a cura di Cornelio Galas
Prima di proseguire nell’analisi della “Resistenza” in Trentino credo sia il caso di inquadrare gli eventi nel contesto nazionale di quel periodo. Torniamo quindi un attimo indietro, anche se nelle puntate sul “Rebalton in Trentino” abbiamo già avuto modo comunque di esaminare questi argomenti.
Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini fu messo in minoranza dal Gran Consiglio che approvò l’ordine del giorno di Dino Grandi con 19 voti a favore, 7 contrari e un astenuto. Appena dieci giorni prima il Duce aveva avuto un incontro con il Fuhrer a Villa Gaggia, vicino a Belluno, passato alla storia come l’”incontro di Feltre” solamente per il fatto che i due scesero alla stazione ferroviaria di quella città.
Hitler non prese neppure in considerazione la ventilata proposta del suo ormai “vassallo” di sganciarsi dalla partecipazione alla guerra.”Io porterò gli italiani al punto di sfilare dinanzi a un berretto piantato su un palo e salutarlo”, aveva proclamato il Duce, ma d’ora in avanti sarà lui a piegarsi davanti ad Hitler.
Una prima forte spallata al regime la diedero, dall’interno, gli scioperi di marzo e aprile 1943 nelle grandi fabbriche del nord. Iniziarono alla Fiat Mirafiori per il salario, ma fu al grido “vogliamo vivere in pace” che la protesta dilagò in tutto il Piemonte nonostante gli arresti e le denunce al Tribunale speciale e militare. Seguirono le fabbriche di Porto Marghera, di Milano e di Genova. Se nel 1942 gli scioperi furono in media due al mese, l’anno seguente furono cinque al mese.
Relegato il Duce a Campo Imperatore, sul Gran Sasso d’Italia, Vittorio Emanuele III lo sostituì con il maresciallo Pietro Badoglio e fuggirono assieme a Brindisi, lasciando l’Italia allo sbando. Il nuovo Capo del Governo chiese e ottenne dagli anglo-americani l’armistizio reso noto l’8 settembre 1943, data che segnerà una linea spartiacque nelle coscienze degli italiani.
Fra il 25 luglio e i primi di settembre i tedeschi scesero in Italia con quattro divisioni che si aggiunsero a quelle presenti. Mussolini fu liberato il 12 settembre successivo per interessamento del Fuher e sarà costretto a fargli da servitore per il resto dei suoi giorni. Formò una repubblica secessionista a Salò sul Garda, circondato da manipoli di fedelissimi, Brigate Nere, Decima Mas, ma costantemente controllato dai tedeschi. Sarà scoperto intabarrato nella divisa della Wehrmacht in quel di Como, sulla via della Svizzera, e fucilato come un comune disertore per ordine del Cln di Milano il 28 aprile 1945.
Hitler, già il 10 settembre, e quindi all’insaputa del Duce, aveva diviso l’Italia invasa in “territori” occupati e in due “zone d’operazione”. Queste ultime furono annesse direttamente al Terzo Reich con già pronti i due Commissari Supremi: per la “Zona d’Operazione delle Prealpi” (Operazionszone Alpervorland) e cioè Bolzano, Trento e Belluno, fu nominato Franz Hofer, Gauleiter (governatore) del Tirolo; per la “Zona d’Operazione del Lilorale” (Operazionszone adriatisches Kunsterland), che comprendeva Udine, Gorizia, Triste, Pola, Fiume e Lubiana, fu nominato Friedrich Reiner, Gauleiter della Carinzia.
I due avevano pieni poteri, compreso quello di vita e di morte: rispondevano solo e direttamente a Hitler. In pochi giorni furono occupati tutti i centri abitati e venne adottato il codice germanico con l’istituzione di un Tribunale Speciale (Sondergericht) per ognuna delle due zone; per l’Alpenvorland la sede era a Bolzano. Però non tutti i nuovi sudditi della Germania accettarono passivamente la situazione.
