a cura di Cornelio Galas
Torniamo ai partigiani del “Gherlenda”. E a quanto scrive di quel battaglione lo storico Giuseppe Sittoni, a proposito della Resistenza nella Valsugana Orientale e nel Bellunese. Parliamo questa volta di Don Narciso Sordo.
Che fu antifascista e antinazista quando i due regimi furono al massimo del consenso, anche da parte dei cattolici, grazie ai concordati stipulati con Mussolini nel 1929 e con Hitler nel 1933.
L’invasione dell’Etiopia, con la costituzione dell’Impero, aveva portato al fascismo grande seguito in Italia, mentre la perfetta organizzazione delle Olimpiadi di Berlino nel 1936 aveva fatto il resto in Germania.
L’immarcescibile presidente del Comitato Olimpico Americano prima, e del Cio poi, Avery Brundage, rimasto in carica per oltre cinquanta anni, si accontentò della presenza nella formazione tedesca di due ebrei, fatti rientrare temporaneamente dall’esilio per fornire una copertura e per convincere l’America a non boicottare i Giochi.
Non si diede peso al fatto che Hitler nel 1935 aveva promulgato a Norimberga le leggi razziali che mettevano al bando gli ebrei e che stava programmando la costruzione di nuovi campi di sterminio dopo quello di Dachau, già in funzione dal 1933.
Così quella perfetta manifestazione, ripresa sotto la geniale regia di Leni Riefensthal, creò in gran parte del mondo un consenso alla politica, non tanto segreta di Hitler, espressa già in “Mein Kampf” nel 1924. Sarebbe ingenuo pensare che qualche Capo di Stato fosse ancora all’oscuro delle sue intenzioni.
Nato il 15 gennaio del 1899 a Castello Tesino, Narciso Sordo aveva iniziato gli studi liceali a Trento, subito interrotti per la guerra. A sedici anni era stato chiamato alle armi dall’Austria. Si era dimostrato subito un convinto obiettore ante litteram.
Aveva tentato la fuga, non riuscita, verso l’Italia e aveva dovuto prendere servizio, cercando però di farsi passare per inabile. Sospettato di diserzione, era stato costretto al confino politico a Vienna. Con lui, per i suoi sentimenti italiani, anche il padre Piero, maestro elementare.
Nelle vicinanze, ad Heiligenkreuz, era stato confinato anche il principe vescovo di Trento monsignor Celestino Endrici, obiettore su un piano diverso, per “non aver emessa una pastorale di condanna dell’Italia e di approvazione della guerra all’Austria allo scoppio del conflitto”.
Al termine delle ostilità la famiglia aveva potuto finalmente riunirsi al completo: la madre, profuga a Palermo, e i molti fratelli, frutto dei due matrimoni del padre, erano ritornati chi dall’Italia, chi dalla Svizzera, chi dalla Russia o dall’America. Narciso aveva ripreso gli studi al seminario di Trento ed era stato ordinato sacerdote nel 1922 da monsignor Endrici. Era stato cappellano ad Arco e a Trento e poi prefetto al Collegio vescovile, conseguendo in quel periodo la laurea in scienze sociali a Bergamo.
Aveva insegnato all’Istituto Agrario di San Michele, con l’incarico anche di assistente della Federazione diocesana uomini di Azione Cattolica, per poi passare alla parrocchia di San Giovanni Bosco (le cosiddette semirurali) di Bolzano. Nell’autunno del ’43 don Narciso si era trasferito nella sua valle, doveva aveva organizzato un centro scolastico per gli studenti del Tesino assieme ad Alberto Ognibeni, futuro partigiano del “Gherlenda”.
Il 10 ottobre era stato arrestato con tanti altri e poi rilasciato. “Purtroppo le spie sono in agguato e don Narciso, il 10 novembre 1944, viene sorpreso nell’abitazione di un partigiano e dunque arrestato per la seconda volta”. Venne trovato all’albergo “Italia” dove si era recato ad avvertire Riccardo Fattore “Lina”, componente del Cln, che stavano arrivando i tedeschi. “Lina” era assente ma furono catturati la sorella Teresa e il fratello Gaspare e con loro anche don Narciso. Gaspare morirà a Mauthausen e Teresa sarà detenuta nel campo di concentramento di Bolzano fino alla fine della guerra.
Per non essere intercettati dai partigiani, i tedeschi accompagnarono don Narciso e gli altri arrestati lungo la strada del “Murelo” fino a Grigno, poi a Borgo, dove furono trattenuti per alcuni giorni, e infine a Roncegno. “Condussero don Narciso Sordo la sera del 20 novembre 1944, insieme ad altri suoi compaesani, nelle prigioni dei Carabinieri di Roncegno.
Il mattino successivo, dopo un sommario interrogatorio nella sede delle SS, fu consegnato alla gendarmeria di Borgo, dove fu segregato per quasi venti giorni in una piccola cella”: è la testimonianza di Maria Guidone, moglie del maresciallo dei Carabinieri di Roncegno, riportata da Angelo De Gentilotti, allievo di don Narciso al collegio vescovile di Trento.
