a cura di Cornelio Galas
Maggio e giugno del 1944 furono mesi drammatici per la Resistenza nel Trentino. Causa la delazione di Fiore Lutterotti, che – come abbiamo già visto nelle puntate precedenti – arrivò perfino a tradire il suo amico Gastone Franchetti, tenente degli Alpini e capo della resistenza rivana, del gruppo cattolico delle “Fiamme Verdi”, ci fu il massacro del 28 giugno a Riva del Garda e a Rovereto e fu catturato lo stesso Giannantonio Manci, al quale spia era stata presentata.
Lutterotti, deportato in Germania dopo l’8 settembre 1943, era stato liberato e riportato in Italia dai tedeschi in cambio della sua collaborazione. Si era infiltrato nell’organizzazione resistenziale del Basso Sarca, era passato poi in Val di Fiemme e nel luglio si era stabilito in Valsugana per sfuggire alla condanna a morte decretata dai partigiani traditi.
Aveva fissato la sua dimora, con la famiglia, a Telve allo scopo di controllare la Val Calamento, passaggio obbligato dalla Valsugana alla Val di Fiemme attraverso il Passo del Manghen. Si faceva passare per geologo e a volte girava fingendo di martellare sassi, secondo la testimonianza di Carmela Franzoi (detta Rosina) che gestiva l’albergo Calamento.
Nel maggio dello stesso anno anche la nascente Resistenza in Valsugana fu praticamente smantellata per la delazione del diciannovenne Bruno Berardi di Montichiari (Brescia). Berardi, detto il “Brescia”, aveva conosciuto i due fratelli Brigadue da Caldonazzo, renitenti al richiamo alle armi, nella zona di Monterovere e aveva loro espresso desiderio di entrare nella Resistenza.
Uno dei due caldonazzesi si era ricordato di Sandro Boneccher, antifascista di Borgo Valsugana con il quale aveva prestato servizio militare in Grecia, e decisero tutti e tre di scendere a Borgo. Berardi fu presentato a Boneccher che a sua volta lo portò da Peruzzo.
Angelo Peruzzo, socialista, altruista, pieno di entusiasmo e di iniziative, originario di Enego dove era nato nel 1894, aveva partecipato alla prima guerra nell’esercito italiano. Nel 1924, trasferitosi a Borgo, aveva aperto un’officina con garage, specializzata in riparazioni auto e moto, in via 11 febbraio. Risiedeva in via dei Bagni, in affitto nella casa di proprietà comunale, nei pressi della piscina, inutilizzata durante la guerra. Aveva sposato la borghigiana Livia Moratelli, dalla quale aveva avuto quattro figli e che nell’estate del ’44 era in attesa del quinto.
Oltre a essere noto per la sua generosità, Angelo era una persona estremamente corretta. Ricorda Mario Sollenni che il 25 luglio 1943, domenica di gran festa per la caduta del fascismo, si trovava con Peruzzo al Caffè Roma di Borgo, quando entrò un gruppo di festaioli. Avevano visto appeso alla parete il quadro con l’effigie del Duce e lì si erano diretti per fargli la festa programmata chissà da quanto tempo.
Peruzzo si era interposto, aveva preso il quadro e aveva levato una ad una le puntine che fissavano l’immagine, consegnando agli iconoclasti l’oggetto delle loro brame. Il vetro e la cornice li aveva restituiti al legittimo proprietario.
Peruzzo era stato tra i promotori della prima formazione armata della Val di Fiemme, la brigata “Cesare Battisti”, che si era stanziata a malga Caseratte (m. 2000) nell’omonima valle, laterale della Val Cadino, comandata da Armando Bortolotti “Mando”.
Mario Bernardo, partigiano sulle Vette Feltrine con il nome di battaglia “Radiosa Aurora”, scrive nel suo importante documento sulla Resistenza nel Bellunese e nel Veneto: “Nella zona di Borgo vi erano alcuni antifascisti il cui esponente principale era un vecchio militante comunista, Angelo Peruzzo.