I trentini, specie i più anziani, ancora legati al mito della buona amministrazione dell’Austria di Francesco Giuseppe, pur essendo in gran parte antifascisti, accolsero senza troppo reagire gli invasori. All’inizio non fecero molta distinzione al fatto che sopra la divisa ci fosse la svastica: molti si aspettavano l’autonomia del Sudtirolo. I bolzanini, in stragrande maggioranza antifascisti, accolsero con esultanza, tranne qualche eccezione, l’arrivo di quelli che consideravano gli eredi dell’”Austria felix”. Dopo l’armistizio, a Bolzano, gruppi di civili, con l’appoggio dei nazisti, si distinsero in una caccia, spesso feroce, ai militari italiani.
A Trento la prima riunione del Comitato di Liberazione Nazionale si tenne nella seconda metà di settembre 1943 in via Diaz, nello studio dell’ingegnere Guido de Unterrichter (Dc), presenti Giannantonio Manci e Guido Pincheri per il Psi, Giuseppe Ottolini (Pci), Beppino Disertori, Egidio Bacchi, in rappresentanza dei partiti antifascisti.
Nella seconda riunione, in via S. Trinità, si aggiunsero Giovanni Gozzer, Angelo Bettini, Giuseppe Ferrandi e, in seguito, altri ancora: ogni volta in un luogo diverso per ragioni di sicurezza. Tutta l’attività consistette nel preparare il terreno all’insurrezione, facendo “lo sbaglio di fondo”, come ammetterà poi de Unterrichter, di credere imminente il crollo della Germania. Quindi niente azioni di disturbo prima dell’arrivo del “momento buono”.
Stilato da Bacchi, Ferrandi, Battisti, Manci e Disertori, era uscito in quel periodo il primo Manifesto del Movimento Socialista Trentino. Questo gruppo politico, voluto da Manci, riuscì a unificare forze socialisti e repubblicane in un programma tuttora di attualità: repubblica, socializzazione delle fonti e dei mezzi di produzione, riforme sociali, libertà di religione e uguaglianza di razze, difesa della piccola proprietà, vasto decentramento amministrativo.
Il secondo Manifesto, del febbraio 1944, parlava di “federazione europea, diritti civili, abolizione della proprietà che serve a sfruttare il lavoro altrui, autonomia della magistratura, scuola di popolo, sistema fiscale controllato dai cittadini, punizione dei responsabili del ventennio fascista”.
Si trattava ora di organizzare le forze disponibili alla lotta armata contro gli occupanti, ma, come si è visto, furono fatti degli errori di valutazione iniziale. Da aggiungere la limitata partecipazione dei cattolici trentini alla lotta armata, motivata dal fatto che essa “comportava ripensamenti d’ordine morale e religioso, per non tradire nei fatti la loro vocazione cristiana alla mansuetudine ed alla fratellanza”.
Una prima resistenza armata, se così la vogliamo considerare, c’era già stata nella notte dall’8 al 9 settembre, nelle varie caserme di Trento: erano morti 49 fra soldati e ufficiali, alcuni combattendo, altri fucilati per non essersi arresi in tempo. Tra questi un giovane militare di Roncegno, Ferruccio Rensi, ucciso per rappresaglia dai tedeschi. Suo fratello Guglielmo era già morto in Cirenaica nel dicembre 1941 e l’altro fratello, Eugenio, fu dato per disperso in guerra nell’aprile 1943.
Pochissimi furono i militari che riuscirono a sfuggire alla caccia spietata da parte degli invasori. Oltre 650 mila, veri e propri “resistenti”, non accettarono di schierarsi con i nazisti e di giurare fedeltà a Hitler: furono avviati – lo abbiamo già visto nelle puntate sugli “Imi” – in Germania, costretti ai lavori forzati, senza che fosse loro riconosciuto lo “status” di prigionieri di guerra.
Fra quei deportati c’era anche Mario Moranduzzo, nato a Castello Tesino nel 1923, il primo soldato italiano morto in un campo di sterminio. Catturato dopo un tentativo di fuga da Dachau, assieme a un compagno, fu massacrato a nerbate e lasciato senza cure per una settimana. Morì il primo novembre 1943 dopo un’atroce agonia. Giovanni Melodia, nel suo diario sul periodo passato a Dachau, gli dedica ben tre capitoli.