Durante la sua permanenza in cella a Borgo gli misero assieme un nuovo “ospite” che dichiarò di essere un partigiano. Era uno del Cst che aveva il compito di carpirgli qualche informazione. Don Narciso non disse una parola che potesse compromettere i suoi amici. Dell’episodio venne a conoscenza Albino Sordo all’ospedale Santa Chiara di Trento, quando fu ricoverato per un intervento ed ebbe compagno di stanza proprio quell’ex poliziotto infiltrato: era della Val Rendena, ma non ne ricordava il nome.
Il fatto è confermato indirettamente dallo stesso De Gentilotti: “Nelle carceri delle SS a Borgo Valsugana si tenta di sapere da don Sordo nomi di patrioti: ma si tenta invano. Non valgono né la fame, né le torture, né le ingiurie. La morte, ma non il tradimento.
Nel Lager di via Resia a Bolzano don Narciso fu rinchiuso nel blocco “E”, quello riservato ai politici, considerati i detenuti più pericolosi. Don Narciso vi trovò, tra gli altri, Piero Caleffi, il quale, ritornato da Mauthausen, scriverà le sue memorie e sarà poi Sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel primo governo di centrosinistra (1963):
“C’era anche un prete fra noi, don Narciso Sordo, arrestato per favoreggiamento dei partigiani. Cappellano della zona operaia di Bolzano, si era ritirato nel suo paesino in Valsugana a insegnare, ma soprattutto ad assistere i ragazzi della montagna. Basso e tarchiato, aveva un bel viso aperto e cocciuto. Discutevamo ore e ore, camminando su e giù per i “castelli”, esaurendo tutto il nostro fiato fra trascendenza e immanenza, spiritualismo e materialismo, tomismo e marxismo e tutti gli ismi possibili”.
L’otto gennaio, con altri compagni fra i quali il suo compaesano Gaspare Fattore, don Narciso fu avviato al raccordo ferroviario entro la zona industriale e caricato su un vagone bestiame. Dopo cinque giorni giunse a Mauthausen. Il Lager era su una collina in vista del Danubio e si componeva di ventotto Kommandos sparsi nell’Alta e Bassa Austria, in Stiria e in Carinzia. Per la sua perfetta conoscenza del tedesco don Narciso dovette fare da interprete fra gli aguzzini e i suoi compagni di sventura. Per questo riceveva qualche pezzo di pane in più che dava a chi stava peggio di lui.
Dalla lettera inviata alla sorella di don Narciso, Carmela, maestra elementare, da Oddone Molinari di Calalzo (Belluno):
“Appena giunti a Mauthausen fu tolta a vostro fratello la veste sacerdotale e come noi è rimasto nudo tutto il periodo della quarantena durato circa un mese. Incominciarono così i nostri patimenti, le eliminazioni dei più deboli: quando era una giornata di sole ci chiudevano in baracca, quando nevicava o infuriava la tormenta ci mandavano fuori e si godevano a vedere i nostri compagni cadere privi di forze e mezzo assiderati.
Nei primi giorni del mese di febbraio ci mandarono ai lavori a sette chilometri dalla fortezza. Gusen era la nostra meta. Si partì contenti credendo che lavorando ci dessero qualche cosa di più, ma invece fu una vera eliminazione; si facevano otto ore lavorative ma questo orario durò una settimana. Poi lo portarono subito a dodici, quindici e qualche volta diciotto ore continuate.
Si mangiava una zuppa ogni 24 ore e un po’ di pane che poi anche questo ci levarono. A Gusen vostro fratello era tre baracche distante dalla mia, lavorava nelle fabbriche situate nelle gallerie, costruivano carlinghe per gli aeroplani. Andavo sempre in quella baracca, sinceramente era l’unico che aveva sempre il morale alto, ci dava parole di conforto e ci faceva sempre sperare.
Ma vedevo che era molto malandato: la fame, le botte che erano tante, il poco dormire lo avevano buttato a terra … Un giorno mi sono recato in quella baracca (non ricordo la data), domandai a quei pochi italiani che erano là ma nessuno rispose. Mi mostrarono solo gli occhiali in mille pezzi. Era morto nella notte dopo una gran battuta. Sapevo di trovarlo fra i tanti che erano nel cortile in attesa di andare ai forni crematori, ma non volli vederlo perché sarebbe stato troppo dolore”. Era il 13 marzo 1945.
Nelle loro memorie hanno lasciato testimonianza di don Narciso anche Ermanno Pasqualini e il figlio Ugo. Il primo scriverà: “Don Narciso mi fu, con suo fratello Floriano, irriducibile e leale avversario politico nel periodo in cui fu fascista, rimanendo però sempre, oltre che affettuoso cognato, anche indimenticabile amico d’infinite avventure in montagna, insieme con i miei figli di cui fu il principale educatore”.
Ugo Pasqualini ricorderà: “Pensavo a quando nel 1935 trovai nel suo scrittoio una lunga lettera contro il nazismo, contro la deportazione ebraica e ne ebbi orrore. Pensai che mio zio fosse un folle, un visionario, un prete nel senso più sciocco della parola. Mi ricordo, erano parole scritte fitte fitte. Citazioni di frasi di Hitler e di Alfred Rosenberg, il dottore che proprio allora stava inventando il sanguinario mito del Terzo Reich. Erano rivelazioni sulla lotta che la Germania già allora intraprendeva contro le nazioni”.