a cura di Cornelio Galas
Tra pochi giorni, il 25 aprile, si festeggia la giornata della Liberazione. Quasi tutta l’Italia, quel giorno del 1945, era di fatto stata liberata dal nazifascismo. Non il Trentino, non nel Bellunese, dove, come vedremo ci fu un violento, feroce, “colpo di coda” dell’esercito tedesco in fuga. Con altre stragi, altre violenze, altre rappresaglie da parte di chi pensava solo a varcare i confini ed evitare l’arresto, il processo, la pena per i suoi crimini.
Il 21 aprile 1945 IL capitano delle SS Karl Julius Hegenbart (si trovava ancora al comando del 3. Battaglione del CST (Corpo di Sicurezza Trentino), mentre l’Armata Rossa era già alla periferia di Berlino, inviò l’ordine a tutti i suoi subalterni, compresi quelli dello Stützpunkt (punto di appoggio) di Castello Tesino, di tener fede al giuramento fatto al Führer e ordinò loro di rinnovarlo.
Lo scritto dimostra un fanatismo allucinante in un momento in cui l’Europa era ridotta a un cumulo di macerie e la Germania ormai stretta da tutte le parti. Da notare l’ammissione del capitano di aver spedito i suoi “camerati” del Cst a combattere fuori della propria provincia, probabilmente all’insaputa del Commissario Prefetto Adolfo de Bertolini. Sicuramente il capitano SS era al corrente di come andavano le cose e il suo era solo un estremo tentativo di tenere unita la sua truppa per assicurarsi una fuga sicura.
Questo il documento nella traduzione dell’interprete Pio Fantoma:
“Riferendomi a fatti accaduti negli scorsi giorni nel mio battaglione, vorrei rendere noto quanto segue. Ognuno sa che il popolo germanico sta combattendo la più terribile guerra che la storia registri. Esso sta difendendo la propria patria, la civiltà e il patrimonio culturale europeo, in poche parole tutto ciò che ci fa rendere la vita degna di essere vissuta.
Esso si è apprestato alla difesa dei suoi confini contro le orde asiatiche che, pari ai loro antenati citati dalla storia – leggi Gengis Khan, Attila ecc. – cercano di distruggere lo spirito europeo portando con loro il bisogno, la miseria e la disperazione per la popolazione.
Ma anche i nemici provenienti dall’ovest, che si sono sempre qualificati popoli civili di alto grado di cultura e come tali volevano essere considerati, hanno come insegna, in questa guerra voluta dall’odio ebraico, la distruzione della civiltà europea per renderci pari a popoli coloniali, ligi ai loro dominatori e per avere territori in cui smerciare i propri prodotti industriali.
In questo mare di lotte e di tempeste la Germania sta come torre ferma che non crolla pari ad uno scoglio su cui inutilmente si frange l’onda. Senza tentennamenti essa sta compiendo il proprio dovere, senza il minimo accenno a capitolazione o tradimento verso la comunità europea. L’inflessibile volontà del popolo germanico gli regalerà una vittoria, bensì duramente ottenuta e con sacrifici mai sostenuti da un popolo, ma che appunto perciò sarà duratura.
E’ chiaro che il nemico tenta con ogni mezzo di mettere in ginocchio la Germania. Innanzitutto esso vorrebbe mettere in difficoltà le truppe tedesche in Italia, ma tutti coloro che prestano l’orecchio ai consigli ed agli incitamenti del nemico, penseranno un giorno con orrore al male che hanno fatto.
Basta guardare i paesi che caddero in mano del nemico in seguito a tradimenti: ognuno aborre i misfatti del barbaro nemico. Ma noi del Cst abbiamo la fortuna di poter aiutare il Führer nella sua lotta e nel suo lavoro per poter in un domani vittorioso dare alla nostra patria trentina ciò che essa desidera.