Egli sviluppò i contatti con altri elementi, tra i quali il cognato di Alcide Degasperi, l’ex onorevole Romani, fin dall’8 settembre 1943. Non tutti costoro però erano propensi alla lotta aperta contro i nazifascisti, preferendo, al pari di molti altri, attendere il momento buono”.
“Radiosa Aurora” nel maggio 1945 costituì, d’intesa tra il Cln e il Governo Militare Alleato (Amg), il Corpo Provinciale di Polizia Partigiana, con sede di comando in Piazza Fiera a Trento. Manlio Silvestri “Monteforte”, recatosi da Padova a Borgo, aveva subito cercato Peruzzo e con lui aveva formato un vero e proprio Cln, anche se con funzioni esclusivamente politiche.
“Si trattava – prosegue Bernardo – di creare qualcosa di militarmente attivo, che scuotesse la provincia dal suo caratteristico torpore. Assieme a Peruzzo, attraverso la Val di Pinè e la Val Cadino, “Monteforte” si spinse fin nei dintorni di Molina di Fiemme, dove sistemò un piccolo reparto. I partigiani di questo gruppo agirono con decisione e coraggio in tutta la Val di Fiemme secondo lo spirito garibaldino, e alle formazioni garibaldine, infatti, essi dichiararono di appartenere.
Tra l’altro il reparto attaccò un’unità tedesca recuperando importanti documenti che vennero subito trasmessi agli alleati. Poco si sa della vita e dell’ordinamento interno della formazione, giacché i suoi componenti caddero tutti durante la lotta”. Molti furono deportati e alcuni morirono nei campi di sterminio come padre Costantino Amort e fra Casimiro Jobstraibizer del convento dei francescani di Cavalese.
Peruzzo non era comunista, come scrive Bernardo, ma socialista matteottiano e di Giacomo Matteotti portava sempre il distintivo con il suo profilo sul risvolto della giacca, come conferma la figlia Dolores. Il Cln, cui accenna Mario Bernardo, si sciolse dopo la cattura di Peruzzo e di Silvestri, e fu riorganizzato alcuni mesi più tardi da Guido Bertagnolli e Sandro Boneccher per il Pci, e da Pio Boneccher per la Dc.
Sandro Boneccher fu comunista e antifascista, non certo dell’ultima ora, e i tedeschi ne erano sicuramente informati perché ogni tanto lo prendevano, lo portavano in Val di Sella o alla sede delle SS di Borgo, Villa Heidegger in corso Vicenza, lo picchiavano per carpirgli qualche informazione su presunti depositi di armi e poi lo rilasciavano.
Pur non riuscendo ad avere prove per inviarlo al Tribunale Speciale di Bolzano, avrebbero potuto mandarlo in qualche campo di concentramento, visto che bastava poco per esservi spediti e in Germania avevano bisogno di braccia per lavorare. Sandro però di bracci ne aveva solo uno: l’altro, il sinistro, era rimasto sul fronte greco-albanese.
Dopo la cattura di Peruzzo, Boneccher fu detenuto per circa tre mesi nel carcere locale. Persona intelligente, arguta e gioviale, sarà consigliere comunale a Borgo Valsugana per il Pci dalla fine degli anni ’60 e tra i fondatori e organizzatori del “Club bocciofili Borgo”.
Torniamo al Berardi, il “Brescia”. Su di lui c’era chi nutriva qualche dubbio. In uno dei primi viaggi per portare armi e vivere in Val Cadino, assieme a Marcello Tondin, ai fratelli Brigadue e allo stesso Berardi, Bepi “Sepp” Peruzzo, nipote di Angelo, espresse delle perplessità ai due fratelli nei riguardi del nuovo arrivato.
I Brigadue, entrati a far parte della formazione “Cesare Battisti”, lo rassicurarono perché conoscevano da tempo Berardi. In Val Cadino anche Silvio Corradini, commissario politico della formazione, nutriva seri dubbi su quel giovanotto che diceva di aver disertato dalla Rsi e dalla Decima Mas e di essersi aggregato ai partigiani per avere un rifugio e sentirsi difeso. Faceva però mille domande e curiosava dappertutto.
