrei stranieri concentrati erano già stati internati nella zona tra il 1941 e il 1943. “Clandestinità e fuga” furono dunque i due aspetti principali della vita degli ebrei stranieri durante la RSI e l’occupazione tedesca dell’Italia.
Gli scarsi legami con la popolazione locale, inoltre, rendevano loro più difficile la ricerca di un posto dove rifugiarsi. Infine, parlando una lingua diversa erano facilmente individuabili dalle autorità e più soggetti a cadere nella trappola dei delatori.
Paradossalmente, però, come fa notare Klaus Voigt, il fatto di non disporre di un indirizzo o di un domicilio stabile dove essere rintracciati (al contrario di ciò che invece accadeva nel caso degli italiani), costituiva un certo vantaggio perché significava non essere per forza reperibili in base agli elenchi posseduti dalle questure.
Venuti a conoscenza dell’ordinanza di fine novembre, alcuni governi esteri si interessarono alla sorte degli ebrei loro connazionali presenti nel territorio italiano. Il 1 dicembre 1943 il console generale svizzero a Milano inviò alle prefetture di alcune città del nord (quelle di sua competenza) una lettera nella quale si chiedeva al ministero di escludere dal provvedimento gli ebrei svizzeri:
la Svizzera, che non conosce distinzioni razziali, mette tutti i suoi concittadini sullo stesso piano ed a tutti accorda con la stessa intensità, la sua protezione.
L’arresto di un cittadino svizzero, di razza ebraica, domiciliato nel territorio nazionale, rappresenterebbe quindi null’altro che l’arresto di un cittadino svizzero. Ora siffatto arresto non è dovuto a infrazioni contro le leggi e da parte svizzera senz’altro ritenuto ingiustificato.
Il console riteneva quindi che l’unica soluzione che sarebbe potuta «in un certo qual caso apparire giustificata» fosse l’allontanamento dall’Italia dei cittadini svizzeri di razza ebraica. Inoltre non riteneva giustificata la requisizione dei beni, in quanto la tutela dei cittadini elvetici ricadeva esclusivamente sotto la responsabilità del governo federale.
Interessamenti simili riguardo cittadini stranieri di razza ebraica pervennero anche da altri governi. In Ungheria e Romania, a metà dicembre 1943, furono convocati dai rispettivi ministeri degli esteri i rappresentanti della legazione italiana, per avere notizie riguardo il trattamento riservato ai cittadini di razza ebraica di nazionalità ungherese e rumena.
Da Bucarest si comunicava di aver appreso «con meraviglia» che gli ebrei rumeni venissero arrestati e inviati in campi di concentramento e subissero il sequestro dei loro beni.
Citando i trattati commerciali tra l’Italia e la Romania e le convenzioni esistenti tra i due paesi, il direttore dei servizi consolari affermava che «in linea di diritto non può essere fatta distinzione fra romeni ariani e romeni semiti» e domandava che gli arrestati fossero liberati dai campi e risarciti dei beni sequestrati.
In caso contrario, minacciava: «il Governo romeno si vedrà costretto ad usare lo stesso trattamento agli ebrei italiani residenti in Romania e a denunciare anche le convenzioni anche per quanto riguarda gli ariani italiani».
Sulla stessa linea, ma in maniera meno drastica, il segretario generale agli esteri ungherese, non avendo ricevuto notizie a riguardo, si augurava che «il cittadino ungherese ebreo munito di regolare passaporto residente in Italia non venga colpito da provvedimenti legislativi come esproprio dei beni o la chiusura in campo di concentramento».
Da Budapest si richiamava la politica più tollerante dell’Italia in materia razzista, comune anche all’Ungheria, rispetto a quella di altri paesi, e si chiedeva che «tale materia venisse regolata in Italia sulla base della reciprocità di trattamento».
Interessato della questione, Mussolini chiese al ministero degli Affari esteri italiano che atteggiamento tenesse il governo nazista in questi casi. Già a marzo, in realtà, la Direzione generale per la demografia e la razza aveva comunicato alla Direzione generale della Polizia e al Gabinetto del ministero dell’Interno il proprio parere riguardo la questione degli ebrei svizzeri: da una parte riteneva si potesse autorizzare senza problemi il rimpatrio degli ebrei elvetici, qualora il governo svizzero ne avesse fatta richiesta.
Dall’altra però si dimostrava intransigente sul sequestro del patrimonio, per il quale si dovevano applicare senza dubbio le disposizioni italiane in materia. Il 16 maggio 1944, il ministero degli Affari esteri rispose al Duce che la Germania seguiva un comportamento meno rigido nei confronti di quegli ebrei di cittadinanza straniera, le cui ambasciate erano intervenute in loro favore:
così gli ebrei romeni residenti in Germania, in un primo momento inviati nei campi di concentramento della Polonia e colà tenuti fino all’aprile 1943, furono successivamente liberati e rimpatriati, in seguito all’interessamento del Maresciallo Antonescu.
Analogo trattamento hanno avuto gli ebrei turchi, spagnoli, portoghesi, svizzeri, svedesi e finlandesi residenti in Germania o nei territori occupati. Ad essi è stato concesso un termine di tempo entro cui è stata loro data la facoltà di rimpatriare.
Per quanto concerne la sorte dei beni appartenenti agli ebrei, il governo germanico ha seguito il sistema dell’incameramento a favore del Reich solo nei casi in cui non sia stata fatta valere alcuna pretesa da parte dei rispettivi Governi.
In caso contrario, invece, si è proceduto al sequestro a favore degli Stati interessati con riserva di trattative future per il trasferimento dei beni nei Paesi di origine degli ebrei.
Che i tedeschi prevedessero un atteggiamento differente nei confronti di alcune categorie di ebrei in base alla loro nazionalità, in realtà, era noto alle autorità italiane fin dal dicembre del 1943, quando alcuni comandi germanici di zona, come vedremo, provarono a imporre alle questure locali criteri di arresto diversi da quelli del governo di Salò.
Inoltre, una diversità di trattamento fu riservata anche a coloro che furono deportati. Mentre la maggior parte degli ebrei fu inviata ad Auschwitz, gli ebrei libici di nazionalità britannica furono trasferiti al campo di Bergen Belsen, dove le possibilità di rimanere in vita erano più alte: probabilmente questi sudditi britannici erano considerati utili elementi di scambio in eventuali trattative con le autorità militari inglesi per ottenere, ad esempio, la liberazione di soldati germanici imprigionati.
L’appunto indirizzato dagli Esteri a Mussolini si concludeva con una proposta di soluzione:
si conferma pertanto l’avviso che, ad evitare difficoltà cogli Stati amici, convenga anche da parte nostra seguire una linea di condotta non dissimile ed in ogni caso non più severa di quella seguita dalla Germania.
Il duce accolse con favore la proposta. Indipendentemente da quello che fu il reale atteggiamento della Germania, è interessante qui notare che il governo italiano adottò quindi una soluzione che prevedeva un trattamento differenziato nei confronti degli ebrei appartenenti a nazionalità di un paese non in guerra contro la RSI (e il suo alleato tedesco), e la cui ambasciata si fosse interessata della sorte dei propri cittadini.
Bastava quindi l’intervento di un governo estero amico o neutrale per escludere dal provvedimento una certa categoria di persone, nonostante le disposizioni del ministero prevedessero l’arresto, l’internamento e il sequestro dei beni di tutti gli ebrei stranieri presenti in Italia.
In questo frangente, se si esclude il caso della Svizzera, gli ebrei e, soprattutto i loro averi, vennero trattati come “merce di scambio” tra paesi: tanto che, prima di prendere una decisione finale, le autorità italiane si preoccuparono di sapere quanti fossero gli ebrei italiani residenti in Ungheria o in Romania, e allo stesso tempo, quanti ebrei di nazionalità rumena o ungherese si trovassero nel territorio della RSI.
Le pressioni su Salò potevano essere esercitate in particolare attraverso la minaccia di ritorsioni nei confronti degli italiani residenti all’estero. Anche le autorità naziste, del resto, evitarono di assumere un atteggiamento troppo rigido contro coloro che, ad esempio, erano nati in Argentina, in considerazione del gran numero di cittadini tedeschi presenti in quel paese (circa 80.000), i quali avrebbero potuto essere bersaglio di ritorsioni da parte del governo locale.
Tornando all’Italia, un caso analogo interessò i cittadini turchi di razza ebraica. Anche qui, il console generale di Turchia a Milano si rivolse alla prefettura di Imperia chiedendo spiegazioni su un suo concittadino residente in Italia, ricercato dai carabinieri per essere arrestato in esecuzione delle misure razziali.
Il console faceva presente che «migliaia di italiani godono piena libertà in Turchia e per conseguenza i cittadini turchi residenti in Italia senza distinzione sono esclusi dalla portata della legge razziale».
Affermava inoltre che gli ebrei turchi arrestati a Milano erano stati liberati dalla prefettura locale su ordine del ministero dell’Interno e che egli stesso si stava già impegnando a espletare le formalità presso le autorità italiane e tedesche per facilitare il rimpatrio di tutti i cittadini turchi di religione ebraica presenti nel territorio della RSI: del resto questi erano considerati «indesiderabili» in Italia.
Nel mese di luglio, il ministero comunicò alla Direzione generale di pubblica sicurezza che il rimpatrio degli ebrei turchi era autorizzato.
Ad eccezione della Svizzera, dunque, il citato interessamento da parte di queste ambasciate straniere, molto probabilmente, poggiava su considerazioni di tipo economico, politico e diplomatico. Difficilmente, infatti, si spiegherebbe con motivazioni umanitarie l’atteggiamento del governo rumeno di Antonescu, protagonista, pochi mesi prima, del massacro di 100.000 ebrei presenti in Romania.
Dopo l’ordinanza di fine novembre gli ebrei furono senza dubbio consapevoli del “salto di qualità” impresso dal governo di Salò alla politica antiebraica fin lì adottata dal regime fascista.
Rispetto al passato, adesso, non erano soltanto i cittadini stranieri appartenenti a nazionalità nemica a essere vittime di provvedimenti restrittivi della libertà personale: le misure di arresto e internamento erano estese, infatti, alla totalità della popolazione ebraica in Italia.
Come abbiamo visto, questi provvedimenti erano stati subito resi noti attraverso la radio e la stampa: la maggior parte degli ebrei capì che la soluzione migliore sarebbe stata quella di vivere in clandestinità, anche se in molti si esposero ugualmente a rischi, come quello di ritornare negli appartamenti abbandonati per recuperare i propri vestiti o i beni di prima necessità, ora posti sotto sequestro.
Vivere in clandestinità non significava tuttavia che si potesse evitare ogni contatto con la popolazione. Bisognava pur uscire per fare la spesa, per recarsi dal medico, per incontrarsi con le persone da cui si riceveva assistenza, per procurarsi gli indispensabili documenti falsi […]
Ovunque incombeva il pericolo di essere notati, riconosciuti e denunciati, di incappare magari per caso, in un controllo stradale, in una perquisizione domiciliare o in un rastrellamento. La sopravvivenza dipendeva da una serie di circostanze favorevoli praticamente impossibili da prevedere e che oltre tutto in qualsiasi momento potevano cambiare.
Chi invece non ebbe la possibilità o la forza di scappare, si ritrovò nelle mani delle autorità di polizia. Alcuni ebrei si rassegnarono ad accettare la misura di internamento. Ad Asti, il capo provincia comunicò al ministero che le internate non rappresentavano un pericolo in quanto si trattava di persone ormai rassegnate, appunto, «a subire ogni conseguenza derivante dalle leggi razziali».
In altri casi, erano problemi pratici a costringere i perseguitati a tenere un determinato atteggiamento, per così dire, remissivo, che a volte si esprimeva addirittura con la paradossale richiesta di preferire l’internamento alla liberazione.
A Sondrio, ad esempio, la prefettura comunicava che «aderendo a vive istanze avanzate dalle figlie» non aveva rilasciato due coniugi ultrasettantenni «in considerazione che gli stessi per la loro età avanzata e perché privi di mezzi di sussistenza non sono in condizione di far fronte da soli alle necessità della vita».
Come era già avvenuto negli anni precedenti, insomma, il campo di concentramento poteva rappresentare una soluzione da accettare per coloro i quali, colpiti dai provvedimenti di sequestro e di confisca, non avevano disponibilità economiche per vivere all’esterno o non disponevano di un alloggio dove andare ad abitare. Una volta arrestati, quello della malattia era il mezzo più utilizzato per provare a essere esentati dalla misura d’internamento.
