“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 6

a cura di Cornelio Galas

Durante la guerra, nella cittadina [di Este] di ebrei rimasero soltanto Emma Ascoli Zevi, ormai più che sessantenne, e la figlia Anna, che soffriva di epilessia. Quando, dopo l’8 settembre 1943, il pericolo si fece palpabile, non mancò, soprattutto tra i vicini di casa, chi consigliò alle due donne di nascondersi.

Ma a queste persone la vecchia Emma rispondeva che non c’era da preoccuparsi perché i nazifascisti non avrebbero mai preso lei così vecchia o la figlia così indifesa. Continuarono così ad aprire ogni giorno il loro negozio anche dopo l’occupazione tedesca, confidando che la loro innocuità fosse garanzia di salvezza. Ma prima che il ’43 finisse, l’onda montante dello sterminio si abbatté anche su di loro.

Il 1 dicembre 1943 le autorità della provincia di Padova ricevettero la comunicazione dell’ordinanza n. 5, firmata dal ministro Buffarini Guidi. Quel giorno stesso, il testo integrale della direttiva ministeriale fu reso noto alla popolazione sulle pagine del «Gazzettino», il giornale locale.

A partire da questo momento, dunque, si mise in moto la macchina amministrativa per eseguire l’arresto e la reclusione degli ebrei, nonché il sequestro dei loro beni. Le autorità locali si mossero subito in due direzioni: da una parte procedettero alla ricerca di un luogo idoneo dove poter concentrare gli ebrei e istituire un campo di concentramento provinciale; dall’altra cominciarono a fermare le persone, senza alcuna distinzione di età e nazionalità.

Nella zona erano presenti molte centinaia di ebrei, in parte italiani e in parte stranieri, questi ultimi arrivati nel corso della guerra dai Balcani e dall’Europa orientale in seguito all’occupazione nazifascista di quelle regioni.

«Erano capitati nell’estate del ’42, alla spicciolata», così inizia un breve racconto di Mario Rigoni Stern che ricorda la presenza di questi stranieri in un paese della provincia veneta, destinati all’internamento in una vecchia segheria abbandonata e poi datisi alla fuga dopo l’annuncio dell’armistizio.

La ricerca di una struttura dove rinchiudere gli ebrei arrestati si risolse in tempi particolarmente brevi. Il capo provincia Fumei incaricò di questo compito preliminare il questore, il quale, il primo dicembre stesso, invitò tutti i comandi provinciali dei carabinieri a comunicare se vi fossero strutture dove poter creare un campo di concentramento per gli ebrei della zona, specificando eventualmente il numero degli internati che sarebbe stato possibile accogliere al loro interno e in che stato queste fossero, ovvero se risultavano pronte per l’utilizzo o necessitavano invece di lavori .

Nei giorni successivi pervennero varie risposte alla questura. Si proponeva ad esempio la sistemazione degli ebrei in due campi di concentramento che erano stati già in funzione nella zona: il primo era un ex campo per prigionieri di guerra, in località Saonara nei pressi di Legnago, mentre il secondo era il campo per internati civili di Chiesanuova occupato in quel momento da militari tedeschi.

La capienza di queste due strutture era di circa mille posti e forse fu giudicata eccessiva dalle autorità, che preferirono così optare per un’altra soluzione.

Dimostrando una notevole efficienza amministrativa, il 3 dicembre, solo due giorni dopo l’avvio delle ricerche, il questore dispose infatti di allestire il campo in una villa in frazione Vò Vecchio, a pochi chilometri da Padova.

Fra le carte della questura è presente una dettagliata descrizione di questo stabile, che riporta con precisione la suddivisione della casa (due piani più giardino esterno) e dei posti letto disponibili in ogni camerata. La villa apparteneva al ragioniere S. L. ed era in parte abitata da suore elisabettiane, alle quali fu ordinato di occupare solo il piano terra.

Subito il questore comunicò al proprietario che la villa sarebbe stata messa a disposizione della prefettura e nominò l’ispettore di pubblica sicurezza, il commissario De Mita, quale direttore del futuro campo di concentramento.

Quest’ultimo ricevette l’ordine di occuparsi del casermaggio, prendendo accordi con il podestà del paese. Alle forniture necessarie si rimediò utilizzando quelle presenti nel citato ex campo n. 1 per prigionieri di guerra a Saonara.

Il materiale della struttura, infatti, era stato consegnato interamente al podestà di quel comune al momento della sua chiusura (18 settembre 1943): grazie a un accordo tra i sindaci di Saonara e Vò Vecchio, firmato dall’ispettore di PS direttore del campo, una parte del casermaggio fu passata in consegna a questo secondo comune per attrezzare la villa.

Mentre era in atto la ricerca di un’adeguata struttura per il concentramento degli ebrei, le autorità di polizia e i carabinieri procedettero all’arresto delle persone colpite dalla circolare ministeriale. In soli due giorni, tra il 3 e il 4 dicembre, furono fermati 25 ebrei da accompagnare al campo: la maggior parte di loro era costituita da italiani di età varia (non pochi ultra sessantenni), divisi in maniera uguale tra uomini e donne.

L’accuratezza con la quale si effettuarono gli arresti è dimostrata dagli ordini che il questore impartì ai comandi locali dei carabinieri, nei quali si insisteva soprattutto per rintracciare tutti coloro che risultavano irreperibili:

Viene riferito a quest’ufficio che molti ebrei già residenti in questo capoluogo si sono, in questi ultimi giorni, rifugiati o nelle loro ville o presso parenti e congiunti nelle [parola illeggibile] e nei comunioni di questa Provincia.

Interesso questo comandante impartire ai dipendenti comandi di stazione [parola illeggibile] urgenti istruzioni perché sia attuata una attenta vigilanza in proposito affinché detti ebrei siano rintracciati al più presto e condotti al campo di concentramento sito in località Vò Euganeo, avvertendo quest’ufficio dell’avvenuto fermo d’accompagnamento.

Prego far presente ai suddetti comandi che nelle ricerche agli ebrei che eventualmente si trovino nella rispettiva giurisdizione è impegnata la loro personale responsabilità.

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Il riferimento alla “personale responsabilità” dei comandi locali serviva probabilmente a rendere ancora più incisiva la disposizione del questore, nonché forse ad assicurare una totale autonomia nelle operazioni da parte delle autorità italiane rispetto a quelle tedesche di zona.

La ricerca delle persone da arrestare era affidata principalmente, se non esclusivamente, al corpo dei carabinieri, che si dimostrarono ligi nell’eseguire il compito loro assegnato. Se è vero infatti che, dei circa 450 ebrei che si trovavano nella provincia dopo l’8 settembre, ne furono catturati un numero molto inferiore, resta il fatto che in pochi giorni, tra il 3 e il 6 dicembre, più di trenta persone furono trasferite nel campo di Vò Vecchio.

A conferma del decisivo ruolo svolto dai comandi locali dei carabinieri, vale la pena citare il verbale d’arresto di una signora ebrea e della figlia,126 redatto dalla legione territoriale di Este:

Verbale di arresto di Ved. Z. A. E. fu […] nata l’11 agosto 1887 a Ferrara, residente a Este via Macello n. 1 e Z.

  1. fu […], nata a Este il 28 gennaio 113 (sic!) ivi residente via Macello 1 entrambi ebree, in ottemperanza al telegramma della Questura di Padova n. 014419 del 2 andante.

L’anno 1943, addì 4 del mese di dicembre alle ore 19 nell’ufficio della stazione di cui sopra. Noi sottoscritti, maresciallo maggiore M. G., comandante la stazione suddetta, e vicebrigadiere della medesima, B. L. riferiamo a chi di dovere che oggi alle ore 17 in ottemperanza al telegramma della questura di Padova n. 014419 del 2 andante pervenuto con foglio 59/195 del comando della compagnia di Este, ci siamo recati all’abitazione di A. E. ved. Z. e della figlia Z. A., sopra generalizzate, ed abbiamo proceduto al loro arresto per essere domani tradotte al campo di concentramento di Vo Vecchia.

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Perché consti abbiamo compilato il presente verbale in tre copie da rimettersi uno alla questura richiedente, una al comando del predetto Campo di concentramento e la terza per gli atti di questo ufficio. Fatto letto e chiuso in data e luogo di cui sopra ci sottoscriviamo.

Una volta avviata dunque l’apertura del campo e effettuate le prime azioni di cattura degli ebrei, il 4 dicembre 1943, il questore Augugliaro poteva così inviare al capo della provincia di Padova la comunicazione ufficiale dell’avvenuta esecuzione dell’ordinanza ministeriale, ricevuta neanche 72 ore prima:

Con riferimento alle disposizioni contenute nella circolare telegrafica del I andante n. 5 del Ministero dell’Interno relativa all’invio in campi di concentramento degli ebrei informo che è stata prescelta allo scopo la villa esistente in Vo Vecchio di proprietà del Rag. S. L. qui abitante in via N. Sauro n. 6, al quale è stata notificata tale decisione.

Colà è stato istituito fin da ieri un posto di polizia composto: n°1 sottufficiale dei carabinieri; n°6 carabinieri; n°2 agenti di PS, alla dipendenza del commissario capo di PS De Mita dott. Nicola e vi sono stati ristretti a tuttoggi n. 25 ebrei di ambo i sessi.

Prego pertanto voler disporre che sia emesso il decreto di requisizione della suaccennata villa e stabilito il canone di affitto, invitata la Sezione dell’Alimentazione a provvedere per il rilascio dei buoni di prelevamento dei generi razionati per tutti i sopra indicati conviventi, tenendo presente che questi saranno per qualche tempo in continuo aumento ed infine voler impartire disposizioni a quel Podestà perché provveda alla fornitura degli utensili di cucina, stoviglie, paglia, legna che gli venissero richieste dal Funzionario dirigente il campo di concentramento.

Sarà poi necessario provvedere la Direzione del campo di un fondo adeguato per il pagamento dei generi acquistati direttamente con le modalità che saranno prescritte.

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L’intervento della prefettura era adesso necessario per risolvere le questioni economiche e burocratiche di un provvedimento straordinario di polizia, destinato, almeno nelle intenzioni delle autorità locali, a durare nel tempo.

Nel rapporto appena citato, infatti, il questore chiedeva al capo provincia di provvedere a regolarizzare l’organizzazione del campo e il pagamento delle spese per la fornitura di casermaggio, del vitto agli internati e agli agenti di guardia, nonché di emettere un decreto ufficiale di requisizione della villa.

Nei giorni successivi la prefettura espletò ciò che era stato richiesto dalla questura. Innanzitutto inviò al podestà di Vò l’ordine di attrezzare il campo di concentramento con una cucina e un refettorio, acquistando il materiale presso le attività commerciali di Padova o di Este, d’intesa con il direttore del campo e l’ufficio di competenza presso la prefettura.