Corradini confidò un giorno al comandante “Mando”: “Quel tipo non è sicuro, un dì o l’altro lo mando giù per acqua e poi gli sparo dietro. Si riferiva al fatto che la sorgente d’acqua, di cui si serviva il gruppo, era a quota inferiore rispetto al campo; ogni tanto qualcuno era comandato di andar giù per acqua”.
Berardi a volte spariva per qualche giorno e le assenze coincidevano con le sue visite al Sd di Trento. Aveva anche accompagnato i tedeschi in Val di Sella, distante nove chilometri da Borgo Valsugana, perché aveva sentito parlare dell’esistenza di un nascondiglio di armi presso la casa di Dario Ferrai. Qui era stata tagliata una pianta e smossa la terra intorno, e per qualcuno l’operazione serviva a nascondere una santabarbara: frugarono senza trovare alcunché.
Dopo qualche giorno, però, l’abitazione di Ferrai a Borgo fu circondata da poliziotti: era stata trovata nei dintorni della casa in Val di Sella una piccola cassetta con delle bombe a mano, nascosta dopo l’8 settembre da qualcuno che era certamente in confidenza con Berardi. Ferrai si difese dicendo che non sapeva nulla: fu portato in carcere a Trento, ma dopo alcuni giorni venne rilasciato.
Oltre a raccogliere armi, Peruzzo provvedeva anche ai viveri da inviare in montagna. Pietro Romani, proprietario di un mulino a pochi passi dalla sua officina, gli consegnava frequentemente farina, riso, fagioli per i “banditi” della Val Cadino.
Peruzzo nascondeva le armi che riusciva a recuperare nell’orto vicino all’abitazione: un piccolo vano scavato nel terreno, usato in precedenza quale deposito di bibite per i clienti della piscina comunale, era così diventato una piccola armeria. Sopra un ripiano di assi aveva collocato del terriccio e vi aveva seminato prezzemolo: era così ben mimetizzato che nessuno lo poteva notare. Neppure Berardi fu messo a parte del segreto, e quando doveva trasportare le armi in Val Cadino, Peruzzo le faceva prelevare nottetempo dal figlio Mario.
Nel trasporto di armi e viveri a malga Caseratte, Peruzzo usava tutte le precauzioni del caso. Evitava la carrozzabile per la Val Calamento, seguendo un percorso secondario attraverso Torcegno, le località Campostrini e Musiera per giungere al Passo del Manghen. Precauzione inutile, perché ormai ogni suo spostamento era seguito e annotato giorno per giorno.
Lo scarso controllo su possibili infiltrazioni fu uno degli errori commessi, almeno agli inizi, da varie formazioni partigiane. Il 22 maggio Berardi si era già allontanato dal gruppo: era a Trento a fare il suo rapporto al Sd. Il giorno seguente ci fu il rastrellamento in Val Calamento e in Val Cadino e a Borgo furono arrestati Peruzzo e Silvestri.
La sera prima Manlio Silvestri era giunto in via dei Bagni proveniente da Trento. Nato nel 1916 a Saccolongo (Padova), Silvestri aveva partecipato alla guerra di Spagna. Catturato, era stato detenuto in Francia nel campo di concentramento di Vernet. Rientrato in Italia era stato confinato nell’isola di Ponza.
L’8 settembre 1943 era ritornato a Padova e si era recato nel Bellunese entrando in contatto con il “gruppo Mione”, alla casera Foral, ma abbandonando ben presto quella formazione perché su posizioni attendiste. Il 7 novembre 1943 era stato tra i ventidue che avevano costituito il primo reparto partigiano bellunese in armi alla casera “La Spàsema”,
sulla montagna di Lentiai. La formazione era stata intitolata a Luigi Boscarin, caduto in Spagna, e “Monteforte” ne era stato il commissario politico fino alla sua partenza. Pur febbricitante, in seguito a un’emottisi, il primo dicembre aveva partecipato alla prima azione del gruppo: l’attacco alla stazione dei carabinieri di Mel per cercare di liberare il partigiano Eliseo Dal Pont.