Dimostrare di essere in condizioni di salute precarie, tali da necessitare il trasferimento in ospedale o l’impossibilità di muoversi dalla propria abitazione, poteva permettere di evitare di finire in un campo o in una prigione, oppure di uscirne.
Come detto, la possibilità di ottenere un certificato medico o, in generale, un’esenzione, dipendevano in certi casi dalle condizioni economiche e sociali delle persone, ovvero dall’appartenere o meno a qualche prestigiosa e facoltosa famiglia da sempre influente a livello locale.
Oltre alla malattia, le motivazioni grazie alle quali era possibile sperare nel rilascio erano strettamente legate ai criteri d’esenzione contemplati dalla legge, come dimostrare la non appartenenza alla razza ebraica o la situazione d’indigenza di un familiare “ariano”.
A Parma, ad esempio, il 16 dicembre 1943, l’ebreo “misto” V.F., già sottoposto a vigilanza, inoltrò alle autorità competenti la richiesta di liberazione di suo padre dal campo di concentramento di Scipione di Salsomaggiore: battezzato e sposato con un’ariana, era l’unica persona, a detta del figlio, in grado di assistere sua madre (moglie dell’internato), gravemente ammalata.
Alla richiesta erano allegati i certificati medici che attestavano le gravi condizioni di salute della donna, i documenti che testimoniavano la partecipazione del padre alle vicende dell’Italia fascista nonché le pratiche che dimostravano la sua non appartenenza alla razza ebraica: l’iscrizione al partito (sia il PNF che il PFR) e alla milizia, il certificato di battesimo, le decorazioni militari ottenute nella prima guerra mondiale.
Forse anche in conseguenza di quella che era stata l’esperienza dell’internamento nei campi fascisti negli anni tra il 1940 e il 1943, in molti casi dunque non sembra esservi stata la diffusa consapevolezza che il campo di concentramento potesse rappresentare l’“anticamera” della deportazione ad Auschwitz.
Sorprende a questo proposito che solo pochi individui abbiano tentato di evadere, approfittando della scarsa sorveglianza di polizia. In alcuni campi, lo abbiamo visto, gli internati erano addirittura autorizzati ad allontanarsi per effettuare delle spese nelle attività commerciali dei paesi adiacenti.
La possibilità di uscire da un campo, invece, venne intravista generalmente attraverso iniziative che rispettassero procedure legali, come le richieste di liberazione per motivi di salute, attestate da certificati medici, oppure la riapertura di pratiche di accertamento per dimostrare la non appartenenza alla razza ebraica.
Vi era cioè la convinzione che da un campo si potesse uscire in base a quanto stabilito dalla legge, senza che si dovesse ricorrere ad azioni rischiose e illegali quali la fuga. Afferma a questo proposito Enzo Collotti che «dopo il 30 novembre, gli ebrei dovevano avere la consapevolezza che se non si trovavano in campo di concentramento erano degli illegali».
Ancora una volta si può citare una testimonianza di Primo Levi raccolta nel 1983: le sue parole riassumono forse nel migliore dei modi quali fossero i sentimenti di un cittadino “ebreo” in Italia in quegli anni:
io nel ’42, nel ’43 facevo la vita che facevano tutti gli studenti: andavo in montagna, andavo a teatro, andavo ai concerti e così via, senza rendermi conto che la Germania stava invadendo l’Europa. Cosa avrei dovuto fare?
Cercare di emigrare per esempio. Ma per emigrare bisognava superare una barriera di potenziale: uscire da un buco, che è la famiglia, che sono gli affetti, che sono la patria, il paese in cui si è nati, le amicizie, ed era necessaria una lucidità che pochissimi hanno avuto in Italia.
E poi ci volevano anche molti soldi, molti, non era facile. E come si può pretendere la lucidità? Forse che oggi viviamo lucidamente? Bisognerebbe… far su i fagotti e andare nelle nuove Ebridi, non stare in Europa. Siamo lucidi oggi? Ci comportiamo lucidamente davanti al pericolo nucleare? […] Allora non era molto diverso. Non stiamo rimuovendo anche noi qualche cosa?
A favore degli ebrei perseguitati, soprattutto gli stranieri, continuò a svolgere la sua attività di soccorso la Delasem, la Delegazione assistenza emigrati nata durante la seconda guerra mondiale per prestare aiuto agli ebrei stranieri scappati in Italia per sfuggire alle persecuzioni in Germania e in Europa.
Benché fosse stata messa fuori legge dal governo di Salò e i suoi membri fossero ricercati dalle autorità naziste, dopo l’8 settembre questa associazione ebraica proseguì la sua opera in clandestinità. Riuscì a salvare la vita non solo a migliaia di ebrei stranieri, ma anche a non pochi italiani ridottisi in povertà a seguito del sequestro e della confisca da parte dello Stato dei loro beni.
Nel descrivere le dinamiche che interessarono l’azione di soccorso agli ebrei in questo periodo, Sandro Antonini osserva a proposito delle iniziative che videro protagonista la Delasem:
quanto avvenne fu piuttosto frutto di un impegno personale, un affrettarsi a spingere la barca in secca per non rischiare un probabile affondamento; un impegno reso possibile da una struttura preesistente, da conoscenze, da rapporti cui il fascismo ante 25 luglio, pure con molte limitazioni, aveva permesso lo sviluppo.
In molte città del centro nord, con alterne vicende, sopravvissero infatti sedi dirette da personalità che avevano fatto parte dell’associazione negli anni precedenti: Vittorio Valobra nella sede centrale in Svizzera, Massimo Teglio nell’Italia settentrionale, Giorgio Nissim in Toscana, Giuseppe Sala a Milano, Salvatore Donati e Mario Finzi in Emilia, Settimio Sorani e Dante Almansi a Roma.
Questi uomini subirono non di rado l’arresto o furono costretti a fuggire all’estero. In particolare furono due i principali centri di assistenza nell’Italia occupata: a Genova e a Roma.
Sotto la direzione della sede in Svizzera, presieduta da Valobra e finanziata da associazioni ebraiche internazionali (come l’American Jewish Joint Distribution Committee), le operazioni di salvataggio riuscirono a ottenere qualche successo nel territorio italiano perché trovarono un fondamentale sostegno da parte di attori non appartenenti al mondo ebraico: il Vaticano, la società civile, alcune autorità fasciste che si sentirono in dovere di contrastare la politica di persecuzione nazifascista, e non ultimo il movimento di Resistenza.
Furono in particolare gli istituti religiosi cattolici a ospitare le sedi delle “cellule” clandestine della Delasem: i suoi delegati trovarono qui l’appoggio di religiosi che si prodigarono per favorire l’opera di soccorso.
Spesso proprio individui non ebrei diventarono i principali referenti delle operazioni di salvataggio, in quanto coloro che appartenevano alla razza ebraica erano troppo esposti ai rischi: si pensi ad esempio a padre Benoit a Roma il quale rivestì un ruolo di primo piano collaborando con il delegato Delasem, l’ebreo Settimio Sorani.
Quest’ultimo, in una nota scritta vent’anni più tardi, riconobbe l’opera svolta dal Vaticano, dalla Croce Rossa internazionale e da alcuni elementi delle autorità italiane, senza i quali non sarebbe stato possibile fare niente.
Anche i contatti con la Resistenza furono molto importanti: in accordo con i comandi dei Cln in Alta Italia fu possibile provvedere economicamente agli ebrei in difficoltà, nonché agevolare una via di fuga verso la Svizzera, grazie al rifornimento di documenti di identità falsi o scortando e guidando le persone alla frontiera.
Oltre ai nomi sarebbe altresì impossibile descrivere tutti gli episodi che avvennero a partire dagli ultimi mesi del 1943 quando la Delasem, finché riuscì a farlo, continuò la propria opera. In molte città grandi e piccole esistevano i corrispondenti, o persone che in qualche modo conoscevano l’organizzazione.
Furono esse che si prodigarono per aiutare i correligionari in difficoltà; quando la sorveglianza di fascisti e tedeschi divenne serrata restringendo pericolosamente i pochi spazi disponibili, si rese necessario abbandonare o quasi i soccorsi.
L’attività della Delasem si concentrò soprattutto, come era prevedibile, a favore di coloro che erano riusciti a sfuggire all’arresto. Del resto portare aiuto agli ebrei ormai fermati dalle autorità italiane o tedesche era praticamente impossibile, perché avrebbe richiesto un’esposizione eccessiva della delegazione, ormai illegale e perseguitata.
In ogni modo gli esponenti della Delasem erano a conoscenza della condizione critica in cui si trovavano gli arrestati e gli internati in Italia: lo testimonia una relazione pervenuta a Lelio Valobra in Svizzera alla fine del 1943, inviata da alcuni ebrei rimasti nella penisola:
Quando uno è arrestato non si sa più niente di lui. Ogni traccia viene soppressa e nemmeno agli uffici anagrafici viene comunicato alcunché. Infiniti i casi di genitori che cercano i figli e viceversa, di coniugi che si cercano vicendevolmente, di parenti che nulla più sanno dei propri familiari.
Nelle carceri e nei luoghi di raduno, vigilati dalla Gestapo, nessuno può entrare, nemmeno le autorità italiane, né il prete né il medico. Si è saputo soltanto che i detenuti sono sovente malmenati e percossi e che subiscono lunghi interrogatori.
Nessun bagaglio e indumento è consentito oltre a quello che viene portato addosso. Nemmeno le autorità consolari tedesche e il Comando dell’Esercito sono in grado di intervenire a favore degli ebrei quando le SS si occupano del caso.
Gli arresti ed i trasporti vengono quasi esclusivamente compiuti di notte o durante le ore del coprifuoco per essere occultati agli occhi della popolazione e parimenti la stampa italiana (tutta sotto il controllo tedesco) non fa mai cenno di questi fatti.
Nelle carceri gli Ebrei vengono trasportati a destinazioni sconosciute a mezzo di carri bestiame, gremiti sino all’inverosimile, ermeticamente sigillati, senza vitto per saziarsi, senz’aria per respirare, senza indumenti per il freddo, senza possibilità d’igiene e pulizia (…)
Secondo informazioni recentissimi di cui si attende conferme […] pare anche che i vecchi di età superiore agli anni 65 siano esentati all’arresto. Ciò significherebbe un lieve miglioramento.
La descrizione appena citata addossa la maggior parte delle colpe alle autorità germaniche delle SS e non tiene conto dell’operato del governo italiano, considerato qui totalmente asservito ai tedeschi nonostante proprio in quelle settimane di dicembre avesse preso il via un’autonoma macchina persecutoria di Salò.
Una ulteriore relazione, inviata sempre in Svizzera e riguardante il periodo successivo al gennaio 1944, confermava queste impressioni:
Le norme emanate dal Governo repubblicano neofascista contro gli ebrei italiani a seguito delle quali essi sono considerati stranieri nel proprio paese, e durante la guerra in corso, cittadini nemici, non sono state aggravate da ulteriori provvedimenti legislativi.
Nella pratica tutti coloro che comunque vengono a cadere nelle mani di una delle tante autorità sono sottoposti alle più dure sanzioni della legge e arrestati per essere passati nei campi di concentramento.
Per gli ebrei misti il il provvedimento di sorveglianza contro di essi finisce per non espletarsi in nulla di diverso che per gli ebrei, in quanto alla privazione di libertà allorché vengono arrestati: la sostanziale differenza è attuata invece successivamente nei campi.
Essi infatti vi permangono, mentre gli ebrei vengono deportati verso la Germania o nei territori da essa occupati, non appena raggiungono il numero di 500 o più.
Braccati dalle autorità nazifasciste, gli ebrei potevano sopravvivere solo “alla macchia”:
ma non è da pensare tutto ciò in forma assoluta, che cioè essi rimangano sempre nascosti. Si muovono con precauzione e la popolazione non li denuncia e gli arresti avvengono generalmente per eccezionali retate o per incidenti con i partigiani o nella quasi totalità dei casi, al momento del ritorno dal tentativo fallito di passare la frontiera.
La situazione può quindi considerarsi stazionaria nei seguenti termini: – mortale per gli ebrei che arrestati vengono internati nei campi e successivamente deportati; – grave per i misti che arrestati vengono trattenuti nei campi di internamento. Nella generalità le autorità di Pubblica sicurezza dimostrano comprensione, pietà e spirito di larghezza, mentre le speciali formazioni tedesche, Gestapo o SS applicano, oltre lo scritto, le misure antiebraiche.
L’affermazione è suffragata dalla diversa interpretazione che si dà alle leggi, internamento che diventa deportazione degli ebrei, sorveglianza che diventa internamento per i misti.
Più consapevole della partecipazione italiana alla persecuzione risulta invece essere il rapporto dell’avvocato Segré, spedito alla Colonia italiana libera di Losanna.