E’ logico che è necessario combattere fuori della propria provincia per difenderla e ciò, cari camerati, lo state facendo da mesi. Se proprio ora il nemico aumenta al massimo l’impeto della propaganda, ciò non è sicuramente un segno di forza e nemmeno noi badiamo alle sue fanfaronate. Noi restiamo fedeli al Führer e con ciò alla nostra patria trentina. Io sono sempre disposto a mettere in pericolo ovunque la mia vita per salvare uno dei miei uomini e posso perciò aspettarmi da voi che facciate ciò anche vicendevolmente fra di voi.
Chi però, sia per propria viltà, sia perché crede maggiormente alle velenose parole della serpe nemica, abbandona la propria truppa in questo momento, piantando in asso i propri compagni, si mette degnamente dalla parte dei traditori dell’8 settembre 1943 e deve sapere che con ciò avrà perso il diritto di vita e l’onore. Naturalmente sarà subito fucilato dopo la cattura.
Inoltre mi aspetto da ognuno dei miei uomini che esso si comporti davanti al nemico come si deve comportare un soldato esemplare. Noi non ci lasciamo disarmare senza combattere, né un nostro distaccamento si arrende al nemico, ma ci difendiamo non solo fino all’ultima cartuccia ma fino all’ultimo respiro. Ogni comportamento diverso da questo non è degno di un uomo d’onore e sarà in tal modo giudicato.
I nostri nemici devono imparare che dove ci sono gli uomini del Cst non trovano una tavola imbandita per loro ma uomini decisi a tutto e provati dalla battaglia. Ma chi di noi non accoglierà il monito dell’ora presente ed abbandona la truppa, si lascia disarmare o abbandona la propria posizione, chi inoltre non difende il proprio distaccamento avrà da prepararsi alle pene più gravi, non esclusa la morte. Inoltre si procederà in maniera severa anche contro i familiari.
Se il capo del distaccamento vuole capitolare egli è subito da arrestare e se necessario da uccidere. Il comando passa al più anziano dello Stützpunkt stesso il quale continuerà la battaglia. Soltanto chi si arrende ha perso tutto. La presa conoscenza di questo mio ordine dovrà essere controfirmata da ogni appartenente al mio battaglione”.
Seguiva il prospetto con la lista dei poliziotti del Cst e la dichiarazione seguente da sottofirmare:
“Mi è stato reso noto oggi che non è degno di un prode soldato l’arrendersi senza combattimento, il lasciarsi disarmare o il comportarsi vilmente in battaglia. Da buon soldato della polizia devo battermi fino all’ultimo respiro così come l’ho giurato al Führer. Inoltre mi è stato reso noto che nel caso mi comportassi in modo indegno e vile dovrò contare su pene severissime non esclusa la morte e che anche nei riguardi dei miei familiari saranno presi severi provvedimenti”.
Nei giorni 25 e 26 aprile 1945 a Fonzaso furono undici le vittime della ferocia nazista. Quattro furono in fucilati in località Cima Loreto: Costantino Minella, Antonio Minella, Domenico De Lazzer e Giuseppe Garbin. E sei nella frazione di Frassené: Angelo Botton, Angelo Sebben, Luigi Minella, Ludovico Sebben, Giovanni Sebben e Martino Sebben, tutti di Fonzaso. Giuseppe Luigi Sebben detto “Antonio” fu ucciso in località Agana. Li ricorda una lapide sulla facciata del Municipio.
Alle cinque e trenta di mercoledì 2 maggio 1945 i tedeschi fecero saltare il Ponte della Serra per impedire l’avanzata degli americani i quali, per arrivare a Lamon e in Primiero, dovettero salire a Faller, scendere poi a Sovramonte sulla strada di Col Falcon e Segherie di Servo, e attraversare sul Ponte Oltra, anche se Heinrich von Vietinghof e Karl Wolff, responsabili delle forze armate tedesche in Italia al posto di Kesserling, il 29 aprile avevano già firmato la resa incondizionata per le ore 14 del 2 maggio.
I tedeschi, non contenti di aver isolato parzialmente Lamon e il Primiero, aveva dato alle fiamme l’albergo di Ponte Oltra ed erano pronti a far saltare anche il ponte per isolare completamente la zona. Probabilmente si accingevano a eseguire in ritardo l’ordine di Hitler del 19 marzo precedente di distruggere tutte le opere civili della Germania.