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Dalle testimonianze degli internati e degli abitanti si viene a sapere che i pasti erano preparati sul posto dalle suore elisabettiane rimaste nella villa. Anche  la questione dell’approvvigionamento agli internati e al personale di guardia fu subito risolta contattando la Sezione provinciale per l’Alimentazione a Padova, anche qui in accordo con il podestà locale.

Dai documenti a disposizione si può ipotizzare che il pagamento al comune di Vò, che si occupava di fornire i generi alimentari al campo, passava attraverso il direttore, il quale riceveva poi dalla prefettura un ordinativo di pagamento a suo nome. A partire dal mese di gennaio, tuttavia, il questore prospettò l’idea di intestare il pagamento direttamente al podestà di Vò, responsabile del resto della fornitura del vitto.

La requisizione dello stabile, infine, fu notificata il 23 dicembre con ordinanza del capo della provincia Fumei, con la quale si stabiliva anche un canone d’affitto da destinare al proprietario. L’esecuzione di tali pratiche amministrative sembra essere percepita come un fattore molto importante: la regolarizzazione a livello burocratico serviva cioè a dare forza e soprattutto stabilità esecutiva a decisioni prese in pochi giorni attraverso misure di polizia.

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Tutto ciò risultava fondamentale per mettere dei “paletti” che rappresentassero non solo norme regolamentari per le istituzioni coinvolte, ma anche una maggiore tutela delle competenze delle autorità italiane di fronte ai tentativi di ingerenza dell’alleato tedesco presente nella provincia di Padova.

Fin dai primi giorni di dicembre, infatti, il comando territoriale germanico aveva insistito presso l’amministrazione locale italiana per avere una lista degli appartamenti lasciati liberi dagli ebrei internati nel campo, per sistemarvi i suoi uomini.

Ma soprattutto, ciò che aveva più impensierito il direttore del campo di Vò, il commissario PS De Mita, era stata una visita a sorpresa di alcuni militari tedeschi il 21 dicembre, come riferito quel giorno al questore:

Stamane hanno visitato questa villa prendendo nota del numero dei vani e delle persone all’oggi internate ufficiali tedeschi di codesto comando germanico.

Ho fatto presente che la villa è requisita dal Capo della provincia per uso campo concentramento di ebrei. Pare vogliano alloggiarvi dei soldati italiani cui non hanno nulla di preciso dichiarato.

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Già pochi giorni prima, la questura di Padova aveva ricevuto un telegramma dal questore di Venezia nel quale si domandava di inviare notizie riguardo le operazioni antiebraiche in quella provincia, perché così era stato richiesto dal locale Comando germanico.

In realtà è necessario distinguere queste due vicende: la prima, infatti, vedeva protagonista un comando militare territoriale tedesco, le cui esigenze erano per lo più belliche, legate in quel caso alla sistemazione di truppe e di uomini dell’esercito in guerra; la seconda invece era una richiesta che proveniva dalla Polizia di sicurezza, ovvero l’autorità germanica competente negli affari ebraici.

Da una parte quindi ragioni di ordine militare, dall’altra di politica razziale nazista. Sulla base di questa considerazione, ancor più interessante è analizzare quale fu la reazione delle autorità italiane.

Nel primo caso, la visita degli ufficiali tedeschi al campo destò notevole preoccupazione, tanto che due giorni dopo, sempre il direttore De Mita faceva notare al questore che sarebbe stata opportuna un’«azione preventiva del caso presso il comando germanico per evitare eventuale imprevedibile ordine di sgombero».

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Nel secondo caso, invece, il questore comunicò al suo collega di Venezia un rapporto dettagliato delle prime operazioni eseguite contro gli ebrei in quella provincia, citando, tra l’altro, anche le difficoltà avute dalle locali autorità nell’arrestare quegli ebrei che si erano resi irreperibili dopo l’8 settembre.

Il modo diverso con cui le autorità italiane affrontarono le vicende non sembra essere qui legato a motivi ideologici e razziali. Se entrambi i casi riguardarono evidentemente affari di politica antiebraica, il rischio di uno sgombero arbitrario di locali requisiti dalla prefettura era temuto perché rappresentava un atto di ingerenza dell’“alleato” nelle pratiche amministrative italiane, al quale non era possibile opporre alcuna resistenza.

In questo frangente, a dire il vero, sembra quasi che il legame con la persecuzione degli ebrei non abbia alcun ruolo: riflessione ancor più drammatica perché dimostra come l’aspetto “umano” fosse in secondo piano, o almeno non considerato, di fronte a questioni puramente amministrative.

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La preghiera di prendere accordi preventivi con i tedeschi fatta al questore nasconde inoltre la certezza, da parte del commissario direttore del campo, di non avere alcun mezzo per contrastare qualsiasi eventuale tentativo di intervento attuato dai militari germanici.

Il capo provincia Fumei, allora, comunicava al Platzkommando di Padova di aver regolarmente requisito la villa per istituire un campo di concentramento per ebrei e, allo stesso tempo, predisponeva una soluzione che fa quasi sorridere: ordinava al podestà di Vò di apporre sulla porta d’entrata della villa un cartello in italiano e in tedesco con l’avviso di requisizione dello stabile!

Terminata questa fase che potremmo definire preliminare, le settimane successive furono caratterizzate dal tentativo di portare avanti un’esecuzione ordinaria delle direttive ministeriali del 1° dicembre.

Da una parte la gestione del campo richiedeva un’organizzazione ben precisa che regolasse la vita degli internati, i compiti degli agenti e di tutti quegli altri soggetti che avevano qualche rapporto con esso: attività commerciali del luogo, uffici della questura e della prefettura ecc.

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Dall’altra continuavano gli arresti degli ebrei della zona da avviare a Vò, la ricerca di coloro che erano irreperibili e il sequestro dei loro beni. Diremo subito che, a parte qualche eccezione (legata soprattutto alle questioni economiche di sequestro e confisca dei beni ebraici), in questa fase la presenza dei tedeschi fu molto discreta: ovvero, per qualche mese le autorità italiane lavorarono in autonomia.

Le cose cambiarono, come vedremo, a partire dalla primavera e in particolar modo nell’estate del ’44, quando l’intervento germanico provocò l’improvvisa deportazione degli ebrei internati.

L’organizzazione della vita del campo ricadde sotto la responsabilità del suo direttore De Mita. Come punto di riferimento, il commissario di pubblica sicurezza ricevette dal questore di Padova una copia delle circolari ministeriali del giugno 1940, che contenevano tutte le prescrizioni utilizzate in quegli anni di guerra per i campi di concentramento e le località di internamento.

Il direttore, dunque, nelle settimane successive si attenne a ciò che era riportato in questa sorta di “vademecum”, che definiva ad esempio cosa potessero fare o non fare gli internati, o quale fosse il ruolo del responsabile del campo.

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Rimanevano fuori da questo regolamento alcuni particolari, decisi dal direttore stesso, come l’ora dei pasti o di libera uscita, oppure delle questioni che necessitavano l’interessamento da parte della prefettura o del ministero (ad esempio nella definizione delle indennità da corrispondere a internati e agenti).

Se quindi le prescrizioni contenute nelle circolari del 1940 rappresentavano un utile punto di riferimento, molto spesso però queste non davano una risposta precisa a molti problemi pratici e contingenti, lasciati all’interpretazione del direttore di turno, o che necessitavano di un chiarimento dall’alto.

Le indicazioni richieste alle istituzioni competenti riguardo alcune di queste questioni spesso non ricevevano però una rapida risposta. Ancora nel maggio del 1944, più di cinque mesi dopo l’apertura del campo provinciale, nel comunicare l’elenco delle spese, il direttore faceva presente di non aver ricevuto precise disposizioni a proposito, ma solo copia delle due circolari del 1940.

Le testimonianze sul campo di Vò Vecchio, raccolte nei lavori di Francesco Selmin, ci offrono una descrizione della vita all’interno della struttura dal punto di vista degli ebrei internati.

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La ricostruzione del campo è basata infatti su tre tipologie di testimonianze: quelle di Esther Hammer e Bruna Namias, due dei tre ebrei internati a Vò che riuscirono a tornare da Auschwitz; i ricordi degli abitanti; la cronaca del parroco della chiesa vicina al campo, don Giuseppe Rasia, conservata presso l’Archivio parrocchiale di Vò Vecchio.

Nelle voci di chi visse quel periodo emerge l’insofferenza per la privazione della libertà, senza alcuna eccezione anche in casi estremi di malattia, e soprattutto l’angoscia degli internati preoccupati per ciò che sarebbe potuto loro succedere da un giorno all’altro.

Tuttavia il giudizio degli internati sulle condizioni di vita nel campo non è affatto negativo, e questa valutazione non sembra essere frutto solo del confronto con la successiva esperienza ad Auschwitz.

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A Vò Vecchio il cibo non mancava e le guardie sono ricordate come brave persone, che permettevano agli internati di uscire per fare acquisti nei negozi circostanti. Tramite i rapporti che De Mita inviava al questore è possibile invece ricostruire quale fosse la vita nel campo da un punto di vista differente, ovvero sotto l’aspetto amministrativo.

Da questi resoconti emergono cioè problemi di gestione ordinaria: i lavori da fare nello stabile per adeguare i servizi igienici e il riscaldamento; le forniture per il vitto agli internati; le spese effettuate (non solo per lavori ma anche per pagare il medico di servizio) di cui si chiede il rimborso alla prefetture e agli uffici competenti.

Va osservato a questo proposito che lo scambio di rapporti e telegrammi tra direttore, questore e capo provincia (ma anche con i comandi dei carabinieri, con il podestà, ovvero tutte le comunicazioni a livello locale) risulta essere molto diverso da quello tra la prefettura e il ministero centrale.

Il testo di un telegramma del capo provincia al capo della polizia è solitamente frutto di una ponderata scelta delle informazioni da dare, fatta in base a considerazioni di opportunità politica o a valutazioni di convenienza economica: spesso questa scelta porta infatti a non comunicare tutti gli aspetti di una vicenda e a ometterli volontariamente.

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Sebbene questa riflessione vada tenuta presente in generale per tutti i documenti ufficiali prodotti dalle istituzioni (siano esse autorità centrali o periferiche), tuttavia dai rapporti che il direttore del campo inviava al questore emerge una maggiore libertà nel comunicare informazioni e particolari: le preoccupazioni d’ordine politico e strategico lasciano cioè più spazio a quelle che sono localmente le questioni concrete e i problemi da affrontare tutti i giorni.

Nella prima relazione scritta l’8 dicembre e destinata al questore, ad esempio, si legge:

La popolazione ebraica concentrata in questo campo ascende attualmente a 32 unità di cui 18 uomini e 14 donne.