Questa relazione fu scritta il 4 dicembre 1944 e si basava su una testimonianza diretta delle vicende avvenute durante i 12 mesi che erano passati dall’ordinanza n. 5 di Buffarini Guidi: Segré era stato infatti arrestato in seguito a un tradimento, imprigionato prima al carcere di Varese e poi a quello di San Vittore, e infine inserito nel convoglio destinato ad Auschwitz e partito da Milano il 30 gennaio del 1944, dal quale riuscì a sfuggire durante il viaggio.
In quest’opera di persecuzione, per quanto ho potuto constatare personalmente, a parte i tedeschi […] si distingue per tenacia e crudeltà la Guardia Nazionale Repubblicana. Ma anche le altre forze dello Stato fascista hanno dato la loro opera, purtroppo efficace.
La polizia, se pure qualche volta, per quanto riguarda gli elementi di grado non elevato, non ha agito con molto entusiasmo, ha però praticamente contribuito, specie nelle città, agli arresti e così alla distruzione di tante vite umane.
I carabinieri […] hanno anch’essi collaborato alle indagini e agli arresti nelle località minori e nelle campagne, sebbene in singoli casi abbiano proceduto senza dimostrare uno zelo particolare e dando l’impressione di agire a malincuore.
Segré affronta poi la vicenda dei campi di concentramento, dandone alcune notizie in generale e successivamente informazioni più particolareggiate sul carcere di Varese e quello di San Vittore, dove del resto aveva avuto la sfortuna di passare:
i campi di concentramento retti dalle autorità italiane erano di vario tipo. In taluni, per esempio dell’Italia centrale, a quanto mi riferirono poi in carcere persone che in tali campi erano state, il trattamento era pessimo; in altri, come in quello di Como (Caserme), la vita era assai penosa (così raccontavano ad alcuni miei conoscenti gli stessi carabinieri di guardia): poca paglia, pochissimo vitto, nessuna coperta; in altri ancora, a quanto si diceva, avvenivano terribili maltrattamenti.
Comunque questi campi (tolto forse soltanto quello di Fossoli presso Carpi, che fu mantenuto a lungo) rappresentarono una prima fase transitoria; ben presto i campi furono vuotati o addirittura soppressi e gli ebrei che in essi erano chiusi, inviati alla deportazione.
Inoltre in molti luoghi (direi nella più gran parte dei luoghi) i campi non esistevano o erano completi, così che gli ebrei, all’atto in cui venivano presi, venivano passati alle carceri, dove erano tenuti a disposizione dell’autorità, tedesca o fascista, che aveva ordinato la carcerazione.
Dopo aver proceduto all’occupazione della penisola, le autorità naziste trasferirono anche in Italia i loro programmi di “soluzione finale” della questione ebraica.
Conscio di non poter disporre delle forze necessarie per effettuare contemporaneamente e in breve tempo l’arresto di tutti gli ebrei, il generale delle SS Müller aveva inizialmente stabilito di portare avanti le operazioni antiebraiche cominciando dalle zone subito a ridosso della linea del fronte, per poi proseguire l’epurazione in maniera graduale verso nord.
In un primo momento, quindi, Müller tentò di agire autonomamente servendosi solo della Polizia e del servizio di sicurezza del Reich, ovvero non chiedendo la collaborazione di altri organi tedeschi né tanto meno quella delle autorità italiane.
In Italia cominciò così a operare un reparto mobile specializzato, che era comandato da e dipendeva direttamente dalla sezione centrale IV B4 della polizia di sicurezza del Reich, il famigerato ufficio addetto al problema ebraico, con a capo Adolf Eichmann.
Questo ristretto nucleo di uomini (in tutto una decina di persone) si rese responsabile delle retate effettuate tra ottobre e dicembre 1943 nelle principali città del centro-nord. Del resto Dannecker, uomo di fiducia di Eichmann, veniva già dall’esperienza messa in pratica in Francia, dove tra il 1940 e il 1942 si era dedicato all’arresto e alla deportazione degli ebrei presenti in quel paese.
A partire dalla fine di gennaio 1944, il reparto specializzato di Dannecker abbandonò la penisola e, in Italia, si insediò stabilmente un distaccamento della sezione IV B4, agli ordini di Friedrich Bosshammer. Questo ufficio prese sede a Verona, presso il comando della polizia di Sicurezza germanica di Willhem Harster.
Nel frattempo, infatti, il governo di Salò aveva messo ufficialmente in atto una propria politica antiebraica, con la quale l’autorità d’occupazione tedesca si trovò quindi a confrontarsi.
A Berlino, le reazioni alla pubblicazione dell’ordinanza n. 5 furono immediate: tra il 4 e il 14 dicembre 1943 si svolsero nella capitale tedesca degli incontri tra i responsabili del ministero degli Esteri e degli uffici di sicurezza del Reich (RSHA) addetti alla soluzione finale in Italia.
In rappresentanza del primo intervenne Eberhard von Thadden, il capo dell’Inland II, ovvero la sezione del ministero che si occupava della questione ebraica, mentre per la RSHA erano presenti proprio Dannecker e Bosshammer.
I documenti relativi a questo incontro, redatti dal funzionario ministeriale Horst Wagner, ormai noti da anni, chiariscono molto bene quale fu l’indirizzo politico che l’RSHA e il ministero degli Esteri stabilirono di comune accordo per il caso italiano.
Il 4 dicembre, pochi giorni dopo l’emanazione delle misure di polizia di Salò, le autorità tedesche riunite a Berlino analizzarono così la situazione della penisola:
come comunicato dall’Ufficio sicurezza del Reich, le azioni ordinate in Italia dal Reichsfuhrer R-S per la cattura degli ebrei italiani fino a questo momento non hanno portato a nessun risultato apprezzabile, e infatti, a causa delle proteste giunte da differenti parti si è esitato così tanto a fare i passi necessari che la maggior parte degli ebrei hanno avuto l’occasione di trovare un nascondiglio in piccoli villaggi ecc.
Con le forze a disposizione non è possibile passare al setaccio tutti i piccoli, medi e grandi comuni. Nel frattempo, avendo il governo italiano proclamato una legge secondo la quale tutti gli ebrei in Italia sono da rinchiudere in campo di concentramento, il gruppo Inland II suggerisce in accordo con il Reichssicherheitshauptamt di ordinare all’ambasciatore Rahn di esprimere soddisfazione al governo fascista per questa legge necessaria per ragioni di ordine difensivo e questo nell’interesse di una immediata protezione di alcune regioni da elementi pericolosi.
Una rapida esecuzione di questa legge e l’allestimento di campi di concentramento nell’Italia del Nord sembra necessaria e il governo del Reich è pronto a mettere a disposizione dei consiglieri per attuare le misure prese.
Sarà opportuno che l’attuale Einsatzkommando sia incorporato, sotto forma di consiglieri, negli organi del governo [fascista], per controllare la realizzazione effettiva di queste leggi e per mobilitare completamente l’esecutivo del governo fascista verso l’applicazione delle misure antiebraiche.
L’alto ufficio di sicurezza del Reich accoglierà con piacere se contemporaneamente sarà accolta [dall’autorità italiana] la richiesta di consegna degli ebrei italiani portati nei campi di concentramento e da trasferire nei territori dell’Est.
Il gruppo Inland II ritiene in proposito [che sia preferibile] attendere ancora con questa richiesta, in quanto verrà liquidata senza problemi la concentrazione degli ebrei se, per il momento, il trasporto nei campi di concentramento [italiani] appaia come soluzione definitiva e non come il primo passo verso l’evacuazione nei territori dell’est.
L’alto comando per la sicurezza del Reich non ha alcuna riserva contro questa strategia pronunciata opportunamente dall’Inland II.
Da questo promemoria, trasmesso da Wagner ai vertici del ministero, emerge innanzitutto la valutazione negativa delle operazioni antiebraiche condotte fino a quel momento in Italia.
Eppure, il distaccamento di Dannecker aveva già eseguito retate come quella di Roma del 16 ottobre, durante la quale erano stati rastrellati più di mille ebrei in un solo giorno. Inoltre, sebbene vi fossero state «proteste giunte da varie parti» (il riferimento era soprattutto all’atteggiamento del Vaticano) l’arresto di centinaia di ebrei era proseguito in molte città del centro-nord anche nelle settimane successive, nel corso delle quali i tedeschi avevano catturato, come detto, circa 2.500 persone.
Consapevoli entrambe di non avere in quel momento le forze necessarie per procedere all’arresto di tutti gli ebrei presenti in Italia, le due autorità incontratesi a Berlino sembrarono accogliere in maniera positiva la presa di posizione italiana in tema di politica antiebraica.
Riguardo la linea da tenere nella penisola, tuttavia, si fronteggiavano due opinioni contrastanti. Se da un lato il Servizio di sicurezza (RSHA) insisteva per una soluzione rapida, che prevedeva cioè la consegna alle forze tedesche degli ebrei arrestati dal governo di Salò e una loro immediata deportazione, dall’altro il ministero degli Esteri invitava a un atteggiamento meno precipitoso e consigliava di posticipare il trasferimento degli ebrei nei campi di sterminio fino a quando le autorità italiane non avessero portato a termine le fasi d’arresto di tutti gli ebrei.
Il ministero proponeva di tenere un duplice atteggiamento: esprimere soddisfazione presso il governo della RSI per le misure prese; incalzare e sorvegliare i funzionari italiani affinché attuassero nel miglior modo possibile queste disposizioni, lasciando loro credere, come si legge nella parte finale del documento, che l’internamento nei campi italiani fosse in realtà una soluzione definitiva.
Cinque giorni dopo, venne comunicato che il ministro Ribbentrop concordava con la tattica proposta per l’Italia:
Il sig. Ram è d’accordo con le proposte concernenti le misure contro gli ebrei comprese nei progetti del 4 dicembre. Il suo consenso si riferisce non solamente al contenuto dell’ordine da inviare all’ambasciatore Rahn trattato nel paragrafo due del progetto, ma anche alla raccomandazione del Gruppo Inland menzionata nel paragrafo finale, con la quale per il momento si desidera attendere ancora per un trasporto di ebrei nei territori dell’Est.
Mentre quindi l’RSHA insisteva per agire rapidamente a livello esecutivo, come del resto aveva fatto fino a quel momento, il ministero degli Esteri ragionava in termini politici e proponeva di seguire una vera e propria strategia, spiegata con più precisione in un successivo promemoria inviato il 14 dicembre allo stesso Müller.
La fase di cattura degli ebrei sarebbe stata eseguita principalmente dalla polizia di Salò: per approfittare nel miglior modo possibile della collaborazione delle autorità italiane, si consigliava ancora una volta di affiancare ai funzionari della RSI dei consulenti che sorvegliassero e garantissero l’applicazione delle misure d’arresto e d’internamento:
Il ministero degli Affari esteri non ritiene opportuno il piano proposto dall’SS Sturmbannführer Bosshammer, di richiedere subito il trasferimento di tutti gli ebrei radunati nei campi di concentramento per l’evacuazione nei territori orientali.
Una simile istanza deve essere assolutamente posposta per motivi tattici e politici, finché l’operazione di cattura degli ebrei, da parte degli organi italiani, non sarà stata conclusa.
Come è già stato fatto rilevare nel precedente colloquio, il Ministero degli Affari Esteri in base alle proprie esperienze deve ritenere che avanzare già ora una richiesta di trasferimento per gli ebrei potrebbe nuocere gravemente al successo delle operazioni di cattura, se non addirittura impedirlo.
A causa dello scarso zelo dimostrato negli ultimi mesi dai funzionari italiani nelle attuazione delle misure antiebraiche disposte dal duce, il Ministero degli Affari esteri ritiene sommariamente auspicabile che l’attuazione delle misure contro gli ebrei venga d’ora in poi sorvegliata in ogni sua fase dai funzionari tedeschi.
Di conseguenza sembra opportuno e necessario l’inserimento nell’apparato italiano di una parte delle forze che al momento fanno parte dell’Einsatzkommando Italien, sotto le vesti di consulenti.
La decisione di non avviare subito la fase di deportazione degli ebrei nei campi di sterminio era dunque legata a motivazioni d’ordine pratico e strategico. La precedente esperienza nei territori d’occupazione militare aveva dimostrato, infatti, che le autorità italiane erano state il più delle volte restie a consegnare ai tedeschi gli ebrei fermati perché contrarie a un loro trasferimento a Est.