Per curarsi dalla tubercolosi venne inviato prima a Padova e poi all’ospedale civile S. Chiara di Trento, dove c’era un medico di fiducia: Mario Pasi. Silvestri passò un breve periodo di cura ad Arco, poi iniziò a lavorare in Val di Fiemme.
Il 22 maggio “Monteforte” aveva preso a Trento il treno della Valsugana per recarsi a Padova: nel pomeriggio, dopo aver parlato con Peruzzo, avrebbe dovuto proseguire il viaggio. Aveva però avuto la sensazione di possibili prossimi rastrellamenti. Nel tratto a piedi fino alla stazione di Trento si era accorto che qualcuno lo pedinava.
A Pergine era balzato dal convoglio mentre questo stava ripartendo, facendo perdere le sue tracce. Con il treno successivo aveva raggiunto Borgo e pernottato da Peruzzo, poiché alla sera non c’erano altre corse per Padova.
Alle cinque del mattino del 23 maggio la casa di Peruzzo fu circondata da una trentina fra tedeschi ed elementi della terza compagnia Cst. Vano fu il tentativo di “Monteforte” di fuggire e ai tedeschi che chiedevano il motivo della sua presenza Peruzzo rispose che aveva dovuto fermarsi la sera prima per un guasto alla macchina.
Furono allineati nell’orto: Angelo, Livia, incinta del quinto figlio, i quattro figlioli (Dolores di sedici anni, Mario di tredici, Elsa di otto e la piccola Gemma “Memi” di un anno), il vecchio padre Antonio Peruzzo e lo stesso “Monteforte”.
I militari rovistarono dappertutto alla ricerca delle armi denunciate da Berardi: distrussero i mobili, levarono le assi dei pavimenti, frugarono nei posti più impensati: senza risultato. Angelo Peruzzo fu rinchiuso con “Monteforte” presso la caserma dei carabinieri di Borgo, i suoi figli dati in consegna alle suore dell’Orfanotrofio locale e quello stesso giorno riconsegnati ai parenti, tranne Dolores.
Le ricerche continuarono, ma senza esito. Nel pomeriggio Dolores fu prelevata dai carabinieri, portata in caserma per essere interrogata sulle armi che non si trovavano e poi rinchiusa in cella di sicurezza. Il padre aveva raccomandato a tutti di dire che non sapevano nulla. “Monteforte”, sapendo che una volta identificato non avrebbe avuto scampo, chiese di essere accompagnato ai servizi igienici. Liberato dalle manette, guadagnò la riva del Brenta e si buttò nelle acque del fiume.
Per sua sfortuna sull’altra sponda, in Piazzale Dante Alighieri, c’erano poliziotti del Cst su camion militari. Gli puntarono i fucili e lo costrinsero a risalire. Consegnato alle SS, fu legato a una catena che gli immobilizzava braccia e gambe. Lo picchiarono a lungo con i calci dei fucili. Intanto, attraverso l’analisi dei connotati inviati a Padova, scoprirono la sua vera identità.
Al pomeriggio del giorno seguente, 24 maggio, Dolores, dalla sua cella a piano terra, udì una persona, che dallo spioncino riconobbe essere una guardia municipale, chiedere al piantone di parlare con il maresciallo. Comunicò che lui, con tutta probabilità, li avrebbe portati dove erano nascoste le armi. Accompagnò i tedeschi nell’orto e indico l’angolo dove sapeva che in precedenza c’erano un vano. Così fu trovato quanto bastava per condannare Angelo.
In quei giorni a Borgo furono arrestati anche Guido Bertagnolli, Pietro Romani, Felice Simeoni e Guido Morizzo perché visti frequentare l’officina di Peruzzo. Ricercarono anche Ermete Divina, ma inutilmente perché si era recato in precedenza a Milano presso dei parenti e gli fu consigliato di rimanere dov’era.
Tutti furono rilasciati in seguito perché non si trovò nulla a loro carico: Angelo, pur sotto i durissimi interrogatori, non aveva parlato. Anche la moglie Livia e il padre Antonio furono incarcerati a Trento e poi rimessi in libertà.