Le condizioni sanitarie degli internati nonostante la mancanza di riscaldamento e l’età avanzata della maggior parte di essi sono in genere buone, fatta eccezione di un vecchio [parola illeggibile] e affetto da pleurite e due donne di cui una dà segni di squilibrio mentale, già ricoverata Brusegana, e l’altra è affetta da angina pectoris.

Vengono assistite dal locale ufficiale sanitario che viene giù quotidianamente da Vò Centro e pregasi interessare [parola illegibile] Consiglio Corporazioni per la concessione di qualche buono di benzina per tale straordinario servizio.

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Si provvede d’accordo con questo Podestà alle forniture occorrenti al campo però le cose vanno a rilento un po’ per scarsa buona volontà del Municipio ed un po’ per noncuranza in sito dei materiali necessari.

Difatti le tre finestre al primo piano della villa ancora non sono state munite di rete metallica e così pure lo spiazzo dove i concentrati prendono l’aria. Ancora, non funziona la stufa nell’ufficio del sottoscritto, per mancanza di tubi.

Da parte mia non desisto da energiche sollecitazioni. Per norma ore indennità, pregasi fare conoscere il trattamento stimatone che spetta ai concentrati.

Per le visite da parte dei familiari pregasi fare tenere, caso per caso, l’autorizzazione scritta di codesto ufficio. […] provvedere all’invio di un altro carabiniere da adibire alla spesa per il vitto del distaccamento qui costituito.

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Come era normale attendersi, l’aspetto “umanitario” ben presente nelle testimonianze degli internati passava qui attraverso la risoluzione di questioni d’ordine amministrativo: l’internato malato costituiva oggetto di attenzione perché obbligava a chiamare un medico, al quale ad esempio doveva essere rimborsato il costo della benzina per i suoi spostamenti dalla città.

Sono per lo più problemi pratici quelli che ci vengono descritti in questi rapporti inviati al questore, come i lavori all’interno del campo per adeguare la struttura in vista dei mesi invernali (riscaldamento) e in previsione del periodo di reclusione degli ebrei (reti metalliche alle finestre e nel giardino).

Il direttore aggiornava inoltre la questura sulle condizioni economiche degli internati: seguendo in questo caso alla lettera le prescrizioni ministeriali del 1940, il denaro appartenente agli ebrei internati era stato depositato in libretti postali messi sotto la sua diretta responsabilità.

Egli si riservava in ogni modo di autorizzare gli internati a prelevare di volta in volta una certa somma per fare acquisti mirati a soddisfare alcune esigenze personali:

Il numero dei concentrati in questo campo ascende a ventinove, di cui cinque bambini. Possedendo alcuni ebrei delle somme dalle cento alle settecento lire (eccetto gli ebrei H., S., C. che posseggono rispettivamente lire tremila, quattromila e mille) sono state depositate in libretti postali nominativi custoditi dal sottoscritto dai quali venga autorizzati volta per volta dei prelievi per speciali esigenze (supplemento vitto, un pezzo di legna ecc.), all’infuori delle razioni somministrati dal Ministero e cioè latte al mattino, una minestra e un pane a mezzogiorno ed una minestra o latte la sera […].

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Da questa relazione, tra l’altro, si scopre anche quale fosse la razione del vitto che il ministero aveva stabilito per gli internati, razione comune anche agli altri campi e che era possibile però integrare con acquisti fatti all’esterno.

Non mancarono episodi particolari che coinvolgevano in prima persona lo stesso direttore. Nel mese di dicembre furono svolte all’interno del campo alcune indagini riguardo voci giunte a proposito della perdita di un bracciale con diamanti, appartenuto a un’internata la quale, tuttavia, negava di averlo mai posseduto.

La mini-inchiesta riferita da De Mita al questore non portò ad alcun risultato. La misteriosa scomparsa del bracciale può però essere spiegata in due modi. Dal momento che gli internati nel campo non potevano possedere gioielli (art. 3 della circolare del 25 giugno 1940), l’ipotesi più plausibile è che fu un tentativo da parte della proprietaria di nascondere il gioiello ed evitare così che finisse requisito nelle mani delle autorità italiane.

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Oppure, al contrario, si trattò di un banale furto all’interno del campo. A inizio gennaio, il primo commissario del campo, De Mita, venne sostituito dal questore. Non è chiara quale fosse stata la causa di questo provvedimento e se ciò fosse legato a qualche episodio in particolare (come la citata vicenda del bracciale scomparso).

In realtà, le memorie degli internati descrivono il primo direttore del campo come un uomo intransigente, «molto antipatico, severo e cattivo». Anche gli abitanti della zona sembravano condividere questa impressione:

A sorvegliarli c’era un italiano. Lo chiamavano il commissario. Questi, quando arrivarono, pretendeva che chiudessi, dalla sera alla mattina, le finestre della villa con telai di rete fitta, perché non passassero biglietti o carte.

Era inverno. Io facevo il fabbro ma ero senza ferro, senza rete, senza niente. Minacciò di mandarmi in Germania se non l’avessi fatto. Ma era impossibile farlo. Così hanno messo un corpo di guardia a sorvegliare la villa.

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La sua sostituzione con il vice commissario di Pubblica sicurezza Salvatore Lepore fu quindi accolta con sollievo dagli ebrei, che invece conservarono di quest’ultimo un’immagine sicuramente più positiva.

A livello amministrativo, la nuova nomina comportò un passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo direttore di tutto ciò che si trovava nel campo, dal materiale agli uomini in carne e ossa: nel certificato che attestava il trasferimento, firmato dai due funzionari di PS, figura, nell’elenco degli oggetti presenti nel campo, accanto all’attrezzatura, ai libretti di risparmio e ai fascicoli personali degli ebrei internati, la seguente dicitura: «n. 34 (trentaquattro) concentrati».

Se per quanto riguarda i precedenti documenti si è messo in evidenza il modo freddo e burocratico di considerare quelli che erano i problemi “umanitari”, quali la malattia di un internato, qui il processo di disumanizzazione delle persone presenti a Vò è completo.

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Zygmunt Bauman

Si assiste cioè a quello che Zygmunt Bauman ha definito appunto «il processo di disumanizzazione degli oggetti dell’attività burocratica», ovvero «la possibilità di esprimere tali oggetti in termini puramente tecnici ed eticamente neutri»:

Noi associamo la disumanizzazione alle immagini terrificanti degli internati nei campi di concentramento, che furono umiliati riducendo la loro azione al livello più elementare della sopravvivenza primitiva, impedendo loro di aggrapparsi ai simboli culturali (sia fisici, sia comportamentali) della dignità umana, privandoli perfino di sembianze umane riconoscibili […]

La disumanizzazione comincia nel momento in cui, grazie alla dissociazione che abbiamo visto, gli oggetti dell’attività burocratica possono essere, e sono, ridotti a una serie di misurazioni quantitative.

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Continuando il discorso su quella che fu l’ordinaria amministrazione del campo, un motivo ricorrente per tutti i mesi successivi sarà il difficile rapporto tra il direttore del campo e l’amministrazione municipale, responsabile delle forniture alla villa.

Per un verso furono questioni d’ordine burocratico a tenere banco: nonostante le ripetute sollecitazioni del direttore, il Municipio notificò l’atto di requisizione della villa solo nel mese di aprile (l’ordinanza del capo provincia era di metà dicembre).

Vi erano tuttavia ben altre questioni che risultavano molto importanti per la regolare vita nel campo e sulle quali il direttore Lepore lamentava quella che definiva la «noncuranza tutta propria per qualsiasi genere di affari» dell’amministrazione comunale: dalla mai avvenuta riparazione di un bagno utilizzato dalle guardie addette alla sorveglianza, fino ad arrivare alla mancata fornitura del vitto agli internati.

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Per i necessari provvedimenti Vi informo che oggi gli internati di questo campo di concentramento sono restati privi di pasti non essendo state corrisposte ancora le razioni di spettanza al locale negozio di generi alimentari.

Poiché trattasi di questione di massima importanza per questo Campo, Vi invito a scanso di ogni responsabilità di curare personalmente e con la massima urgenza la situazione. Gradirò a vista assicurazione di ricevuta e di interessamento.

In una successiva nota, il direttore insisteva su questo grave “inconveniente”:

Al fine di evitare l’inconveniente di cui al mese scorso si prega di voler trasmettere a quest’Ufficio i buoni di richiesta dei generi razionati, che saranno consegnati a mano all’Ufficio alimentazione di Padova.

Qualora siano stati già trasmessi si prega di far conoscere gli estremi della nota di trasmissione al fine di diretto interessamento presso il predetto Ufficio Alimentazione.

Trattandosi di generi insostituibili e per persone che non possono uscire dall’ambito del Campo mi permetto richiamare la attenzione vostra di un diretto interessamento a scanso di ogni eventuale responsabilità […].

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E concludeva chiedendo con urgenza una risposta e «un disbrigo sollecito di detta pratica, essendo quistione quasi vitale per le persone rinchiuse in questo Campo».

In questo caso va notata l’attenzione riposta nei confronti di un disagio che incideva qui seriamente sulla vita stessa degli internati, a dimostrazione che il processo di disumanizzazione amministrativo, seppur fortemente presente nelle pratiche quotidiane delle autorità, lasciava in ogni modo spazio ad aspetti umanitari: era inaccettabile cioè che gli internati potessero rimanere senza cibo per un giorno o, ad esempio, senza coperte durante i mesi invernali.

Si può certamente affermare, del resto, che la qualità delle condizioni di vita degli internati era legata alla sensibilità del direttore di turno, più o meno attento a questo aspetto.

L’organizzazione del campo dipendeva in ogni modo anche dalla presenza numerica degli internati, che aumentava progressivamente a seconda degli arresti eseguiti nella zona. Tra dicembre 1943 e maggio 1944 passarono per il campo in tutto 71 ebrei.

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Il loro numero variò di mese in mese: ciò non era determinato soltanto dalla regolarità con la quale venivano compiuti gli arresti nella provincia, ma anche e soprattutto dall’applicazione degli ordini provenienti dal ministero dell’Interno, che prevedevano esenzioni per gli ebrei colpiti dai provvedimenti.

L’11 dicembre, il questore ordinò al direttore De Mita la liberazione degli anziani oltre i settant’anni, dei malati e degli appartenenti a famiglia mista, secondo quanto stabilito dal telegramma ministeriale ricevuto il giorno prima:

Ottemperanza conformi disposizioni ministeriali prego rimettere libertà avviandoli autocorriera et diffidando presentarsi questo ufficio entro giornata successiva loro rilascio seguenti ebrei età superiore anni settanta [segue elenco nominativo di 9 persone] et seguenti altri appartenenti famiglie miste [segue elenco nominativo di 11 ebrei].