Era quindi consigliabile, adesso, per ottenere i risultati migliori, far completare la fase di arresto agli italiani senza rendere esplicita l’intenzione di deportare gli ebrei. Solo in un secondo momento le autorità tedesche avrebbero potuto procedere alla richiesta di consegna degli arrestati, sicure che questa sarebbe stata assecondata senza troppi problemi.
Alla fine, questa soluzione trovò l’approvazione anche del servizio di sicurezza del Reich e il ministero poté trasmettere all’ambasciatore Rahn le decisioni prese e la strategia da seguire in Italia.
Resta ora da capire in che modo queste direttive provenienti da Berlino furono applicate a livello locale e, di conseguenza, quale fu l’atteggiamento delle autorità italiane di fronte alla politica tedesca.
Innanzitutto va detto che la proposta di incorporare consiglieri tedeschi nell’apparato governativo italiano non si realizzò: alla fine gli uomini di Eichmann furono inseriti solo nella normale struttura della polizia e del Servizio di Sicurezza, che quindi rifletté l’organizzazione dell’Ufficio di sicurezza del Reich (l’Ufficio di Bosshammer presso la sede della BdS a Verona).
I responsabili della questione ebraica, in ogni modo, godevano di una particolare autonomia e dipendevano direttamente dall’ufficio centrale di Eichmann. Per quanto riguarda il fermo delle persone, invece, fin dall’inizio le autorità tedesche insistettero presso quelle italiane affinché fossero arrestati anche individui in realtà esclusi dalla misura d’internamento disposta da Salò.
La normativa germanica non contemplava infatti alcuna “discriminazione” in base all’età o al sesso delle persone, né tanto meno alle loro condizioni di salute. Tutti gli ebrei dovevano essere arrestati e deportati nei campi di sterminio: erano previste eccezioni soltanto per i sudditi di alcuni stati amici o neutrali e per i cosiddetti ebrei “misti”, secondo quanto stabilito dalle leggi di Norimberga.
Da parte sua, il governo di Salò aveva escluso dall’arresto gli ebrei che appartenevano a famiglia “mista”, gli individui figli di coppie miste (un “ariano” e un ebreo) e, in un secondo momento, gli anziani e gli ammalati. Inoltre la legislazione italiana e quella tedesca avevano criteri differenti nel determinare l’appartenenza alla razza ebraica.
Fu dunque sulla tipologia degli ebrei da colpire che si registrò un primo disaccordo nella collaborazione tra autorità italiane e tedesche; e ciò si verificò all’indomani della pubblicazione dell’ordinanza n. 5. A Bologna, il 2 dicembre 1943, nel comunicare il testo della misura di polizia, il capo provincia ordinava al questore di prendere accordi con il comando di polizia germanica locale per l’arresto degli ebrei, dal momento che la cattura di questi ultimi era iniziata già nei mesi precedenti proprio ad opera delle autorità tedesche.
Il 20 dicembre, il comando germanico inviò al questore una nota in riferimento al colloquio avvenuto tra loro dieci giorni prima, il cui oggetto era esplicito, “consegna degli ebrei”:
Vi prego di voler consegnarmi tutti gli ebrei arrestati in base alla nuova disposizione italiana nei seguenti casi:
- 1- Ebrei puri, matrimonio tra ebrei. In questo caso è da arrestare tutta la famiglia, senza aver riguardo all’età o alla malattia. Ebrei con la cittadinanza spagnola, portoghese, svizzera, ungherese rumena, svedese, finlandese o turchese [sic!] e argentina non sono da arrestare, ma da segnalarmi i loro cognomi e nomi e domicilio. Gli ebrei da arrestare e che mi debbono essere consegnati debbono presentarsi con vestiario pesante, viveri per 10 giorni, soldi in contante e oggetti di valore. Il resto dei loro beni rimane alla disposizione della questura italiana.
- 2-Ebrei puri con la cittadinanza degli stati nemici, anche loro mi debbono essere consegnati. In questo caso il mio comando provvede all’assicurazione dei loro beni mobili e immobili.
- 3-Secondo lo spirito della legge tedesca vien dichiarato ebreo puro quello che discende per lo meno da tre nonni ebrei puri o come misto (ebreo a metà) che fa parte della religione ebrea.
- 4-Quanto sopra detto anche queste persone ebree sono da arrestare e da consegnarmi, quelli che facevano un’eccezione secondo le leggi italiane fino a ieri e che erano considerati ariani.
- 5-Gli ebrei arrestati secondo queste nuove disposizioni vi prego di volermi segnalare loro sempre per il primo e il 15 del mese. Il trasporto degli arrestati viene effettuato dal mio comando in accordo con il comando del Comandante generale della Polizia di sicurezza e del SD germanica in Italia, sede Verona. F.to Wilbertz.
Una nota uguale fu inviata lo stesso giorno, sempre dal comando germanico di Bologna, anche alle questure delle altre province dell’Emilia Romagna: Piacenza, Ravenna, Forlì, Ferrara, Parma, Reggio Emilia. Sebbene il numero del foglio fosse lo stesso (IV – 38/43), così come le linee generali del suo contenuto, i punti della richiesta variavano sensibilmente da provincia a provincia.
A Piacenza, ad esempio, il questore ricevette la seguente comunicazione:
- 1- L’arrestato deve essere ebreo al 100% cioè deve essere originario di almeno tre generazioni di ebrei; se invece trattasi di ebreo figlio di matrimonio misto, deve appartenere alla comunità religiosa ebraica. Ebrei i quali secondo le precedenti leggi italiane venivano o dovevano considerarsi discriminati, devono qualora entrano nelle categorie di cui sopra essere arrestati ugualmente perché in base alle considerazioni della legge germanica sono da considerarsi ebrei.
- 2- L’ebreo arrestato deve avere vissuto in matrimonio con donna ebrea, per conseguenza non sposato a donna ariana
- 3- Ebrei appartenenti alle seguenti nazionalità non sono da inviare alla polizia germanica, ma devono essere semplicemente segnalati indicando le loro complete generalità: Spagna, Portogallo, Svizzera, Ungheria, Romania, Svezia, Finlandia, Turchia ed Argentina.
- 4- Ebrei arrestati per motivi politici devono essere messi a disposizione della polizia germanica senza alcuna eccezione, anche se dovessero entrare nella categoria prevista nel paragrafo tre. In tali casi valgono naturalmente le disposizioni generali per l’arresto di persona.
Il comando di Polizia invitava inoltre gli ebrei arrestati a portare indumenti pesanti per l’inverno, denaro e oggetti di valore. Specificava, infine, che le pratiche di sequestro dei beni degli ebrei appartenenti a nazionalità nemica erano sotto la responsabilità delle autorità germaniche.
In ogni modo, contrariamente a quanto avveniva a Bologna, dove era richiesta la consegna immediata delle persone, nelle altre province (ad esempio a Piacenza o Reggio Emilia) i questori dovevano per il momento limitarsi a trasmettere gli elenchi nominativi dei fermati, completi di una relazione su ogni individuo, e attendere ulteriori istruzioni.
In caso di dubbi, il comando germanico era disponibile per un incontro con un funzionario italiano della questura, affinché fosse chiarito «il trattamento delle pratiche riguardanti gli ebrei».
La reazione delle autorità locali italiane fu quella di mettere subito a conoscenza il ministero centrale su quanto pervenuto dagli organi d’occupazione tedeschi: contemplando l’arresto di una categoria di ebrei esclusi dai provvedimenti del governo italiano, queste richieste erano dunque in evidente contrasto con le disposizioni di Buffarini Guidi.
Negli stessi giorni, anche la provincia di Varese denunciava un problema analogo al ministero dell’Interno. In questo caso, era stato il comando germanico di Milano a richiedere alla locale questura l’invio al carcere di San Vittore degli ebrei arrestati nella zona:
Polizia germanica sicurezza germanica Milano via Marengo n. 5 ha richiesto verbalmente mezzo proprio Ufficiale at questore traduzioni carceri Milano disposizione predetta polizia ebrei arrestati alt Habet richiesto inoltre arresto et traduzione ebrei discriminati misti et tutti indistintamente di età superiore 70 anni aut malati alt
Poiché tali disposizioni contrastano con quelle impartite da codesto Ministero si chiedono istruzioni mezzo telegrafo alt.
A inizio gennaio altre due province comunicarono al ministero che da parte dei locali comandi germanici era stato ordinata la consegna degli ebrei. A Sondrio, il reggente della questura trasmise al capo della polizia:
il comando superiore polizia germanico di Milano mi richiede che tutti gli ebrei qui concentrati compresi misti vecchi et ammalati siano immediatamente tradotti carceri San Vittore di Milano at disposizione detto Comando alt Pregasi telegrafiche istruzioni alt.
La stessa dinamica interessò la prefettura di Genova, dove il capo provincia Basile chiedeva urgenti istruzioni dal ministero centrale per rispondere alle richieste tedesche:
Insistendo su quanto ho già comunicato telefonicamente chiedo istruzioni per eseguire aut meno invito ricevuto da comando locale SS di consegnare entro il 25 prossimo nelle carceri di Marassi at disposizione del detto comando ebrei che comunque trovansi in carcere per ordine autorità italiane di polizia et quelli che secondo disposizioni codesto Ministero sono stati riuniti in campo attrezzato all’uopo.
In questi telegrammi, provenienti principalmente dall’Emilia Romagna e da altre zone dell’Italia settentrionale, dunque, le autorità provinciali chiedevano chiarimenti agli organi centrali su due aspetti in contrasto con quanto ordinato dal governo italiano: l’arresto di categorie di ebrei quali i malati, gli anziani e, per certi versi, gli appartenenti a famiglia “mista”, esentati in realtà dalle disposizioni italiane; la consegna alle autorità tedesche di quegli ebrei fermati dalla polizia di Salò e rinchiusi nei campi di concentramento, quindi sotto l’esclusiva responsabilità delle autorità italiane.
La denuncia di dubbi e difficoltà sorti a livello locale al momento di applicare la misura di polizia, in ogni modo, non si riferiva soltanto alle richieste tedesche, ma era anche una conseguenza della poca chiarezza della normativa italiana.
Da una parte, infatti, individuare i malati e gli anziani da esonerare dal provvedimento era un compito abbastanza facile. Dall’altra, invece, risultava molto più problematico giudicare la posizione di quegli ebrei considerati appartenenti a famiglia “mista” e quindi non “puri”, come i figli di coppie miste o coloro che erano d’origine ebraica ma che professavano la religione cattolica.
Il capo della provincia di Grosseto, Alceo Ercolani, chiese ad esempio al ministero se dovessero essere applicate le leggi di Norimberga: richiesta alquanto bizzarra vista la presenza in Italia di una legislazione razziale, ma forse legata alla volontà di quel capo provincia di dimostrare un certo zelo nella collaborazione con gli organi tedeschi di occupazione.
Vi era inoltre la questione relativa alle persone coniugate a ebrei puri e ai riflessi economici che poteva avere per i nuclei familiari “misti” (formati cioè da ebrei e “ariani”) l’invio al campo di concentramento di un capo famiglia di razza ebraica:
Nello intento di evitare disparità di trattamento fatte palesi da comunicazioni pervenute da provincie viciniori, pregasi precisare gli intendimenti di codesto Ministero circa il trattamento da usare ai membri ebrei di famiglie miste, per l’applicazione dei provvedimenti di cui nella ordinanza di polizia, comunicata con telegramma I corrente n. 5.
Sta di fatto che la scomposizione di tali famiglie, collo invio in campo di concentramento dei membri che appartengono alla razza ebraica, ha non lievi riflessi economici e morali sul membro o sui membri ariani che ne vengono separati.
Si desidera pertanto conoscere se non si debbano in genere scomporre famiglie miste o se la scomposizione sia da evitare nel solo caso in cui la famiglia sia prevalentemente ariana, anche se il capo sia ebreo.
Si prega inoltre di far conoscere se possano essere prese in considerazione domande di esonero dall’internamento a favore di vecchi e malati, specie quando vi sia persona ariana che si assuma la responsabilità della custodia.
In merito a queste categorie di individui, quindi, le disposizioni italiane di fine novembre non si dimostrarono subito precise e, soprattutto in fase esecutiva, fu chiaro agli apparati statali centrali che necessitassero di ulteriori chiarimenti. A ciò si aggiunsero le richieste dell’alleato tedesco, in palese contrasto con la legislazione e i provvedimenti italiani.