Se molti ufficiali in quei giorni si dileguarono, ci furono esempi luminosi di resistenza portata avanti, senza punti di riferimento e nella latitanza delle alte gerarchie. Il generale Umberto Utili attaccò le posizioni tedesche a Monte Lungo (zona di Cassino) e riuscì a espugnarle; il generale Raffaele Cadorna attaccò con la “Ariete” la terza divisione corazzata tedesca nella zona di Monterosi-Bracciano, infliggendole gravi perdite.
La divisione “Granatieri” combattè tra la Magliana e Porta San Paolo a Roma e ad essa si unirono schiere di popolani. Da ricordare, tra gli altri esempi, l’eroica resistenza a Cefalonia degli ottomila soldati della divisione “Acqui”, con il loro comandante Antonio Gandin, che prima di essere fucilato lanciò contro i nazisti la Croce di Guerra concessagli dal generale Wilhelm Von Keitel. Stesso massacro di prigionieri italiani a Corfù.
In Grecia le truppe italiane passarono nella resistenza con l’Elas, Esercito popolare di liberazione greco. In Albania le nostre truppe, con i generali Azzi e Piccini, resistettero contro i tedeschi a Kruja, poi combatterono a fianco dei partigiani albanesi. Anche in Montenegro la “Venezia” e la “Taurinense” si accordarono con i partigiani slavi contro i tedeschi.
Al tempo in cui il regime era intento a “spezzare le reni alla Grecia” c’era già stato un primo segnale di scarso entusiasmo, diretto in quel momento contro il Fascismo. Da parte del 7° battaglione Alpini di stanza a Feltre ci fu un’emblematica dimostrazione, subito domata con decimazione in prima linea, quando arrivò l’ordine di andare a integrare la massacrata divisione “Julia”, “anche se eccitato più da insofferenza del momento che da consapevolezza di valori politici e morali”.
Franz Hofer, Gauleiter del Tirolo e massimo rappresentante del partito nazista a capo dell’amministrazione statale, arrivò a Trento il 17 settembre 1943, fresco di nomina a Commissario Supremo. Convocò presso la Banca di Trento e Bolzano una riunione dei maggiorenti della città chiedendo la collaborazione dei Trenini. L’occupazione e l’annessione di fatto alla Germania doveva avvenire senza scossoni. Ufficialmente fu lasciato in piedi tutto l’apparato amministrativo precedente, solo che ora gli ordini partivano dal rappresentante di Hitler.
Hofer mise al bando il fascismo dalle province di Trento e Bolzano e lasciò libertà d’azione ai fascisti solo nel Bellunese. Annunciò che l’arrogante e odiato prefetto Italo Foschi avrebbe fatto le valigie: verrà spedito a Belluno con ancora in tasca l’elenco delle persone che aveva deciso proprio in quei giorni di arrestare, ovvero l’avvocato Adoldo de Bertolini, il dottor Giannantonio Manci, l’ingegnere Guido de Unterrichter, il professor Luigi Granello, l’onorevole Pietro Romani, il professor Umberto Gelmetti, il professor Giovanni Gozzer, Egidio Bacchi e qualche altro. Foschi era inviso a gran parte dei fascisti trentini per aver osato far richiamare sotto le armi anche gli squadristi. Per sostenere i vari fronti bisognava ormai raschiare il fondo del barile: quelli però in guerra erano soliti mandare gli altri o al massimo se ne stavano nelle retrovie a badare che qualcuno non cambiasse idea.
A Belluno Foschi non ebbe miglior fortuna. Nel giro di due mesi, si succedettero ben cinque prefetti: Gaspare Barbera, mai insediato, Angelo Rossi, Agostino Galatà, Idreno Utimpergher e Italo Foschi. Quest’ultimo il 20 ottobre fu richiamato a Bolzano e messo sotto accusa, tra l’altro, per aver inviato un telegramma di omaggio al Re e a Badoglio all’indomani del 25 luglio. Foschi ebbe solo il tempo di appendere in tutta la provincia di Belluno un manifesto in cui raccomandava “collaborazione con le Autorità Tedesche” e di “essere orgogliosi che la volontà del nostro grande Capo ci abbia indissolubilmente legati ad un popolo di forti e di credenti, amico fedele del popolo italiano”.