Nei giorni successivi il questore Augugliaro inviò le stesse disposizioni al comando della Compagnia dei carabinieri di Padova-Este, per raccomandare soprattutto la sorveglianza dei “discriminati” dalla misura. Se la liberazione degli anziani non presentava particolari problemi, più complicato risultò l’individuazione degli appartenenti a famiglia mista (ovvero coloro che erano sposati con non ebrei oppure i figli di coppie “miste”, secondo quanto deciso dalla legge del 1938).

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Per questi ultimi, infatti, furono riaperte pratiche di accertamento già in corso o chiuse durante gli anni precedenti, iniziate cioè subito dopo la promulgazione delle leggi razziali. Le esenzioni previste dal ministero rappresentavano per gli internati un appiglio al quale aggrapparsi almeno per provare a uscire dal campo.

Molte furono le richieste inviate dagli ebrei, internati e non, alla prefettura affinché fossero effettuati nuovi accertamenti di razza, nella speranza di dimostrare la propria appartenenza a famiglia mista.

La ricerca di una via d’uscita passava anche attraverso altri tentativi, primo fra tutti l’ottenimento di un certificato medico che attestasse una malattia tale da dover essere ricoverati in ospedale.

Dalle testimonianze di internati e abitanti dell’epoca vengono alla luce episodi estremi, come quello delle due donne citate in apertura di paragrafo: un’anziana ebrea e la figlia affetta da gravi disturbi psichici ma mai autorizzate, al contrario di altri, a lasciare il campo.

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Come osserva Francesco Selmin, le possibilità di salvarsi dall’Olocausto variavano significativamente anche in relazione alle condizioni economiche e sociali delle persone: nel caso specifico di Padova, infatti, la possibilità di ottenere una esenzione dipendeva spesso dall’appartenere o meno a qualche prestigiosa e facoltosa famiglia della borghesia padovana.

A fine dicembre le autorità provinciali ricevettero il telegramma del ministro dell’Interno Buffarini nel quale si confermava il contenuto dell’ordinanza del primo dicembre e si spiegava che l’adozione di alcune “discriminazioni” serviva a facilitare un invio graduale degli ebrei nei campi di concentramento.

La ricezione di questa direttiva ministeriale non ebbe alcuna ripercussione locale, anzi si situava a metà di un periodo (complici forse le feste natalizie?) durante il quale la frequenza degli arresti subì un rallentamento: solo due persone avviate a Vò in 20 giorni, tra il 25 dicembre e il 14 gennaio.

A proposito dello scambio di informazioni tra autorità locali e uffici centrali, sulla base della documentazione presente sia nel fondo del ministero dell’Interno che in quello della prefettura e della questura dell’Archivio di Stato di Padova, si deduce che il ministero ricevette notizia dell’istituzione del campo soltanto a fine dicembre, grazie a un rapporto che l’Ispettore di pubblica sicurezza Verdiani fece riguardo la provincia veneta.

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In esso, accanto alle notizie concernenti l’ordine pubblico e la situazione economica e sociale della zona, era citata l’esistenza di un campo provinciale per ebrei in una villa in località Vò Vecchio, nella quale si trovavano in quel momento 17 ebrei: l’Ispettore riferiva tra l’altro dei dati che non tenevano conto degli arresti avvenuti dopo il 20 dicembre.

Forse a seguito di ciò, il 31 dicembre il capo della polizia Tullio Tamburini inviava quindi al capo della provincia di Padova un telegramma nel quale si chiedevano notizie sul campo, in particolare sul numero di persone che era possibile internarvi.

Il capo provincia Fumei spedì una dettagliata relazione sulla struttura di Vò alla direzione generale di Pubblica sicurezza a Roma solo il 18 gennaio 1944, ovvero un mese e mezzo dopo la sua apertura:

Con riferimento alle disposizioni impartite con la circolare del 1 dicembre scorso n. 5 si informa che è stato istituito a Vo Vecchio un campo di concentramento per ebrei alla direzione del quale è stato preposto un funzionario di PS di questa questura.

Le operazioni contro gli ebrei iniziatesi al due dicembre hanno dato scarsi risultati perché qui dallo scorso settembre la gran maggioranza di essi si rese irreperibile.

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Comunque sino ad oggi sono stati avviati al predetto campo di concentramento n. 57 ebrei dei quali in seguito alle disposizioni ministeriali di cui al telegramma n. 57460/442 del 10 scorso furono liberati ventuno elementi di età superiore ai settant’anni o coniugati con ariani.

I misti sottoposti a vigilanza sono ventisei [cancellato a penna “essi oltre alla vigilanza si presentano a giorni alterni in questura”]. Per gli irreperibili sono state diramate le disposizioni di ricerche [cancellato a penna “Attualmente si trovano internati 37 ebrei”].

La poca comunicazione tra le autorità provinciali (in questo caso la prefettura) e quelle centrali, notata in questo frangente, diventerà nei mesi successivi una vera e propria assenza di trasmissione di notizie relative agli ebrei arrestati e rinchiusi nel campo di concentramento.

Solo a fine maggio, infatti, il capo della polizia Tamburini chiedeva direttamente alla questura se a Padova esistesse ancora un campo provinciale e, in tal caso, quanti internati vi fossero: la risposta del questore fu inviata il giorno dopo.

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A partire da gennaio la prefettura aveva inoltre cominciato a occuparsi delle pratiche di confisca dei beni mobili e immobili degli ebrei, in esecuzione del decreto legislativo del 4 gennaio 1944. Numerose pratiche vennero aperte nei confronti di singole persone appartenenti alla razza ebraica, che coinvolgevano non solo gli ebrei ma, ad esempio, anche quelle aziende presso le quali gli ebrei detenevano degli interessi economici.

All’esecuzione di questo provvedimento parteciparono gli uffici competenti della prefettura e della questura, nonché il direttore e gli agenti del campo, custodi degli averi che gli internati portavano all’interno del campo.

Fu creato ad hoc un “Commissariato per la gestione degli immobili urbani e mobili di proprietà ex ebraica” di Padova, il quale a marzo richiedeva al questore l’elenco degli ebrei internati e di quelli rimessi in libertà durante quei mesi.

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Come già osservato, le autorità locali di Padova applicarono le disposizioni del ministero dell’Interno in maniera tempestiva e regolare. Un’ulteriore conferma a questa dinamica ci viene dalla risposta che ricevette il telegramma del capo della polizia del 22 gennaio 1944, inviato a tutti i capi provincia della Repubblica Sociale Italiana (ricevuto da prefettura e questura di Padova il giorno dopo).

In questa circolare si dava indicazione di avviare, come già disposto precedentemente, gli ebrei puri italiani e stranieri in campo di concentramento, esclusi gli appartenenti a famiglie miste: si dovevano inoltre interessare le autorità germaniche per assicurare la permanenza in queste strutture italiane degli internati, come specificato ulteriormente, dopo poche ore, sempre dal capo della polizia.

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Abbiamo visto che la circolare ministeriale intendeva dare un chiarimento riguardo i rapporti tra autorità italiane e tedesche: i comandi territoriali delle SS avevano richiesto ad alcune prefetture della RSI di trasferire direttamente a Fossoli o farsi consegnare gli ebrei arrestati, reputando superfluo il loro invio nei campi di concentramento provinciali. Nel caso di Padova le cose andarono diversamente.

Il comando germanico non sollevò alcuna obiezione riguardo la reclusione degli ebrei nel campo di Vò, tanto che, già a fine mese, il capo provincia poté comunicare al ministero: «questo comando militare tedesco approvata disposizione e procedura contro ebrei per invio campo concentramento provinciale».

In questo caso, non è chiaro se l’interlocutore della prefettura di Padova fosse il comando militare tedesco o quello della polizia di sicurezza germanica: due autorità che, come già detto, avevano rispettivamente compiti differenti in Italia, nonché forse un diverso approccio alla questione ebraica.

Don Giuseppe Rasia parroco di Vo’ Vecchio dal 1932 al 1978. Ha lasciato un'ampia relazione sulla vita del campo di concentramento

Don Giuseppe Rasia parroco
di Vo’ Vecchio dal 1932 al 1978.
Ha lasciato un’ampia relazione sulla vita del campo di concentramento

Le procedure di arresto e di internamento non incontrarono dunque ostacoli particolari, se si escludono quei problemi legati all’amministrazione ordinaria del campo o la infruttuosa ricerca di ebrei fuggiti o nascosti dal settembre ’43. A dimostrazione di ciò, a marzo, il telegramma ministeriale nel quale si ribadivano le disposizioni e le esenzioni di cui tener conto, non comportò alcuna modifica a quella che era stata la prassi seguita da ormai 4 mesi in quella provincia.

Veniamo dunque al tema del rapporto con le autorità tedesche riguardo la gestione degli ebrei arrestati: come detto, alla metà di dicembre era pervenuta la richiesta da parte del comando germanico di sicurezza di Venezia di avere notizie circa l’esito delle operazioni antiebraiche svoltesi nella provincia di Padova.

Durante i mesi successivi, non vi fu nessun altro specifico interessamento, eccetto gli accordi per l’invio degli ebrei al campo di Vò, stabiliti a fine gennaio ’44, ma in realtà sollecitati dal ministero dell’Interno italiano. Solo ad aprile, lo stesso comandante territoriale della polizia di sicurezza del Reich richiese nuovamente alla questura informazioni sugli arresti effettuati dagli italiani:

per poter constatare se gli ebrei residenti in questa città e nella provincia di Padova sono stati arrestati nelle azioni passate di questa questura prego comunicarmi con sollecitudine i nomi degli ebrei arrestati con l’indirizzo dell’ultimo loro domicilio.

Allo stesso momento prego anche di comunicarmi quale degli ebrei sia stato rilasciato per ragioni diverse. Prego anche di comunicarmi l’indirizzo degli ebrei rilasciati di quelli che vivono coniugati in matrimonio misto, di quelli discriminati, di quelli arianizzati.

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Due settimane dopo, il questore inviò gli elenchi richiesti. Questa iniziativa del comando tedesco fu solo il preludio all’operazione del 17 luglio: nel primo pomeriggio di questa giornata estiva, la polizia di sicurezza tedesca irruppe nel campo e prelevò i 43 ebrei lì presenti.

Prima rinchiusi qualche ora nel carcere di Padova, gli ex internati di Vò furono trasferiti alla Risiera di San Sabba a Trieste e dopo alcune settimane deportati nei campi di sterminio. È però opportuno soffermarsi un momento su ciò che era accaduto nel campo un mese prima.

Il 3 giugno, il direttore Lepore denunciò al questore problemi sulla sorveglianza al campo di concentramento: dei sei carabinieri addetti alla vigilanza, uno era stato destinato in Germania e altri due erano in quel momento malati.