Un ordine insensato, eseguito solo parzialmente da pochi fanatici sul territorio del Terzo Reich, veniva attuato con zelo in Italia prima della partenza definitiva. Scesero da Lamon l’arciprete monsignor Antonio Slongo e da Sorriva don Guido Caviola e convinsero l’ultimo brandello delle armate tedesche a desistere. Queste scatenarono tuttavia la loro ferocia contro Fiore Renato, un partigiano che fu assassinato nei pressi della passerella del Tesino e poi gettato nel torrente Cismon.
La stessa fine fu riservata a un altro partigiano, Federico dalla Torre “Pace”, catturato e ucciso con un colpo di rivoltella alla nuca sul ciglio della strada delle Moline. Mentre alle nove del 2 maggio a Sovramonte suonavano già le campane a festa per la Liberazione conquistata, a Servo venivano arrestati alcuni tedeschi. A Sorriva festa ancora più grande: fra i prima americani dell’Ottava Armata a entrare nella frazione c’era il compaesano italo-americano Virgilio Reato.
Gli assassinii che perpetrò Hegenbart negli ultimi giorni a Strigno, stanno a dimostrare che per gli “uomini di onore” di Hitler, la vita, quella degli altri naturalmente, valeva ben poco. Per salvare la propria e per non pagare alcun debito con la giustizia, non si risparmieranno travestimenti e umiliazioni. Era pronta, tra l’altro, l’organizzazione “Odessa” finanziata da industriali della Ruhr, per aiutare i grossi calibri a raggiungere terre lontane e sicure, spesso con il passaporto dello Stato del Vaticano.
I più troveranno porte aperte in Sudamerica e si metteranno per lunghi anni al servizio dei vari dittatori di turno. Il 27 aprile Hegenbart radunò i circa ottanta poliziotti del Cst rimasti, comunicando loro che la guerra era finita e potevano ritornare a casa. Trattenne la trentina di soldati della Wehrmacht: per loro la guerra continuava.
“Aveva fatto trasportare e depositare, sotto gli ippocastani, vicino alla chiesa, tutta la roba che rimaneva, non esclusa una certa quantità di viveri. Fatto chiamare il sindaco Trenti, gli aveva detto: “Noi partiamo, non abbiamo avuto noie dalla gente di Strigno. Lasciamo perciò questa roba per i poveri del paese”.
Un’opera buona dopo tanti crimini, anche se, probabilmente, non si trattava di roba portata dalla Germania. Non tutti quelli del Cst se n’andarono; ne rimasero alcuni, tra i quali anche sergenti bellunesi frettolosi di levarsi di dosso il marchio di collaborazionisti. Fecero combutta con i partigiani dei dintorni di Strigno.
Questi partigiani, veri o presunti, provvidero anche a distribuire armi ad alcuni giovani della zona che nel pomeriggio si misero a sparare dal colle vicino (il Penile) verso il Casermone (caserma “Giuseppe Degol”) dove erano alloggiati soldati della Wehrmacht e verso il piazzale della chiesa dove erano pronti i camion per la partenza.
La risposta fu immediata, con pattuglie in assetto di guerra sguinzagliate dappertutto. Furono sorpresi alcuni giovani, tra cui Evaristo Vesco di Spera: l’unico trovato in possesso di un’arma. Hegenbart li lasciò andare, ma freddò Vesco con due colpi alla schiena. Il suo corpo, racconta Zanghellini nel suo diario, fu trascinato fino al ponte sul torrente Ensegua, che al tempo attraversava allo scoperto il centro abitato, e buttato nelle sue acque.
Lungo la strada verso Castello Tesino i tedeschi raggiunsero i due cugini Marino e Luigino Bettega, da Imer, del Cst, che pur trovati senza armi furono portati davanti al capitano Hegenbart che li uccise, facendo poi gettare anche i loro corpi nell’Ensegua.
Altri due del Cst, Emilio Clari da Rovereto e Remo Ferrari da Nago-Torbole, che ingenuamente si presentarono al capitano per avere un lasciapassare con cui tornare alle loro case, furono colpiti a morte e buttati dove si trovavano gli altri tre.