Durante il rastrellamento della Val Cadino alcuni caddero combattendo, altri vennero in seguito condannati a morte o spediti in campi di sterminio. Tra quanti riuscirono miracolosamente a sganciarsi ci furono Sepp Peruzzo, i fratelli Brigadue e Marcello Tondin. Sepp Peruzzo e i Brigadue attraversarono la “Linea Gotica” per giungere a Roma e consegnarsi agli alleati per essere incorporati nelle truppe di liberazione. Tondin rimase in Toscana e operò in funzione di portaordini tra alleati e partigiani, attraversando più volte la “Linea gotica”.
Torniamo alla famiglia Peruzzo. Angelo Peruzzo, la figlia Dolores e Silvestri furono tradotti al carcere di via Pilati a Trento. Silvestri, subito sottoposto a duro interrogatorio, nel timore di tradire i compagni, si buttò con le mani contro una vetrata. Per le ferite riportate fu rinchiuso nella cella-infermeria.
Dolores era stata imprigionata perché in via Brigata Acqui, a “Villa Triste”, aveva urlato al militare che la interrogava a suon di ceffoni e colpi a mani aperte sulle orecchie, che a guerra finita avrebbe fatto una brutta fine.
In carcere il padre chiese ai guardiani di poter vedere la figlia. Sapendo quale sarebbe stato il suo destino, lo accontentarono e così Dolores fu accompagnata davanti alla sua cella e, attraverso le inferriate, gli parlò per l’ultima volta. Angelo le raccomandò la madre e i fratelli, dal momento che era la più grande di tutti; non sapeva che sarebbe stata detenuta, dopo il mese passato a Trento, per altri dieci nel Lager di via Resia a Bolzano.
Nel periodo di permanenza in via Pilati, Dolores, passando davanti alle altre celle per recarsi all’ora d’aria, si accorse che un detenuto cercava di attirare la sua attenzione. Era “Monteforte” che, attraverso lo spioncino, l’aveva riconosciuta e per ben tre volte le passò dei biglietti. In quei foglietti raccontava della sua vita, degli studi a Padova, della fuga dalla famiglia di idee fasciste, della guerra di Spagna. Quando fu trasferita a Bolzano i preziosi manoscritti le furono sequestrati e distrutti.
Dopo circa un mese, Angelo Peruzzo e Manlio Silvestri furono tradotti al carcere di via Dante a Bolzano e il 25 luglio furono condannati a morte con Armando Bortolotti e altri dal Tribunale Speciale germanico. La moglie di Peruzzo si recò ben due volte a Bolzano da Franz Hofer per scongiurarlo di graziare il marito. Aveva ottenuto le due udienze, fatto rarissimo, tramite il farmacista Giulio Bettanini di Borgo, amico della segretaria del Commissario Supremo. Hofer fu però irremovibile.
Prima che fosse emessa la sentenza, anche il vescovo ausiliare di Trento, monsignor Oreste Rauzi, aveva ottenuto un colloquio, tramite il cappellano del carcere don Giovanni Nicolli, con il dottor Schnitzel del Tribunale Speciale, per chiedere clemenza per i dieci condannati a morte di quella tornata, senza alcun risultato. Gli fu rinfacciato che “non si trattava di buoni cittadini ma semplicemente di briganti, che infestavano le montagne, depredavano malghe, portavano via bestiame, commettevano rapine”.
Bortolotti, Peruzzo e Silvestri furono trasportati a Sappada (Belluno): la Resistenza bellunese aveva catturato tre ufficiali tedeschi e ci si accordò per uno scambio con i tre partigiani condannati a morte. Durante la notte però gli ufficiali, datisi alla fuga, furono inseguiti e uccisi. Bortolotti, Peruzzo e Silvestri furono allora impiccati il 29 luglio sulla pubblica piazza, quale ammonimento per la popolazione.
Per lo storico trentino Renzo Francescotti, Peruzzo, anziché impiccato a Sappada, sarebbe stato fucilato a Fonzaso. Dolores seppe della morte del padre da un detenuto originario di Sappada, dipendente di un albergo che dava sulla piazza, che aveva visto lo svolgersi della raccapricciante scena dal finestrino della cantina. Aveva saputo i nomi dagli stessi tre condannati che erano stati fatti sostare in una stanza dell’albergo durante le ore in cui veniva preparato il capestro.