Nel caso in cui non fosse stato possibile ripristinare per intero la forza un tempo a disposizione, chiedeva almeno di non togliere ulteriori uomini. Una risposta da parte dei superiori arrivò tuttavia soltanto a seguito di una seconda sollecitazione del direttore.

Inviata due giorni dopo sempre alla questura, questa comunicazione informava che la situazione non era cambiata, visto che gli agenti rimanevano sempre in numero inferiore ai sei uomini stabiliti all’inizio.

Interessatosi alla questione, il questore Palmeri (che aveva preso il posto di Augugliaro) scrisse al comando provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana di provvedere affinché l’organico addetto alla sorveglianza al campo di Vò fosse mantenuto al completo, dal momento che:

l’assegnazione fu a suo tempo fatta con criteri della massima economia di uomini, ogni variazione in meno non può non apportare nocumento al servizio di vigilanza che per ovvie ragioni nell’attuale momento deve essere quanto più è possibile efficiente.

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Tuttavia, la successiva risposta del comandante provinciale della GNR lasciò intendere che in quel periodo di guerra, non era possibile risolvere quanto denunciato dal direttore.

Che la sorveglianza non fosse così stretta, del resto, è un aspetto che trova conferma anche nelle memorie degli internati e degli abitanti della zona, i quali affermano che dal campo si sarebbe potuto scappare in qualsiasi momento.

L’inefficiente sorveglianza al campo provinciale fu così la motivazione con la quale la polizia di sicurezza germanica giustificò il prelevamento dei 43 ebrei internati nella villa, il 17 luglio 1944. La sera stessa il direttore Lepore faceva pervenire alla questura la notizia dell’operazione tedesca nel campo, mentre il giorno dopo ne comunicava i particolari:

Per opportuna notizia e come già riferito verbalmente si comunica che ieri, 17 corrente, verso le ore 14 si sono presentati al campo di concentramento Ebrei degli ufficiali e militari delle SS tedesche nonché il Comandante il presidio di Este ed hanno condotto via per ora a Padova alle Carceri giudiziarie dei Paolotti gli ebrei ivi internati.

Due ebrei che trovavansi a Padova per cura medica sono stati consegnati dal sottoscritto, in data odierna, al comando delle SS di Padova. La bambina G.S. sfuggita ai tedeschi durante la notte come da comunicazione telefonica a codesta questura è stata trattenuta da me a Vo e in mattinata consegnata in Questura stessa.

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Richiesto dall’Ufficiale interprete al comando delle SS della bambina ho detto di averla consegnata in questura. Non mi è stata fatta alcuna richiesta di consegna immediata. I rimanenti indumenti e oggetti esistenti al campo di proprietà degli ebrei devono essere inventariati e tenuti a disposizione del Comando Presidio tedesco di Este. L’ufficiale interprete delle SS ha portato via la pratica di Ufficio relativa all’ebreo misto dimesso P. D. e quella relativa a C. egualmente dimesso.

Ricevuta la notizia, il capo provincia si preoccupò subito di chiedere il motivo di tale azione al comando germanico, il quale rispose che il prelevamento degli ebrei era stata una misura di sicurezza in quanto l’insufficiente numero di uomini addetti alla vigilanza non assicurava, a loro parere, l’adeguata sorveglianza del campo.

La prefettura si affrettò allora a comunicare al comando germanico di aver già iniziato un’indagine contro il direttore del campo e i suoi agenti in merito a questo grave inconveniente. Si presume che in realtà non sia mai stata avviata alcuna inchiesta, dal momento che il problema della poca sorveglianza, come abbiamo appena visto, era stato denunciato dal direttore stesso poche settimane prima.

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Nell’informare il ministero dell’Interno, il capo provincia evitò accuratamente di citare i motivi con i quali i tedeschi avevano giustificato lo sgombero del campo. Nella descrizione dei fatti inviata alla direzione generale della Polizia, si dice che «il comando delle SS – richiesto del motivo di tale provvedimento – ha fatto conoscere che esso è di carattere generale ed è stato ordinato dal Comando Superiore delle SS in Italia».

Certamente il capo provincia intendeva nascondere l’inefficienza dell’amministrazione italiana posta sotto il suo controllo. Non è da escludere, però, che fosse anche consapevole che quella della poca sorveglianza fosse non una giustificazione, quanto piuttosto un pretesto per agire contro gli ebrei.

In ogni modo, resta il fatto che le autorità germaniche fornirono una precisa spiegazione del provvedimento, come se una giustificazione dell’accaduto fosse comunque necessaria: non un prelievo arbitrario degli internati, né tanto meno motivazioni d’ordine razziale, bensì una misura di pubblica sicurezza.

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Quella del 17 luglio fu una giornata rimasta impressa nelle memorie degli internati come un vero e proprio incubo. L’improvvisa irruzione nel campo da parte nazista non fu in alcun modo ostacolata: del resto le autorità italiane non disponevano della forza per opporsi a una simile azione.

Dalla citata relazione del direttore, si può constatare anche il suo diligente sforzo, insieme a quello del questore, per consegnare ai tedeschi quegli ebrei che erano momentaneamente scampati alla razzia, perché ad esempio in ospedale; perfino la ricerca della già ricordata bambina fu eseguita in maniera meticolosa.

In realtà, quello che viene riferito in questi documenti contrasta con la memoria di chi visse in prima persona quelle giornate. Un abitante del luogo, che ospitava il direttore del campo, ricorda che pochi giorni prima del 17 luglio i tedeschi accerchiarono la sua casa e prelevarono il direttore stesso, trasferendolo a Padova, «probabilmente perché non era di idee conformi a quelle del regime».

Ciò trova conferma nella cronaca del parroco, nella quale viene riportato che il commissario Lepore fu accusato dai fascisti di trattare “troppo bene” gli ebrei internati. Forse, si può supporre che proprio durante il soggiorno a Padova, il commissario responsabile del campo apprese quale destino fosse stato riservato agli ebrei di Vò.

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Questo episodio, in ogni modo, mette in evidenza quella che era la subalternità delle autorità italiane rispetto all’occupante tedesco. Il 17 luglio gli uomini della polizia germanica non rastrellarono soltanto gli ebrei internati, ma si impossessarono di tutto il campo, fino a poche ore prima gestito interamente dall’amministrazione italiana.

I tedeschi misero cioè le mani anche sugli oggetti appartenenti agli ormai ex internati: mentre infatti il materiale di casermaggio fu restituito fin da subito alla questura di Padova o agli altri proprietari (il parroco della chiesa di Vò, le suore elisabettiane), gli oggetti che gli ebrei avevano portato nel campo, inventariati da agenti di Pubblica sicurezza italiani, furono chiusi in una stanza della villa, la cui chiave però fu presa in custodia dal comando germanico.

Il capo provincia si trovò costretto, nelle settimane successive, a richiedere a questa autorità tedesca di disporre la consegna degli oggetti all’ufficio italiano competente, ovvero il locale Commissariato Gestione Immobili Urbani e Mobili di proprietà ex ebraica.

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Sebbene considerate, come abbiamo visto, alla stregua di “oggetti” presenti nel campo (al pari degli utensili da cucina o i libretti di risparmio), le persone internate furono lasciate andare senza la minima protesta, mentre i loro averi, rimasti a Vò, furono ripetutamente rivendicati come appartenenti all’autorità italiana.

Si mescolano in questo frangente diversi fattori ed è difficile dire quale di questi ebbe una incidenza maggiore, se ad esempio influì di più l’egoismo e gli interessi economici o la debolezza di fronte all’occupante. Del resto, l’operazione del comando germanico fu certamente molto decisa e non lasciò troppo spazio a tentativi di opposizione da parte italiana.

A metà luglio, dunque, per gli ebrei internati a Vò Vecchio cominciò il viaggio verso i campi di sterminio nazisti. Le 43 persone prelevate in quel pomeriggio d’estate (14 uomini, 22 donne, 7 bambini) furono portate inizialmente a Trieste e rinchiuse nel campo istituito nella Risiera di San Sabba. Da lì, pochi giorni dopo, furono caricate su vagoni merce e condotte ad Auschwitz: ne tornarono solo tre.

Con la partenza degli internati il campo smise di funzionare: l’amministrazione italiana si occupò delle pratiche di chiusura, come pagare il proprietario della villa per i mesi di requisizione dello stabile e rimborsare il Municipio e la questura per la spesa dei materiali di casermaggio.

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In queste pratiche, colpisce la freddezza della burocrazia e del suo linguaggio. Svuotato dagli internati, il campo aveva adesso a disposizione nuovi posti liberi, nell’eventualità si volesse riadattarlo per altre esigenze:

pregasi trasmettere elenco nominativo ebrei trasferiti da campo di concentramento Vò vecchio comunicando telegrafo posti attualmente disponibili et capienza massimo per assegnazione internati nonché situazione casermaggio et attrezzatura sicurezza detto campo. Capo Polizia Cerruti

Villa L. Vo Vecchio già adibita campo concentramento ebrei dove sono alloggiate anche suore terziarie est capace cinquanta posti punto per insufficienza casermaggio per cui ebrei sopperivano necessità con materiale proprio et scarsa attrezzatura sicurezza non dico non ritiensi adatta accogliere internati punto. Capo provincia Fumei.

La vicenda del campo di concentramento provinciale di Padova costituisce dunque un caso particolarmente interessante e rappresentativo del meccanismo che interessò l’applicazione della politica antisemita di Salò.

Vò Vecchio fu innanzitutto un esempio unico, perché funzionò per ben otto mesi, ovvero molto più tempo rispetto agli altri campi istituiti in tutta la Repubblica sociale italiana. Le dinamiche che portarono all’apertura del campo e all’arresto degli ebrei furono segnate da un’applicazione rapida e precisa degli ordini provenienti dal ministero dell’Interno.

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Le disposizioni furono ricevute e eseguite a livello periferico in maniera puntuale e celere, senza che intervenissero problemi tali da impedirne l’effettiva messa in pratica. La misura straordinaria di cattura e reclusione degli ebrei decisa dal ministro Buffarini Guidi si trasformò quindi in pratiche di “ordinaria amministrazione”, gestite senza troppe difficoltà dalle autorità provinciali (prefettura, questura, municipio, comandi territoriali di carabinieri ecc.).

Il rapporto con le autorità d’occupazione germaniche presenti nella zona non influì più di tanto nella vicenda: per parecchi mesi, l’amministrazione italiana fu libera di muoversi secondo le indicazioni che provenivano dal ministero centrale, senza che intervenissero ostacoli o ingerenze che ne mettessero in crisi la normale esecuzione.

Nei mesi di funzionamento del campo, gli internati di Vò Vecchio non furono inviati a Fossoli: viene da pensare che questa struttura non fosse considerata provvisoria dalle autorità di Salò, ma destinata a funzionare per tutta la durata della guerra.