Da metà dicembre, gli uffici del ministero cominciarono così uno scambio di note per pervenire a una soluzione e a una risposta che tenesse conto delle istanze inoltrate dalle autorità provinciali. Il contenuto dei quesiti inviati dalle prefetture e dalle questure furono riassunti in un telegramma inviato dal capo della polizia alla Direzione generale della Demorazza:
Da varie prefetture sono stati fatti telegraficamente i seguenti quesiti:
- 1- se ebrei stranieri che hanno acquisito cittadinanza italiana e coniugati con ariani siano da considerarsi stranieri e da inviare in campo di concentramento;
- 2- se in tale provvedimento siano pure inclusi gli ebrei arianizzati ai sensi della legge 13 luglio 1939 n. 1204;
- 3- se la misura del campo di concentramento debba adottarsi nei confronti degli ebrei e delle ebree stranieri coniugati con i cittadini ariani;
- 4- se il sequestro dei beni patrimoniali debbasi solo limitare agli ebrei da inviare in campo di concentramento;
- 5- se debbano pure sottoporsi a sequestro i libretti di risparmio al portatore intestati ad ebrei. Alcune prefetture fanno pure presente che in materia di sequestro dei beni le intendenze non avrebbero ancora ricevuto istruzioni […].
Lasceremo qui da parte gli ultimi due punti, riguardanti il sequestro dei beni, in quanto il governo di Salò si occupò nello specifico della questione con il decreto legge n. 2 del 4 gennaio 1944. Ci interesseremo invece alla sorte delle persone, ovvero al loro arresto e al loro invio nei campi di concentramento. Innanzitutto va detto che l’ufficio della Demorazza non diede una risposta immediata, ma aspettò fino al mese di febbraio per inviare il proprio parere a proposito dei quesiti provenienti dalle prefetture della RSI.
La questione fu dunque affrontata e risolta, sul momento, dal Gabinetto del ministero dell’Interno, dal capo della polizia e dalla direzione generale di PS. Le due circolari del 10 e del 28 dicembre, come abbiamo già visto, furono diramate per ottimizzare l’esecuzione dell’ordinanza n.5: stabilirono l’esenzione dall’arresto degli anziani e dei malati e la permanenza degli internati nei campi di concentramento italiani.
Nelle settimane successive, tuttavia, il ministero dell’Interno fu chiamato a intervenire su questioni per le quali, sulla carta, vi erano già delle indicazioni cui attenersi, ma che le autorità tedesche non erano intenzionate a osservare: le due circolari integrative dell’ordinanza n. 5 non sembravano, infatti, aver risolto i punti più controversi del problema, ovvero il sequestro dei beni, poi affrontato in maniera specifica da un decreto legge, e la sorte riservata alle famiglie “miste”.
Come venne fatto notare al capo della polizia, mentre l’ordinanza del ministro Buffarini Guidi escludeva dall’internamento solo i figli nati da matrimonio misto, il suo telegramma del 10 dicembre esentava dall’invio al campo tutta una famiglia mista, onde evitare di rompere l’unità dei nuclei familiari con l’arresto, ad esempio, di un componente ebreo.
L’appunto indirizzato a Tamburini si concludeva con una efficace descrizione di ciò che accadeva a livello locale:
D’altra parte pervengono dagli organi periferici numerosi quesiti che, ai fini della perequazione di trattamento, debbono essere risolti non in sede esecutiva di polizia ma in sede interpretativa, e praticamente le autorità germaniche non fanno differenziazioni in materia di età, salute, matrimonio misto e continuano, ad iniziativa dei vari comandi e anche elementi isolati delle forze armate, ad impossessarsi dei beni mobili degli ebrei.
Quest’ultima considerazione non concerneva soltanto l’appropriazione dei beni degli ebrei, ma anche la richiesta di consegna delle persone, destinate in realtà ai campi di concentramento aperti dall’autorità italiana. Era quindi soprattutto di fronte a questa forte ingerenza tedesca che gli organi provinciali continuavano a richiedere al ministero istruzioni precise su come comportarsi.
Il capo della provincia di Genova ha oggi telegrafato che il Comando locale germanico delle SS ha richiesto la consegna degli ebrei internati in campi di concentramento e chiede istruzioni.
Analoghe segnalazioni sono pervenute dalle Autorità di Sondrio, Varese, Piacenza e altre Prefetture della Lombardia e dell’Emilia. In proposito sono già state domandate istruzioni a Maderno [capo della polizia] ma non è ancora pervenuta alcuna risposta.
Si segnala l’urgenza di una determinazione, dovendosi corrispondere al più presto alla richiesta, anche ai fini di una direttiva unica sulla soluzione dei quesiti preposti.
Una prima soluzione fu adottata per le province di Sondrio e Varese. Il 14 gennaio, come detto, sia il capo provincia di Varese che la questura di Sondrio chiesero al ministero se corrispondere o meno alla richiesta tedesca di consegna degli ebrei al comando germanico di Milano.
Il capo della polizia appuntò a mano sui telegrammi ricevuti: «15/1/44 XXII Telegrafato di prendere accordi con competente comando germanico. Il Capo della Pol. Tamburini». Questo aspetto è da sottolineare, perché il capo della polizia poté calcolare, prima ancora di prendere provvedimenti che riguardassero l’intero territorio nazionale, gli effetti di una simile decisione a livello locale. Il 16 gennaio, infatti, la questura di Sondrio telegrafò:
Seguito mio telegramma p.n. del 14 andante diretto Ecc. Capo Polizia Maderno comunico che comando superiore Polizia Germanico habet sollecitato invio tutti ebrei qui concentrati aut vigilati at carceri San Vittore Milano. D’intesa capo provincia ho stamane disposta traduzione detti ebrei at Milano disposizione polizia germanica.
Nei giorni subito successivi, il capo della polizia e il ministro pervennero comunque a una soluzione da trasmettere a tutti i capi provincia:
S.E. il ministro, nell’udienza di iersera [20 gennaio 1944], esaminata la questione ebraica in relazione alla recente ordinanza ha stabilito i seguenti punti:
- 1- gli ebrei puri italiani o stranieri debbono essere inviati nei campi di concentramento provinciali. Si è riservato, in relazione a richieste pervenute ad alcuni Capi provincia da parte delle autorità tedesche di avere in consegna gli ebrei stessi, di interessare le autorità centrali germaniche perché in conformità del criterio enunciato siano date disposizioni adatte perché gli ebrei permangano nei campi italiani.
- 2- per quanto riguarda le famiglie miste, l’ecc. il Ministro ha stabilito di soprassedere ad ogni provvedimento per non rompere l’unità familiare […].
Con due telegrammi trasmessi a tutti i capi provincia della RSI il 22 gennaio 1944, Tamburini ordinò dunque di prendere accordi con i comandi germanici, ai quali andavano spiegate le misure disposte dal Duce. Sebbene vi venisse assicurato che le autorità centrali si sarebbero mosse per interessare del problema i vertici tedeschi, la questione della consegna degli ebrei andava risolta principalmente a livello locale.
E così fu in effetti. L’esito degli accordi tra capi provincia, questori e comandi germanici non fu ovunque lo stesso e variò da provincia a provincia: non è dunque possibile stabilire una linea di condotta comune a tutto il territorio della RSI. Del resto, la decisione dipendeva ormai non soltanto dal contenuto delle disposizioni italiane, ma anche e soprattutto dalla volontà dei comandi tedeschi di zona.
Infatti là dove le autorità tedesche si dimostrarono intenzionate a proseguire le operazioni secondo il loro regolamento, a nulla servì che questure e prefetture spiegassero il contenuto delle norme italiane. In generale, anzi, la decisione sembrò spesso non il frutto di un accordo bensì di “imposizioni” da parte dell’alleato germanico.
È il caso già osservato di Sondrio, ma anche quello di Varese: il capo provincia comunicò al ministero che nonostante fossero state spiegate alle autorità tedesche le disposizioni del Duce, non era stato possibile evitare la consegna degli ebrei:
comunicasi che nonostante siano state spiegate at autorità germaniche disposizioni impartite dal duce circa ebrei predette autorità hanno ripetutamente a voce et per iscritto richiesto consegna ebrei senza distinzioni età et condizioni salute alt et est stato solo possibile ottenere eccezione per misti et famiglie non est stato perciò possibile inviare ebrei già arrivati campi concentramento et si est dovuto senz’altro effettuare consegna avvenuta 27 et 28 corrente [gennaio] mediante trasporto con automezzi a Milano come voluto da autorità germaniche punto.
La richiesta di inviare ebrei al carcere di Milano riguardò anche altre province, a cominciare dalla prefettura di questa stessa città: il capo provincia Parini comunicò al ministero l’esito negativo degli accordi con le autorità tedesche per «fare affluire campi concentramento ebrei puri qui fermati».
Un caso particolarmente interessante è quello di Vicenza: dalla relazione del capo della Provincia Neos Dinale si riesce a capire come molto spesso gli ordini arrivassero intrecciati e sovrapposti, sia dalle autorità italiane che da quelle tedesche di zona.
Sebbene sia un po’ lungo, vale la pena citare integralmente questo rapporto inviato al Gabinetto del ministero, in quanto al suo interno è ben descritta la dinamica che portò alla consegna degli ebrei presenti nel locale campo di Tonezza del Cimone: questi internati finirono poi il 30 gennaio 1944 nel convoglio formato dalle SS al carcere di San Vittore a Milano e diretto ad Auschwitz.
Il 28 corrente il Comando della Polizia Germanica che l’interprete dichiarava essere quello di Padova comunicava telefonicamente […] che d’ordine del Comando militare germanico di Verona, domenica 30 corr. alle ore 11, un sottufficiale della Polizia sarebbe giunto a Vicenza per condurre in Germania tutti gli ebrei fermati.
Comunicava inoltre che gli ebrei di età superiore ai 50 anni, ancora liberi, dovevano essere fermati e messi a disposizione della Polizia Germanica per essere condotti in Germania.
Chiedeva infine che fosse provveduto al vitto per i predetti ebrei per otto giorni. Poiché tali disposizioni contrastavano con quelle comunicate col telegramma 21 gennaio 1944, n. 416 [ovvero il n. 316], e col successivo in data 22 gennaio 1944, 1412/442, entrambi a firma del capo della polizia, il 29 mattina ho inviato il mio capo di Gabinetto a Verona, presso il Comando militare Germanico 1009, per rappresentare al Comandante Col. Wolf le disposizioni comunicate dal Ministero dell’Interno riguardo all’internamento degli ebrei e l’ordine dato tramite la Polizia Germanica di Padova, e fare al tempo stesso presente che era mio dovere eseguire le disposizioni date d’ordine del Duce dal Ministero dell’Interno e che, comunque chiedevo conferma scritta dell’ordine trasmesso per telefono dalla Polizia di Padova.
Nel colloquio che ne è seguito al Comando Militare Germanico 1009 di Verona, il Comandante Col. Wolf, dichiarava che non era a conoscenza del fonogramma e che comunque non aveva dato quell’ordine, ed inviava il mio capo di Gabinetto al gruppo Amministrativo del Comando militare germanico di Verona, dove il Comandante Consigliere capo Von Stein gli comunicava che l’ordine telefonico dato dalla Polizia di Padova era sospeso e che di ciò avrebbe avvertito il Capo della Provincia anche tramite il comando Germanico della Piazza di Vicenza.
Frattanto, mentre a Verona si svolgevano i colloqui suesposti, si presentava a me, nella mattinata, un sottufficiale delle S.S. con una lettera […] del Comando “Der Befehlshaber der Sicherheitspolizei u. des SD in Italien” di Verona in data 29.1.1944 con la quale si ordinava la consegna degli ebrei fermati per la traduzione in Germania.
Il predetto faceva altresì presente che la comunicazione telefonica del 28 mattina l’aveva fatta lui da Verona e non già da Padova. Al sottufficiale ho fatto presente che non potevo mettere a disposizione detti ebrei essendo diverse le istruzioni ricevute dalle Superiori Autorità italiane e che comunque avevo interessato della questione il Comando Militare Germanico di Verona per cui ravvisavo opportuno rinviare la definizione al pomeriggio.
Nel pomeriggio, e dopo che il mio Capo di Gabinetto mi aveva riferito l’esito dei colloqui avuti col comando di Verona, è venuto da me il T. Col. Sewert, comandante della Polizia di Padova per chiarire la questione del fonogramma.
Egli però, dopo aver letto la lettera del Comando S.S. recapitatami nella mattinata dal sottufficiale incaricato, alla mia domanda se la richiesta contenuta nella lettera stessa costituiva un ordine, come da dichiarazione del Sottufficiale delle SS rispondeva affermativamente.
Al che ho fatto presente che non mi restava altro che dare disposizioni per l’esecuzione dell’ordine ed ho messo a disposizione del Sottufficiale delle SS gli automezzi necessari per il trasporto degli ebrei e i viveri richiesti.