A Borgo i tedeschi distrussero l’officina e la famiglia Peruzzo passò tempi terribili, anche perché era rimasta senza appartamento: fu ospitata in casa della nonna materna. Quando Dolores fu liberata dal Lager di Bolzano, il 30 aprile 1945, non fece caso che sul suo “Entlassungsschein”, certificato di rilascio, ci fosse uno scambio di consonante.
A causa di una “B” al posto della “P” dovette lottare in seguito per aver riconosciuti quei lunghi terribili mesi di prigionia che lasciarono un segno indelebile nella sua vita.
Ricorda Dolores che un giorno, a guerra finita, il signor Luigi Ghesla, proprietario di una segheria a Borgo Valsugana, si recò da sua madre Livia e le consegnò una cassettina di legno che gli aveva affidato Angelo in custodia, qualora gli fosse capitata qualche disgrazia: c’erano 70.000 lire. Fu così avviata la ricostruzione dell’officina e sopra di essa si ricavò un appartamento.
Nel 1946 la spia Berardi fu condannata a 24 anni di carcere per le sue varie delazioni: uno dei pochi a saldare il conto con la giustizia. Nessuno ha mai chiesto perdono alla famiglia Peruzzo per aver provocato la morte del congiunto. Nemmeno la spia locale che “venne nella caserma dei carabinieri a comunicare il punto esatto in cui si trovava il deposito segreto”.
Raramente i responsabili di crimini o i loro discendenti compiranno questo passo. Un caso emblematico è il gesto di Birgit Schintlholzer di Innsbruck. Il padre Alois, maggiore delle SS, nell’agosto del 1944 sparse terrore e distruzioni nella Valle del Biois: ci furono 38 civili e 6 partigiani uccisi, 245 case incendiate e centinaia di deportati.
Una bambina di tredici anni, Gisella Murer, venne fatta bersaglio di tro a segno e uccisa. Birgit fu inviata ancora giovane presso dei parenti in America: quando però venne a conoscenza di quanto successo nel 1944, ritornò in Italia. Partecipò a varie fasi del processo in cui il padre venne condannato all’ergastolo in contumacia: l’Austria non concesse l’estradizione. La signora Schintlholzer andò a visitare i luoghi devastati dal padre e chiede perdono ai parenti e ai discendenti delle vittime:
“Desidero vivamente si sappia che io ho visitato questi luoghi e che sono molto grata a tutti coloro che davanti al tribunale hanno dato il loro contributo alla documentazione e alla condanna dei crimini commessi da mio padre. Sono loro grata perché so bene come la condanna dei crimini sia irrinunciabile per per le vittime, e anche perché l’assenza di una pena adeguata ferisce gravemente la comune coscienza del diritto. Avendo seguito alcuni processi contro criminali nazisti, so bene quanto sia penoso per alcuni testimoni sottoporsi alla fatica delle dichiarazioni e delle domande.
Ma la condanna giudiziaria dei crimini paterni è molto importante anche per i figli degli ex criminali nazisti, poiché in assenza di una rielaborazione processuale i figli non hanno praticamente alcuna possibilità di conoscere la verità sui fatti. Silenzi, distorsioni e bugie grossolane sono caratteristici del modo in cui i criminali nazisti presentano il loro passato ai figli. Io ho letto la sentenza emessa contro mio padre dal tribunale militare di Verona e sono rimasta colpita dal modo di procedere equilibrato e attento dei giudici. Ne ho tratto l’impressione che unico obbiettivo dei giudici fosse un giudizio equo”.
Con il mese di luglio ogni resistenza in Trentino era praticamente annientata. L’importanza strategica del territorio meritava però ogni attenzione: mentre la linea del Brennero era continuamente interrotta dai bombardamenti angloamericani, la ferrovia della Valsugana veniva ad assumere sempre maggiore importanza. Fu così oggetto di sempre più numerosi sabotaggi da parte dei partigiani dell’Altopiano di Asiago, di quelli bellunesi e, dall’agosto del ’44, del battaglione “Gherlenda”.