Tuttavia, fin da subito, come si è visto, fu evidente una manifesta subordinazione degli italiani rispetto agli alleati nazisti: questa fu determinante per il successo dell’azione di forza del comando germanico a metà luglio, contro la quale questore e capo provincia non poterono, anche qualora avessero fermamente voluto, opporre alcuna resistenza.

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A fine novembre 1943, con un’ordinanza di polizia, il governo di Salò decise, come si è visto, l’arresto e l’internamento in campo di concentramento di tutta la popolazione ebraica presente in Italia.

Il nuovo stato di Mussolini non si limitò più soltanto ad applicare una legge discriminatoria nei confronti dei cittadini classificati “ebrei”, come avvenuto dal 1938, o a diramare misure di polizia intese a controllare individui ritenuti pericolosi nel contesto della guerra in corso (stranieri, oppositori politici ecc.), ma impresse un salto di qualità alla propria politica antisemita, disponendo provvedimenti contro un intero gruppo di persone considerate ormai nemiche sulla base di motivi razziali.

Nei mesi precedenti, i tedeschi avevano già iniziato a mettere in pratica nella penisola i loro piani di “soluzione finale” della questione ebraica mediante retate nelle principali città italiane: con l’adozione di questa misura, la RSI volle dunque affermare – e ribadire in continuità con quanto già fatto da 5 anni – una propria, specifica posizione in materia razziale.

Allo stesso tempo, pose le basi per una più stretta collaborazione con l’alleato tedesco: gli ebrei che erano rimasti nella parte d’Italia sotto il controllo nazifascista – circa 40.000 persone – si ritrovarono così stretti nella morsa di due autorità unite dalla volontà di arrestarli.

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Gli ebrei furono colti quasi di sorpresa da una situazione che forse non si aspettavano di vivere: fino a quel momento, l’Italia aveva rappresentato un rifugio, seppur “precario” secondo la definizione di Klaus Voigt, per centinaia di ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste in Europa.

Singoli individui e intere famiglie, persone di ogni età e provenienza, furono arrestate e subirono l’internamento nei campi di concentramento. Gli ebrei furono dunque costretti a trovare un modo per sopravvivere: la maggior parte di loro si diede alla vita clandestina, sfuggendo agli arresti.

Migliaia di persone, però, finirono nelle prigioni e nei campi di concentramento italiani per essere poi deportate nei campi di sterminio dell’Europa orientale. Alcuni di loro non riuscirono ad avere la consapevolezza del pericolo o la forza di scappare; altri, invece, confidarono forse nella “legalità” del nuovo Stato repubblicano, accettando, senza neanche provare ad opporsi, le misure di internamento.

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La seconda parte del capitolo è dedicata alle autorità tedesche e italiane responsabili degli arresti. Forti della superiorità militare nazista, gli organi addetti alla “soluzione finale” dell’ufficio di Eichmann scesero in Italia con l’intenzione di applicare con rapidità i piani di deportazione e sterminio e, soprattutto, di imporre agli italiani la loro politica antiebraica.

Per conseguire questi obiettivi ebbero però bisogno della collaborazione dello stato di Salò: approfittando del fatto che la RSI si era mossa autonomamente in materia razziale, Berlino sembrò escogitare una vera e propria tattica per sfruttare al meglio l’appoggio delle autorità italiane.

Dal dicembre 1943 fino all’estate del 1944, dunque, la responsabilità degli arresti ricadde principalmente sulla polizia di Salò: dipendenti da un governo debole e impotente di fronte ai tedeschi, capi provincia e questori misero in pratica localmente quanto stabilito al vertice dal ministro Buffarini Guidi.

Guido Buffarini Guidi posa tenendo sotto braccio Heinrich Himmler

Guido Buffarini Guidi posa tenendo sotto braccio Heinrich Himmler

E, soprattutto, su di loro ricadde la responsabilità di trovare un modus vivendi con i comandi di polizia germanica distribuiti su tutto il territorio. Italiani e tedeschi sembrarono però dividersi sul modo di procedere e sul fine che la politica antisemita dovesse avere: la differenza tra le disposizioni tedesche e quelle di Salò fu causa di incomprensioni e attriti.

Polizia germanica e polizia italiana non seguirono gli stessi criteri quanto alla tipologia di ebrei da arrestare e non sempre concordarono sul destino che li avrebbe dovuti attendere: se questi dovessero cioè essere deportati nei campi di sterminio nazisti o rimanere nei campi di concentramento italiani.

Terzo attore della vicenda: i partigiani. Se infatti la partecipazione di persone di origine ebraica alla Resistenza italiana (ne abbiamo riferito in un precedente servizio) è ormai un aspetto noto – si stima fossero un migliaio – meno approfondito è l’atteggiamento del movimento partigiano nei confronti della persecuzione antiebraica.

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Di fronte all’arresto degli ebrei e al loro internamento nei campi provinciali, singoli gruppi partigiani intrapresero azioni per evitare la deportazione degli internati, ma la liberazione degli ebrei non sembra essere stata una direttiva generale diramata dagli organi dirigenti della Resistenza. Torneremo comunque sull’argomento.

“Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine di gennaio 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento.

Si trattava per lo più di intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti per loro imprudenza, o in seguito a delazione. Alcuni pochi si erano consegnati spontaneamente, o perché ridotti alla disperazione dalla vita randagia, o perché privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto catturato, o anche, assurdamente, per «mettersi in ordine con la legge».

Le parole di Primo Levi illustrano in maniera molto efficace quanti ebrei e che tipo di persone finirono a Fossoli di Carpi, nel campo di concentramento “nazionale” destinato, secondo le intenzioni del governo di Salò, a raccogliere tutti gli individui arrestati dalla polizia italiana in esecuzione dell’ordinanza n. 5.

Primo Levi

Primo Levi

Nell’attesa di essere trasferiti al campo modenese, gli ebrei fermati in ogni provincia, come abbiamo già visto, venivano condotti nelle carceri cittadine oppure in appositi campi provinciali.

Ma cerchiamo di quantificare il numero delle persone che transitarono nei campi, per poi passare a capire chi fossero gli ebrei che vi finirono: quante donne e quanti uomini, la loro età e nazionalità; nella prossima puntata proveremo invece a riflettere sulla percezione che le vittime ebbero dei campi di concentramento provinciali.

Grazie alle ricerche condotte dal Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, sono stati finora individuati circa 7.600 ebrei che vennero arrestati in Italia dopo l’8 settembre 1943. Di questi, 6.806 furono deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti nell’Europa orientale (per lo più ad Auschwitz), 450 riuscirono a fuggire o furono rilasciati e 320 morirono nella penisola.

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Dei quasi 7.000 deportati accertati, gli stranieri risultano essere quasi il doppio delle persone di nazionalità italiana (4.000 contro 2.500 circa). Divisi più o meno in numero uguale tra donne e uomini, con una leggera maggioranza a favore di questi ultimi, quasi tutti i deportati sono adulti (5.287), ovvero nati prima del 1920: circa 1.500 individui avevano superato i 60 anni.

I giovani, cioè nati dopo il 1920, sono invece 1.300, dei quali 733 bambini o ragazzi (nati dopo il 1929). La maggior parte degli individui fu fermata dai tedeschi, che catturarono 500 ebrei in più degli italiani (2.444 contro 1.951), cui si devono aggiungere 332 persone arrestate in operazioni comuni condotte da entrambe le autorità.

Tuttavia, di un significativo numero di ebrei – più di 2.000 – non si conosce l’identità dell’esecutore dell’arresto. Queste cifre danno un’idea generale di quello che fu l’impatto quantitativo della persecuzione antiebraica nel biennio 1943-1945. Su un totale di 40.000 individui catalogati come “ebrei” dal governo fascista e presenti nel centro nord d’Italia al settembre del 1943, circa il 15% subì dunque l’arresto e la deportazione.

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I dati appena citati si riferiscono al numero di ebrei arrestati e deportati da tutto il territorio italiano soggetto all’occupazione tedesca, dal settembre 1943 fino all’aprile del 1945: vi sono incluse, cioè, le persone fermate nella parte d’Italia dove si instaurò il governo di Salò e quelle regioni poste, invece, sotto il diretto controllo delle autorità naziste.

Nelle zone di operazioni del Litorale Adriatico e delle Prealpi gli ebrei furono rastrellati anche dagli italiani, però non ad esecuzione della disposizione di Buffarini Guidi, ma su ordine della locale autorità nazista di occupazione.

Di conseguenza, ai fini della nostra ricerca, resta ora da capire quanti ebrei furono arrestati esclusivamente dalle autorità del ministero dell’Interno italiano. Fino a quella data, infatti, il fermo degli ebrei era avvenuto per iniziativa delle forze armate tedesche e, in generale, delle autorità di occupazione.

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Ovvero, tra settembre e novembre 1943, in soli tre mesi, i nazisti arrestarono ben 2.555 ebrei: rientrano in questo significativo numero le persone che finirono nella retata del 16 ottobre a Roma (più di mille); gli ebrei stranieri provenienti dal sud della Francia e rinchiusi nel campo di Borgo San Dalmazzo a Cuneo (circa 350); tutti coloro che furono presi nei rastrellamenti di ottobre/novembre 1943 nelle principali città del nord Italia (Genova, Torino, Bologna, Milano, Firenze ecc.); e, infine, le persone che venivano fermate alla frontiera con la Svizzera mentre tentavano di fuggire dal paese.

Sebbene queste operazioni fossero effettuate sotto la responsabilità tedesca, si deve tenere conto di quella che fu la partecipazione delle autorità italiane: in certi casi, come detto, le formazioni di polizia fasciste parteciparono a fianco e per conto degli alleati germanici, e quasi ovunque gli organi periferici della RSI (questure, prefetture e municipi) trasmisero gli elenchi nominativi degli ebrei censiti in ogni provincia alle autorità tedesche, come richiesto da queste ultime.

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Un discorso a parte, invece, meritano gli arresti effettuati a partire dal dicembre 1943: con la disposizione diramata dal governo di Salò a fine novembre, le autorità italiane cominciarono a eseguire personalmente e autonomamente il fermo della popolazione ebraica.

Tra dicembre 1943 e l’estate del 1944, infatti, delle 3.000 persone accertate finora dal CDEC, moltissime furono arrestate dalle forze di polizia italiane. Si è scelto qui di prendere come termine conclusivo l’estate del 1944 per due motivi.

Per prima cosa il numero degli arresti nei mesi successivi fu molto più basso e si attestò in media sulle poche decine di individui al mese contro le centinaia del periodo precedente.