Deve essere stata una terribile scena, tanto che anche gli uomini d’onore dell’undicesima compagnia ne restarono scossi. “Davanti al Capitano Hegenbart, detto “la belva”, dopo aver visto nei fossati i cadaveri di numerosi commilitoni morti, tutti sono nervosi e tesi”.
Quel giorno fu ucciso anche Antonio Bordato, bidello delle scuole elementari di Strigno, che ebbe l’unica colpa di essersi recato nell’edificio scolastico per controllare se fosse tutto in ordine. Il primo maggio fu data sepoltura al tenente viennese Leopoldo Parzer, di 44 anni, che si era suicidato il 28 aprile: non un picchetto d’onore da parte del suo comandante in fuga.
Dopo le noie avute nel pomeriggio, Hegenbart, anziché partire subito, rimase e il giorno seguente si asserragliò con automezzi, armi e viveri a Castel Ivano, per poi partire alla chetichella il 30 aprile, non senza aver subito un inutile tentativo di assalto da parte di alcuni “poverini”, come li definisce Zanghellini.
La sua fuga precipitosa non ebbe luogo in groppa al “suo bianco destriero”, di cui menava frequentemente vanto per le vie del borgo che lo ospitava, bensì su comuni ma più efficaci camion militari. Lo seguirà ovunque e per sempre una giusta, quanto vana, condanna all’ergastolo.
Nel 1965, la Procura generale presso il Tribunale supremo militare di Roma trasmise infatti atti e documenti riguardanti il capitano Hegenbart alle autorità germaniche che, a loro volta, spedirono tutto l’incartamento a quelle austriache.
Il Tribunale regionale di Innsbruck emise un ordine di cattura ma il procedimento fu sospeso e poi archiviato nel 1992 per l’avvenuto decesso dell’ex ufficiale nazista. In Italia, il procedimento fu riaperto nel 1995 ma archiviato definitivamente nel 1998 per la stessa motivazione.
La memoria sui fatti occorsi il 27 aprile non è univoca. Il 3 maggio 1945 il comandante dei partigiani di Strigno inviò un promemoria agli ufficiali alleati, denunciando le responsabilità delle autorità comunali, conniventi con i tedeschi e ostili all’opera compiuta dai patrioti, che tendevano a porre sotto una cattiva luce.
Riepilogando gli avvenimenti accaduti il 27 aprile, il comandante ricordò che elementi partigiani del paese, uomini del Gherlenda, ex militi del CST e soldati d’origine orientale («turchestan») si accordarono per bloccare e disarmare i tedeschi, ma, traditi, furono attaccati e costretti a ripiegare, mentre i soldati germanici rastrellavano il paese e trucidavano sei uomini.
Nel luglio successivo, il sindaco di Strigno oppose una diversa interpretazione dei fatti affermando che, nel corso della mattinata, il capitano Hegenbart congedò i soldati del CST ma alcuni sottufficiali, con l’aiuto di alcuni giovani del paese, cominciarono a sparare contro i tedeschi dalle alture circostanti. Messi in fuga dall’immediata reazione germanica, il paese restò poi alla mercé dei militari e delle SS di Hegenbart.
Torniamo un attimo indietro per registrare un altro tragico episodio nel Bellunese, proprio il giorno prima della Liberazione. Il 24 aprile i tedeschi avevano fatto prigionieri due partigiani a Rocca d’Arsié (Belluno): Elio Strapazzon, di appena sedici anni, e Antonio Arboit.
Li fecero camminare a piedi scalzi e sanguinanti fino ad Arsié dove li fucilarono. Il 29 aprile erano giunti da Cismon del Grappa ad Arsié, punto strategico per i collegamenti con la Valsugana, circa seicento tedeschi ben armati ed equipaggiati. Occuparono le case costringendo le famiglie a ridursi in una sola stanza.
Il primo maggio arrivarono da Feltre oltre cinquecento militari del genio guastatori. Avevano il compito di occupare alcune fortificazioni per creare nidi di resistenza contro i carri armati anglo-americani che stavano arrivando.