In questo caso, la subordinazione delle autorità italiane locali rispetto alle forze di polizia tedesche è evidente: il capo provincia non poté fare altro che eseguire l’ordine del comando tedesco. È interessante notare che nella stessa regione la decisione riguardo gli ebrei fu totalmente diversa a seconda di quale fosse il comando di riferimento: a Padova, gli accordi con le locali autorità militari germaniche disposero la permanenza degli arrestati nel campo provinciale di Vò Vecchio.
E questo non fu il solo esempio nel quale la sorte degli ebrei arrestati fu differente in province attigue o della stessa regione, dipendenti in alcuni casi dallo stesso comando germanico. A Imperia gli accordi con i tedeschi portarono all’invio degli ebrei al campo di concentramento provinciale, in previsione però di un successivo trasferimento al carcere di Marassi, a disposizione del Comando SS di Genova.
A Savona, invece, il capo provincia informò il ministero che erano stati raggiunti «perfetti accordi con autorità locali germaniche circa concentramento ebrei secondo disposizioni impartite dal duce».
Anche a Mantova fu deciso di far permanere gli ebrei nel campo di concentramento locale: in questa provincia la prefettura riuscì ad applicare senza problemi le disposizioni italiane, ivi comprese quelle che contemplavano l’esenzione dal provvedimento d’arresto degli individui appartenenti a famiglie miste, di anziani e malati.
Qui, infatti, il comando tedesco non aveva ricevuto alcuna istruzione in merito agli ebrei e aveva lasciato che venissero applicate le misure italiane. Le persone catturate nella provincia di Siena, invece, furono inviate al campo provinciale di Bagno a Ripoli, vicino Firenze: il capo della provincia comunicò al ministero, tra le altre cose, di aver spiegato alle autorità tedesche le disposizioni del Duce e di aver richiesto al comando germanico di esentare, «per motivi di umanità», una ebrea italiana di 67 anni con problemi motori e «che non ha mai dato occasione a rilievi sfavorevoli in linea politica».
Una soluzione ancora diversa fu presa a Ferrara: gli accordi con il comando SS di zona avevano stabilito che gli ebrei arrestati e concentrati nella Sinagoga della città dovessero essere avviati al campo di concentramento «Novi di Modena», ovvero Fossoli di Carpi.
Come successo a Ferrara, nel resto delle province generalmente le autorità italiane, in accordo con quelle tedesche, disposero nel corso di febbraio e marzo l’invio degli ebrei verso il campo “nazionale” in provincia di Modena.
Gli esempi appena riportati ci danno quindi un’immagine molto confusa di ciò che accadde al momento di prendere accordi con i comandi germanici di zona: questi ultimi, infatti, tra dicembre 1943 e gennaio 1944, avanzarono richieste differenti a seconda della provincia e trovarono soluzioni molteplici in fase di “consultazione” con le autorità italiane.
In certi casi costrinsero questori e capi provincia ad autorizzare la consegna degli arrestati alle SS e il loro invio verso il carcere di San Vittore a Milano; in altri, l’esito degli accordi portò alla permanenza degli ebrei nei campi provinciali, là dove ve ne fosse uno (si pensi a Mantova, a Padova, a Parma); in altri casi ancora, i comandi tedeschi acconsentirono al trasferimento delle persone fermate al campo di Fossoli.
È stato ipotizzato da Michele Sarfatti che le richieste di consegna immediata degli ebrei, compresi quelli esentati dai provvedimenti italiani, fosse il risultato dell’iniziativa degli uomini del servizio di sicurezza (RSHA), restii a seguire le indicazioni provenienti dal ministero degli Esteri tedesco.
Queste richieste, in realtà, sembrano strettamente legate alla volontà delle autorità germaniche di formare in breve tempo un convoglio di deportati: obiettivo raggiunto il 30 gennaio 1944, quando da Milano e Verona partirono verso i campi di sterminio più di 500 ebrei arrestati in Italia.
Si spiegano così, ad esempio, le precise richieste denunciate dal capo provincia di Genova, con le quali il comando germanico domandava di inviare gli ebrei al carcere di Marassi e di porli a sua disposizione entro e non oltre il 25 gennaio.
Una volta partito quel convoglio, l’atteggiamento tedesco cambiò e la pressione sulle autorità italiane diminuì. Del resto, proprio dagli ultimi giorni di gennaio si era insediato a Verona, nella sede della Polizia di sicurezza germanica in Italia, un ufficio stabile per le questioni antiebraiche presieduto da Bosshammer.
Da questo momento in poi, insomma, i comandi germanici sembrarono seguire la strategia emersa a Berlino negli incontri di dicembre tra i responsabili del RSHA e del ministero degli Affari Esteri. Le autorità tedesche di zona, infatti, non diedero più seguito alle richieste di consegna ma lasciarono confluire tutti gli ebrei dalle province della RSI al campo di Fossoli di Carpi, assecondando cioè il meccanismo già previsto dal governo di Salò.
Proprio da questa struttura, a partire da fine febbraio, la polizia di sicurezza germanica organizzò i successivi convogli diretti ad Auschwitz e si impadronì della parte del campo dove venivano rinchiuse le persone di razza ebraica.
Analizzando la vicenda a posteriori, quindi, si può affermare che inviare gli ebrei a Fossoli significava, indirettamente, consegnarli ai tedeschi. Questa procedura continuò fino a quando, nell’estate del 1944, l’arrivo degli angloamericani spostò tutto il meccanismo della deportazione più a nord, al campo di Bolzano-Gries e alla Risiera di San Sabba.
Pur allentando la stretta sugli italiani, durante i mesi che vanno dal febbraio all’estate del 1944 le autorità tedesche, secondo con quanto stabilito a Berlino, continuarono in ogni modo a vigilare sulle autorità locali di Salò, affinché eseguissero gli arresti in maniera efficace: in particolare insistettero presso capi provincia e questori perché venissero fermati anche malati e anziani.
Il comando germanico di Bologna, particolarmente attivo, come abbiamo già visto, nel fare pressioni sugli italiani, inviò tra febbraio e aprile alle questure dell’Emilia alcune note dal contenuto simile a quella già trasmessa il 20 dicembre 1943.
Contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, questa volta la richiesta non concerneva la consegna diretta degli ebrei nelle mani tedesche ma il loro invio a Fossoli, come previsto dalle disposizioni italiane in vigore.
Questo comando di polizia, però, ordinava che fossero colpiti dal provvedimento anche gli anziani e gli ammalati, nonostante un’ulteriore circolare ministeriale del capo della Polizia avesse ribadito la loro esclusione dalla misura.
Prendiamo l’esempio di Parma, per capire come l’autorità locale italiana rispose a queste continue pressioni tedesche. Il questore del capoluogo emiliano si ritrovò sollecitato a rispondere a ordini differenti. Da una parte, come detto, c’era la normativa italiana, comunicata dal ministero con le circolari di gennaio e ripetuta a inizio marzo, che insisteva sull’esclusione dei malati, degli anziani e degli appartenenti a famiglia “mista” individuati secondo le leggi razziali promulgate dal regime fascista.
Dall’altra, i tedeschi continuavano a ignorare le disposizioni di Salò e pretendevano che fossero eseguiti i loro ordini di polizia. Messo in mezzo a due fuochi, dunque, il questore interpellò nuovamente il ministero centrale per ricevere istruzioni in merito alle pressioni del comando germanico e, allo stesso tempo, si impegnò a spiegare a quest’ultimo il contenuto dei provvedimenti italiani.
Tuttavia, queste due autorità fornirono sempre risposte poco esaustive o inviarono istruzioni difficilmente applicabili: il ministero dell’Interno ribadì quanto già deciso a livello generale nelle circolari, mentre il capo della polizia tedesca di zona ordinò, sotto la sua responsabilità, che fossero inviati a Carpi anche gli ammalati e gli anziani.
Non sapendo bene cosa fare, nel frattempo, il questore aveva provato a risolvere la questione rivolgendosi al suo collega bolognese, chiedendogli di interpellare il comando tedesco di zona con sede in quella città, «per conoscere se ancora vigente sua disposizione 20 dicembre 1943 n. IV 38/43 circa trasmissione elenchi ebrei da internare in Germania».
Il giorno successivo, la questura di Bologna comunicò a Parma che il Comando SS richiedeva in realtà di trasmettere soltanto gli elenchi degli ebrei destinati al campo di Fossoli di Carpi.
Questa risposta non dovette risultare molto utile al questore di Parma, il quale inoltrò pochi giorni dopo il seguente telegramma:
Per opportuna norma di questo Ufficio prego precisare se al comando militare germanico […] interessino tuttora gli elenchi richiesti con la circolare n. IV – 38/43 in data 20 dicembre 1943 per quanto il ministero dell’Interno con telegramma circolare n. 1412/442 in data 23 gennaio 1944 abbia fra l’altro comunicato “Verranno interessate autorità centrali germaniche per direttive intese assicurare permanenza ebrei campi italiani”.
Prego inoltre di fornire chiarimenti in merito all’invio di ebrei al campo di concentramento di Carpi; nessuna disposizione risulta finora pervenuta a quest’Ufficio.
Per venire incontro al collega parmense, il questore di Bologna allora inviò, a mo’ di esempio, un breve rapporto su come le cose stessero procedendo in quella provincia:
in merito al fermo degli ebrei e al conseguente invio ai campi di concentramento, questo ufficio si attiene alle disposizioni impartite dal superiore Ministero con circolari telegrafiche di cui citasi per ultima quella in data 23.1.44 n. 1412 442.
La designazione del campo di concentramento di Fossoli di Carpi è stata fatta dal locale Comando Germanico delle SS non avendo il Ministero dell’Interno fatto conoscere l’esito degli accordi intervenuti con le autorità centrali tedesche.
Inoltre si precisa che questo ufficio una volta proceduto al fermo di un ebreo ne dispone l’accompagnamento a mezzo agenti al campo suddetto provvedendo poi in base ad accordi presi a segnalare mensilmente al citato comando delle SS il numero e le generalità degli ebrei colà avviati. Tali segnalazioni riassuntive debbono essere compiute entro il 24 di ogni mese.
Come si vede, a Bologna la destinazione di Fossoli era stata comunicata non dal ministero italiano, bensì dal comando germanico di zona in occasione degli accordi presi tra le autorità tedesche e italiane locali. Le obiezioni e i dubbi rilanciati dal questore di Parma erano legati soprattutto all’ambiguità delle disposizioni italiane, in particolare quelle contenute nei telegrammi del 22 gennaio 1944.
Cosa poteva significare, infatti, l’espressione “assicurare la permanenza degli ebrei nei campi italiani” in quelle città dove era stato istituito un campo provinciale? In assenza di altre indicazioni da parte del ministero o dei comandi germanici, le autorità locali potevano leggere una simile soluzione in maniera differente a seconda che nella provincia vi fosse stato approntato o meno un campo di concentramento.
Là dove gli ebrei erano stati rinchiusi momentaneamente nel carcere cittadino, capi provincia e questori sentirono la necessità di trovare una località dove inviare ben presto gli ebrei e trovarono normale il trasferimento degli arrestati al campo di Fossoli, perché in linea con quanto disposto dal ministero.
Nel caso di Parma, al contrario, le istruzioni contenute nelle circolari del 22 gennaio non chiarivano se gli ebrei dovessero rimanere nel locale campo provinciale o, al contrario, essere inviati altrove.
Questo episodio fa riflettere sul ruolo che i campi di concentramento provinciali ebbero in questi mesi. Anche qui non è possibile tratteggiare una tendenza comune a tutte le province. In generale, al pari delle carceri, anche queste strutture servivano come punto di raccolta provvisoria.
Le disposizioni ministeriali ne avevano previsto l’uso in attesa dell’organizzazione di campi nazionali dove trasferire tutti gli internati. In molti casi, in effetti, gli ebrei vi sostarono pochi giorni e furono quasi subito trasferiti a Fossoli.
Al contrario delle carceri, però, dove più forte era l’esigenza di sgombero degli internati, ad esempio per il sovraffollamento dei locali, i campi provinciali rappresentarono in alcuni casi una soluzione più duratura: dal momento che le disposizioni del ministero dell’Interno ordinavano la permanenza degli arrestati nei campi italiani, potenzialmente queste strutture diventavano luoghi dove sarebbe stato possibile tenere gli ebrei in maniera definitiva durante tutta la guerra.
È così che si spiega il fatto che, a Padova, gli individui arrestati rimasero molti mesi a Vò Vecchio, nonostante sul territorio della RSI fosse ormai in funzione da dicembre ’43 il campo nazionale di Fossoli di Carpi. Interessante a questo proposito è il caso di Perugia: il 13 aprile del 1944 la prefettura informava l’ufficio di Pubblica sicurezza che in «conformità disposizioni verbali ricevute da Ministro Interno procedo per istituzione campo di concentramento Isola Maggiore Trasimeno» e ne chiedeva il finanziamento.