Franz Hofer nominò poi a novembre Carlo Silvetti Commissario Prefetto della terza provincia dell’Alpenvorland, e si scomodò personalmente presenziando a Belluno al suo insediamento. A Trento Hofer chiese ai presenti alla riunione che gli venisse indicato un nome gradito per sostituire il prefetto appena licenziato. Gli suggerirono l’avvocato Adolfo de Bertolini, liberale non compromesso con il fascismo, che accettò la proposta. Hofer, dalla sua dimora a palazzo ducale a Gries (Bolzano), il 27 settembre lo nominò Commissario Prefetto.
Nel suo proclama di accettazione, già all’indomani della riunione di Trento, de Bertolini invitò i trentini a mantenersi calmi e a continuare nel proprio lavoro, concludendo: “dal canto mio attendo che la popolazione collabori onestamente in modo che sia raggiunta la vittoria finale delle armi germaniche”. Lo stesso Giannantonio Manci, scandalizzato, gli scrisse un’accorata se pur garbata lettera. De Bertolini si giustificherà affermando che quella frase l’avevano inserita i nazisti di propria iniziativa.
Il Commissario Prefetto sarà però coerente con quella piccola aggiunta a sua insaputa, come si evince dalla lettera da lui inviata al Comandante della Gendarmeria di Trento, capitano Giovanni Kunz, nella quale avanza la proposta di intervenire con artiglieria e aviazione per eliminare definitivamente i partigiani. Riproduciamo il testo originale in tedesco di quella lettera.
Eccone comunque la traduzione italiana:
“Trento, 27 giugno 1944.
Al Comandante la Capitaneria della Gendarmeria
Signor Capitano Giovanni Kunz
Trento
I rapporti dei Carabinieri mi allarmano continuamente per i misfatti dei “partigiani” o banditi. Dalle relazioni del 24 giugno:
1 – 24 giugno 1944 alle 15.22: tre ribelli si sono fatti consegnare dal magazziniere del deposito nella baracca Giachetti in località Forzelletta in Caoria 12 kg. di pane, 5 kg. di marmellata, 3 coperte e hanno consegnato buono sotto il nome di “Brigata Garibaldi”.
2 – 21 giugno 1944 Ditta Pierobon-Caoria: alle 18 quattro ribelli nella baracca Stuat portati via 6 kg. di riso, 6 kg. di farinacei, 1 kg. di conserva, 2 kg. di cipolle.
3 – 22 giugno 1944 a mezzanotte, due ribelli hanno rubato in Caoria dallo spaccio tabacchi di Maria Salvadori di Giacomo circa 400 confezioni di tabacco senza pagare e senza buono.
4 – 22 giugno 1944 ore 9.50 nelle vicinanze del pascolo “Malga Lene” comune di Pieve di Bono sono apparsi 500 ribelli armati, guidati da un ex maggiore degli Alpini facendosi consegnare dall’affittuario Neboli Giacinto di Lorenz di Casto – Prov. Di Brescia 25.60 kg. di burro e 12 kg. di formaggio.
5 – In Vallarsa i ribelli hanno preteso dalla locale Stazione dei Carabinieri la resa incondizionata. Alla risposta negativa del maresciallo dei Carabinieri Volpe non hanno insistito oltre.
Io denuncio tutto questo affinché Lei possa prendere il chiaro provvedimento per la definitiva eliminazione di questi banditi. Secondo la mia certamente modesta opinione, non avrà successo tale estirpazione senza collaborazione di artiglieria e di aerei e noi vedremo qualcosa di simile come in Jugoslavia”.
Questo documento fa parte del Fondo relativo al Commissario Prefetto Adolfo de Bertolini che si trova presso l’Archivio di Stato di Trento, liberato da ogni vincolo solo all’inizio del 2004. Allo storico di Brema Michael Wedeking fu vietata – negli anni Ottanta – tassativamente la fotocopiatura di quella lettera, tanto che lo studioso fu costretto a copiare a mano il testo del documento in questione e anche di molte altre lettere.
Alla fine della guerra de Bertolini fu assolto dall’accusa di collaborazionismo, ma questa lettera non era certo a disposizione dei giudici di allora: gran parte dell’archivio della Prefettura era scomparsa.