Secondo: dopo la chiusura del campo di Fossoli di Carpi a inizio agosto 1944, i convogli di deportati partirono dalle zone di diretta occupazione tedesca (dal campo di Bolzano Gries e dalla Risiera di San Sabba) e, fatta eccezione per la presenza di alcuni internati provenienti dall’Italia centro settentrionale, erano formati principalmente dagli ebrei presenti in quei territori.

Il lager di Bolzano

Il lager di Bolzano

Se escludiamo quello partito da Milano il 6 dicembre 1943, composto per lo più dagli ebrei presi dai tedeschi nelle retate di ottobre e novembre (250 individui), il primo convoglio formato da persone arrestate dalle autorità italiane e passate per i campi provinciali, partì da Milano e Verona il 30 gennaio: per raggiungere il numero necessario, le autorità naziste attinsero a parte degli ebrei catturati dalla polizia di Salò dopo il 30 novembre.

Ma sono soprattutto i successivi convogli, ovvero quelli che partirono da Fossoli, tra febbraio e agosto 1944, e da Verona, sempre nell’agosto del 1944, che videro la massiccia presenza di persone fermate in esecuzione dell’ordinanza di Buffarini Guidi.

Il campo di Fossoli costituì dunque il centro di partenza delle deportazioni di quanti erano stati arrestati in provincia per ordine della RSI: da lì partirono per i lager nazisti 2.461 individui, la maggior parte dei quali, quindi, rastrellati dalle autorità di polizia repubblicane.

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Come abbiamo detto, secondo i dati raccolti dal CDEC, gli italiani arrestarono sicuramente circa 2.000 ebrei, in seguito deportati. Non è però specificato quanti arresti furono eseguiti dalle forze regolari dipendenti dal ministero dell’Interno e quanti dalle formazioni autonome di polizia presenti su tutto il territorio della RSI.

Inoltre, non tutti gli arrestati furono caricati sui treni diretti ai campi di sterminio: centinaia di individui furono infatti rimessi in libertà subito dopo l’arresto, fuggirono o rimasero imprigionati in Italia. Da parte sua, già a metà dicembre il governo di Salò provò a calcolare il numero delle persone fermate fino a quel momento e a dare una stima del numero di ebrei da inviare nei campi di concentramento, in previsione dei futuri arresti.

Il 13 dicembre 1943 il capo della polizia aveva chiesto a tutte le prefetture gli elenchi degli internati nei campi di concentramento locali e degli ebrei fermati e da arrestare in ogni provincia.

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Sulla base delle risposte pervenute pochi giorni dopo da 12 province (Rieti, Forlì, Aosta, Venezia, Sondrio, Parma, Torino, Firenze, Ancona, Milano, L’Aquila, Varese) vennero calcolati in tutto 1.407 ebrei da sistemare in campi di concentramento.

Il dato riguardava però solo 1/5 delle 60 province della RSI: già il 27 dicembre, infatti, in un appunto sulla situazione dei campi presenti in Italia, si parlava esplicitamente di “migliaia” di ebrei che si sarebbe dovuto provvedere a smistare in strutture di questo tipo.

Negli stessi appunti veniva indicato il campo di Fossoli quale destinazione ultima per tutti gli ebrei.Col passare delle settimane, in effetti, la macchina amministrativa e poliziesca della RSI si mise in moto a pieno regime, accrescendo costantemente il numero degli arresti, che, come abbiamo detto, nel periodo che va dal dicembre 1943 all’estate del 1944 contavano in media centinaia di persone fermate ogni mese.

Sulla base della documentazione consultata all’Archivio centrale dello Stato e in alcuni Archivi di Stato nei quali è stata svolta la ricerca, si può ipotizzare, quindi, che le autorità italiane arrestarono un numero sicuramente superiore ai 2.000 individui e prevedevano di fermarne molti di più.

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Si tratta, come detto, di persone che non necessariamente furono poi deportate: molte si ritrovarono per qualche giorno in carcere o in campo di concentramento e furono poi rilasciate, ad esempio per motivi di età o di salute.

Del resto, nelle informazioni che si scambiarono il ministero e le prefetture repubblicane in queste prime settimane veniva trasmesso non soltanto il numero delle persone già arrestate, ma anche quello degli ebrei per i quali era stato disposto l’arresto.

Non sempre le ricerche degli individui “resesi irreperibili” erano eseguite con successo; e, a volte, potevano esserci degli imprevisti. A Forlì, ad esempio, prima che fosse istituito un campo di concentramento, la questura inviò al capo provincia e al locale comando militare germanico un minuzioso elenco degli ebrei censiti nella provincia, completo di indirizzo, legami di parentela, proprietà immobiliari e terriere: solo a Rimini erano 70 le persone interessate dai provvedimenti di fine novembre 1943.

Gli individui arrestati, in attesa di essere trasferiti in campo di concentramento, furono rinchiusi nella Rocca Malatestiana di Rimini (all’epoca una prigione), dalla quale però riuscirono a scappare nello stesso dicembre perché un bombardamento alleato ne ruppe il portone d’ingresso.

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Con maggiore precisione, invece, possiamo risalire al numero degli ebrei che transitarono nei vari campi di concentramento provinciali, aperti per rinchiudervi gli ebrei rastrellati da Salò.

Abbiamo accertato che vi finirono tra le 700 e le 800 persone, ovvero circa il 30% degli ebrei che si suppone siano stati arrestati dalle autorità italiane dopo l’ordinanza di fine novembre: la percentuale corrisponde così a quella delle province nelle quali fu aperto un campo, ovvero poco più di 20 su un totale di 60 nel territorio della RSI.

La presenza di un luogo creato ad hoc per rinchiudervi gli ebrei della zona, dunque, non sembra indicare una persecuzione più attiva rispetto a quelle città in cui furono utilizzate soltanto le carceri cittadine.

Nei mesi in cui fu in funzione un campo provinciale non si osserva neanche un incremento troppo significativo delle presenze di internati: in ogni campo vi finirono in media alcune decine di persone, prese per lo più tra dicembre 1943 e gennaio 1944, nelle settimane subito successive alla diramazione dell’ordinanza n. 5.

Anche nel caso dei campi provinciali, gli internati non necessariamente furono deportati ad Auschwitz. A quanto risulta, un centinaio circa non furono trasferiti a Fossoli o consegnati alle autorità tedesche.

Alcuni esempi chiariscono quanto appena detto. A Padova, nel campo provinciale di Vò Vecchio, rimasto in funzione, come si è visto, tra dicembre 1943 e luglio 1944, furono rinchiuse in tutto 72 persone, delle quali però solo 43 prelevate dal comando germanico in estate.

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Anche a Grosseto, dove il capo provincia dimostrava un particolare zelo nell’affrontare la questione ebraica, degli 80 ebrei finiti nel campo ne vennero trasferiti a Fossoli, nel marzo 1944, 6422. In alcuni casi, invece, per esempio a Perugia, gli ebrei rinchiusi nel campo provinciale, come vedremo più avanti, riuscirono a scappare nel momento in cui arrivarono nella zona gli anglo-americani.

In accordo con quanto risulta dai dati del CDEC riguardanti i deportati, la maggior parte degli internati nei campi provinciali aveva un’età compresa tra i 30 e i 60 anni e non si riscontra una netta differenza numerica tra individui di sesso maschile e femminile.

La presenza di un maggior numero di donne o di uomini dipendeva molto spesso dalla situazione politica, sociale e militare nella zona. In alcune province, infatti, si osserva la totale assenza di internati adulti di sesso maschile, scappati o nascostisi per evitare l’arresto.

Ciò forse era la conseguenza di una generale convinzione, diffusa fra tutta la popolazione italiana, che ai civili quali le donne, gli anziani o i bambini, non sarebbe successo nulla di grave. Se la provincia di Apuania (Massa) rappresenta un caso limite in quanto il campo fu aperto per sole tre donne (poi rilasciate), ad Asti è lo stesso capo provincia a comunicare al ministero che gli internati nel campo provinciale erano quasi esclusivamente di sesso femminile, poiché gli uomini «si erano allontanati» e non era stato possibile rintracciarli.

Dachau, Konzentrationslager

Ma vi sono anche altri casi nei quali le dinamiche furono diverse. In provincia di Cuneo, a Saluzzo, il commissario di polizia locale interpretò i provvedimenti ministeriali in maniera personale: era cioè intenzionato a mandare gli uomini a lavorare per l’organizzazione Todt mentre le donne avrebbero dovuto essere destinate al campo di Borgo San Dalmazzo.

Il 4 dicembre, alcuni uomini furono avviati al lavoro: rimaste sole, le donne del paese probabilmente si presentarono in modo spontaneo alla questura per essere internate nel campo provinciale.

Infine, va osservato che, tranne il caso di Parma, dove furono aperti due campi (uno per soli uomini e un altro per sole donne), altrove non furono previste strutture separate per donne e uomini: la divisione in base al sesso avveniva generalmente soltanto nelle camerate in cui si passava la notte.

La tipologia delle persone nei campi dipendeva soprattutto dall’applicazione delle disposizioni ministeriali che, come si è detto, esentavano dall’internamento determinate categorie di individui: gli anziani, i malati e coloro che erano considerati appartenenti a famiglia “mista”.

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Secondo queste istruzioni, comunicate nel corso del dicembre 1943, capi provincia e questori disposero il rilascio sia di coloro che avevano superato i 70 anni di età (ma in alcuni casi anche i 60 anni) che degli ammalati gravi, che però spesso non erano stati neanche condotti in campo di concentramento ma vigilati in ospedale.

Inoltre, ordinarono la vigilanza dei cosiddetti membri di famiglia “mista”. In questa ultima categoria risultavano sia coloro che erano considerati non appartenenti alla razza ebraica, come i figli di matrimoni contratti tra un “ariano” e un ebreo puro, sia coloro che, pur riconosciuti appartenenti alla razza ebraica, erano coniugati con una persona “ariana”.

Come vedremo meglio nelle prossime puntate, l’esenzione di una certa categoria di persone non dipendeva soltanto dal contenuto dei provvedimenti del governo di Salò, ma fu determinata in molti casi anche dall’ingerenza delle autorità germaniche di zona che richiedevano l’arresto di individui non compresi nelle misure italiane.

A Grosseto, in applicazione dell’ordinanza, furono rilasciate 17 persone perché anziane, malate o appartenenti a famiglia “mista”; dal campo di Padova furono liberati 21 internati. In generale da quasi tutti i campi le autorità rilasciarono quegli individui esentati secondo i criteri della misura di polizia.

In alcuni casi, sebbene non fosse specificato all’interno delle direttive del ministero, venivano trattati con un’attenzione particolare anche i bambini. Ad Aosta, ad esempio, le autorità locali esentarono dal provvedimento di internamento nel campo non soltanto gli anziani e i malati, ma anche i minori di 14 anni.