Nel frattempo, però il capo della polizia di Salò e il comando tedesco disposero l’invio a Fossoli degli internati nel campo provinciale: le autorità locali, tuttavia, non eseguirono l’ordine di trasferimento e così, un mese e mezzo dopo, gli ebrei riuscirono a fuggire all’arrivo degli angloamericani.
Infine, a Mantova, in quello che era considerato il campo provinciale creato all’interno dei locali della comunità israelitica, rimasero internati ebrei fino alla fine della guerra (tra i quali, soprattutto, malati e anziani).
Da parte loro, le autorità tedesche intendevano sicuramente utilizzare i campi provinciali solo come luoghi di raccolta temporanea e di transito degli ebrei arrestati: la permanenza più o meno lunga in queste strutture sembrava essere legata, infatti, alle fasi del meccanismo di deportazione.
Durante il mese di gennaio 1944, gli internati furono prelevati da alcuni campi per formare il convoglio partito per Auschwitz il 30. In seguito gli ebrei rimasero nei campi provinciali in attesa che a Fossoli vi fosse disponibilità di posti: l’invio degli ebrei in questa struttura avveniva infatti gradualmente e si intensificava subito dopo la partenza di convogli per il campo di sterminio in Polonia.
Molti ebrei rinchiusi nei campi provinciali (Parma, Ferrara, Ancona, Imperia ecc.), ad esempio, furono portati al campo modenese a inizio marzo, ovvero dopo il trasferimento di 500 ebrei da Fossoli ai campi di sterminio, avvenuto il 22 febbraio.
Il 20 dicembre 1943, come avvenuto anche nelle altre province dell’Emilia Romagna, la questura di Reggio Emilia ricevette la nota n. IV – 38/44 inviata dal comando germanico della polizia di sicurezza con sede a Bologna. In essa si richiedeva di rispettare, nelle fasi di arresto, la normativa razziale tedesca oltre che quella italiana, e quindi di non applicare distinzioni di età o di altro genere nei confronti di chi doveva essere fermato, come previsto invece dal governo di Salò.
Il comandante delle SS ordinava, inoltre, di consegnare gli ebrei arrestati alla polizia tedesca: prima di procedere, però, il questore avrebbe dovuto trasmettere«una precisa relazione riguardante il loro arresto e poi attendere analoghe istruzioni».
In linea con quanto fatto anche dagli altri questori emiliani, tale richiesta fu segnalata prontamente al ministero centrale: il capo provincia si rivolse alla direzione generale della PS comunicando di aver inviato un funzionario della questura a conferire con il comando germanico:
frattanto, poiché l’ordinanza summenzionata [la n. 5 del 30 novembre 1943] non prevede la consegna degli ebrei alle autorità germaniche, nel riservarmi di riferire dettagliatamente sull’esito del colloquio col detto Funzionario avrà con il comandante tedesco di Bologna, prego codesto ministero di voler favorire istruzioni e chiarimenti in merito alla questione di cui trattasi.
Il 22 gennaio 1944, come detto, il ministero centrale inviò a tutte le province della RSI alcune istruzioni generali: le questioni riguardanti l’arresto degli ebrei dovevano essere risolte a livello locale prendendo contatto direttamente con i comandi germanici e spiegando le disposizioni del governo di Salò.
In uno dei due telegrammi trasmessi quel giorno, inoltre, si faceva riferimento a eventuali accordi che sarebbero stati presi al vertice: «Verranno interessate autorità centrali germaniche per direttive intese assicurare permanenza ebrei campi italiani». Il giorno dopo, il capo provincia di Reggio Emilia riferì al ministero gli esiti dei colloqui avvenuti tra il funzionario della questura e il comando SS di Bologna:
[…] si comunica che il funzionario di P.S. inviato a Bologna il 7 detto per i noti chiarimenti in merito agli ebrei, ha riferito di avere appreso dal comandante germanico della Ordnungspolizei che, in forza di accordi intercorsi tra il governo italiano e quello tedesco, gli ebrei fermati debbono essere consegnati alle Autorità di polizia germaniche.
Mentre ho provveduto a trasmettere al detto comando un elenco nominativo degli ebrei finora fermati in questa provincia, prego codesto ministero di voler far conoscere se debbasi aderire alla richiesta del Comando Germanico di Bologna.
La risposta del capo di polizia Tamburini, a inizio febbraio, fu lapidaria: «Pregasi aderire richiesta Comando Germanico circa consegna ebrei». Una simile decisione lasciava intendere che tra autorità germaniche e italiane si fosse arrivati a un accordo per la consegna degli ebrei e per la loro deportazione in Germania.
Michele Sarfatti ipotizza che ciò sia avvenuto in segreto: a sostegno della sua tesi vi è in realtà un ragionamento deduttivo, basato cioè sull’analisi della documentazione finora ritrovata. Non esiste infatti alcun documento che possa testimoniare un tale esplicito accordo tra i vertici di Salò e i comandi germanici, al contrario di quello che accadde nella Francia di Vichy a opera del ministro dell’Interno Laval.
Il 5 febbraio 1944, anzi, il Gabinetto dell’Ufficio di collegamento con le autorità germaniche del ministero dell’Interno inviava alla Direzione generale di Pubblica sicurezza una nota nella quale veniva dichiarato che l’ambasciata di Germania con sede a Roma non era a conoscenza di alcun accordo tra governo di Salò e autorità tedesche circa la consegna immediata degli ebrei e la loro deportazione dall’Italia.
Del resto, soltanto due mesi prima, il ministero degli Affari Esteri aveva messo a punto a Berlino una strategia diversa. Più plausibilmente questo accordo avrebbe potuto essere la conseguenza dell’iniziativa delle forze di polizia germaniche: non a caso, l’ufficio dell’ambasciata riferiva che avrebbe interessato la sede centrale di polizia di sicurezza a Verona per avere notizie a proposito.
La tattica di non richiedere subito agli italiani la consegna degli ebrei, tra l’altro, era stata accolta con favore anche dallo stesso Bosshammer, l’uomo di Eichmann stabilitosi proprio in quei giorni in Italia per occuparsi della questione ebraica.
Nei mesi successivi, come detto, i comandi tedeschi sembrarono seguire quanto concordato a Berlino: senza più fare pressioni per una consegna immediata, lasciarono che le autorità italiane inviassero gli ebrei arrestati al campo di Fossoli di Carpi, assecondando cioè il meccanismo deciso dal governo di Salò.
Sul versante italiano, salvo il caso di Reggio Emilia, sono rari i riferimenti a eventuali decisioni concordate tra autorità centrali tedesche e di Salò. Là dove se ne accenna, capi provincia e questori denunciano piuttosto il fatto di non essere a conoscenza di alcun accordo.
A fine febbraio, ad esempio, la questura di Bologna riportava che il ministero non aveva mai comunicato l’esito degli incontri avvenuti tra gli organi centrali italiani e tedeschi, annunciati nel telegramma del 22 gennaio. Il ministero dell’Interno non trasmise infatti mai alle autorità locali informazioni relative a un accordo preso con i tedeschi.
Con la circolare di gennaio, il capo della polizia e il ministro Buffarini Guidi decisero invece di spostare la questione a livello locale: fu infatti a capi provincia e questori che spettò il compito di prendere contatti con i comandi germanici di zona e di trovare una soluzione sulla base delle poche istruzioni diramate dai vertici governativi.
Gli uffici ministeriali non furono dunque il palcoscenico della vicenda, bensì le prefetture e le questure. Sebbene esistessero direttive ministeriali comuni a tutto il territorio della RSI, le dinamiche che si vennero a creare furono diverse a seconda della provincia.
La risoluzione del problema dipendeva infatti dall’interpretazione che il singolo amministratore locale dava delle indicazioni che gli venivano dall’alto, da applicare tenendo conto della situazione presente nel proprio territorio di competenza.
Le autorità locali avevano come punto di riferimento la normativa trasmessa dal ministero centrale, che tuttavia presentava caratteristiche tali da suscitare dubbi e problemi pratici da risolvere caso per caso. Di questo furono consapevoli, come abbiamo visto, anche gli stessi uffici ministeriali, che però non fornirono risposte precise ai quesiti provenienti dai funzionari locali.
Fin dall’inizio, quindi, le autorità provinciali si ritrovarono a destreggiarsi all’interno di una normativa ambigua e lacunosa, «fatta di misure spesso poco chiare o contraddittorie, continuamente modificate a colpi di nuove leggi e circolari, e per ciò stesso rese più pasticciate e confuse».
In merito alla consegna degli ebrei e all’arresto di anziani e malati, inoltre, l’autorità locale italiana si trovò costretta a prendere decisioni in base non soltanto alla normativa stabilita dal proprio governo, ma anche considerando la legge razziale germanica, che i comandi tedeschi tentavano di imporre.
E dal ministero non arrivò alcuna indicazione in grado di risolvere il problema:
Uno dei nodi problematici più delicati era costituito dal radicale capovolgimento dei rapporti di forza tra “centro” e “periferia”.
Fu quest’ultima infatti che prese in mano le sorti della vita economica e amministrativa del territorio, riuscendo, seppure parzialmente, a colmare le vistose crepe lasciate aperte dalla crisi dell’autorità, fino allora indiscussa, dello Stato centrale […]
La crescita improvvisa e disordinata dei poteri locali, che per primi avevano supplito al vuoto istituzionale dopo l’8 settembre, aveva drasticamente ridotto l’influenza delle direttive del governo sul territorio, indebolendo notevolmente la penetrazione e l’autorità del potere centrale […]
Alla cronica lentezza delle organizzazioni burocratiche centrali, infatti, i prefetti potevano contrapporre delle strutture collaudate che assicuravano una superiore velocità esecutiva.
Tutto questo in un sistema infrastrutturale ormai prossimo al collasso che giorno dopo giorno rendeva il territorio della RSI un mosaico di microterritori quasi autarchici.
Il comportamento delle autorità locali, in ogni modo, dipendeva dai rapporti esistenti tra il governo di Salò e le autorità di occupazione del Reich. La collaborazione tra tedeschi e italiani nella persecuzione razziale fu evidente: la soluzione della questione ebraica era del resto nei programmi politici di entrambi.
Il ministero dell’Interno della RSI aveva stabilito ufficialmente e autonomamente, in continuità con quanto fatto negli anni precedenti, l’arresto degli ebrei e il loro internamento in campi di concentramento, venendo così incontro a uno dei principali obiettivi delle forze di polizia tedesche scese in Italia.
La volontà di collaborare, del resto, era stata sancita dai telegrammi del 22 gennaio 1944, nei quali il governo autorizzava esplicitamente a prendere accordi con i comandi germanici. Le modalità di perseguire gli arresti e lo scopo finale erano tuttavia differenti: nelle disposizioni italiane diramate dal ministero, infatti, non veniva mai citata la deportazione, né tanto meno sembra essere esplicita la volontà di sterminio.
Si potrebbe certo obiettare che anche il linguaggio utilizzato dai nazisti, seppur sempre molto violento e aggressivo nella sua propaganda (infarcito di frasi quali “estirpare gli ebrei”, “distruggere i parassiti”), nei documenti ufficiali non dichiarava mai esplicitamente di voler mandare a morte gli ebrei, ma utilizzava espressioni fuorvianti: “evacuare” o “liquidare” gli ebrei per indicare, ad esempio, la loro deportazione e uccisione.
Una simile osservazione potrebbe cioè essere riportata al caso italiano: frasi ripetute costantemente negli scambi di telegrammi tra ministero e autorità locali, quali “gli ebrei sono stati evacuati verso nord” o “per ignota destinazione”, facevano forse parte di un linguaggio che sottintendeva significati altri e ben noti a tutti i funzionari.
Detto ciò, se ci si attiene al contenuto delle misure, gli ebrei sarebbero dovuti rimanere all’interno dei campi istituiti in territorio italiano, probabilmente in attesa di una risoluzione della questione ebraica dopo la conclusione del conflitto.
Fu così da un punto di vista amministrativo che la collaborazione tra i due alleati si dimostrò, con il passare dei giorni, sempre più difficile. Le operazioni di cattura degli ebrei erano state affidate, infatti, alla forze regolari della polizia del ministero dell’Interno, che non godevano più ormai della piena libertà d’azione. Il 27 novembre 1943, il capo della polizia di sicurezza germanica in Italia, Hartser, aveva stabilito i compiti della polizia tedesca relegando a un ruolo subordinato quella di Salò.