Dachau, Konzentrationslager

Anche se non riguarda un campo di concentramento, vale la pena citare il caso di Rovigo, dove le autorità disposero che i figli degli internati trovassero accoglienza presso famiglie della zona che si offrivano volontarie:

Due furono inviati a Taglio di Po, tre a Castelmassa, due a Loreo, uno a Ficarolo, uno a Costa Rovigo. A Ficarolo la spesa giornaliera dell’affidamento, a carico del comune, era di 8 Lire, altrove di 13; ma in molti casi le famiglie che ospitavano i ragazzi dei detenuti ebrei non chiedevano nulla all’autorità pubblica per mantenerli.

Il commissario prefettizio locale chiese al capo provincia di spostare altrove due bambini perché, a suo dire, arrecavano disturbo alla famiglia che li ospitava. Spesso invece erano gli stessi ragazzi a chiedere di stare accanto alla propria famiglia, seppur internata o arrestata.

Alla fine di marzo del ’44 una decina di ebrei incarcerati a Rovigo furono trasferiti a Fossoli. A quel punto la prefettura rinnovò la richiesta di chiarimenti al Ministero in merito ai contributi per il mantenimento dei figli rimasti a Rovigo ospiti delle famiglie polesane e fino ad allora sostenuti solo da un piccolo assegno giornaliero dei comuni. Chi deve pagare? È la questione nuda e cruda che viene posta.

Lo scambio di lettere dura a lungo, ma l’interrogativo non risolto ripiegò nei termini precedenti, ovvero le spese furono fatte rientrare con il “vecchio” sistema della contribuzione comunale.

 L’esclusione dei minori e l’interessamento alla sorte dei figli degli internati non rappresentano però prassi riscontrate ovunque, anzi spesso e volentieri i bambini seguivano nel campo i genitori. Nei due campi di concentramento provinciali di Parma ben 18 erano i minori internati insieme ai familiari.

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Anche ad Aosta, dove, come abbiamo appena detto, erano stati esentati dall’internamento i minorenni, fu comunque telegrafato pochi giorno dopo al capo provincia che i figli degli internati dovevano seguire la sorte delle rispettive famiglie.

Nei campi di concentramento finivano, così, intere famiglie. A Sondrio, i 12 internati formavano 4 nuclei familiari; a Ferrara, i 18 ebrei rinchiusi nella Sinagoga erano in gran parte imparentati tra di loro (del resto, abitavano quasi tutti nello stesso palazzo); a Parma, molte erano le famiglie di stranieri.

A metà gennaio 1944, il questore di Modena comunicava al capo della polizia che nel campo di Fossoli affluivano ogni giorno numerosi internati di razza ebraica, «per la maggioranza in gruppi famigliari». Ogni ebreo internato riceveva, come abbiamo visto, un’indennità giornaliera fissa: nell’erogarla, l’autorità competente non teneva però conto dei rapporti di parentela delle famiglie rinchiuse nel campo (capo famiglia, ecc.), come invece avveniva in precedenza per coloro che si trovavano in internamento libero:

Come è noto, a norma delle disposizioni vigenti agli internati isolati viventi in gruppi familiari nei diversi comuni della Provincia era attribuito un sussidio giornaliero in diversa misura al capo famiglia ed agli altri membri di essa.

La baracca delle celle per i prigionieri politici nel lager di Bolzano

La baracca delle celle per i prigionieri politici nel lager di Bolzano

Ma agli internati viventi in campi di concentramento con rancio comune era attribuito un sussidio eguale per tutti, e cioè quello assegnato al capo famiglia nei nuclei famigliari isolati. Ora questo campo non mantiene né potrebbe mantenere suddivisioni famigliari e tutti gli internati fruiscono di un rancio comune ed uguale per tutti i conviventi, né alcuno d’essi potrebbe essere autorizzato a provvedere direttamente all’alimentazione propria e della propria famiglia.

Ciò stante sembra a questa direzione che nell’attribuzione del sussidio a questi internati, sussidio che deve servire completamente al pagamento del rancio, non si possa né si debba tener conto dei rapporti di parentela o di precedente costituzione famigliari tra di essi e pertanto a ciascheduno dovrebbe essere assegnato il sussidio di lire 9 giornaliere che rappresenta il costo del vitto consumato da ciascheduno.

Tutto al più si potrebbe attribuire il sussidio ridotto ai ragazzi fino ad una certa età, in cui presumibilmente consumano una quantità pure ridotta di rancio.

Un discorso a parte meritano i figli di genitori misti (un coniuge “ariano” e uno ebreo) o le persone unite in matrimonio con un individuo non di razza ebraica. Le disposizioni del governo, conformi alle leggi razziali in vigore in Italia, consideravano queste persone al pari degli ariani: per loro non era dunque prevista la misura d’internamento, ma una vigilanza speciale da parte della polizia.

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Generalmente, questi individui non erano arrestati e se ciò avveniva, le autorità locali procedevano (o meglio, in teoria avrebbero dovuto procedere), alla loro liberazione. L’applicazione della misura richiedeva in realtà un accertamento effettivo dell’appartenenza razziale di chi doveva o non doveva essere fermato: le amministrazioni locali, dunque, si trovarono spesso costrette a riaprire pratiche che risalivano al 1938.

In ogni modo, la decisione di arrestare o meno una persona dipendeva soprattutto dall’interpretazione della disposizione da parte del singolo capo provincia o questore.

Osserva a questo proposito Fabio Levi che le persone esentate dall’internamento, perché appartenenti a famiglia mista o coniugate a “ariani”, «rappresentano un luogo di osservazione privilegiato, perché costituiscono l’anello di congiunzione fra il mondo dei reietti e quello dei “salvati”», soprattutto in Italia, dove il processo di assimilazione degli ebrei avvenuto nei decenni precedenti faceva emergere un gran numero di questi casi:

stabilire quella linea di confine poteva significare, tanto più nei paesi dell’Europa occidentale in cui più avanti si era spinto il processo di assimilazione degli ebrei nei decenni dopo l’emancipazione, essere costretti a intervenire con un bisturi affilato all’interno stesso dei singoli nuclei familiari e tagliare di netto legami profondissimi: come dire che in molti casi alcuni membri della medesima compagine famigliare dovevano essere dichiarati dalla legge ebrei e altri “ariani” a seconda della loro prossimità alla Gegenrasse da annientare.

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A una tale aberrazione si giunse effettivamente senza troppi indugi. Ma nei casi in cui i figli di matrimonio misto furono considerati “ariani”, cioè degni di partecipare a pieno titolo alla vita della nazione – compreso, nel caso della Germania, l’arruolamento nella Wehrmacht – ad essi si decise anche di evitare il trauma della pubblica discriminazione, dell’allontanamento e della eliminazione del genitore ebreo.

Fu dunque per proteggere i discendenti “ariani” che ai coniugi ebrei di matrimonio misto vennero concessi “privilegi” non certo indifferenti se misurati sulla condizione della gran parte degli altri appartenenti alla stessa “razza”.

Le disposizioni di polizia di dicembre avevano dunque escluso i componenti ebrei delle famiglie miste dalla misura d’internamento. Una simile decisione, nella RSI, era giustificata soprattutto secondo il principio per il quale non si dovesse rompere l’unità di un nucleo familiare composto anche da individui “ariani”:

[…] diversa è la situazione degli ebrei predetti [puri] quando siano coniugati con cittadini o nazionali ariani […].

In questo caso essi risulterebbero appartenenti a famiglia mista e, come tali, esclusi almeno temporaneamente dall’assegnazione a campi di concentramento. Tale interpretazione nei riguardi degli stranieri sembra autorizzata, oltre che dalla lettura dei due telegrammi succitati, anche dallo scopo della disposizione di favore che è, indipendentemente dalla nazionalità, quello del rispetto al principio dell’unità famigliare e della tutela della sfera degli interessi morali del coniuge e dei figli non ebrei.

I luoghi della persecuzione contro gli ebrei in Italia

I luoghi della persecuzione contro gli ebrei in Italia

È ovvio peraltro che in questo, come nei casi analoghi di cittadini italiani, deve trattarsi di famiglia mista vera e propria, come tale specie nei riguardi dei figli accertata od accertabile ai sensi di legge e di prassi.

Gli ebrei riconosciuti come tali ma appartenenti a famiglie miste, se non erano arrestati, non erano esentati tuttavia dalla confisca dei loro beni. Del resto, questa era prevista per tutti gli individui di razza ebraica dal decreto legge n. 2 del 4 gennaio 1944.

Il governo italiano fu però sempre attento affinché queste persone potessero comunque disporre di un minimo di sostentamento. Anche l’istituzione dell’Ispettorato generale per la Razza presieduto da Preziosi non modificò tale orientamento.

Anzi, consultato a proposito, questo ufficiò comunicò l’opportunità di non privare questi individui dei beni primari e indispensabili alla loro sopravvivenza:

Con riferimento alle norme contenute nel Decreto legge numero due 4 gennaio 1944 et in attesa disposizioni legislative di imminente emanazione sul regime giuridico dei beni mobili appartenenti at persone razza ebraica questo Ispettorato generale Razza fa presente opportunità che nell’applicazione suddette norme vengano escluse da confisca somme valori et in genere cose mobili indispensabili per la vita anzidette persone et dei viventi at carico delle medesime punto

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Così ad esempio est opportuno che non siano sottoposte confisca pensioni dovute at persone razza ebraica dallo Stato, da Provincie, da Comuniaut altri Enti atteso loro carattere essenzialmente alimentare […].

E ancora nel giugno del 1944 veniva comunicato:

Codesto Ministero ha chiesto se ai cittadini di razza ebraica, sinistrati in dipendenza di offese belliche nemiche e sfollati dalle località di abituale residenza, possano estendersi tutte le forme di assistenza di cui beneficiano in atto i cittadini sinistrati appartenenti alla razza ariana.

Al riguardo, sentito il parere dell’Ispettorato Generale per la Razza, si comunica che, in attesa delle disposizioni legislative di imminente emanazione sul regime giuridico dei beni appartenenti a presone di razza ebraica, i cittadini italiani di razza ebraica sinistrati in conseguenze di offese belliche nemiche possono beneficiare di assistenza entro i limiti rimessi, caso per caso, al prudente apprezzamento degli organi competenti. Il Sottosegretario di Stato, Barracu.

 Nell’autunno del 1944, la Direzione generale di polizia propose di inviare in campo di concentramento anche coloro che erano riconosciuti di origine “mista” e la cui appartenenza alla razza ebraica era accertata.

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Ma anche in questo caso si specificava:

«fermo restando, secondo le norme vigenti, in omaggio al principio dell’unità familiare, l’esclusione dall’internamento, senza pregiudizio della confisca dei beni di loro pertinenza, degli ebrei sposati ad ariani e con essi conviventi».

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