I questori italiani, dunque, furono affiancati da agenti di collegamento germanico, che ne controllavano e ne orientavano l’attività. Con l’ordinanza del 30 novembre 1943, ovvero una misura di polizia, la RSI spostò dunque la persecuzione degli ebrei in un ambito che vedeva il governo di Salò sempre meno autonomo:
i massimi vertici politici della RSI e Mussolini stesso non sono in grado di rispondere alle aspettative di contenimento della violenza e di mantenimento dell’ordine legale.
Sono prigionieri di troppe contraddizioni e oscillazioni, oltre che di una molteplicità di micropoteri che produce arbitrio e caos, anziché ordine e legalità.
Si crea così uno iato crescente tra le minoranze politicizzate e militarizzate del neofascismo e gli apparati civili cui è affidata la gestione quotidiana con i suoi problemi di sopravvivenza e di funzionamento minimo della vita collettiva.
In assenza di prese di posizioni chiare e definitive dal centro e di fronte alle forti pressioni tedesche, questure e prefetture diventarono gli organi responsabili delle decisioni da prendere.
Di conseguenza, queste autorità locali assunsero anche il ruolo di interlocutori preferenziali: non solo i comandi locali di polizia germanica, come è normale, si rivolsero direttamente ai questori per richiedere la consegna degli ebrei. Ma anche il console svizzero e quello turco, interessati alla sorte dei propri connazionali di origine ebraica, si indirizzarono a capi provincia e questori ancor prima di interessare il ministero degli Esteri.
Nel contesto dell’occupazione tedesca in Italia, le autorità locali italiane furono comunque in grado di ritagliarsi spazi di iniziativa. Come abbiamo visto, i campi di concentramento provinciali, uno dei punti centrali nelle disposizioni antiebraiche di Salò, furono realizzati e istituiti sotto l’esclusiva responsabilità italiana: l’apertura, l’organizzazione interna e il loro funzionamento furono sempre nelle mani di capi provincia e questori.
Questa libertà d’azione, molto probabilmente, fu possibile soprattutto grazie all’atteggiamento tedesco: consapevoli di non avere a disposizione le forze necessarie per conseguire con successo l’arresto di tutti gli ebrei, i comandi germanici decisero infatti di sfruttare la collaborazione italiana, lasciando alle autorità della RSI degli ambiti di loro competenza.
Si potrebbe quindi parlare di libertà “effimera” delle autorità italiane, perché possibile solo grazie a un “vuoto” di potere lasciato strategicamente e consapevolmente dalle autorità naziste di occupazione. Sebbene con carattere effimero, questa libertà d’azione ebbe però il suo peso. Lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, analizzando i dati relativi al numero di ebrei deportati dall’Italia nel biennio 1943-1945, osserva:
prima dell’arrivo di Bosshammer, erano stati deportati ad Auschwitz 3.110 ebrei. Tra il febbraio e il dicembre 1944 ne furono trasportati nell’Europa orientale almeno altri 4.056.
Ciò significa che, considerato il periodo assai breve, gli atti isolati di deportazione del gruppo d’intervento furono più efficaci delle misure amministrative degli ebrei in tutta Italia, attraverso l’internamento e la successiva deportazione.
L’atteggiamento italiano finì dunque per intralciare la piena realizzazione degli obiettivi tedeschi. Le autorità locali continuarono ad attenersi il più delle volte alla normativa italiana e si rifiutarono di arrestare in molti casi le categorie di ebrei che erano state escluse dalle istruzioni del ministero e che ora venivano richieste dai comandi SS (anziani e malati).
Spesso, inoltre, la polizia italiana riportò scarsi risultati nelle fasi di arresto delle persone, riuscendo a fermare solo una piccola parte degli ebrei che si stimavano fossero presenti nelle province.
Per porre rimedio a una simile situazione, i comandi tedeschi furono costretti a far valere la loro superiorità, ad esempio, nei rapporti di forza tra polizia italiana e germanica, ambito nel quale le autorità italiane, anche qualora avessero voluto, non sarebbero stati in grado di opporre alcuna resistenza: il prelievo degli internati nel campo provinciale di Padova, nel luglio 1944, fu infatti un colpo di mano della polizia germanica, contro il quale il capo provincia e il questore non poterono fare niente.
Tutto questo non vuol dire che le autorità italiane si impegnarono affinché in Italia gli obiettivi di sterminio nazista non avessero successo:
se la maggioranza degli ebrei italiani si salvò, in una misura sicuramente superiore a quanto accadde ad altre comunità dell’Europa occidentale, ciò fu dovuto in parte a ragioni casuali, in parte maggiore alle molteplici possibilità di sottrarsi alle razzie dell’occupante create dalle diverse forme di aiuti individuali o istituzionali […] non certo alla mancanza di iniziativa e zelo del nuovo apparato fascista repubblicano, che viceversa tenne a sottolineare, tra gli elementi di continuità con la fase passata del regime del ventennio, l’ulteriore esasperazione della campagna contro gli ebrei.
Nell’analizzare il caso di Vichy, la storiografia francese distingue generalmente l’esperienza amministrativa che si osserva nel nord della Francia, nel territorio di diretta occupazione tedesca, da quella che caratterizzò il regime di Pétain.
Nel primo caso, si parla di “collaborazionismo”, ovvero di una collaborazione accompagnata da una piena condivisione dei valori nazisti. Riguardo Vichy, invece, si osserva una “collaborazione di Stato”, nata non per l’ammirazione di un modello ideologico nazista, ma per la consapevolezza da parte francese dello squilibrio nei rapporti di forza con le più potenti autorità naziste.
In questo secondo caso, la collaborazione con i tedeschi divenne anche il mezzo con cui cercare di affermare, dove possibile, la sovranità e l’indipendenza dello stato francese. Di fronte all’ingerenza tedesca, infatti, due erano le soluzioni. Si poteva protestare presso le autorità germaniche, ma la lotta era impari.
Oppure, al contrario, il governo poteva trasformare in iniziative francesi quelle che erano in realtà probabili esigenze tedesche, onde evitare di dover cedere successivamente davanti alle costrizioni dell’occupante nazista.
In questo modo, cioè, precedere i tedeschi significava non doverli poi seguire e dava almeno apparentemente una qualche legittimità all’esistenza dello Stato di Pétain. Per quanto riguarda la politica di occupazione seguita dalle forze naziste in Europa durante la seconda guerra mondiale, Enzo Collotti osserva:
la collaborazione di elementi integrati nel tessuto sociale e amministrativo dei territori occupati era per le forze di occupazione una esigenza primaria.
Non lo era soltanto dal punto di vista propagandistico, per l’esigenza di affermare la funzione del Terzo Reich di guida nella crociata per la Nuova Europa; lo era, in termini ben più concreti, dal punto di vista della mobilitazione di forze e energie al servizio della Germania nazista.
Per questo, nel rapporto con le forze della collaborazione, si sviluppò una duplice dinamica: da una parte essa rifletteva le aspettative che la collaborazione riponeva nello sforzo di dare supporto alle esigenze belliche della Germania.
Dall’altra rispecchiava la realtà dell’interesse della Germania a servirsi della collaborazione senza nulla concedere in cambio. Uno scambio politico, come oggi si direbbe, non era previsto. La collaborazione era un processo a senso unico.
La Germania necessitava cioè di manodopera, ovvero di forze “esterne” per poter gestire al meglio l’occupazione, ma ciò non vuole dire che, di conseguenza, «la collaborazione sia stata sempre e necessariamente imposta dalla potenza occupante».
In materia di politica razziale, ad esempio, il governo di Salò e le sue autorità locali condivisero in gran parte l’idea nazista di una risoluzione della questione ebraica: l’arresto e l’internamento degli ebrei fu un’iniziativa presa dalla RSI, non per forza imposta dall’occupante tedesco – ma piuttosto in continuità con i provvedimenti antisemiti degli anni precedenti – e eseguita in provincia come fosse “ordinaria amministrazione”.
Allo stesso tempo, però, il governo di Salò e le autorità provinciali sembrarono non accettare a livello esecutivo che una simile collaborazione dovesse tramutarsi in un’imposizione di criteri estranei e in contrasto con la normativa italiana, vigente ormai da anni e i cui meccanismi erano collaudati.
Così si esprimeva, ad esempio, un ignoto funzionario ministeriale a proposito di ciò che stava avvenendo:
GLI EBREI INVIATI IN GERMANIA? Si è sparsa la voce, ed essa produce gran scalpore ed emozione (oltre ad altri sentimenti) che sia prossima la partenza di tutti gli ebrei detenuti a San Vittore per la Germania. Tutto ciò che sarà fatto per impedire questa violazione della sovranità italiana sarà ben fatto.
Le autorità di Salò, insomma, fino alla fine provarono a portare avanti quelle che erano le disposizioni italiane e a non cedere di fronte alle richieste del loro alleato.
Ci si trova di fronte, cioè, a un modello misto delle due diverse dinamiche descritte dalla storiografia francese per il periodo d’occupazione tedesca, che potremmo definire qui come “collaborazionismo di Stato”: la condivisione di un’ideologia antisemita portò a una collaborazione anche su un piano amministrativo, che però non si tramutò in un totale asservimento alla politica dell’occupante, ma fu piuttosto caratterizzata dalla continua ricerca di spazi di autonomia e sovranità.
Non senza qualche successo. La “resistenza di Stato” che si riscontra nei rapporti con i tedeschi riguardo la consegna degli ebrei non fu insomma determinata da considerazioni d’ordine umanitario, seppure non si può escludere che queste abbiano avuto in certi casi il loro peso.
L’atteggiamento delle autorità italiane sembra essere riconducibile piuttosto alla volontà di conservare un grado di autonomia in un ambito che, nelle convinzioni di chi stava eseguendo gli ordini ministeriali, non era stato imposto da uno Stato “occupante”, ma al contrario era il frutto dell’iniziativa italiana da più di cinque anni.
Se si osservano le biografie dei capi provincia della RSI, ad esempio, l’elemento comune che emerge maggiormente è la loro appartenenza a una generazione di squadristi della prima ora, tutti – o quasi tutti – combattenti nella Prima guerra mondiale e nelle guerre coloniali (molto spesso volontari), attivi fin dal principio nel perorare la causa fascista (in molti erano iscritti al partito dal 1919-’20, avevano partecipato alla marcia su Roma, erano consoli della Milizia ecc.). Osserva a questo proposito Dianella Gagliani:
Di fatto, più che a un “neofascismo” o fascismo “nuovo” o “rinnovato”, possiamo – credo – affermare che ci troviamo davanti al fascismo tout court, naturalmente secondo lo svolgimento della sua storia a partire dal 1919, ma senza che l’autunno 1943 rappresenti una vera e propria cesura rispetto alla storia precedente
Bisogna del resto tenere presente che il governo della RSI nominò a capo delle prefetture proprio personaggi provenienti dalla politica e non di carriera. Per questi individui, dunque, l’ingerenza tedesca andava a toccare la legittima autonomia di uno Stato che non era nato dopo l’8 settembre 1943, ma al contrario era un regime che governava in Italia da più di vent’anni.
Semmai, da pochi mesi si era ricostituito senza che vi fossero più quegli elementi protagonisti del “tradimento” del 25 luglio. Di conseguenza, anche i rapporti con le autorità germaniche sembrarono basarsi su un vero e proprio “equivoco”: da una parte i comandi della polizia di sicurezza nazista si comportavano da occupanti e per questo pretendevano che gli italiani seguissero senza esitazioni ciò che veniva loro ordinato; dall’altra, le autorità locali italiane si illudevano invece di poter relazionarsi alla pari con i tedeschi, in quanto loro “alleati”.
Una simile attitudine è ben riassunta nella testimonianza di una coppia di ebrei catturati alla frontiera dai carabinieri mentre cercavano di passare in Svizzera:
Dopo due giorni lui [il maresciallo dei carabinieri della caserma dove furono rinchiusi dopo l’arresto] dice: “non so cosa farne di voi, ma ai tedeschi io non vi consegno. Vado a prendere disposizioni”.
Infatti quando è tornato ci ha detto: “ah, vi devo portare una buona notizia…”. Cioè che c’era una convenzione tra il governo italiano e quello tedesco per cui gli ebrei catturati dagli italiani restavano a disposizione del governo italiano.
E doveva essere vero , perché la stessa cosa ci è poi stata ripetuta dal direttore delle carceri di Como, da quello di Modena e dai dirigenti di commissariato di pubblica sicurezza che erano a Fossoli.
Soltanto ad un certo momento i tedeschi se la sono rimangiata, ci han preso e ci han portato in Germania.